Gioco letterario

- STRANE CREATURE -



Proviamo a scrivere una storia all'interno della quale prenda vita una strana creatura, di qualsiasi origine: vegetale, animale, minerale... può trattarsi di una pianta che cresce soltanto in un luogo particolare, di un fiore dalle proprietà insospettabili, di una bestia che mai vorremmo incontrare (oppure al contrario!), di un sasso dalle doti straordinarie, di un oggetto che all'improvviso ci si svela sotto una luce inattesa, di una parola che nessuno finora ha mai pronunciato e che è capace di grandi cose, di... di...

insomma, ampio spazio alla fantasia per dare vita a qualcosa di cui non sospettavamo l'esistenza!

Le regole del gioco sono riportate qui .

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ECCO I RACCONTI


1. VENTO GELIDO - di Sillylamb

Fa freddo in questa stanza. Possibile faccia così freddo a settembre a Roma? Mi entra nelle ossa. Mi sembra di tornare indietro nel tempo. Quanti anni sono passati? Più di mezzo secolo... Però la data precisa in questo momento mi sfugge... E pensare che avrei giurato che ormai fosse stata incisa col fuoco sulla mia anima.
Quella notte a 8000m. Il freddo che allungava i suoi artigli su di me. E' stata la prima volta che l'ho incontrato. Poi è successo altre volte nella mia vita ed è lo stesso gelo che sento ora.
Io penso che il freddo sia un essere vivente, non ho dubbi in proposito. Forse è un demone, anche se dicono che l'inferno sia fuoco e fiamme. Di sicuro è stato il mio demone. Sul pilastro del Bianco. Sul Cervino in invernale. L'ho incontrato tante volte e mi ha sempre risparmiato. Si è preso i miei compagni. Oggioni. Mio fratello. Ma mi ha sempre permesso di tornare a valle e mi ha lasciato in balia delle polemiche che lo seguivano, quasi fossero la sua coda.
Ma questa volta non molla. Sento gli artigli che graffiano le ossa. Se chiudo gli occhi mi sembra di tornare lassù e udire la sua voce rabbiosa fatta di vento e vedere i suoi capelli fatti di turbini di neve e ghiaccio. E i suoi occhi. Neri, profondi, paurosi.
Li ho fissati quegli occhi, mentre lui cercava di farmi abbassare lo sguardo soffiandomi in faccia la sua ira. Ma alla fine li ha sempre dovuti abbassare lui.
Questa volta però è diverso. Questa volta so già che vincerà lui, anche perchè io non ho più forse per lottare. E quindi non mi resta che chiudere gli occhi e abbandonarmi a questo gelo che a volte sa anche essere dolce.


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2. IL PICCOLO CACTUS - di Roseilmare
Ancora una volta il Direttore l’aveva lasciata senza lavoro e Rosaria si sentiva sola, triste e depressa nella sua stanza dell’ufficio. Silenzio di tomba. Nessun rumore. Nulla. Nessuno si era fatto vedere o sentire per un consiglio, un parere, un aiuto. E il tempo non passava mai. Dentro di sé una sottile inquietudine e un’amarezza profonda. Grande desiderio di evasione. La stanza sembrava una prigione.
Fortissimo il desiderio di essere altrove, mille miglia lontano. Se solo avesse avuto la possibilità di trasformarsi in un uccellino sarebbe volata via attraverso la finestra aperta.
Ma ancora era presto per poter andare via. Mancavano almeno due ore alla fine dell’orario di servizio. Troppo. Non potendo fare altro Rosaria si mise a camminare su e giù per la stanza. Cinque passi in avanti e cinque passi all’indietro così tanto per sgranchirsi le gambe.
E anche le piantine sulla scrivania parevano risentire di questo stato d’animo e sembravano anch’esse tristi e sole.
Rosaria si sentiva osservata da loro per ogni passo che muoveva. Occhi invisibili che la scrutavano preoccupati. Quando tutto a un tratto Rosaria si voltò attirata inspiegabilmente da un piccolo cactus situato in un vaso a forma di cappello di prete. “Accarezzami” implorava il piccolo cactus, “ Accarezzami” che non te ne pentirai. Ma Rosaria se ne guardava bene perché gli aculei si sarebbero conficcati nella sua pelle procurandole dolore e fastidio. Per toglierli infatti non sarebbe bastata una pinzetta per le sopracciglie. Ma il richiamo era troppo forte, un’attrazione indicibile e il piccolo cactus pareva avere voce. “Toccami”, “Toccami e non avere paura che male non ti farò”. Così Rosaria cedette e sfiorò con una carezza lieve il piccolo cactus. Che strano! Nessun dolore ma solo una lieve scossa come provocata dalla corrente elettrica. Un brivido ed ecco il cactus trasformarsi proprio in una lampadina elettrica. La luce che emanava era dorata e faceva brillare gli oggetti della stanza. E con la lampadina in mano a mo’ di navigatore Rosaria poteva andare dappertutto. Non c’era bisogno nemmeno di esprimere il desiderio che era accontentata. In un pugno era racchiuso tutto il mondo.
In un attimo Rosaria non era più ad annoiarsi nella sua stanza ma in riva al mare e poi in una città d’arte e poi ancora … e in ogni luogo un incontro e ogni incontro una storia e in ogni storia un uomo e il suo destino. Storie molteplici. Storie allegre. Storie tristi. Alla luce della lampadina magica era facile raccontarsi e le persone non avevano alcun segreto. Alcune poi diventavano trasparenti e si potevano vedere i pensieri come prendevano forma nel cervello e il cuore battere forte a ritmi regolari. Ed essendo trasparenti erano diventati pure più buoni.
La luce della lampadina illuminava luoghi e persone. Era la luce del BENE. Era la luce che ognuno di noi ha dentro e che a volte rimane imprigionata e nascosta ma che urla e strepita perché chiede solo di venire fuori. Basta saperla ascoltare.
E al tocco della lampadina magica tutto pareva più bello. Persone, oggetti e persino le idee. Tutto, proprio tutto.
Così Rosaria tornò in ufficio e, resasi invisibile, andò a toccare il cuore del direttore e degli altri colleghi e poi tornò nella sua stanza. Il piccolo cactus era sempre lì al suo posto ma l’aria nella stanza pareva più leggera.
La strana creatura aveva compiuto un piccolo miracolo e la sottile inquietudine era sparita quasi per magia.
“ Se davvero fosse vero” pensò Rosaria. E intanto era giunta la fine della giornata lavorativa e chissà se all’indomani…
Basta crederci.


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3. WONDER WOMAN - di Carpediem
Sentì i suoi passi strascicarsi nell’ingresso e prima ancora che varcasse la soglia della stanza da letto le arrivò nauseabonda la puzza di alcool del suo fiato.
Lui accese le luci della stanza senza alcun riguardo per lei che giaceva immobile nel letto facendo finta di dormire. I suoi occhi, dallo sguardo vitreo, cercarono in giro una qualche giustificazione al prosieguo della serata e la trovarono nei pantaloni, scivolati per terra dalla poltrona dove erano poggiati. La picchiò duramente perché lei non aveva nessun rispetto per lui e per i suoi pantaloni.
La mattina seguente, indossati un paio di occhiali scuri e una sciarpa inappropriata per quella calda giornata di maggio, lei andò al mercatino degli oggetti usati e i suoi occhi furono catturati da una statuina in ceramica, alta una decina di centimetri, che raffigurava Wonder Woman nel suo striminzito e patriottico costumino rosso e blu.
Le tornarono alla mente i suoi sedici anni quando seguiva in TV le avventure dell’eroina che lottava contro le ingiustizie e il male. Era il tempo in cui suo padre la puniva dandole leggeri ma dolorosissimi colpi sulle gambe con la lama affilata di un rasoio. Lei saltellava dal dolore e implorava pietà e lui le rispondeva che lo faceva per il suo bene, perché crescesse onesta e di sani principi. E su quali altri principi poteva mai crescere una adolescente che trascorreva le giornate in solitudine, senza amici, uscendo di rado e sempre con dei calzettoni a coprire le linee rosse sulle gambe? Quando poi un bel giorno, affacciata al balcone, aveva incrociato lo sguardo di Mario vi aveva letto un “Io ti salverò” a cui si era aggrappata incurante di ogni segnale contrastante.
: - Le interessa la statuina? chiese il negoziante. Lei si scosse dai ricordi e senza darsi il tempo di riflettere, la comprò spendendo i pochi soldi che Mario le passava ogni settimana e di cui doveva rendere conto fino all’ultimo centesimo. Tornò a casa stringendo protettiva Wonder Woman al petto avvolta in vecchia carta di giornale.
Quella sera quando lui le diede la solita ripassata, il pensiero di Wonder Woman che giaceva nascosta tra le mutande e i reggipetto le fece sentire meno dolore e quando lui le sferrò quello che riteneva il suo colpo migliore, un diretto in pancia, i muscoli addominali si tesero quasi autonomamente riparandola dalla violenza dell’impatto. Ebbe come l’impressione che persino lui si fosse accorto che c’era qualcosa di nuovo nell’aria perché, prima di cadere addormentato, la scrutò meditabondo.
Mario nelle ore diurne non era quasi mai a casa e lei poteva dunque poggiare Wonder Woman sulla mensola del salotto e parlarle di ogni argomento.
Le capitava talvolta di pensare che era impazzita, ma bisognava riconoscere che Wonder Woman le dava consigli sempre saggi e lucidi.
Ad esempio le diceva che dentro di lei giacevano poteri inespressi e che con essi avrebbe potuto liberare Mario dall’incantesimo malvagio che oscurava la sua natura nobile e benevola.
Per prima cosa Wonder Woman suggerì di mettere cristalli tritati finemente nella zuppa di zucca e porri di cui Mario andava ghiotto e che lei non mangiava. Obbedì.
Quella notte mentre Mario si contorceva dal dolore tenendosi con entrambe le mani la pancia, lo consolò dicendo: - E’ per il tuo bene amore. Vedrai che superate tre prove tornerai il Principe che eri.
La seconda prova attendeva Mario allorquando, barcollando e gemendo, scese le scale per andare in bagno alla ricerca di un antidolorifico. Non si accorse della fune tesa tra il quarto ed il quinto gradino e ruzzolò malamente rompendosi un braccio, il naso e la clavicola destra. Lei, in cima alle scale lo guardò con compassione riconoscendo che le prove erano davvero ardue.
Come si era aspettata, conoscendo la natura indomita del marito, Mario non si arrese e si trascinò sulla pancia fino al telefono. Lasciava dietro di sè una striscia di sangue che con un sospiro lei ritenne di poter pulire con la candeggina che aveva comprato col due per uno. Appena Mario con un gemito si sollevò e sfiorò la cornetta, affrontando così la sua terza ed ultima prova, fu attraversato da una potente scossa elettrica che lo trapassò dalla testa ai piedi, che iniziarono a fare fumo. Mario, con la bava alla bocca, si contorse sul pavimento per alcuni minuti in preda a spasmi muscolari incontrollati, poi restò immobile.
Lei lo seppellì sotto i nani da giardino che all’inizio della loro vita matrimoniale lui le aveva concesso di mettere nell’ aiola davanti casa.
Nei giorni a seguire alcune vicine andarono a farle visita sebbene incerte se per consolarla o per congratularsi dell’improvviso abbandono del tetto coniugale da parte di un marito nullafacente ed ubriacone.
Nessuna chiese come mai al posto di Biancaneve tra i nanetti ci fosse la statua di Wonder Woman e nessuna si accorse di come lei, passando davanti alla porta finestra della cucina con in mano il vassoio del tè, ricambiasse la strizzata d’occhio di Wonder Woman.


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4. LA TALPARUGA - di Elliy Writer
La prima volta che Maria la vide fu tra le lenzuola arrotolate in fondo al letto: un riflesso minimo, tanto da lasciar pensare a uno scherzo degli occhi, a un filo di luce rimbalzato in mezzo alle lacrime bloccate tra le palpebre.
Non era stata una grande idea quella di chiedere a Giovanni, subito dopo l’amore: “ma tu mi trovi ancora bella, come una volta?”.
Lui si era girato verso il comodino e aveva spento la luce: “ma certo, buonanotte”.
Era soddisfatto, lui sì, e tre secondi dopo già russava.
Lei aveva abbassato lo sguardo e l’aveva vista: era rimasta a fissare quella luce per un pò. Si spegneva a intermittenza, si spostava, forse si avvicinava.
Si alzò di scatto per andare in bagno, basta così.

Accadde di nuovo il mattino dopo, mentre Maria, davanti allo specchio, si accorgeva, tutto a un tratto, di una nuova ruga bastarda che le segnava il contorno occhi. Nello stesso istante qualcosa si mosse nella trousse gonfia di trucchi e boccette, facendo cadere a terra la crema da giorno antietà alle vitamine D, C, A e mandando il barattolino in mille pezzi.
- Oh no! ma che è stato?
Guardò la trousse e vide al suo interno un punto luminoso e subito dopo una strana creatura venir fuori strisciando, direzione lavandino.
- E tu chi cavolo sei?
- Come chi sono? Sono la tua talparuga.
Maria sgranò gli occhi:
- La talpa-che?
- TAL-PA-RU-GA – scandì l’animaletto, insolente.
La bestiola aveva proprio un musetto da talpa, con tanto di zampette anteriori da talpa, ma sul suo dorso un palloncino trasparente irradiava luce tutto intorno.
- Ma che razza di animale è una talparuga? Una roba di fantasia, un esercizio da scuola di scrittura – bofonchiò Maria.
- Dici, eh? Non hai trovato qualcosa di nuovo sulla tua faccia stamattina? Una ruga che ieri non c’era, per esempio?
Maria sbirciò il suo contorno occhi nello specchio:
- E allora?
La talparuga non rispose. Aveva raggiungo il lavandino, si era lasciata scivolare nel buco dello scarico e puff!
Sparita.

Maria, per lungo tempo, non la vide più. La talparuga, però, aveva scavato un solco profondo nelle sue sicurezze, anche se il tempo, si sa, assorbe e travolge tutto e l’inquietudine divenne abitudine. Sedimentò.

Qualche anno più tardi, le lenzuola arrotolate in fondo al letto, Maria aveva domandato a Oreste: “ma tu pensi che dovrei dimagrire un po’?”
“mah, a me vai bene anche così…” aveva risposto lui al buio, girandosi di lato e cominciando a russare.
Lei si alzò di scatto per andare in bagno, ma appena aprì la porta una luce la inondò.
- Che succede qui? Chi c’è? – si spaventò.
- Non ti sarai scordata di me.
La talparuga era di nuovo lì, più grande, persino più della nuova trousse, con quel suo pallone sulla schiena più gonfio e luminoso che mai.
- Sei cresciuta! – esclamò Maria.
- Cresco insieme a te – sentenziò quella.
- E dove prendi tutta quella luce?
- Ovvio: da te.
- Da me?
Maria guardò lo specchio e – per la prima volta, strano – stentava a riconoscersi. Non era lei quella signora a tratti flaccida, cicciottella, con smagliature sulle cosce e sul seno e col viso segnato da rughe rughe e rughe di espressione.
- Colpa di tutta questa luce – pensò.
Lei aveva trent’anni, da sempre e per sempre. Punto e basta.
- I tuoi trent’anni rifulgono, lo so – disse la talparuga, leggendo nei suoi pensieri. E aggiunse, scuotendo il pallone luminoso: - Infatti sono qui.
- Lì? In quel palla?
- Si, che crescerà sempre di più, man mano che crescerai, anzi invecchierai, tu.
- Maledetta! Sei dunque tu che succhi via la mia giovinezza?
- E la tua forza, da dentro, scavando.
- Le rivoglio, rivoglio tutto, ridammi tutto.
- No.
- E se facessi esplodere quel pallone, se ti schiacciassi?
- Non puoi. Siamo legati, ma tu… sei fortunata tu.
- Ah si, eh?
- Sì, perché tutti gli esseri umani nutrono una talparuga, che vive al loro fianco, ma pochi ne conoscono l’esistenza. E riescono in tempo a capire. Ad ogni segno che la vita riesce a incidere sulla pelle, le talparughe crescono e le loro bolle di luce risplendono sempre più. E' un tripudio!
- Io ti ammazzo, bestia schifosa!
- Non puoi ammazzarmi, stupida. E sappi che…
- Maria! – strillò Oreste – sei in piedi, mi porti l’acqua?
Puff!
Buio nel bagno.

Carlomaria, Adalberto e Piergiorgio non ebbero mai il tempo di addormentarsi, subito dopo. Li calciava via appena finito, andassero a ronfare altrove. Poi si infilava nel bagno per controllare, ma la talparuga era sempre lì.
A Francois, Igor, Alexej e Bazily non fece domande, mai. La talparuga, comunque, ne approfittò per crescere ancora un po’.
Fu dopo Peter che, esausta, finalmente Maria capì.
Sorrise al riflesso nello specchio e il suo sguardo si spalancò: solo per un attimo, vide i milioni di talparughe che strisciavano luminose per il mondo e i milioni di esseri umani che invecchiavano intristendo sempre più.
Capì e continuò a sorridere.
Fu allora che la sua talparuga – puff! – definitivamente svanì.

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5. CHI SEI? - di Acetosella
Suo padre dice che è colpa dell'alimentazione. Ma io so che sotto sotto pensa sia colpa mia. Fin verso i dodici anni rientrava nella norma. E' stato più o meno a quel punto che abbiamo realizzato preoccupati che portava il 45 di scarpe. Da lì le cose sono precipitate. Non era facile trovare le calzature adatte alla bisogna, e, ovviamente, aveva dei gusti originalissimi rispetto alla foggia, al colore, alla marca. Quando finalmente le trovò non le abbandonò per mesi, con conseguenze nefaste per l'appartamento familiare e per il condominio tutto. Entrare nella sua stanza senza maschera antigas diventava sempre più pericoloso e la spesa per i deodoranti sforava il budget mensile. Solo la crescita del piede ci salvò dall'emigrazione di massa.
Fu più o meno in quel periodo che perse la capacità di emettere parole di senso compiuto, non parliamo di tenerle insieme con una qualsiasi forma di paratassi.
Imparammo ad interpretarne i bofonchiamenti solo frequentando un gruppo carbonaro settimanale di genitori con figli della stessa età. Mettendo insieme le rispettive interpretazioni dei “boh” dei “bah” degli ”hhhng” riuscivamo ad arrivare alla settimana seguente corredandoli del necessario alla loro sopravvivenza.
Ricominciò ad emettere parole comprensibili dopo qualche tempo e le prime furono:“ tatuaggio” e “soldi”.
Sagacemente interpretammo il suo desiderio di essere foraggiato per farsi fare un tatuaggio.
Ci avevamo imbroccato!
Eravamo così felici che avesse finalmente espresso un desiderio, un interesse che esulasse dal mouse e dalle cuffie che cedemmo praticamente subito. Il padre quasi commosso ricordò che, ai suoi tempi, anche lui avrebbe voluto farsi tatuare il giovanile bicipite, ma che era stato dissuaso dall'idea del dolore insopportabile. Fiero del coraggio del pargolo sganciò subito l'importo, compresa la mancia.
Da allora la creatura ci ha preso gusto.
E' di ieri l'ultimo tatuaggio. Sul polpaccio sinistro. Più piccolo questa volta. Forse sta guarendo.
Sul destro ha un gigantesco pesce combattente del Siam con tanto di ideogramma rosso accanto che ci ha tormentato un bel po' prima di scoprire che aveva l' innocuo significato di “Pace”.
In quel periodo, stregato dalla cultura nipponica, invece di sublimare ingozzandosi, come tutti, di sushi e sashimi, ha messo a disposizione l'avambraccio ancora libero per un significativo:
Shikishima no
Yamatogokoro wo
Hito towaba
Asahi ni niou
Yama-zakura bana

Stavolta, invece, è una spirale elfica. Verde. Al primo, un bracciale maori sull'avambraccio sinistro, avevamo sorriso, complici, ora rimaniamo impassibili.
Però da quando si è fatto tatuare le ali d'angelo sulle scapole il padre fa tardi in ufficio e spesso non torna per cena. Fa le ore piccole e mangia in silenzio in cucina, a notte fonda, quando la casa tace ed è sicuro che tutti dormano.
L'inverno ancora va, maglie, giacconi e anfibi fanno il loro mestiere, ma l'estate è diventata un tormento.
Quando a tavola il dragone fiammeggiante che lo avvolge dall'omero fino ai pettorali fissa il nostro prosciutto e melone siamo presi da uno sconforto totale.
Lui ci fissa torvo e ha ricominciato a bofonchiare.

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6. HORRIBLE EYES - di Atakatun
Guardavo, come ogni giorno, la sottile coltre che mi si presentava dinnanzi la finestra della bottega, adiacente la mia modesta dimora. La vegetazione presentava i segni autunnali, il giallo e il fucsia delle foglie, il marrone e il grigio di rami e fusti, la fanghiglia opaca della brina disciolta nel terreno, e ne richiamava il gelido inverno.
Il paesaggio assumeva nell'azzurro sfumato dalle nuvole una calma pacata degna di un affresco, silente romanticismo dell'aldilà. Pensavo per associazione d'idee che ciò dipendesse anche dal vicinissimo cimitero sito appena oltre la coltre, in direzione del quale non si era sviluppata attività umana, per un che di sacro emanato da quell'oasi di pace.
Difronte la mia abitazione v'era quella del custode del cimitero, Henri, un uomo sulla sessantina che da un trentennio occupava quella posizione e quella casa. Era abbastanza corpulento, vestiva con abiti di panno che oggigiorno non si fabbricano più, bigi, anonimi, quasi spettrali, e portava costantemente sul capo un cappello simile a quello degli Amish, ma di color grigio.
Non eravamo in confidenza, ci si salutava giusto da lontano, anche perché la sua figura sfuggente, nonostante l'imponente mole, destava inquietudine.
In paese era conosciuto e rispettato, a questo proposito ricordo una storia su di lui: Hans, il gendarme capo d'un tempo, usava spesso dileggiare la sua persona, amava soprattutto schernirlo in pubblico, ribadendo forse in quel malo modo il trionfo della propria natura arrogante su quella introversa e schiva di Henri. La gente considerava Hans un temerario, essendo fisicamente la metà di Henri, ma constatando che il deriso non batteva mai ciglio stringendosi nel suo riserbo, si sentì autorizzata a ridere coralmente di quelle malizie inflitte senza ritegno: spirito fatuo.
Il tutto però non perdurò e come tante cose date per scontate, accadde che Henri contravvenisse al solito inoffensivo comportamento e all'ennesima insolenza ricevuta, levò lo sguardo dal suo bicchiere di vin brulè, cui era solito accompagnarsi la sera seduto al tavolo più remoto della sala dell'unica baita in cui si ritrovava il paese, e incrociò folgorante quello di Hans.
Invero non si sa con certezza cosa avvenne, ma Hans non fu più lo stesso; ammutolì seduta stante come gli fosse stato annunciato qualcosa di nefando, posò inebetito se stesso e il boccalone di birra che aveva in pugno sul bancone e sotto le rincuoranti pacche ridanciane della cricca, sgattaiolò tremebondo verso casa. L'eccezionale evento fomentò nei presenti la leggenda del terribile sguardo di Henri, ma fu un fatto che, da lì a breve, Hans scomparve per sempre in un viaggio intrapreso.

Quella notte, l'inverno era ormai giunto e le nevicate erano sempre più frequenti, sentii bruscamente battere alla porta, mentre ero intento vicino al camino a terminare alcuni lavori d'intaglio, i quali sono la mia passione e da parecchi lustri mi danno umile vivere.
- Henri, cosa ci fai qui, – dissi invitandolo ad entrare, anche per evitare di gelare la stanza – sono sorpreso di vederti!
Egli non rispose, s'avvicinò come un orso alla sedia posta vicino al tavolo da lavoro e si sedette aspettando che io facessi lo stesso. Posai lì due bicchierini e li riempii di Kümmel aspettando che proferisse parola, agitato da tale avvenimento senza precedenti.
- Sei tu William Kermel? - domandò con voce lontana, ancora senza levarsi la mantella, né il cappello, tenendo la testa bassa rivolta al bicchierino.
- Ma certo! Perché mi domandi una simile ovvietà, siamo vicini di casa da più di trent'anni! - esclamai smarrito.
Sibilò uno strano suono, uguale ad una folata di vento che si insinua in una canna spezzata e fece per levare il cappello e poggiarlo sul tavolo. Lo guardai impietrito, il suo viso deviava da qualsiasi sembianza umana avessi mai immaginato, le sue mani presero a tremare, le unghie ad allungarsi, gialle, dure, affilate come zanne; la sua mole si espanse ancor di più e il vestito, specie i calzoni, si sfilacciò fino a ridursi in brandelli. Soffiava vento non saprei da che pertugio che spense i ceri, eccetto la fiamma del camino che combatteva convulsamente per restar vivida, producendo mostruosi giochi di luci ed ombre sulle pareti. Un marcio afrore affiorava dalla mia pelle, voltai lo sguardo atterrito e ottenni tra le mani un alare, farneticante lo brandii energico contro questa nera entità raccapricciante, essa s'ingigantiva funesta davanti a me tanto da volermi inghiottire:
- Eccolo il tremendo Moloch delle leggende - paventai.
In quel preciso istante una forza aliena sfondò l'uscio di casa, il viso della creatura sbiancò, spolpato d'ogni parvenza carnale, splendeva ossuto inorridendo l'anima, sotto quel cappuccio contornato di buio; i miei sensi irrefrenabili si dissociarono dalla realtà, il miocardio fu disintegrato in petto dai forti battiti lancinanti, annaspavo nei sudori freddi; costui digrignò i denti e torvo dettò una parola, sorreggendosi ad una enorme falce:
- Andiamo.

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7. IL RODOTARLO di Sabin Ferraris- Frammenti mentali di Mattia de Mentis
Proprio adesso che stavo per cominciare a scriverti, suonano alla porta.
E adesso che faccio? Ti scrivo o vedo chi è che suona alla porta?
Ma se vedo chi è che suona alla porta, poi posso ancora continuare a scriverti?
Forse sarebbe meglio: almeno potrei scriverti di chi suona alla porta, perché in verità non so proprio cosa scriverti.
Ma tu mi dici sempre: “Scrivimi... scrivimi... scrivimi...”
Ma come cavolo posso scriverti se mi suonano alla porta?
L'unica che potrebbe suonare alla porta, per assonanza, potrebbe essere la portiera.
Ma se fosse la portiera, potrei dirle che stavo per scriverti e volevo parlarti di chi suona alla porta?
Secondo te, alla portiera gliene fregherebbe qualcosa che io stavo per scriverti?
E a te, farebbe piacere sapere che, mentre stavo per scriverti, la portiera stava suonando alla porta?
Già lo so che non te ne fregherebbe nulla, come non frega nulla manco a me, né di scriverti né di chi suona alla porta.
Però, dico io, la gente non ha nessuna delicatezza! Suonare alla porta di qualcuno proprio mentre questo tenta di scrivere qualcosa a qualcun altro a cui non sa manco cosa scrivere! Ora i casi sono due: o me ne frego di chi suona alla porta e continuo a scriverti, o me ne frego di scriverti e vado a vedere chi suona alla porta.
Ma se la portiera, che probabilmente sta suonando alla porta, sapesse che ho preferito continuare a scriverti anziché aprire la porta a lei, non si offenderebbe per questa mia decisione e non mi toglierebbe il saluto?
E tu, se sapessi che ho smesso di scriverti per andare ad aprire la porta alla portiera, senza manco essere sicuro che fosse lei, non ti seccheresti nel sapere che non ti ho più scritto perché ho preferito aprire la porta alla portiera, pur non essendo sicuro chi fosse a bussare?
Di certo la portiera ti odierebbe senza neanche averti mai visto, dato che penserebbe che io ti ho preferito a lei, e se un giorno tu per caso mi venissi a trovare, lei non ti saluterebbe nemmeno; o forse ti direbbe “lei è quel tale per cui io sono rimasta dietro la porta mentre il suo amico le stava scrivendo, anche se non sapeva cosa scriverle”.
Ne nascerebbe sicuramente un problema condominiale, perché la portiera riferirebbe a tutti i condomini che io ho amici indegni, ma li preferisco a lei che è sempre talmente servizievole da venire a bussarmi alla porta (ammesso sempre che sia lei) per riferirmi gli ultimi pettegolezzi del palazzo o magari per consegnarmi le tue lettere, anche se in verità tu non mi hai mai scritto.
Se tu fossi in grado di rispondermi immediatamente, ti chiederei se preferisci che faccia entrare la portiera a raccontarmi gli ultimi pettegolezzi del palazzo, così saprei finalmente cosa scriverti.
Ma quando tu poi verrai a trovarmi, sapendo già peste e corna di chi abita nel mio palazzo, la portiera non sarebbe diffidente nel vederti?
E che cavolo! Adesso mi squilla anche il telefono!
Sai che faccio? Apro alla portiera (ammesso che sia lei) e le dico di rispondere a non so chi al telefono, chiedendole di riferire che io non ho potuto rispondere in quanto mentre stavo per scrivere non so bene cosa non si sa a chi, son dovuto andare ad aprire la porta per vedere chi fosse, anche se sospettavo fosse la portiera, ma non ne ero affatto sicuro.
Però... che giornata movimentata!
Ora basta! Salvo ripensamenti, ho deciso: non apro alla portiera (ammesso che sia lei a bussare alla porta), non rispondo al telefono e non scrivo neanche questa lettera , che manco avevo deciso poi se l'avrei mandata a te o a qualcun altro.
Ed è solo per questo e non per mancanza di buona educazione che non ti saluto, non mi firmo e manco vado ad aprire alla porta.

P.S. - Ho appena controllato. Oggi la portiera è assente.
Scusami, ma non ti pare che il tuo sia un comportamento da maleducati ?
Venire a suonare alla mia porta e addirittura telefonarmi proprio mentre tento di scriverti!

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8. UNA STRANA COMPAGNIA - di Lolablu
Sorgeva alla fine di un viottolo di campagna fatto di sassi e di erbetta che ne delineava il percorso. Era la classica chiesetta che disegnavo da bambina sui quaderni. Tetto spiovente, piccolo campanile e portoncino in legno con scale sconnesse, il tutto protetto dalla chioma generosa di un pino. Il piccolo altare e il crocefisso, appeso sullo sfondo, non erano nascosti alla vista da controporte; facevano gli onori di casa invitando i passanti occasionali ad entrare per segnarsi con un segno di croce. Luci tremule di candele, aiutate da lanterne appese alle pareti, animavano lo sfondo ora visibile ora ammiccante dietro forme confuse.
Quel pomeriggio era piovuto. La chiesa bagnata si stagliava sullo sfondo di un cielo al tramonto,rosso e giallo come il sangue e gli ultimi raggi del sole che si accinge al riposo. Ai lati del sentiero soffici cespugli di verde intenso rendevano intimo il paesaggio, costellato qua e là da enormi ulivi che risaltavano sulla terra colorata di rosso intenso. Completavano il quadro d’insieme variopinte pale di fichidindia ed un piccolo trullo, silenzioso testimone di presenze trascorse.
A testa coperta, ad occhi bassi,attenta a non calpestare le margheritine bianche che occhieggiavano lungo il sentiero, giunsi alla chiesa ed entrai.
Profumo d’incenso, di cera, di gelsomini, di terra bagnata, di legno mi avvolsero come in una nube. Mi inginocchiai. Eravamo soli, l’una di fronte all’Altro e l’anima trovò finalmente sfogo nella preghiera libera...
Chiesi perdono, chiesi aiuto, ringraziai poi, presa dalla commozione, Gli chiesi…e mentre pregavo non fui più sola. Strane creature mi stavano intorno.
Gli affreschi sbiaditi delle pareti mi facevano compagnia e qualcosa sfiorava il mio viso ed asciugava le mie lacrime. Un vaso di gelsomini, tagliati di fresco e posti ai piedi dell’altare, mi osservava. Ora uno ora l’altro fiore si protendeva verso di me e sfiorava il mio viso, raccoglieva le mie lacrime e mi sorrideva. Strane creature che andavano e venivano, avanzavano e si ritraevano con grazia,in una lenta danza consolatoria. Stemmo così, mentre le immagini delle pareti si voltavano, sorridevano, ci osservavano, spettatori attivi di quel momento magico. Non so quanto tempo trascorse. Ormai bisognava andare. Fuori era quasi buio. Feci il segno della croce,chiesi il permesso, presi un rametto di gelsomini e mi avviai all’uscita. Questa volta i piccoli fiori, sfiorandosi a vicenda intonarono una dolce melodia al Signore.
Strane,stupende creature,per una volta partecipi del nostro mondo.
Fuori,un manto di stelle; un’argentea,sorridente luna; la carezza di un alito di vento;dentro di me, il sereno.

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9. LA BOMBA INTELLIGENTE - di Socrate52
Libia . Dal balcone dell’ultimo piano dell’albergo riservato ai giornalisti occidentali , Neri stava osservando il panorama sottostante e come in una scena di un film già visto , di sotto uomini vestiti ed armati in maniera diversa, lottavano , sparavano e spesso cadevano come pere sull’asfalto , sotto i colpi delle mitragliatrici e dei tank governativi , senza lanciare un grido ,senza che alcun rumore sfiorasse le sue orecchie , quasi che il vento e la distanza avessero levato l’audio alla scena!
All’improvviso però, il silenzio fu rotto da due aerei della Nato , neanche il tempo di vederli e già i loro missili si dirigevano verso terra , come attratti dalle bocche dei cannoncini dei tank , che infatti per un attimo smisero di vomitare i loro colpi e subito dopo si sciolsero in un fuoco devastante che coinvolse tutto il carro armato e gli uomini che vi erano dentro. Anche in questo caso nessun grido , né di stupore,né di dolore potè giungere alle sue orecchie , sempre più incredule di ciò che vedevano gli occhi, ma quello che attrasse la sua attenzione , più di ogni altra cosa , fu quella specie di caramellona affusolata che , sganciatasi dalla pancia dell’aereo cominciò a piroettare per il cielo e scendendo di quota, ma non cadendo, sembrava quasi essere indecisa sul dove andare a finire. Fu non senza sgomento che se la vide venire incontro e lo sgomento diventò terrore e sconcerto quando gli si fermò a non più di due metri di distanza ,quasi tenuta da un filo invisibile ,ferma nell’aria.
- “Salve, .sono una bomba intelligente di quarta generazione.”
Neri si diede un pizzicotto per assicurarsi di essere sveglio e suo malgrado cercò di rispondere:
-“ Sti catz …ma che scemenza è questa? Da quando in qua le bombe parlano?”
- “Capisco che lei possa essere sorpreso , ma io non ho tempo da perdere , il mio compito è di eliminare i nemici evitando di coinvolgere gli amici … sa è una questione di immagine …eliminare gli effetti collaterali fa bene alla guerra!”
- Sentiamo e come farebbe lei a stabilire se io sono amico o nemico?
- Semplice ho qui un questionario, adesso glielo passo, lei lo riempie in triplice copia, lo firma e lo infila in questa fessura ! ( così dicendo la bomba si girò di qualche grado scoprendo una piccola fessura laterale)
- E dopo?
- Dopo io esamino le risposte comparandole con un database interno ed utilizzando un programma di analisi , fondato su algoritmi particolari , riuscirò così a stabilire se lei è persona amica o nemica, nel qual caso le concederò 20 millisecondi per arrendersi.
- La ringrazio ! Disse Neri sarcastico , mi passi pure il questionario! La boma glielo passò e lui cominciò a leggere :
1) lei è democratico o antidemocratico?
2) E’ stato mai iscritto a partiti nazisti o fascisti o comunisti?
3) Ha mai compiuto omicidi? Si droga? Beve alcolici?
4) Ha qualche malattia ereditaria?
5) …. Ecc .. ecc…

Neri scoppiò in una risata fragorosa , prese il questionario , ci scrisse sopra qualcosa e quindi lo infilò nella “buchetta” della bomba pronunciando a tutta voce un liberatorio : “Ma vaffanc…”
Quello che accadde dopo ebbe dell’incredibile , la bomba cominciò a piroettare su se stessa , quasi si contorceva , poi salì alta in cielo e si disintegrò in una miriade di pezzettini .
Bottazzi , il suo collega,che aveva assistito alla scena, tirò un sospiro di sollievo e rivolto a Neri gli gridò esultante “ me l’ero vista brutta ... ma Dio bono cosa gli hai scritto da farla autodistruggere?
E Neri : “C’è solo un tipo di bomba intelligente ed è quella che non scoppia”.

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10. STRADA DI CARNE - di Manfredi Alter
Percorro questa strada di carne correndo: mi precipito accecata dalla paura, come una furia che scappa da non sa cosa verso non sa dove.
Sono disperata. Mi fermo. Ho una vertigine, eppure mi sembra che tutto sia immobile. L’odore è forte, ho la nausea.
Sotto di me la strada è calda, pulsante di vita.
I tronchi che mi circondano hanno una pozza liquida alla base. Mi fanno paura. Mi terrorizza l’idea di potervi cadere dentro…
Non succede nulla. Mi calmo.
Comincio a percepire qualcos’altro. Non riesco a capire. E’ come una variazione di pressione, non so.
Ho un dubbio… ma certo, deve essere proprio così: sono su un enorme essere vivente, oh che stupida! Oddio, quanto vorrei essere a casa! Quanto vorrei non aver voluto esplorare questo mondo sconosciuto! Quanto vorrei tornare dalle mie sorelle! Ma come? Come? Come faccio a tornare sui miei passi???
Calma, calma. Ragiona. Tu sai benissimo come tornare sui tuoi passi; è il tuo mestiere, cercare tracce. Okay, ora m’impegno, faccio dietro-front e torno indietro.
Quella sensazione strana però cresce. Una variazione di pressione. Ora un’ombra scura che avanza lenta… qualcosa sopra di me… aaaaahhhh!

- Cazzo, qui è pieno di formiche, spostiamoci.

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11. LE JANARE - di Erasmo69
Giorgia viveva sola, in una bella villetta, ad un piano, situata nello stretto di Barba, una gola che si incontra sulla strada per Avellino. Suo figlio si trovava a Napoli, da oltre un anno, in quanto conviveva con la sua compagna.
Dopo l’estate Giorgia accusava un po’ la solitudine perché Benevento era una città piena di vita nei mesi estivi ma, a settembre, tutto sembrava spegnersi, quasi come le giornate che s’accorciavano ed il freddo che rubava spazio alla calda stagione.
Dopo il lavoro tornò a casa, come tutte le altre sere, e aveva già in mente quel che doveva fare.
Verso le otto aprì il frigorifero e preparò la cena, la consumò in compagnia del telegiornale dopodiché andò in giardino ad annaffiare le piante, prima di potersi gustare un bel film alla tv.
Le ultime gocce d’acqua le versò ai piedi di quell’albero di noce.
Era già buio e rientrò in casa. Si gettò sul divano e accese la TV, cercò di cambiare canale ma non c’era verso di farlo: il televisore non solo non distingueva più i canali pubblici da quelli privati (ma del resto in Italia è così), ma rimaneva fisso, dopo aver premuto qualsiasi tasto del telecomando, su un film dal titolo “Le Janare”.
Non le restò altro che guardare quello spettacolo.
Che “strane creature” quelle Janare, mostri femminili capaci di volare, sembravano streghe per come erano vestite e per come avevano i capelli acconciati. Alcune erano accompagnate da uomini con le sembianze dei caproni, ma senza occhi e con delle grandi corna.
In quella gran confusione c’erano anche dei folletti, ma facevano semplici scherzi senza comunque far del male a nessuno, diciamo che erano innocui.
Giorgia fissò con attenzione quelle specie di streghe e riconobbe nei loro volti quelli delle donne che incontrava quotidianamente: colleghe, amiche, vicine di casa, cugine, ecc.
Improvvisamente la sua sala da pranzo mutò aspetto e lei si ritrovò seduta su una poltrona posta al centro di un lungo tavolo, in una immensa stanza: era nella sala di un castello situato in mezzo ad un bosco, almeno questo sembrava scorgersi dalle finestre.
Così iniziarono intense conversazioni e discussioni tra lei e le Janare ma, curiosamente, il motivo di ogni dialogo era proprio lei: Giorgia e il suo mondo!
Le Janare riversarono contro Giorgia tutto quello che le volevano, le dovevano dire e non le avevano mai detto. Qualcuna le rimproverò alcuni torti fatti, qualche altra criticò il suo modo di fare, ci fu anche chi le lanciò accuse indecenti, chi la offese ma ci fu anche chi le disse che le voleva sinceramente bene, chi le confessò che il suo ex marito non era granché a letto, chi le mostrò rispetto oppure indifferenza. Anche la compagna del figlio, con la quale non aveva mai avuto un buon rapporto, le confidò stima e gratitudine.
Ma, allo stesso tempo, Giorgia poteva rivolgere a tutte qualsiasi tipo di domanda e, chiunque sedesse al tavolo, era costretto a rispondere con estrema sincerità.
La curiosità è donna: capirete che non ci fu abbastanza tempo per esaudire tutti i dubbi e per dare una risposta a tutte le domande. Considerate che ad un certo punto fu necessario l’uso di una clessidra per limitare il tempo delle risposte.
Arrivò l’alba, momento in cui le Janare cominciarono a fuggire via, a destra e a manca.
Giorgia si ritrovò, da sola, in un batter d’occhio, assopita nella sua casa, sdraiata sul divano: erano le cinque e, stanca, si addormentò per un’oretta abbondante.
La mattina seguente Giorgia era davvero frastornata, cercò su internet informazioni utili sulle cosiddette Janare e apprese che “La natura incorporea delle Janare fa si che loro, di notte, possano entrare nelle abitazioni penetrando sotto le porte, come un soffio di vento, oppure dalle finestre, come un lieve spiffero.
Per impedirgli di entrare, dietro alle porte e alle finestre, vanno appesi dei sacchi di sale o delle scope, perché la tradizione vuole che la Janara, prima di entrare in casa, debba obbligatoriamente contare tutti gli acini di sale o tutti i fili e le fibre che formano la scopa. Così, la Janara è costretta ad espletare il suo compito ma nel frattempo sopraggiunge l’alba che la costringe a ritornare nella sua abitazione”.
Si fece, di nuovo, sera e Giorgia, per non rivivere una notte tormentata, pensò di preparare scope e sacchi di sale per evitare il ritorno delle Janare ma alla fine decise di non farlo, perché in fondo era stata in compagnia, diciamo che si era anche divertita o almeno aveva avuto modo di mettersi in discussione e, soprattutto, comprese che quelle streghe facevano parte della sua vita!

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12 - UNA INSOLITA LAVORATRICE - di Belf9
- Ehi, tu!
- ...
- Ehi, tu!
- …
- Ehi, dico a te che stai passando! Mi vuoi rispondere?
- Ma chi è?.... Da dove viene questa voce?....Qui non c'è nessuno!
- E io sarei nessuno?
- No! non è possibile!.....Tu?
- Sì, io. Ti sembra strano?
- Ma sto sognando? In questo androne c'è solo il gabbiotto del portiere con un pesce rosso.
- Sei tu che stai parlando?
- Ma allora sei proprio stupido! Quando mai un pesce ha parlato?
- Appunto! …..I pesci non parlano.
- Guarda meglio.
- Sto guardando, ma oltre alla boccia col pesce vedo solo un citofono, le parole crociate e nient'altro...
- Nient'altro? Allarga il tuo sguardo sull'androne.
- Beh, in questo androne ci sono solo piante e una vecchia scopa appoggiata davanti alla porta che dà sul giardino....
- Vecchia scopa! Come ti permetti! Io sono nuova, nuovissima. Giorgio mi ha rifatta ieri. Ha gettato tutti i rami vecchi e li ha sostituiti con rami nuovi. Di vecchio ho solo la mazza. Ma quella non si cambia mai. E' immortale. Lo sai che non mi ancora utilizzata? Sono VERGINE!
- Allora sei tu che stai parlando?
- Certo! Ti pare strano?
- Direi proprio di sì. Non ho mai visto una scopa parlante!
- Beh, un po' di ragione ce l'hai anche tu. Noi scope siamo molto riservate e in genere non parliamo, ma io sono riuscita ad animarmi. Ora mi muovo e parlo. Guarda!
- Però! Niente male. Noto che riesci a fare da sola grandi evoluzioni, come se danzassi. Non ti nascondo però che vederti muovere da sola mi trasmette una certa inquietudine. E' come se una strega invisibile ti manovrasse.
- Ma quale strega! Stai ancora nel mondo delle favole? Sono io che mi sto muovendo, e lo faccio con le mie forze, da sola! Osservami con attenzione.
- Sì, ti osservo, e più ti guardo più mi vengono i brividi. E' notevole la tua abilità a flettere quei tuoi rami ispidi. Mi ricordi una creatura marina. Un polpo, anzi, un'attinia: una attinia che si muove con armonia, pronta ad agguantare il pesce di turno. Ma proprio il fatto che riesci a muovere i tuoi rami rigidi e a trasmettergli movimenti sinuosi, rende la cosa più inquietante. Sono comunque rami tristi, privi di colore e non trasmettono una reale idea di vita. Assomigliano tanto alle dita lunghe e deformi di una strega e quel movimento che gli conferisci, aggiunto al loro aspetto, rende tutto l'insieme semplicemente mostruoso. No, non mi piaci. Le creature mostruose non mi sono mai piaciute.
- Ecco! Una fa tanto per migliorarsi e rendersi più utile e alla fine si sente dire che è mostruosa! Ma lo capisci che ora sono autonoma? Da domani troverete il viale sempre ben spazzato e privo di foglie perchè interverrò io da sola. Non mi farò guidare più da Giorgio. Mi ero seccata di essere presa solo quando lui ne aveva voglia e di essere manovrata svogliatamente, come se ci fosse sempre altro e di meglio da fare. Ora interverrò in autonomia tutte le volte che vedrò una foglia o una cartaccia. Da oggi inizia una nuova era! Sarò pure mostruosa, ma sono efficiente, io! Ora scusami. Ho visto che il vento ha buttato giù un po' di foglie e voglio partire per la mia prima missione. Ciao!
- Ciao!

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13. B-A-S-T-A - di Vi_di
Un’altra serata come tante, seduto davanti al computer, a trangugiare caramelle senza sentirne il sapore e a scrivere.
Da quando lei gli ha detto basta va così.
Glielo ha scritto in una mail quel basta e poi è sparita: irraggiungibile il cellulare, sparito il profilo su Facebook, cancellata da Myspace, in una parola introvabile, quasi un byte sfuggito, non più reindirizzabile, ma Miky non riesce a farsene una ragione e per questo da allora passa il suo tempo davanti al computer, il mezzo che usavano di più per comunicare. Le sue giornate cominciano sempre allo stesso modo: aprendo pagine che non leggerà mentre trangugia caramelle per addolcire il senso di amaro che ha la solitudine, avviando giochi che non completerà, girando di network in network con la folle speranza di trovarla. E quando l’evidenza della sua assenza è tale che anche aprire pagine è frustrante, pesca un’altra caramella, apre la casella di posta elettronica e le scrive.
Le avrà scritto almeno 100 mail, ma gliene ha mandata solo una, la prima. E ha ricevuto come risposta ‘Attenzione Indirizzo o indirizzi di posta elettronica non validi’.
Lui però tra una caramella e l’altra continua a scrivere, ad argomentare, a pregare, a chiedere, a implorare, a raccontarle quanto gli manca. E a fine giornata, con gli occhi stanchi e la testa vuota, conserva tutto nelle bozze della sua casella.
Suo fratello è entrato poco fa in camera e lo ha beccato proprio mentre ingoiava l’ennesima caramella e correggeva per la millesima volta la bozza di una mail. D’istinto Miky ha chiuso ad icona la pagina, ma il fratello lo ha guardato quasi con compassione e mentre usciva ha esclamato:
- Sei proprio fuori! Che cazzo le scrivi a fare ste mail se sai che non le leggerà? Almeno falla finita con le caramelle, se non vuoi che oltre a rincoglionirti ti venga anche il diabete!
Ma Miky sa di non essere fuori, di non essere rincoglionito: a furia di scriverle, ne è sicuro, lei lo sentirà; anche senza riceverle fisicamente, le sentirà quelle mail, sentirà quanto gli manca, sentirà quanto ci sta male e tornerà.
E quindi ha riaperto la bozza, ha ingoiato un’altra caramella e ha ripreso a cercare le parole migliori, a spostare le virgole, a limare la forma per far diventare sempre più chiaro come si era sentito quel giorno in cui aveva letto quel basta.
Basta.
Che parola inquietante.
BASTA
Ingombrante.
BASTA
Soffocante.
Ecco, questa è la sensazione da raccontarle: la sensazione dell’ aria che gli è mancata d’improvviso il giorno in cui ha letto quel basta.
E mentre racconta ripete tra sé quella parola in maniera quasi ossessiva: BASTA.
Prima tutta insieme: BASTA.
Poi snocciola le lettere singolarmente facendole rotolare nella mente, quindi sussurrandole una per una come un bimbo di prima elementare che sta appena imparando a leggere: B-A-S-T-A.
Se le ripete una ad una, prima a bassa voce poi alzando un po’ il tono: B-A-S-T-A.
Pesca un’altra caramella, la mette in bocca e la sente che gli rotola sotto al palato; ma non rotola da sola; rotola insieme a quelle lettere: B-A-S-T-A.
La caramella si scioglie ma lui in bocca sente solo amaro, l’amaro di quel B-A-S-T-A, le cui lettere continuano a girargli sulla lingua, le sente come se avessero uno spessore, una consistenza reale; le sente che rotolano e sbattono tra di loro e poi tra denti e palato e rotolando diventano sempre più veloci, sempre più vorticose, sempre più ingombranti, quasi vive: B-A-S-T-A… B-A-S-T-A… B-A-S-T-A

Da ‘Repubblica online’

UNO STRANO CASO Il macabro ritrovamento è avvenuto ad opera del fratello che, entrando in camera, lo ha trovato riverso sulla tastiera del computer. In un primo momento si è pensato ad un malore, ma al controllo dei sanitari del 118 prontamente intervenuti il giovane è risultato essere deceduto per soffocamento. Sulla scrivania c’era un pacco di caramelle e si è pensato che una di queste potesse aver soffocato il malcapitato, ma i soccorritori nella gola del giovane hanno ritrovato 5 sassi spugnosi, di quelli che si rigonfiano a contatto con l’acqua, incastrati uno sull’altro, e che, una volta rimossi, hanno dato una scritta: B A S T A.

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14. L'OMBRA? - di Dimanto
Quel pomeriggio i raggi di sole di fine estate aranciavano i muri di Villa Melodia che per una volta parve invitarli ad entrare.
Si erano sempre limitati ad osservarla da lontano, di ritorno dalle loro scorribande per gli iazzi di Lamadoro, a rimpinzarsi la pancia di fichi, a dissetarsi di azzeruoli.
Li aveva sempre intimoriti quella malconcia ma austera facciata settecentesca. Adesso li chiamava.
Attraversarono quello che un tempo doveva essere stato uno splendido parco di palme e carrubi.
Agavi matrone, fiorite e maestose giganteggiavano su di loro.
Da un paio di secoli nessuno piu’ abitava quella villa, nessuno piu’ la curava.
Fu facile forzare il legno di una finestra laterale e in un balzo essere dentro.
Lame di luce gialla filtravano attraverso le persiane a far danzare impalpabili stelline di polvere (che magia!) unico moto in una irreale immobilità. Un biliardo, poltrone, vecchi mobili, quadri, un baule.
Il piu’ piccolo fra loro prese una stecca da biliardo e cominciò per gioco a battere su un divano. Le stelline impazzirono vorticando.
Il piu’ grande aprì il baule. Vecchi abiti da donna lunghissimi, un ombrellino parasole, guanti di pizzo ed un cappello a falde, nero. Lo prese. Sarebbe stato utile per il prossimo Carnevale.
Non avevano piu’ paura; ai loro occhi di bambini la villa apparve ormai solo come un paesaggio nuovo da esplorare, una vecchia epoca in cui mettere il naso.
Vollero salire al piano superiore. La vecchia scala di legno cominciò a scricchiolare sotto i loro piedi. Alzarono gli occhi per capire se continuare ad avventurarsi.
Fu allora che la videro.
Un’ombra solida e nera che la luce non riusciva ad attraversare, scendeva verso di loro. Un’ombra d’altri tempi, un’ombra slanciata, con un lungo abito ed un grande cappello a falde. Un pensiero comune attraversò la mente: la baronessa Melodia che si diceva fosse morta disperata per la perdita del proprio bambino.
Un brivido li scosse e già correvano. Erano fuori, in salvo. Correvano ancora quando udirono il fragore di un crollo.
La villa era implosa alle loro spalle.
La baronessa o quel che era, materializzandosi li aveva salvati. Almeno loro.

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15. VECCHIO CAPRONE - di Ed Felson
..Vecchio Caprone..
Non so perchè ma quella volta non fu una coincidenza..quattro passi tra blog e profili per poi ritrovarmi in casa tua..a dire il vero tu avevi già rimosso le obiezioni e il tuo fascino correva a dipanare un congiuntivo irregolare..
ricordo una strong ale irriverente..torturava il mio digiuno con l'integralismo di una vergine la sera prima delle nozze ma poi un toscano extra vecchio rimediò all'incognita trasformando il vomito in un dolore lancinante al petto.
Vecchio Caprone..che chi non ti conosce penserà di non aver perduto nulla ed invece io posso testimoniare che le tue assonanze inverse raggiungono quel limite dove l'allegoria si tuffa in un ossimoro perfetto arrivando alla qualifica di Pittore di Parole..
Lampioni come stelle raggiungibili..spiagge..ombrelloni e pendolari..una cassiera che in comune con la mia ha il vezzo di un rossetto rosso..la predisposizione al credito e la dolcezza di chi sa ascoltare senza sentire.. rane..tombini snguinanti..latrati di randagi che se li guardi ci assomigliano.. una corriera piena di ragazze compiacenti e un concavo e un convesso che se li usi potresti affascinare Hemingway..lo sbocco della fogna dove ci siamo ritrovati tante volte scorticando le pareti con le unghia sanguinanti..
Il gioco è semplice e non permette distrazioni..Strane Creature..che a pensarci un po' mi viene da scappare come da piccolo..quando mio padre usava l'Ignoto per smorzare la mia naturale predisposizione alla disubbidienza..
Strane Creature che passeggiano discrete in questo strano mondo di cartone dove le emozioni hanno il sapore di una dissonanza lessicale..dove Tom Waits mentre gratta la sua musica fa occhiolino alla signora dalle ciglia oblique ed Eric Clapton spinge un'altalena con la forza del suo blues..Strane Creature.. imbalsamate quanto basta per correre ogni volta dentro la perfezione di un piano cartesiano..consacrate alla quadratura di un altare dove l'apotema non corrisponde al raggio ma alla maledizione della sua assonometria variabile..
Strane Creature..che quando c'è da sceglire non hanno dubbi amletici ma corrono sicuri dietro all'indicativo lasciando il congiuntivo a decantare l'insicurezza del condizionale..coniugano il gerundio ma stravedono per l'infinito spaventati da un participio che odora di sconfitta..
Strane Creature..che filtrano la vita dietro la saggezza di un destino dignitosamente alcolico..con l'eleganza di un collant smagliato e l'irriverenza di un pagliaccio senza trucco..per concludere la storia non trovo meglio che le tue parole..
"Ci hanno offerto una preghiera e quando abbiamo visto un cane che cercava il suo padrone abbiamo ricambiato"..

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E IN PIU', FUORI GARA...
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RINTY - di Fulov
Ad Aldo piaceva guidare di notte, attraversare paesi silenziosi, quasi vuoti, gli piaceva il silenzio perché gli permetteva di perdersi dietro a pensieri che con il buio prendevano le più svariate direzioni. Mentre guidava, gli piaceva ricordare i tempi passati, quando correva dietro alle ragazze, o quando guadagnava i primi soldi, si ricordava di quando era un ragazzo e dei giochi con i suoi amici. Di come gli piacevano tanto i fumetti. I giornaletti come li chiamavano, li leggevano immedesimandosi in quelle storie disegnate, tanto da farle diventare realtà. Gli capitava di perdersi nelle letture di quegli albi tanto da non sentire la madre che lo chiamava per la cena. E ancora oggi, mentre comprava il giornale, guardava le copertine dei fumetti in vendita nelle edicole. Da ragazzo gli piacevano le storie di eroi, senza macchia e senza paura che vincevano sempre contro il cattivo; tra tutti gli eroi di carta gli piaceva tanto Rintintin, il cane lupo del West. Seguiva tutte le sue avventure, i telefilm i giornalini. Ultimamente si chiedeva divertito, e divertendosi del suo fantasticare, che fine facevano i personaggi dei fumetti che non venivano più pubblicati, che erano spariti dalle edicole e dalle fantasie dei ragazzi per lasciare il posto ai nuovi giochi elettronici. Si chiedeva come gli autori motivavano l’uscita di scena di quei personaggi. Forse con la morte; e poi quando l’eroe cadeva nel dimenticatoio che fine faceva? Andava all’inferno o al paradiso, ma esisteva l’inferno per i fumetti? Potevano mai essere cattivi i fumetti? “Chissà se i fumetti vanno in paradiso” diceva tra se e se. Anche quella notte, mentre guidava sotto una pioggia insistente, Aldo divagava pensando agli eroi di carta, e intanto copriva gli ultimi chilometri che lo separavano da casa sua. “Chissà se i fumetti vanno in paradiso?” si chiedeva ancora una volta mentre si concentrava sulla guida divenuta difficile per la pioggia battente e per l’oscurità. Decise di rallentare, non voleva correre rischi, la strada era sempre più viscida e pericolosa. All’improvviso vide un ombra vaga proprio al centro della strada, aveva riconosciuto il posto, era la curva prima del ponte sul fiume, passato il quale si vedevano le luci di casa; si avvicinava ma quella figura non si muoveva, era immobile, piantata in mezzo alla strada, come se volesse sbarrargli il passaggio. Avvicinandosi capì che non si trattava di un uomo ma di un animale, la pioggia sempre più forte gli impediva di avere un quadro chiaro della situazione, gli sembrava un lupo o un grosso cane. Si fermò proprio davanti all’animale e si accorse che non poteva passare senza urtarlo, mosse la leva dei fari: luce alta, luce bassa, ma il cane non si mosse, provò a suonare il clacson senza risultato, la pioggia aveva coperto il suono. Scese dall’auto per far muovere la bestia e si accorse che l’animale era un cane, un cane lupo che lo guardava fermo, incurante della pioggia, provò a chiamarlo “qui bello, qui“ il cane non si mosse. Aldo riprovò a chiamarlo battendo la mano sulla gamba: “Vieni, bello, vieni” il cane si piano piano gli si avvicinò, “dai bello ancora un po’” . Ma quando il cane gli arrivò vicino si accucciò ai suoi piedi. Aldo lo guardò e pensò “Ma è Rintintin” e mentre lo pensava gli scappò un: “qui Rinty, quì!”, il cane gli allungò una zampa e iniziò a girargli intorno facendogli le feste. “Rinty, amico mio, ma sei proprio tu” e prese a correre, seguito dall’animale, lungo la strada, sotto la pioggia, nelle pozzanghere, finché si fermò dicendo: “ma che sto facendo, non può essere vero, sto sognando ad occhi aperti, devo tornare a casa” e si avviò verso l’auto ancora in moto. Fu allora che accadde l’indicibile: il cane gli si fermò davanti e con una voce che non aveva niente di animalesco comincio a dirgli. “Aldo, fermati, sono proprio io, il tuo amico Rintintin, non è un sogno, ascoltami”. Aldo si fermo di scatto, vinta la sorpresa si sedette di fronte al cane. “Sono davvero Rintintin, e non sono morto, noi personaggi della fantasia non moriamo mai, fino a che qualcuno ci ricorda noi continueremo a vivere”. Aldo ascoltava in silenzio, “mi sono rivelato a te perché hai sempre desiderato giocare con me, hai sempre creduto in me, e perché tu hai, ancora oggi, il cuore dolce e puro di un bambino, continua così, non perdere mai la gioia di sognare, e trasmetti questo alle persone che ami, ai tuoi figli. E ora che sai che i fumetti non muoiono ma vivono nel cuore e nella mente delle persone che li amano, puoi riposarti perché sei stanco, dormi Aldo, dormi”. Improvvisamente Aldo si svegliò sorpreso di non essere nel suo letto ma nella sua macchina, in mezzo alla strada, aveva freddo e sonno e non sapeva dove si trovava, poi si ricordò di aver fatto uno strano sogno, dove Rintintin lo obbligava a fermarsi prima del ponte e lui era veramente lì, sulla strada di casa, scese dalla macchina per svegliarsi del tutto. Si incamminò verso il ponte sul fiume . Il Ponte non c’era più! Al suo posto scorreva rabbioso il fiume ingrossato dalle piogge della notte. Aveva spazzato tutto quello che aveva trovato sulla sua via. Si rese conto del pericolo che aveva corso, se non si fosse fermato sarebbe caduto inesorabilmente nel gorgo. Si chiese come avesse fatto a fermarsi, a sapere che il ponte era stato spazzato via. Poi in un attimo si ricordò: il cane l’aveva fermato, Rintintin l’aveva salvato. Si disse che non era stato un cane ma il suo Angelo custode, ma se era stato davvero un angelo, sorrideva mentre pensava “allora i fumetti vanno in paradiso!”