Appunti (molto) sparsi sulla Pasqua

In attesa di riordino

Tanto per cambiare, questa è una pagina 'in divenire' con gli appunti e le riflessioni suscitate dalla partecipazione ai riti delle Settimane Sante 2001-2003... avrei già dovuto spezzettarla e inserirla ordinatamente all'interno del progetto SettimanaSanta attraverso la liturgia ma come sempre rimando alla prossima Pasqua! Il desiderio di condivisione mi spinge a presentarla comunque nella speranza di suscitare qualche parere o commento con cui integrarla, e magari stimolare un po' di curiosità.
Ne approfitto per ringraziare coloro che, facendomi notare delle cose che mi erano sfuggite o chiedendone altre a cui non sapevo rispondere, hanno stimolato molti dei seguenti approfondimenti: ognuno di essi potrà facilmente riconoscere il proprio contributo!

Ancora sull'esegesi liturgica

Vedi anche >>Raccontare una Storia

A volte la ciclicità della liturgia provoca il perpetuarsi di luoghi comuni invece di aiutarci a trarre ogni anno 'dal suo tesoro cose nuove e cose antiche' [Matteo 13,52]. Non a caso Gesù aveva appena chiesto 'Avete capito tutte queste cose?'. La domanda è una delle forme preferite da Gesù per dialogare con i suoi interlocutori e per richiamarli a guardare oltre l'apparenza delle cose di questo mondo [Matteo 18,12 e 21,28 'Che ve ne pare?' significativamente posto in apertura di una parabola; Matteo 22,42; Luca 10,36; Matteo 16,8ss]. Uno dei momenti più belli della cena pasquale ebraica è quello in cui, all'inizio del Magghid, un bambino rivolge al capofamiglia la quadruplice domanda 'Perché è diversa questa notte da tutte le altre?' (ebr. מַה נִּשְׁתַּנָּה 'ma nishtanà'). Per inciso, l'Exultet della veglia pasquale è in pratica la risposta cristiana a questa domanda. 'Mà nishtanà': questa è la domanda che mi sono posto mentre vivevo le straordinarie liturgie del triduo pasquale, cercando di parteciparvi con la curiosità, la freschezza e la semplicità dei bambini [Luca 10,21].

Esercizio: prova a seguire con attenzione e concentrazione di volta in volta una parte specifica della messa. Lasciati provocare e stimolare da ogni gesto che non capisci, da ogni parola di cui non cogli il nesso con il resto del contesto. Alcune indicazioni:

Giovedì santo

Se io chiedessi 'qual'è il tema centrale della celebrazione vespertina di giovedì santo?', penso che molti risponderebbero qualcosa a scelta fra: l'istituzione dell'Eucarestia, l'istituzione del sacerdozio, la rievocazione dell'ultima cena, la lavanda dei piedi, la carità fraterna. Tutto vero, ma la liturgia, essendo per natura un atto pubblico rivolto a tutti i fedeli, si preoccupa soprattutto di mettere in relazione tutto questo con il nostro vissuto quotidiano: nella liturgia possiamo trovare anche la risposta alla domanda 'ma a me, di tutto questo, cosa importa? cosa incide sulla mia vita?'. Proviamo allora a rispondere alla domanda iniziale senza usare una risposta preconfezionata ma cercando di farci guidare dalla liturgia. Abbozzo semplicemente un percorso sul quale bisognerà camminare ancora parecchio!

Ecco qualche indizio:

Secondo me, la liturgia mette al centro, in una sola parola un po' imprecisa, il memoriale di Gesù. Purtroppo non trovo in italiano la parola giusta per esprimere il concetto dell'aramaico דוּכרָן dukran [Payne Smith J., A Compendious Syriac Dictionary pag. 92; corrispondente all'ebraico זִכָּרוֹן zikkaron di Esodo 12,14; vedi anche 7 pagg. 140ss] che la Peshitta, versione aramaica del nuovo testamento, usa in corrispondenza del greco αναμνησις ἀνάμνησις anàmnesis 'memoriale' nelle parole tradotte dalla CEI 'fate questo in memoria di me' [Luca 22,19]. Sostanzialmente è il fare in memoria e, ancora meglio, sull'esempio di Gesù. Cito Pia Compagnoni: "L'espressione ebraica «in mia אַזכָּרָה azkarah» [NdR: vedi BDB pag. 272; sostantivo derivato (se non sbaglio) dalla forma hifil (causativa: 'far ricordare') del verbo זכר zkr 'ricordare' (BDB pag. 270); usato in Levitico (ad esempio Levitico 2,2) e Numeri] è molto più forte. Significa lasciare il segno, l'impronta, il sigillo [NdR: ovvero l'autorizzazione] e si potrebbe tradurre: «per essere presente». P. Xavier Leon-Dufour [...] collega il «memoriale» con il zikkaron ebraico: mette in rilievo la memoria del passato, ma proietta nel futuro «fino a quando egli verrà» (1Corinzi 11,26)" [6 pag. 59].

Che differenza c'è fra 'memoria' e 'memoriale' (non tanto in italiano, quanto in ebraico)? Giro la domanda: che differenza c'è (se c'è) fra la celebrazione vespertina del giovedì santo e la festa della liberazione? Alcuni suggerimenti: innanzitutto sono ambedue delle rievocazioni, cioè il ricordo di un evento particolare; non solo, gli effetti di questo evento sono validi tuttora (l'Italia è uno stato libero e indipendente). Allora qual'è la differenza ('mà nishtanà?')?

Non importa tanto ricordare che Gesù ha istituito l'Eucarestia: per il credente si tratta di un evento storico, di un dato ormai acquisito. Importa capire quali sono oggi e per noi gli effetti di questo evento e, quindi, riviverlo oggi. E' una grande gioia per me pensare che, nel momento stesso in cui ogni giorno il sacerdote si prepara ad alzare il calice e ripete le parole di Gesù 'fate questo in memoria di me', proprio in quel momento noi adempiamo al comando di Gesù che oggi si rende presente in mezzo a noi. Rivivere, rifare, rendere di nuovo presente, riattualizzare: non una semplice memoria ma qualcosa che acquista oggi nuovo valore a seconda delle persone che lo fanno, dell'ambiente, delle circostanze e della propria storia personale (ad esempio, l'anno scorso ero disoccupato, quest'anno ho trovato lavoro: ho prospettive, speranze e preghiere diverse). La salvezza universale si è realizzata con la risurrezione di Gesù, la salvezza personale (resa possibile da quella universale) avviene in me oggi che vivo giorno per giorno la morte e risurrezione di Gesù nell'Eucarestia e nella mia vita. Gesù non mi ha salvato nel passato quando non ero ancora nato! Solo per questo varrebbe la pena di esser cristiani. Concludo ricollegandomi al Magghid che, sul finire, ricorda ai commensali:

Generazione dopo generazione, spetta ad ogni uomo considerare se stesso come uno che è uscito dall'Egitto, secondo quanto sta scritto: "In quel giorno tu istruirai tuo figlio: E' a causa di quanto ha fatto il Signore per me, quando sono uscito dall'Egitto". Poiché il Santo, benedetto sia il suo Nome, non solo riscattò i nostri padri, ma anche noi con loro. [da 12 pag. 96; testo più letterale in 3 pagg. 84s]

Veglia pasquale

Riprendo il discorso avviato in >>Dopo la Pasqua

Chi riesce a seguire con attenzione la Veglia pasquale non può fare a meno di notare come si parli più del battesimo e dei battezzati come nuovo popolo di Dio che della risurrezione di Gesù.

Alcune suggestioni che richiamano l'acqua e il battesimo: [Baruc 3,12, sesta lettura] 'tu hai abbandonato la fonte della sapienza'; [Isaia 55,1, quinta lettura] 'O voi tutti assetati, venite all'acqua'; [ritornello del cantico dopo la quinta lettura; confronta anche l'orazione] 'Attingeremo con gioia alle sorgenti della salvezza'; [ritornello del salmo dopo la settima lettura] 'Ha sete di te, Signore, l'anima mia'.
Il diluvio che prefigura il battesimo: [Isaia 54,9, quarta lettura] 'Ora è per me come ai giorni di Noè'; vedi soprattutto 1Pietro 3,21.
La sepoltura di Gesù come figura del battesimo: se l'orazione dei vespri di sabato santo ('O Dio eterno e onnipotente, che ci concedi di celebrare il mistero del Figlio tuo Unigenito, disceso nelle viscere della terra, fà che sepolti con lui nel battesimo, risorgiamo con lui nella gloria della risurrezione') ha incuriosito anche voi, date un'occhiata soprattutto all'epistola [Romani 6,3-11; in particolare BJ nota a Romani 6,4] e Colossesi 2,12.

Le letture dalla quarta alla settima più che riportare avvenimenti specifici della storia della salvezza (come le prime tre) mostrano un Dio sempre alla ricerca del suo popolo, sempre pronto a venire incontro [Isaia 55,6, quinta lettura], a perdonare e a riprovare ricominciando da capo [Isaia 54,6, quarta lettura: come in una storia d'amore (la sposa è la città santa di Gerusalemme, poi la Chiesa); Ezechiele 36,16-28, settima lettura], supplicando il suo popolo di ascoltarlo [Isaia 55,3, quinta lettura; Baruc 3,9 e 4,2, sesta lettura] così da poterlo salvare.

Alcune suggestioni sull'adesione al popolo di Dio e Dio che cerca il suo popolo: [Baruc 3,34-35, sesta lettura] 'Le stelle brillano dalle loro vedette e gioiscono; egli le chiama e rispondono: «Eccoci [come Abramo nella terza lettura]!» e brillano di gioia per colui che le ha create' desiderose di essere a disposizione del proprio creatore; [Baruc 4,3-4] '[Giacobbe cioè il popolo di Israele] non dare ad altri la tua gloria, nè i tuoi privilegi a gente straniera. Beati noi, o Israele, perché ciò che piace a Dio ci è stato rivelato'; [orazione alla sesta lettura] 'O Dio, che accresci sempre la tua Chiesa chiamando nuovi figli da tutte le genti, custodisci nella tua protezione coloro che fai rinascere dall'acqua del battesimo' e [orazione alla quarta lettura] 'O Dio, [...] aumenta il numero dei tuoi figli'; [Ezechiele 36,28, settima lettura] 'voi sarete il mio popolo'.

Ciò non toglie che quelle stesse letture siano state scritte in situazioni particolarmente significative della storia di Israele. Per questa indagine bisogna inserire le singole letture in un contesto più ampio. Ad esempio, la quarta e la quinta (che sono quasi consequenziali: vengono omessi solo 3 versetti) sono la parte conclusiva del cosidetto deuteroisaia (secondo Isaia), cioè il profeta che annunciava agli Ebrei esiliati a Babilonia l'avvicinarsi del ritorno in patria. Il suo operato è collocato infatti verso il 550 a.C., quando c'era sentore dell'imminente conquista (realizzatasi poi nel 539 a.C.) del persiano Ciro.

Partecipazione e attenzione dei fedeli nella Veglia Pasquale

Nella veglia pasquale la dinamica degli atteggiamenti da tenere (seduti, in piedi) e degli spostamenti (dal fuoco esterno al fonte battesimale), l'alternarsi delle parti fra celebrante, lettore, coro e assemblea, i gesti compiuti dall'assemblea (le candele) o sull'assemblea (l'aspersione al termine della liturgia battesimale) sono estremamente funzionali a mantener viva l'attenzione dei fedeli nonostante la tarda ora e la lunga durata. Prendiamo ad esempio la liturgia della parola: alla proclamazione di ciascuna lettura il popolo risponde attivamente cantando il ritornello del salmo, quindi si alza brevemente in piedi per l'orazione per poi tornare seduto ad ascoltare con rinnovata attenzione la lettura successiva.

Le letture della sacra Scrittura [...] descrivono gli avvenimenti culminanti della storia della salvezza [NdR: questa è una semplificazione in quanto non tutte le letture riguardano avvenimenti specifici], che i fedeli devono poter serenamente meditare nel loro animo attraverso il canto del salmo responsoriale, il silenzio e l'orazione del celebrante [8; da Preparazione e celebrazione delle feste pasquali 85]
Il significato tipologico dei testi dell'Antico Testamento si fonda nel Nuovo, e si rende manifesto con l'orazione pronunciata dal sacerdote celebrante dopo le singole letture; gioverà anche introdurre i fedeli, con una breve monizione, a comprenderne il significato. [...] Dopo la lettura segue il canto del salmo con la risposta data dal popolo [NdR: non a caso si chiama salmo responsoriale dal verbo 'rispondere']. In questo ripetersi delle parti si conservi un ritmo, che possa favorire la partecipazione e la devozione dei fedeli. [8; da Preparazione e celebrazione delle feste pasquali 86]

La fretta pasquale, il lievito vecchio e il tabernacolo vuoto

Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. E' la Pasqua [cioè 'il passaggio'] del Signore! [Esodo 12,11, prima lettura di giovedì santo]

Il Magghid della cena pasquale ebraica si apre recitando la frase 'precipitosamente uscimmo dall'Egitto' (ebr. בִּבְהִילוּ יָצָאנוּ מִמִּצְרָיִם 'bivhìllu yatzànu mimmitzràyim'). La cena dell'Esodo è infatti una cena raffazzonata, fatta con 'i fianchi cinti' (cioè con i lembi della veste tirati su e infilati nella cintura per non intralciare il movimento delle gambe), pronti a partire per un lungo viaggio. Il pane non ebbe tempo di lievitare e si mangiò pane azzimo (dal greco α-ζυμη ἀ-ζύμηa-zume 'senza-lievito').

Hametz [12 pagg. 45-47 con varie omissioni; vedi anche 3 pag. 12]
La parola חָמֵץ hametz è usata per designare il pane fatto con il lievito (ossia, il pane che si mangia abitualmente), in opposizione a מַצָּה matzah, nome del pane non fermentato o pane azzimo. La proibizione di mangiare e conservare hametz durante Pesah è un precetto che troviamo nella Torah: 'Nel primo mese, il giorno 14 del mese, alla sera, voi mangerete azzimi fino al 21 del mese, alla sera. Per sette giorni non si troverà lievito nelle vostre case, perché chiunque mangerà del lievito, sarà eliminato dalla comunità di Israele, forestiero o nativo del paese' [Esodo 12,18-19]. Perché si proibisce il pane fermentato? Cos'è hametz?
Nel sistema sacrificale del tempio, l'immolazione degli animali era accompagnata, nella maggioranza dei casi da oblazioni o riti complementari consistenti nella libagione di vino, נֶסֶך nesek, e in un'offerta vegetale, מִנְחָה minhà (una torta fatta di fior di farina impastata con olio). Dato che il lievito cambia il carattere naturale dell'oblazione -o, il che è lo stesso, la profana- tutte le offerte dovevano essere assolutamente pure; il fermentato (e la farina, se si inumidisce può fermentare) era considerato impuro, poiché risultava acido e hametz significa 'acido'.
Hametz e matzah sono lavorati con la stessa farina e con la stessa acqua e sono anche cotti nello stesso forno, ma esiste tra essi una minima differenza che li separa: il riposo. Hametz deve riposare. Dicono i cabalisti che, come la pasta si gonfia di aria e cresce e prende il sapore acido del fermento, anche l'uomo si gonfia di vuota vanità e adotta l'atteggiamento acido dello sciocco. Più appetitoso e gradevole della matzah, il hametz rappresenta l'istinto cattivo [NdR: nel nuovo testamento oltre al lievito dei farisei e sadducei (Matteo 16,5-12) c'è comunque anche un lievito buono: il regno dei cieli (Matteo 13,33 e paralleli)].
Tutti i saggi di Israele che hanno commentato gli avvenimenti dell'esodo concordano nel mettere in rilievo l'importanza della fretta nell'uscita dall'Egitto [NdR: che significato ha questa fretta pasquale per i cristiani?]; fu infatti a causa della fretta che il pane non ebbe il tempo di lievitare poiché, dice uno dei commentatori, "se la pasta avesse lievitato, i nostri padri sarebbero stati sommersi dall'impurità dell'Egitto e il Signore non avrebbe potuto riscattarli". E perché la fretta? Perché era Pesah del Signore. Dio passava, e il passaggio di Dio mette sempre in movimento [NdR: dopo la risurrezione, Maria la Maddalena corre da Pietro; Pietro e Giovanni corrono insieme al sepolcro (Giovanni 20,2.4, dal vangelo di Pasqua)], provoca una tensione creatrice e apre vie di vita e speranza. Pesah, il passaggio del Signore, è la dinamica dell'eternità che entra nel tempo perché ogni cosa recuperi il suo senso; specialmente l'uomo che, già da Adamo, fu libero di rompere con Dio. Per questo, sullo sfondo della proibizione di hametz appare l'alleanza, perché attraverso essa Dio riscatta l'uomo (tanto individualmente quanto collettivamente) come sua proprietà.

Che questo discorso sia valido anche per i cristiani ce lo dice chiaramente san Paolo:

6bnon sapete che un po' di lievito fa fermentare tutta la pasta? 7Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi.
Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!
8Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, nè con lievito di malizia e perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità. [1Corinzi 5,6b-8, seconda lettura alternativa della domenica di Pasqua; attenzione al contesto della lettera, comunque!]

Il lievito infatti stabilisce una continuità tra il pane di oggi e quello di ieri, perché il lievito naturale è preso dalla pasta fermentata del giorno precedente. Il pane azzimo segna un nuovo inizio! [7 pag. 32]

La scoperta del pane lievitato [...] Il pane lievitato è forse nato quando ci si accorse che la farina e l'acqua o il latte mescolati insieme e dimenticati per delle ore inacidivano e "crescevano" (fermentavano) acquistando una consistenza morbida, ma poiché la farina era costosa non la si buttò via, ma la si rimpastò, scoprendo poi con meraviglia e soddisfazione che il suo pane era migliore e più leggero di quello che si era sempre fatto.
La fermentazione è un processo dovuto all'attività di enzimi prodotti da microorganismi costanti nella pasta acida, che provocano la formazione di gas. Le bollicine di gas rendono la pasta più elastica e ovviamente più leggera e più facile da masticare.
Ripensando a quello che era avvenuto, questo antico "panettiere" probabilmente comprese che il sistema migliore per fare il pane lievitato era di conservare un pezzetto della pasta acida, che quando serviva veniva unito a farina e acqua, lasciando poi l'impasto a lievitare per alcune ore, in modo che i fermenti agissero. [...] [9 pag. 77; ricetta a pag. 79]

Poco prima dell'inizio della messa vespertina di giovedì santo, un ministrante (Francesco, non a caso uno dei più piccoli) mi prendeva alla sprovvista chiedendomi 'perché il tabernacolo è vuoto?' ('mà nishtanà?'!). Infatti non si fa la genuflessione entrando in chiesa e lo sportello del tabernacolo è lasciato volutamente spalancato. Sono andato a vedere cosa diceva il messale: purtroppo il messale prescrive spesso ma motiva molto poco! Premesso che la domanda andrebbe inquadrata in un discorso generale sulla custodia eucaristica nel triduo (ad esempio: perché le ostie consacrate giovedì non sono tenute nel tabernacolo?), mi sono venute in mente alcune possibili suggestioni.

Innanzitutto c'è il piano della rievocazione storica dell'istituzione dell'eucarestia: non può esserci pane consacrato se Gesù doveva ancora consacrarlo! Poi non dimentichiamo che la festa di Pasqua era una festa agricola (almeno per metà, l'altra metà era pastorale e prevedeva l'immolazione a scopo propiziatorio di un agnello giovane -che non ne muoiano altri!- prima di partire con le greggi dopo la pausa invernale) [7 pag. 32]: alla vigilia del nuovo raccolto di grano (che in Palestina coincideva con la primavera essendo più mite l'inverno), quando i granai con le provviste dell'anno precedente (ormai marcite) erano quasi vuoti, si ringraziava il Signore offrendogli il primo pane preparato con la primizia della farina.

La ricerca del hamètz Poiché la Mishnà prescrive che si realizzi una ricerca cerimoniale, c'è l'uso che la padrona di casa collochi piccoli pezzi di pane in diversi posti della casa per avere la certezza di trovare hametz, poiché la benedizione con la quale inizia il rito non può essere formulata invano. Si distribuiscono di solito dieci pezzi, che rappresentano il concetto cabalistico delle sefirot (manifestazioni di Dio), e si collocano in luoghi precedentemente stabiliti e conosciuti dal capofamiglia, per evitare di dimenticarne qualcuno.
Nella notte del 14 nisan [la notte prima di Pesah] si spengono tutte le luci della casa e il capofamiglia, accompagnato dai figli [si noti che i bambini hanno sempre uno specifico ruolo cerimoniale nei riti degli Ebrei], accende una candela e, alla sua luce, inizia la bedikàt ['ricerca']. [12 pag. 48]

La testimonianza delle pie donne

I capitoli III e IV di Messori, Dicono che è risorto [11] sottolineano il ruolo delle donne sotto la croce e poi al sepolcro. L'annuncio della risurrezione viene portato dalle donne, ovvero da testimoni non validi secondo la mentalità ebraica. Questo fatto crea un certo imbarazzo agli evangelisti, che furono costretti a riportarlo in quanto innegabilmente vero! San Paolo, ignorando i vangeli che erano ancora in fase di formazione e non essendo stato presente, dice semplicemente che Gesù 'apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta' [vedi 1Corinzi 15,3-8]. San Paolo ricorre ad uno scontato ordine gerarchico e all'uso del maschile 'fratelli', ben lontano dal meno prevedibile ma reale svolgimento dei fatti.

I calici

Se ci pensate bene, frasi come 'Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore' [Salmo 116,13 di giovedì santo] o 'il Signore è mia parte di eredità e mio calice' [Salmi 16,5, dopo la seconda lettura della veglia] si capiscono solo alla luce di Gesù nell'ultima cena ma non in se stesse. Non è che ci sfugge qualcosa che vale la pena recuperare? In greco questo 'calice' è ποτηριον ποτήριον potèrion e, prima sorpresa, in Matteo 10,42 è un poterion anche il bicchiere d'acqua fresca dato ad uno dei piccoli. Quindi, come ricorda anche il film 'Indiana Jones e l'ultima crociata', il calice era da un punto di vista funzionale un semplice bicchiere. Probabilmente si poteva tradurre semplicemente come 'tazza', al massimo 'coppa' ('calice' in italiano deriva da lat. calix e gr. kylix; solo oggi implica un oggetto di lusso... forse in conseguenza dei preziosi calici usati nella liturgia???).

In ebraico 'calice' è כּוֹס kôs. Ecco la lista di tutte le occorrenze (forse a volte è tradotto con 'coppa') copiata direttamente da Bibleworks: Genesi 40,11 / 40,13 / 40,21; 2Samuele 12,3 / 1Re 7,26 / 2Cronache 4,5 / Salmi 11,6 / 16,5 / 23,5 / 75,9 / 116,13; Proverbi 23,31; Isaia 51,17 / 51,22; Geremia 16,7 / 25,15 / 25,17 / 25,28 / 35,5 / 49,12 / 51,7; Lamentazioni 4,21; Ezechiele 23,31 / 23,32 / 23,33; Abacuc 2,16. Vediamone qualcuna [da una mia nota del 02/IV/1997]: [2Samuele 12,3] 'bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno' indica dipendenza da qualcuno per il proprio sostentamento [Gillièron Bernard, Lessico dei termini biblici (ed. Elle Di Ci, £ 22'000) pag. 56]; [Salmo 23,5] 'il mio calice trabocca'; [Isaia 51,17] 'Svegliati, svegliati, alzati, Gerusalemme, che hai bevuto dalla mano del Signore il calice [ebr. kôs] della sua ira; la coppa [ebr. kôs; i traduttori CEI non hanno tollerato la ripetizione] della vertigine hai bevuto, l'hai vuotata'; [Isaia 51,22] 'Ecco io ti tolgo di mano il calice della vertigine, la coppa della mia ira; tu non lo berrai più. Lo metterò in mano ai tuoi torturatori'; [Geremia 49,12] 'Ecco, coloro che non erano obbligati a bere il calice lo devono bere e tu pretendi di rimanere impunito?'; [Salmo 11,6] 'vento bruciante toccherà loro in sorte', letteralmente 'vento [=spirito, ebr. ruah] (è) la sorte del loro calice'. A questo punto mi fermo: mi sembra ci sia un 'calice che tocca in sorte' (che può essere 'il calice dell'ira') che diventa metafora del destino e dell'esistenza di una persona o di un popolo. Non ho trovato commenti su questo tema e le note di BJ e TOB mi sembrano particolarmente elusive. Il 'calice dell'ira' sarà colmo di vino puro (nell'antichità si beveva sempre annacquato) che dà la vertigine (l'ubriacatura, vedi Noè dopo il diluvio [Genesi 9,20ss]).

Ci sono poi altri 'calici': il 'calice della salvezza' [Salmo 116,13] è una coppa di ringraziamento (come Gesù nell'ultima cena); il 'calice di consolazione' [Geremia 16,7] si riferisce al costume del pasto funebre in onore di un genitore defunto [confronta se vuoi anche Proverbi 31,6]; il 'calice della benedizione' [1Corinzi 10,16] è opposto a quello dei 'demòni' [1Corinzi 10,21]; in Apocalisse 17,4 una donna 'teneva in mano una coppa (gr. poterion) d'oro, colma degli abomini e delle immondezze della sua prostituzione. [da Easton's Bible Dictionary]

Galilea delle genti

La sera di lunedì dopo Pasqua, Fulvio Mariani faceva notare ad Andrea Fiorini il significato spirituale di Galilea [Matteo 28,10, il vangelo del giorno]. Terra di deportazioni e deportati (in particolare ad opera degli Assiri [2Re 15,29 nel 732 a.C.]; quindi con una popolazione mista) ancora più a nord della Samaria (al confine con genti non ebree), per un Giudeo di Gerusalemme corrispondeva ad un territorio praticamente pagano. Non a caso Matteo 4,15 riporta che Gesù si ritirò a Cafarnao (sulla riva nord del lago di Tiberiade) perché si adempisse quanto fu annunciato dal profeta Isaia (Isaia 8,23—9,1 ma con significative variazioni):

Terra di Zabulon e terra di Nèftali [le due tribù di Israele derivate dagli omonimi figli di Giacobbe/Israele], sulla via del mare, al di là del Giordano, Galilea delle genti [gr. ethne, lat. gentes 'le genti, le nazioni' in senso di separazione rispetto al popolo ebreo, quindi etimologicamente 'i gentili' che, proprio per questo motivo, vale per 'i pagani']!

Il disprezzo per la Galilea si coglie anche in Giovanni 7,41 ('Il Cristo [cioè il Messia] viene forse dalla Galilea?') e 7,52 ('Studia [investiga a fondo] e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea'). Ritornando a Fulvio, Gesù risorto non va cercato a Gerusalemme, nella città santa, ma in Galilea, ovvero in una terra piena di compromessi, a contatto con l'umanità più povera, in una parola nel mondo con tutte le sue contraddizioni.

(3/IV/2003) Matteo 28,7 ripreso in Matteo 28,10; Marco 16,7; Luca 24,6 fa riferimento a prima, quando era ancora in galilea

Dalle liturgie della parola...

Veglia pasquale
Domenica di Pasqua
Lunedì dopo Pasqua
Giovedì nell'ottava di Pasqua
Domenica dopo Pasqua

La sequenza pasquale

Il Victimae paschali laudes ('i Cristiani immolino [ovvero innalzino] lodi alla vittima pasquale' se non sbaglio) viene attribuito a Wipo (circa 990-1050 d.C.), cappellano di corte degli imperatori tedeschi Corrado II e Enrico III. E' composto di otto strofe con assonanze e rime. [...] La prima parte è una esortazione a lodare l'Agnello pasquale; la seconda è un dialogo tra gli apostoli e Maria Maddalena; la sequenza termina con un grido di giubilo e di gioia per la risurrezione di Cristo e con una preghiera di misericordia rivolta al Signore risorto. [10 pag. 245]

Le sequenze sono un fenomeno tipicamente medioevale [10 pag. 240]. Oggi, delle tante, ne sono rimaste in uso solo quattro: Victimae paschali laudes per Pasqua, Veni Sancte Spiritus per Pentecoste, Lauda Sion per il Corpus Domini e Stabat Mater per l'Addolorata. Solo quelle di Pasqua e Pentecoste sono prescritte, le altre sono facoltative come facoltativa è la sequenza pasquale nell'ottava di Pasqua [10 pag. 244; Principi e Norme del Messale Romano 40].

Chi deve cantare la sequenza? I Principi e Norme del Messale Romano non danno grandi indicazioni: della sequenza si parla nel paragrafo 'I canti tra le letture' e si può pensare che valga quanto detto più esplicitamente per il salmo responsoriale. Don Giovanni Bonfiglioli sostiene che la sequenza spetta particolarmente al celebrante o ad una parte del coro, richiamandosi alle norme del graduale romano (se non ricordo male; il graduale è il libro che raccoglie le melodie per le varie parti della messa). E' indubbio che la sequenza vada preferibilmente cantata, anche se, sottolinea don Giovanni, è praticamente impossibile che l'assemblea possa cantarla, essendo eseguita una sola volta all'anno.

Dai gesti e dai segni

La croce con il ramo di ulivo

Il crocefisso viene ornato con un ramo di ulivo perché il messale (Messale, Domenica delle Palme n. 10) prescrive "la croce ornata a festa". Il patibolo su cui morì Gesù viene quindi visto già nell'ottica della salvezza che attraverso di esso discenderà sugli uomini, in sintonia con il tono della celebrazione odierna (si ricordi che Osanna significa "Dona la salvezza").

La processione è parte della messa?

Lorenzo Ravasini, all'interno di una lettera molto gentile (8/III/2002), mi scrive:

Per ora, se mi permetti, ti faccio notare una questione del tutto marginale riguardo la liturgia delle Palme.
Credo che sia più corretto affermare che la Messa quella domenica "comincia con la processione" piuttosto che dire che la messa "è preceduta dalla processione".
Si tratta infatti di una celebrazione unica e unitaria. Tant'è, ad esempio, che l'atto penitenziale è assorbito dalla processione e dopo l'arrivo della processione medesima non ci sono parole o gesti di inizio ma semplicemente di continuazione, sia pure su altro registro, della azione liturgica.

Concordo pienamente con Lorenzo, tuttavia il messale (Messale romano, Domenica delle Palme n. 1) si esprime così:

[...] in tutte le Messe si fa la memoria di questo ingresso del Signore: con la processione o con l'ingresso solenne prima della Messa principale, oppure con l'ingresso semplice prima delle altre Messe

Per quel che riguarda i riti di introduzione (idem, n. 12) si prescrive di "tralasciarli". Evidentemente non c'è bisogno di introdurre ulteriormente i fedeli nel clima della celebrazione liturgica.

La reposizione dell'eucarestia, la spogliazione dell'altare, le croci velate e la chiesa spoglia

Per quel che riguarda il passaggio fra giovedì e venerdì santo (ogni celebrazione del triduo comincia dove era rimasta l'altra) sono giunto a queste conclusioni empiriche, visto che tutti i miei libri sono elusivi o superficiali sull'argomento.

I segni insistono nel formare un quadro unitario da prospettive complementari ma diverse e la loro potenza simbolica può essere colta appieno distinguendo almeno quattro segni con diverse sfumature di significato

La chiesa spoglia venerdì Non ho guardato se il messale prevede esplicitamente questa sobrietà. Ad ogni modo, velare o rimuovere dalla chiesa gli arredi sfarzosi concorre efficacemente nell'esprimere il lutto per la morte di Gesù, soprattutto in chiese sovrabbondanti come quelle in stile barocco. Leggo in quest'ottica la prescrizione "non possono accendersi le luci davanti alle immagini dei santi" [PCFP 57] e la possibilità di coprire le immagini in chiesa dalla domenica V di quaresima fino alla veglia pasquale [PCFP 26]. Uscendo dalla prospettiva della rievocazione storica (ha senso essere in lutto per uno che sappiamo essere risorto?!), tutto questo concorre nel concentrare l'attenzione dei fedeli sull'elemento essenziale della liturgia.

La rimozione delle croci o il velarle Credo che questo segno sia ben distinto dal precedente e che possa addirittura scindersi in due aspetti: la croce deve essere una per non duplicare i simboli, poi deve essere velata per simboleggiare il mistero della morte del Cristo. Durante l'azione liturgica del venerdì una croce verrà quindi simbolicamente svelata davanti all'assemblea riunita. Ma è davvero così? L'ostensione consiste nel mostrare il legno ('ecce lignum...'), quindi più che il mistero della morte è il mistero della salvezza ('...salus mundi'), anche se in fondo è la stessa cosa: dover morire per salvare e salvare attraverso la morte. Bisognerebbe però capire perché le croci possano essere velate già dal sabato della V domenica di Quaresima [PCFP 26 e 57].

Il tabernacolo vuoto, la cui valenza simbolica si scinde ulteriormente in:

  1. prima della messa vespertina di giovedì santo è vuoto in relazione al discorso del pane nuovo e della rievocazione storica dell'ultima cena che inizia poco dopo;
  2. dopo la messa non mi è ancora chiaro perché il Santissimo non possa rimanere in chiesa.

Diciamo che, nell'apice verso cui punta tutta la quaresima, la Chiesa rinuncia anche al pane consacrato, si impegna cioè nell'estremo segno di rinunzia e penitenza rappresentato dal digiuno eucaristico. Questo digiuno è stato poi per così dire interrotto nel 1955 quando Pio XII introdusse la comunione nella funzione vespertina del venerdì santo. Comunque rimane il fatto che la Chiesa rinuncia a consacrare il pane fino alla veglia pasquale. Il pane già consacrato viene dunque allontanato dalla chiesa (edificio), che viene privato quindi della presenza reale di Gesù. Se l'adorazione prolunga la meditazione sull'istituzione dell'eucarestia celebrata nella messa e corrisponde grosso modo ai discepoli che dovrebbero vegliare nell'orto degli ulivi*, la reposizione nasce come solenizzazione di un'esigenza pratica quotidiana [Bergamini]: mettere da parte le ostie rimaste. Il punto quindi è capire dove la chiesa prescriveva e prescrive oggi di conservarle, in chiesa o in una cappella separata [vedi Ratzinger, Lo spirito della liturgia sulla separazione tra tabernacolo e altare]. Se il tabernacolo è già situato in una cappella separata, la reposizione del giovedì può essere fatta tranquillamente lì [PCFP 49]. Mi sembra di capire che prima deve essere vuoto, dopo può essere pieno se non è situato in chiesa: le motivazioni sono quindi differenti.
* Il direttorio su pietà popolare e liturgia [n. 141, vedi Bergamini p. 251; anche PCFP 55] insiste sul fatto che il luogo della reposizione non è il sepolcro. Come si sia diffusa questa denominazione erronea non è stato ancora chiarito [idem].

La prescrizione "dopo la mezzanotte si faccia l'adorazione senza solennità, dal momento che ha già avuto inizio il giorno della passione del Signore" [Messale romano, Giovedì santo n. 21; PCFP 56] mi sembra un po' esagerata: mi sembra che non ci sia uno spartiacque temporale così netto fra un giorno e l'altro, anche volendo fare una rievocazione storica fiscale. Ad ogni modo provoca questa domanda, se sia bene lasciare accessibile ai fedeli il luogo della reposizione nella giornata di venerdì in quanto il posto occupato giovedì dall'eucarestia è preso venerdì dalla croce, ben sapendo che la prima è la concretizzazione oggi (il memoriale) del sacrificio avvenuto 2000 anni fa sulla seconda. Il Santissimo è conservato solo funzionalmente alla comunione eucaristica della funzione vespertina; altrimenti (forse prima del 1955) non ci sarebbe stato neppure bisogno di conservarlo: poteva essere consumato tutto per dare un nuovo inizio con la veglia pasquale (questa probabilmente però è fanta-liturgia!).

Il Santissimo non può essere neppure esposto ovvero mostrato [PCFP 55]. Mi sembra che questa prescrizione sia da inquadrare nell'ambito di un digiuno eucaristico anche visivo.

Segno di lutto e conformità alla rievocazione storica, solennizzazione di un gesto funzionale, digiuno eucaristico, invito all'essenzialità e a volgere l'attenzione solo alla croce: questi elementi coesistono, ma mi sembra che proprio quest'ultima sia la funzione principale della reposizione. Non si vuole duplicare Gesù pane e Gesù crocifisso anche se sono sempre Gesù eucarestia. Se Gesù è in croce non può essere nel pane o morto nel sepolcro... prevale quindi il piano della rievocazione storica, come i discepoli furono privati di Gesù, dello sposo per usare lo stesso linguaggio figurato di Gesù, in quelle ore? Direi piuttosto che c'è una dialettica fra il sacrificio cruento e il suo memoriale e che se ne vuole sottolineare prima un aspetto poi l'altro. Da una parte abbiamo la suddivisione delle ostie e dall'altra l'irripetibilità della crocifissione (come dice san Paolo: "in virtù del proprio sangue è entrato nel santuario una volta per tutte" [IEP: Ebrei 9,11-12]). Diciamo quindi che nell'eucarestia l'unico pane è spezzato per tutti come il sacrificio storicamente unico di Gesù in croce ha salvato tutti. Gesù non ha detto "fate questo in memoria di me" sulla croce ma nell'ultima cena (ordine recepito attraverso la liturgia che abbiamo ricevuto dalla chiesa e dai nostri padri). Il suo sacrificio sulla croce è irripetibile o meglio è ripetibile proprio nell'eucarestia.

Del resto il tabernacolo rappresenta la tenda (anche etimologicamente) della presenza del Signore dell'esodo (come ricorda anche il conopeo, il velo o tenda posto davanti al tabernacolo con il colore liturgico appropriato) e lasciarlo visibilmente vuoto (credo sia importante lasciare lo sportello ben aperto) è un gesto di grande valenza simbolica: è un'assenza molto significativa (tra parentesi, si ricordi che il tabernacolo deve essere uno solo in ogni chiesa per non duplicare la presenza dell'unico Signore).

Concluderei quindi questo eccessivo tentativo di razionalizzazione stabilendo punti provvisori: l'adorazione prolunga la meditazione sul mistero dell'ultima cena (sul valore complementare alla messa del culto eucaristico vedi quest'ultimo nel Dizionario Sintetico) e volendo corrisponde alla veglia di Gesù nel Getsemani assieme ai suoi discepoli; venerdì Gesù si fa trovare sulla croce e la chiesa si priva anche della presenza reale di Gesù per focalizzarsi su di essa e corrisponde a Gesù sottratto ai suoi discepoli e ucciso sulla croce. Forse non a caso venerdì la croce terminata l'azione liturgica rimane esposta con quattro candele, come quando si espone il santissimo.

La spogliazione dell'altare! Si noti il singolare, utilizzato nel messale e nei documenti (Messale romano, Giovedì santo n. 19; anche se il 'promemoria del sacrista' usa il plurale)! Quindi l'attenzione è sull'altare. E' una confusione nostra che abbiamo tanti altari... da un certo punto di vista mi viene da pensare che gli altri altari secondari dovrebbero essere stati spogliati già da prima in segno di sobrietà... mi sembra un esempio lampante di come la moltiplicazione del simbolo abbia danneggiato la sua comprensione (penso a Emanuele di Amadio che stamane proponeva due croci da baciare in caso di troppa gente!!). Andrebbe anche chiarito l'aspetto pubblico o più riservato ai ministri di questo rito, come pure della precedente reposizione. La spogliazione segna il passaggio dall'eucarestia banchetto (la cena) all'eucarestia sacrificio (la croce che realizza e fa seguito alla promessa/prefigurazione di Gesù nella cena), la cui distinzione a formare un unico insieme inscindibile è ben rappresentata dal quadro di van der Weyden. La tovaglia (che usiamo anche sulle nostre tavole apparecchiate) simboleggia il banchetto, toglierla significa mettere a nudo l'altare, cioè il luogo del sacrificio (tanto per dare un raffronto, l'altare del sacrificio di Isacco).

Anche la spogliazione dell'altare è in origine la solenizzazione di un'atto funzionale che avveniva al termine di ogni messa [Bergamini]. D'altronde acquista un particolare significato in rapporto al digiuno eucaristico interno al triduo: in questi giorni non si consacra il pane, non c'è banchetto (infatti viene apparecchiato giusto per la comunione di venerdì). Per questo l'altare deve rimanere spoglio anche tutto sabato. La fine del digiuno dovrebbe infatti coincidere con la mezzanotte di sabato, più o meno in corrispondenza con il passaggio epocale fra l'antica e la nuova alleanza, segnata dal 'gloria' e non a caso dall'accensione delle candele dell'altare durante la veglia! Come se solo da quel momento riprendesse la sua funzione di mensa. Da questo punto di vista bisogna sottolineare l'importanza dell'eucarestia della veglia, che può passare inosservata dopo la straordinarietà dei precedenti riti, ma che è invece il vero punto di arrivo del triduo.

Tovaglia come tunica del Cristo, altare come sepolcro [Ratzinger, Spirito liturgia]. Nel dizionario sintetico, la voce Altare.

Concludendo bisogna sempre stare attenti a cogliere il senso profondo del segno e a non lasciarsi trascinare dalle semplificazioni. Solo in questo modo si possono trovare naturalmente quei piccoli accorgimenti che potenziano la comprensione del segno stesso. Il tabernacolo vuoto all'inizio della messa di giovedì è da porre in relazione con la rievocazione storica, con il "vino nuovo" e l'alleanza nuova portati da Gesù, come pure con il fuoco nuovo della veglia. La reposizione (ovvero da noi il tabernacolo vuoto dopo la messa di giovedì) e la spogliazione dell'altare vanno visti in relazione al digiuno eucaristico interno al triduo. Le croci velate per non duplicare il segno. Tutto il resto come segno di lutto e sobrietà.

Il fuoco nuovo e la novità di vita

Sul crinale fra l'antica e la nuova alleanza, stipulata da Gesù sulla croce, acquista un particolare significato il concetto di rinnovamento. Tutto deve essere nuovo, giacché non si può mettere "vino nuovo in otri vecchi" [Luca 5,37], dal battesimo rinasce l'uomo nuovo, l'uomo vecchio non esiste più. Così il tabernacolo è vuoto giovedì santo, così è "nuovo" il fuoco benedetto nel lucernario. Un nuovo inizio, che dalla rievocazione storica rinnova in noi la novità dell'annunzio di Gesù. Ed effettivamente l'effetto della crocifissione di Gesù rivive in noi oggi nell'eucarestia. Così pure siamo chiamati a "rinnovare" le nostre promesse battesimali.

La processione al seguito del cero

Abbiamo già visto come il collante della liturgia della parola sia l'aggregazione del popolo scelto da Dio. Ovviamente già nel lucernario viene introdotto questo tema. Il cero, simbolo della colonna di fuoco che guidò gli israeliti nel deserto, apre la processione, tutti i fedeli lo seguono come il gregge segue il suo pastore [Aldazabal, Gesti e segni; Bergamini]. Tuttavia c'è anche una valenza escatologica: non per niente il sacerdote pronuncia queste parole:

Il Cristo ieri e oggi
Principio e fine
Alfa
e Omega.
A lui appartengono il tempo
e i secoli.

I fedeli con le candele simboleggiano le vergini sagge che attendono l'arrivo dello sposo [Matteo 25]. Effettivamente una lettura attenta della parabola [vedi gli Appunti esegetici ne Il tempo si è fatto breve] non presuppone che le vergini avessero le lucerne già accese, come i fedeli accendono le candele successivamente all'arrivo e all'accensione del cero.

Il fuoco è però anche simbolo dello Spirito Santo. La sera di Pasqua [vangelo della II domenica di -non dopo!- Pasqua] Gesù soffia sugli apostoli dicendo "ricevete lo Spirito Santo" [Giovanni 20,22]. Con il battesimo dunque inizia ad agire dentro di noi lo Spirito.

Le candele nella liturgia battesimale

I fedeli accendono le candele al momento della professione di fede. Fatta la professione di fede, c'è il battesimo. L'ordine è chiaro nel caso di battezzandi adulti, chiamati a professare in prima persona la propria fede in Cristo prima di ricevere il battesimo. Ricevuto il battesimo, i genitori o i padrini accendono la candela simboleggiante la fede del battezzato al cero pasquale. Si vuole quindi segnalare visibilmente che il battezzato è entrato nella comunità di tutti gli altri fedeli che lo accolgono con le loro candele già accese. Si capisce bene quindi l'importanza dell'aspersione del popolo con l'acqua del fonte: questo momento rischia di passare in secondo piano dopo il battesimo, ma credo debba essere svolto con cura e solennità.

(2002) se non bastasse, si prenda l'orazione della liturgia delle ore della I domenica dopo Pasqua e anche la prima lettura dell'ufficio: il battesimo (che in fondo è una prima resurrezione in Dio resa possibile da Gesù sulla croce); non a caso nel tempo di Pasqua (non _dopo_ Pasqua) è prevista-consigliata? l'aspersione battesimale del popolo

Perché Gesù si è voluto dare a noi attraverso del cibo?

Ammetto che mi è sempre sembrata strana la combinazione del cibo con la croce. Oppure, se preferite, perché Gesù si "comunica" con noi, entra in noi attraverso il cibo... forse potevano esserci altri modi: questo è per lo meno curioso, tanto che gli stessi contemporanei di Gesù si chiedevano: «Come può costui darci da mangiare la sua carne?» [IEP: Giovanni 6,52].

Leggendo il mitico dizionario etimologico di Otorino Pianigiani scopro che la parola altare è collegato ad alere cioè nutrire, mangiare da cui alimento. Lo Zingarelli, più aggiornato, mi mette subito in guardia dal Pianigiani collegando altare ad una radice che significa far bruciare come conferma anche il Dizionario sintetico di liturgia (l'etimologia comunque rimane incerta). Ad ogni modo, la scintilla è scoccata: sull'altare l'uomo poneva animali o altre primizie per cibare gli dei (l'antropologia è ricchissima di esempi, penso ai pani dell'offerta egizi, ebrei [ad es. il famoso episodio di Davide in 1Samuele 21,5], etc.). Per i cristiani è la divinità che immola se stessa per dar da mangiare agli uomini. Lungi dall'essere un segno di "stranezza" come può sembrare a chi non crede, per il cristiano è un simbolo sacramentale estremamente concreto, lungi da vani astrattismi spirituali, si tratta di cibo, irrinunciabile realtà quotidiana per ogni essere umano. Che sia sacrificio cruento o che si compia tramite il fuoco... rimando a Galbiati.

Ho risposto alla domanda "ma perché Gesù si dà da mangiare a noi?" almeno da un punto di vista antropologico.

SettimanaSanta per immagini

L'ultima cena persicetana

Il commento spirituale all'affresco riportato nel catalogo [g] è chiaramente scritto con un tono neutro, il ché è stupido perché non si può analizzare un quadro dell'ultima cena commissionato da dei frati all'insegna del politically correct. Vuol dire precludersi di capirne il significato profondo. Nell'affresco l'accento è posto su Gesù, gli apostoli guardano Gesù, non il pane ed il vino posto in primo piano davanti al tavolo su un tavolino separato. Come per dire che il pane e il vino che oggi mangiamo corrispondono pienamente a quel Gesù che era a tavola con gli apostoli nell'ultima cena. Si noti che sul tavolo al centro c'è (mi sembra) una coscia di agnello.

La crocefissione di Van Der Weyden

Rogier Van Der Weyden, L'Eucarestia, 1440 ca.
Cristo crocefisso in chiesa sullo sfondo di una celebrazione eucaristica, così da sottolineare l'unità dei due momenti.

Il quadro di Van Der Weyden (a sinistra) riassume perfettamente la liturgia del venerdì santo. Gesù muore sulla croce ma la crocifissione avviene all'interno di una chiesa, mentre sullo sfondo un sacerdote innalza l'ostia nella consacrazione eucaristica. Lo stesso tema viene ripreso dalla sua scuola (a destra) con risultati più scadenti: non c'è il legame con la celebrazione eucaristica mentre la prospettiva è decisamente raccorciata. Nel quadro di Van Der Weyden invece la croce si inserisce perfettamente nella svettante architettura gotica, invitandoci a rivolgere lo sguardo verso l'alto. E' una vera e propria "ostensione della croce", cui deve corrispondere nei fedeli un'atteggiamento di dolore, stupore e adorazione, ben espresso nelle pie donne ai piedi della croce (e dall'uomo inginocchiato davanti all'altare). [Foto da Vita Paolina, 21 (aprile/giugno 2001), pp. 8-9]

Il Cristo velato

Giuseppe Sammartino, Il Cristo velato, 1753, Cappella Sansevero (Napoli)
Scultura virtuosistica in marmo che simboleggia, con il velo posato sul corpo esanime di Gesù deposto dalla croce, il mistero della morte del figlio di Dio da cui proviene la nostra redenzione.

La pesca del leviatan

Miniatura dall'Hortus Deliciarum, Alsazia, circa 1180-1195. Copia del XIX secolo del manoscritto distrutto nel 1870 (Strasburgo, Biblioteca municipale, f. 84) [da Il mondo della Bibbia, 52 (marzo-aprile 2000), p. 53].

25Puoi tu pescare il leviatan con l’amo
e tener ferma la sua lingua con una corda,
26ficcargli un giunco nelle narici
e forargli la mascella con un uncino? [Giobbe 40,25-26]

Nel campo delle arti figurative noi moderni ci crediamo sicuramente i più originali e all'avanguardia. Eppure sul finire del XII sec. in pieno medioevo, la tradizione iconografica cristiana ci sorprende con il tema della pesca del leviatan. Dio, raffigurato in alto a sinistra, pesca il leviatan, simbolo di Satana e della morte, che abbocca all'amo rappresentato da Gesù in croce, all'estremità della corda costituita da sette (simbolo dell'antico testamento come le letture della veglia pasquale) patriarchi e profeti.


Annotazioni pratiche

* Annotazioni già incorporate nel testo dove opportuno.


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Napoli, 22-23.26/IV/2003

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Durante la stesura di questa pagina mi hanno dato per disperso fra i cumuli di libri e fogli della mia scrivania per un paio di giorni. In realtà ero impegnato in alcune complesse operazioni di stratigrafia bibliografica al fine di estrarre i libri finiti in fondo alla pila senza essere coinvolto in qualche crollo! Alla fine, per fortuna, mi hanno ritrovato a pochi passi dal computer... GPB 2001

Quest'anno invece non mi hanno dato per disperso: l'unico libro presente sulla mia scrivania napoletana era il Bergamini... purtroppo molti libri che avrei consultato volentieri sono rimasti a Persiceto. Per fortuna che molti testi normativi sono oggi presenti in internet (vedi la bibliografia per animatori liturgici)! GPB 2003