ESCLUSIVO – Parla l’esperto italiano dell’Unesco che restaurò le statue abbattute dai Talebani.
Andrea Bruno, docente di Restauro al Politecnico di Milano, è stato 30 volte in Afghanistan tra il 1960 e il 1999. Ha curato i Buddha, un antico minareto, il museo di Kabul, le auto del re. E racconta che...
Il gennaio 2001 era cominciato con l'arresto in Iran di 207 immigrati clandestini afghani, e con la morte, in una sciagura stradale, di altri 67 disperati come loro, in fuga dalla fame. Il giorno seguente i Talebani si ritiravano dal distretto di Ghalmin sotto l'offensiva dei guerriglieri del Fronte unito, ma già 24 ore dopo i loro cannoni bombardavano città e villaggi della zona, mentre altri reparti bloccavano i rifornimenti alimentari alla popolazione. Lo stesso giorno, l'Unicef decideva di interrompere i lavori di riabilitazione dell'ospedale Ali Abad, nella capitale Kabul, a causa dei continui saccheggi compiuti o consentiti dai Talebani.
Piccole storie quotidiane di un Paese, l'Afghanistan, che da un quarto di secolo subisce un'incessante catena di mali: la caduta della Monarchia costituzionale, che dalla fine dell'Ottocento ne garantiva l'indipendenza e un principio di modernizzazione, l'instaurazione di una "Repubblica popolare" filosovietica, l'occupazione da parte dell'Armata rossa, un decennio di resistenza armata dei mujaheddin, la vergognosa ritirata dei russi dopo il crollo dell'Urss, lo scoppio della guerra civile fra opposte fazioni guerrigliere, la presa del potere da parte dei Talebani, gli studenti delle scuole coraniche, seguaci di uno dei movimenti più fondamentalisti e intolleranti di tutto l'Islam, il wahhabismo. Sullo sfondo, l'annosa siccità, la fame, la pesante trama dei commerci della droga e delle ricchezze archeologiche rapinate a man salva.
Un giorno imprecisato al principio di marzo, infine, i Talebani hanno fatto saltare, in odio a tutte le culture religiose preislamiche, i due Buddha giganti incisi nella roccia della valle di Bamiyan, due fra i più importanti beni culturali e artistici del mondo. Le riprese televisive dell'esplosione sono state mostrate in Italia dai Tg del 19 marzo.
Ne parliamo, nel suo studio di Torino, con l'architetto Andrea Bruno, docente di Restauro architettonico al Politecnico di Milano. In Afghanistan egli ha svolto per conto dell'Ismeo (Istituto di studi sul Medio ed Estremo Oriente), dell'Unesco e del nostro Governo, in accordo con quello afghano, 30 missioni per complessivi quattro anni, fra il 1960 e il 1999. Ai Buddha di Bamiyan - scolpiti fra il terzo e il quinto secolo d.C. - Bruno ha dedicato in più riprese mesi di lavoro, fino al 1964, per la realizzazione "di opere di canalizzazione e di drenaggio delle acque piovane che si infiltravano nella roccia, di consolidamento statico e di rimozione dei detriti che nascondevano una parte del complesso monumentale. In più, abbiamo restaurato, dove si poteva, le statue stesse".
Parla con dolore, come chi ha perso una cosa cara e preziosa, a cui ha dedicato parte della propria vita. In Afghanistan lo aveva spinto l'istinto di "costruire dove si è già costruito, dove il tempo passato è leggibile nella materia e nella forma, dove nuove esigenze hanno modificato l'aspetto del manufatto sino al limite estremo del resto archeologico".
Senza questo istinto non avremmo oggi il capolavoro italiano di Andrea Bruno, il restauro del Castello di Rivoli, alle porte di Torino, che lo Juvarra aveva lasciato incompiuto e che l'incuria aveva ridotto a un punto tale che, ricorda l'architetto, "se n'era prevista la parziale demolizione nel momento del "boom" edilizio della ricostruzione postbellica". Oggi il Castello, splendidamente ripristinato, ospita un Museo di arte contemporanea.
"In Afghanistan", continua Andrea Bruno, "trovai quello che cercavo: un immenso museo da conoscere, proteggere e ordinare. Il primo lavoro fu al minareto di Jam: un monumento dalla storia incredibile, sconosciuto al mondo esterno per molti secoli, finché negli anni '30 del Novecento un pilota solitario lo vide dall'alto, e finché, nel 1957, un archeologo esploratore riuscì ad arrivarci".
Nel 1960, continua Bruno, "lo cercai anch’io, in un intrico di valli e di montagne al centro dell'Afghanistan, naturalmente senza strade degne di questo nome. Quando stavo per darmi vinto, ecco l'emozione di vederlo davanti a me. Alto 70 metri, a duemila metri di quota, su base ottagonale, era stato costruito alla confluenza di due fiumi, uno dei quali, un impetuoso torrente di montagna, aveva "mangiato" nel tempo quasi tutto il terreno su cui poggiava da una parte; e il rischio era che prima o poi il minareto, già lievemente inclinato, crollasse. Dopo gli studi e la preparazione dei progetti di restauro, il nostro primo lavoro, nel 1963, è consistito in una prowisoria arginatura in pietre e legnami locali. L'Unesco mi ha poi affidato, nel 1974, lo studio di un progetto di restauro, e nel 1978 è stata finanziata una prima opera che doveva portare alla costruzione di un argine costituito da gabbioni metallici zavorrati da pietrame, in vista di interventi successivi sulle fondazioni. La guerra, con tutto quello che ne è seguito, ha fermato tutto".
-La zona in cui sorge il minareto sembra deserta. Come si spiega, allora, la sua presenza?
"E’ uno dei misteri della storia afghana, così piena di sconvolgimentì. Il minareto è stato costruito fra il 1163 e il 1207 per una comunità islamica evidentemente numerosa. Pochi anni dopo esso vide il tremendo passaggio dei Tartari di Gengis Khan, che distrussero ogni presenza umana intorno, ma lo lasciarono miracolosamente intatto. Forse perché, sette secoli dopo, mentre mi trovavo laggiù, nel caldo dell'estate afghana, un giorno sbucassero dalla pista in terra battuta due fuoristrada con avventurosi turisti europei, francesi, svizzeri, italiani e olandesi, che scesero e mi offrirono un Martini con l'oliva...".
- Veniamo ai Buddha di Bamiyan...
"No, prima ancora c'era stato il lavoro a Ghazni, non lontana da Kabul, antica capitale di un impero, dove il professor Giuseppe Tucci, direttore dell'Ismeo, aveva voluto il primo intervento di tutela del patrimonio archeologico afghano. C'era da restaurare il Mausoleo, cioè la tomba del sultano Abdur Razaq, un capolavoro architettonico del XV secolo, con nove cupole che permettono varie possibilità di illuminazione degli ambienti sottostanti. Un'architettura molto complessa e movimentata, che si doveva innanzitutto liberare all'esterno dalle casupole che vi erano state appoggiate lungo il tempo, ripristinando l'antico paramento e consolidando l'intera struttura, e poi ripulire all'interno. Il tutto ci prese quattro anni, dal 1961 al '65".
Bruno prosegue inarrestabile: "Fra il 1974 e il I 980, infine, lavorai, nel quadro di un progetto dell'Unesco e dell'Undp, al cantiere di restauro e consolidamento dei monumenti di Herat, la seconda città del1'Afghanistan, e soprattutto alla Cittadella, voluta da Alessandro il macedone come fortezza difensiva, abbattuta due volte da Gengis Khan e poi da Tamerlano, sempre ricostruita e sempre in pericolo".
- E finalmente i Buddha...
"Oh, sì. Il Grande, alto 57 metri, e il Piccolo, di 38, distano fra loro un migliaio di metn. Fra loro e intorno a loro, centinaia di cappelle e celle, abitate anticamente dai monaci, bucano la roccia. Erano impreziosite, come pure le pareti delle grandi nicchie che contengono le statue, da affreschi e da oggetti di uso comune, ambiti pezzi di antiquariato, di cui già al tempo in cui vi lavoravo io mancava ormai quasi tutto. Predoni, vandali, archeologi fuorilegge avevano cominciato secoli prima, razziando tutto quello che potevano trovare e asportare, l'opera di distruzione che i Talebani hanno ora portato a compimento".
Per proteggere quel poco che era rimasto, spiega Andrea Bruno, "si era progettato, nel cuore stesso dei ritrovamenti archeologici e in sotterraneo, un punto di partenza per le visite "guidate dei turisti, che contenesse anche reperti e documenti che riguardavano la valle e gli opportuni riferimenti ai monumenti buddhisti che sorgono in altre località dell'Afghanistan".
- Una delle idee che lei appoggiava era quella di aprire in Afghanistan tanti piccoli musei archeologici locali, come supporto a quello nazionale della capitale Kabul, dove ha provato un'altra delle sue delusioni afghane...
"Vuoi dire la collezione di auto di lusso dell'ultimo re, Zaher Shah? Quando nel 1990, su invito dell'Unesco, mi recai a Kabul per vedere in che stato fosse quel museo, uno dei più ricchi di tutta l'Asia, al culmine dell'occupazione sovietica e relativa resistenza dei mujaheddin, vidi abbandonate intorno all'edificio, colpito dai bombardamenti, sette automobili di gran marca che, mi dissero, erano state coliezionate da re Zaber o gli erano state donate da altri capi di Stato (fra queste, una Zis 110 regalatagli personalmente da Stalin). C'erano poi una magnifica Rolls Royce Phantom III, una Daimier DK 400, una Packard V 12, una Lincoln Continental, una Daimler D6, una piccola Ford A nera e gialla. Le feci mettere al riparo sotto una tettoia in cemento. Quando le rividi, nel 1993, erano a brandelli, saccheggiate, bruciate, distrutte. Come i poveri Buddha di Bamiyan".
Thanks to Famiglia Cristiana <www.famigliacristiana.it>
ed. san Paolo periodici, foto AP
a cura di Basello Gian Pietro <gpbasello@eudoramail.com>
for Elam.net <http://digilander.iol.it/elam>
san Giovanni in Persiceto, 01/IV/2001