La stesura del libro è conforme
all’originale in mio possesso, se si eccettuano alcune modifiche per errori
ortografici e per eventi storici obsoleti. Non sono incluse né le fotografie né
le piantine topografiche.
GAETANO AMOROSO Tenente colonnello di Fanteria
– Medaglia d’Oro al Valor Militare
Editrice Lorenzo Rattero – Torino – 1941
QUESTO LIBRO
È DEDICATO
- ai valorosi legionari dei
battaglioni “Mortai e Lupi” della “Littorio d’Assalto” caduti in terra di
Spagna,
- alle madri, alle spose ed ai
figli che hanno sofferto in silenzio aspettando invano il loro ritorno.
Tutti i mortaisti e i “Lupi” che hanno
avuto la gioia di ritornare alle loro case si raccolgono oggi attorno a me,
anch’essi in silenzio, per rivolgere un commosso pensiero ai loro valorosi
camerati che non ebbero la fortuna di vedere il volto luminoso della bella ed
ambita vittoria.
Morti della Grande Crociata, il vostro
sacrificio suscita in noi l’orgoglio di essere stati con voi nel giorno della
dura battaglia; centuplica in noi la fede – la vostra stessa ardentissima fede
– e tutti ci sospinge verso più ardue prove! In queste pagine, dettate dal
fraterno cuore di un vostro compagno d’arme, voi rivivete tutti, uno ad uno,
con tutto il vostro valore, con tutta la vostra vita eroica, suggellata col
sacrificio estremo!
E voi madri e spose degli eroici Caduti,
assorte nel vostro più profondo dolore, levate in alto la fronte e fissate lo
sguardo nel fulgido cielo d’Italia: immoto, infinito, bellissimo è l’azzurro
che ci avvolge, e in esso splende la figura della Grande Patria Immortale; in
esso la vittoria dall’ali dorate, fiancheggiata dal Sacro Littorio, irradia la
sua vivida luce. Levate in alto, o meste madri, la fronte! C’è in voi la
fierezza delle donne romane che si perpetua nei secoli; c’è in voi, se pur
velato di pianto, il commosso ricordo del trionfo che rese più lieve il
sacrificio; c’è la fiaccola dell’inestinguibile fede che ci anima e ci guida
verso un domani più bello.
No, non sono morti i vostri cari scomparsi!
Tutti sono ancora con noi e in noi, nel nostro cuore, nel nostro spirito,
ardenti sempre di purissima fede. Essi vivono ancora nella religione della
Patria venerati dai commilitoni che sanno l’ardore della lotta, e nella
riconoscenza di un popolo che col loro sacrificio riscattò il suo onore e la
sua libertà. Ed io oggi vivi li riporto a voi con questo ricordo, vivi e pieni
di ardore, palpitanti ancora come nei giorni della dura battaglia, come allora
animosi, arditissimi!
2 febbraio 1941
CAPITOLO I. DEPOSITO 22° REGGIMENTO FANTERIA
Pisa:
26 luglio-31 agosto
L’atto di nascita del “Primo battaglione
speciale mortai da 81” si può riassumere in alcune date e poche parole.
23 luglio 1938: mi giunge a Messina, dove
mi trovo in licenza ordinaria di dieci giorni, il telegramma di destinazione in
O.M.S. (NdR: Oltre Mare Spagna). Devo presentarmi, il 26 luglio, al Deposito
del 22° Reggimento Fanteria in Pisa, per assumere il comando del XIII
battaglione complementi. Parto subito. Dopo una breve sosta a Roma per ritirare
i documenti di viaggio, proseguo per Pisa e vi giungo la sera del 26. Vi trovo
l’ordine di costituzione del battaglione, ma nessun soldato e nessun ufficiale.
Il mattino del giorno successivo arriva il tenente dei bersaglieri Cronia
Trifone. Nel pomeriggio dello stesso giorno arrivano alcuni altri: Arista,
Verniani, Foscarini, Toccafondi, Baldi, Conte. Anche i graduati incominciano ad
arrivare: sono quelli che, già in servizio presso i corpi, hanno chiesto di
essere destinati in O.M.S. Una quarantina in tutto. I primi richiamati
dovrebbero giungere la sera del 30. Il battaglione deve essere pronto il 5 di
agosto. Non c’è tempo da perdere.
Costituisco i quadri delle tre compagnie:
1a: Verniani, 2a: Cronia, 3a: Foscarini (poi
Allamandola). Arista aiutante maggiore in esperimento. Grande fatica per
trovare i locali, come succede sempre in simili casi. Comunque, superate le inevitabili difficoltà, riesco a
predisporre gli alloggi per circa 400 uomini. Il tempo stringe. Bisogna ancora
prelevare le serie di vestiario e di armamento, i materiali di servizio
generale, ecc.
30 luglio sera: giungono i richiamati.
Indimenticabile sera, perché mi accingevo ad una impresa densa di incognite, ma
di grande interesse e piena di attrattive. Notte magnifica perché tutti quegli
uomini ardenti e pieni di entusiasmo mi passarono davanti uno ad uno, lieti e
sorridenti come se fossero venuti ad una festa. In pochi giorni sono tutti
vestiti, equipaggiati, pronti nello spirito.
Si inizia un nuovo addestramento. Occorre
formare i reparti e dare ad essi una fisionomia organica ben definita non
soltanto nel senso di numero, ma anche in quello di entità tattica in piena
efficienza. Compito difficile questo, per molte ragioni: prima fra tutte la
brevità del tempo disponibile. Il numero dei volontari aumenta ogni
giorno.Giungono da tutte le regioni d’Italia: dal Veneto, dalla Toscana, dalla
Sicilia, dalla Sardegna, dalle Puglie, dalle Calabrie; tutti sono pieni di vita
e di volontà, tutti incontenibili nella fede e nell’entusiasmo.
Giorni belli quelli di Pisa, o miei cari
soldati! Io cercavo di convincervi che era opportuno un periodo breve di
addestramento, necessario anche per voi vecchi soldati, pronti a tutto osare
con forte animo e serena fermezza. Ricordate, o miei baldi legionari (e chi
avrebbe detto allora che avreste così bene meritato questo nome?) quel periodo
di ansia e di incertezza mentre i giorni passavano e l’ordine della partenza
non giungeva? Fu un mese lunghissimo!
Ma il 16 agosto, di ritorno da Roma, vi
portai la notizia della prossima trasformazione del XIII battaglione in
battaglione mortai, ed allora l’entusiasmo raggiunse in voi una intensità
indescrivibile. Tutti sentiste, fin da allora, che i vincoli di cordialità e di
affetto che incominciavano a stabilirsi tra noi, ufficiali e soldati, si
sarebbero mantenuti anche in O.M.S. ed oltre, ciò che non sarebbe stato
possibile in un battaglione di complementi quale era il XIII, destinato a
sciogliersi appena sbarcato a Cadice. Passarono così quei lunghissimi giorni di
agosto, tra marce, tiri, riviste e ispezioni; in ognuno di voi si leggeva
l’ansia della partenza e la sopportazione della lunga attesa.
Il pomeriggio del 26 agosto giunse
l’ordine tanto atteso: il XIII battaglione complementi si scioglieva. Con i
suoi 850 componenti si dovevano costituire:
- un battaglione mortai da 81 destinato a
trasferirsi subito a Tarquinia per addestramento;
- due compagnie di complementi che
dovevano rimanere a Pisa in attesa della partenza.
Quell’ordine, mentre diffondeva in tutti
voi un vivo senso di rammarico per la separazione che determinava tra gli
elementi del XIII battaglione – ormai amalgamato e bene affiatato – costituiva
peraltro, da solo, l’atto di nascita di quel “Primo battaglione speciale mortai
da 81” il cui nominativo – “Batmo” – doveva sin da allora essere il comune nome
di battesimo, ed il segnacolo di fede e di vittoria attorno al quale si
sarebbero raccolti tutti i suoi
componenti. Fino allora nessun battaglione organico di mortai era stato
costituito nell’Esercito Italiano. Soltanto in occasione dell’esercitazione
tattica a fuoco svolta a Civitavecchia, nel maggio 1938, alla presenza di
Hitler, era stato costituito un battaglione di formazione con alcune compagnie
mortai divisionali appositamente riunite.
Il “Primo battaglione speciale mortai da
81” può perciò vantare questo primato, quello cioè di essere stato il “Primo
battaglione mortai” dell’Esercito Italiano, costituito e impiegato in guerra –
in una guerra che vide ardimento e valore, fede ed entusiasmo, passione e
sacrificio – con risultati che fanti e camicie nere, carristi e artiglieri,
tutti legionari di una Grande Crociata, giudicarono superiori a qualsiasi
aspettativa.
I giorni di fine agosto a Pisa trascorsero
rapidi e laboriosi. Ma ora abbiamo molto cammino da percorrere, e non vale
attardarsi sulle rive dell’Arno, tanto più che i nostri ricordi pisani ci
lasciano del tutto indifferenti. Per me particolarmente quel periodo non fu che
una lunga teoria di comuni avvenimenti, fatta eccezione delle ore che passavo
in mezzo a voi parlandovi da fratello a fratelli, da soldato a soldati, e che
costituivano per me un vero godimento spirituale. Il giorno in cui, ad un colpo
di fischietto del tenente Arista – che aveva ultimato brillantemente il periodo
di “esperimento” da aiutante maggiore – saliste sul treno per Tarquinia pieni
di entusiasmo che traspariva dallo sguardo fermo e consapevole fisso in quello
dei superiori venuti a salutarvi, voi deste spettacolo di superba disciplina.
In quel giorno per la prima volta i volontari del XIII battaglione dimostrarono
di aver già forgiato un’anima ed un abito morale e disciplinare saldissimo,
lieto auspicio e sicura promessa di quello che sarebbe stato il loro
comportamento in guerra.
E
da quel giorno, infatti, incominciò la vostra ascesa.
CAPITOLO II. PRIMO BATTAGLIONE SPECIALE MORTAI DA 81
Tarquinia:
31 agosto-6 novembre.
Il “Primo battaglione speciale mortai da
81” giunse a Tarquinia il pomeriggio del 31 agosto. Erano ad attenderlo alla
stazione il colonnello Romano, comandante della Scuola Centrale di Fanteria di
Civitavecchia, ed il tenente colonnello Maestri, anch’egli della Scuola
Centrale di Fanteria.
Silenziosi, ordinatissimi, scendeste dal
treno col vostro pesante affardellamento e vi allineaste in forma perfetta
sulla strada che porta in città, mentre io già ricevevo i primi ordini. Il
colonnello Romano vi passò in rapida rassegna, vi fissò negli occhi e mi parve
leggesse nel vostro sguardo la fermezza dei vostri propositi, la volontà di
portarli a compimento. Egli comprese certamente subito che eravate soldati
decisi ad ogni lotta, pronti ad ogni sacrificio. Vi disse poche parole, e nella
cordialità delle sue espressioni traspariva che era rimasto assai soddisfatto
di voi.
Avevo avuto l’onore e il piacere di
incontrarmi col colonnello Romano in Africa, a Dire Daua. Egli comandava il IV
reggimento fanteria ed io un battaglione del III. Conoscevo perciò le sue doti
di carattere, di intelligenza e le sue virtù di comandante; a Tarquinia,
conoscendolo più da vicino, ne ebbi ampia conferma. Quell’uomo merita da parte
nostra una profonda riconoscenza. Egli mi dimostrò più volte di volervi bene e
di stimarvi moltissimo. Ricordatelo e riconoscetegli forte tempra di soldato
nel senso più puro della parola. Ricordate quello che vi disse il giorno della
vostra partenza per l’O.M.S., sul piazzale esterno della stazione di Tarquinia,
quando stretti attorno a lui, pendevate dal suo labbro. Sottovoce, quasi
volesse penetrare nell’intimo del vostro cuore, scandiva le parole che gli
venivano dal più profondo dell’anima: “Miei cari soldati – diceva – nel baciare
il vostro comandante sento di baciare tutti voi. Sono certo che con soldati
come voi è assicurato il trionfo della Santa causa per la quale andate a
combattere nel nome del Re e della Patria!”. Vi aveva osservato in due mesi di
intensa vita e di azione, in caserma, nelle istruzioni, nelle marce, nelle
riviste, in libera uscita. Aveva letto nel vostro cuore. Aveva seguito la vostra quotidiana fatica;
aveva apprezzato la vostra volontà di rendervi subito padroni della nuova arma
che vi era stata consegnata per combattere contro un nemico agguerrito e
tenace; aveva percepito in voi l’ansia che vi agitava per la sempre più
ritardata partenza; aveva vissuto tra il vostro entusiasmo ed aveva intuito che
il vostro canto non esprimeva soltanto la fede e l’impeto della vostra fiorente
giovinezza, ma anche la serenità con la quale vi accingevate a dare la vostra
vita per la Patria, la solennità della vostra promessa di essere pronti ad ogni
ardimento.
Io, vostro comandante, modesto fante di
quella Grande Crociata, parlando di voi sento risalire dal più profondo del
cuore tutti gli affetti e tutte le gioie che mi avete procurato col vostro
contegno di fronte al nemico, ed ancor oggi penso con passione e nostalgia al
tempo in cui vissi tra voi. E ben ricordo che in quel giorno, su quella strada
di Tarquinia, appena partito il colonnello Romano, vi gridai con cuore
commosso: “Zaino in spalla”, e sentii di tornare a vent’anni con lo stesso
entusiasmo della giovinezza lontana. Compresi che da quel momento incominciava
la vostra mirabile affermazione, la vostra bella e grande giornata di
sacrificio e di gloria.
Zaino in spalla! Avanti, passo passo, su
per quella strada, verso Tarquinia, tappa necessaria per riprendere lena nella
marcia faticosa verso l’ignoto destino. Zaino in spalla! Il vostro passo lento
e deciso risuonava sul selciato con cadenza ritmica, come se battesse il tempo
per le vostre future e sicure conquiste. Giungemmo ai nostri accantonamenti
dopo circa un’ora, eppure vi sembrò di aver marciato un istante. In quella
piccola ma bella città, nessuno diede segno di accorgersi del vostro arrivo.
Incominciaste il vostro lavoro. La fatica giornaliera vi teneva intensamente
occupati. Il vostro svago in libera uscita non era chiassoso, ma gaio e
modesto. I primi giorni tutti vi osservarono cauti e diffidenti. Presto però
impararono a conoscervi e vi corrisposero con la più viva simpatia perché si erano
accorti che i legionari del “Primo battaglione speciale mortai”, uomini già
formati alla severa scuola di una disciplina, avevano una educazione militare e
civile che li rendeva degni della massima stima. E quando poi le note della
vostra piccola fanfara squillarono per le vie della città e nelle piazze
diffondendo una schietta allegria, io sentii che non a caso si erano già
stabiliti fra popolazione e soldati vincoli di affetto e di cordialità che
trovarono ogni giorno una sempre più intima e particolare manifestazione.
Là volli che ognuno di voi si avvicinasse
a Dio, prima della partenza, in quella mistica chiesetta francescana del
Cancellone – ed io stesso ve ne diedi l’esempio – non certo e soltanto per una
semplice se pur profonda convinzione dell’anima mia, ma anche ed essenzialmente
per dimostrarvi che il legionario della nuova Italia, mentre si appresta a
combattere per la causa più santa, non disdegna di portare con sé, nell’intimo
del suo cuore, il sacro viatico di fede per l’anima immortale, nella infinita
pace di Dio.
Là consentii, come certo ricorderete, di
mandarvi alle vostre case a salutare le vostre famiglie, tutti, in pochi
giorni, non certo per farvi dare l’ultimo addio alle vostre madri, alle vostre
spose, ai vostri figli, ma per dimostrarvi che la disciplina, quella vera e
sentita che predispone ai più grandi ed ai più puri sacrifici, trae la sua
essenza da una necessità di ordine superiore, ma nella sua rigidezza, che può a
volte sembrare eccessiva, non trascura i doveri santi verso la famiglia la
quale, nella sua dolce intimità profumata di semplicità e di modestia,
rappresenta pur sempre la nostra comune e ben più grande famiglia: l’Italia.
Là, o legionari, nel sacro giorno dedicato
ai morti levaste in alto la fronte e portaste anche voi la vostra corona di
alloro ai Caduti tarquiniensi della grande guerra, e sentiste in voi quale alta
ragione spirituale ad essi vi affratellava. Quelli avevano lottato per una
grande causa, ed avevano vinto; voi vi accingevate invece, guidati dal loro grande
esempio, illuminati dalla loro stessa idea e dalla loro stessa fede, a
perpetuarne la tradizione. Ed anche alla vostra Crociata ha arriso la vittoria.
Ma le giornate di Tarquinia non furono
soltanto liete; esse conobbero tutta la vostra dura fatica per la febbrile
preparazione tecnica. Pensate al caro tenente colonnello Maestri. Egli non può
non avere, assieme al capitano Soave, un posto nel vostro cuore. Io li ricordo
quegli ottimi colleghi, e li rivedo nella loro paziente operosità, nelle
spiegazioni semplici, chiare e persuasive, nei consigli e nelle discussioni, in
ogni loro atto che non fu mai cattedratico, ma sempre improntato a modestia,
dote precipua di chi sa e sa insegnare. E spero che anche loro vi ricorderanno,
o miei cari legionari: nella vostra volontà di apprendere, nell’entusiasmo che
vi prendeva quando le salve colpivano il bersaglio, nell’ansia dell’attesa, nel
fermo proposito di tutto osare, consapevoli di tutti i pericoli da superare
sulla via della gloria.
Ricordo le giornate di Tarquinia trascorse
nella più lieta serenità di un lavoro proficuo; i tiri giornalieri interessanti
ed istruttivi per tutti; le marce tra i canti festosi dei miei legionari
talvolta bagnati fin troppo da una pioggia improvvisa ed abbondante, o
affaticati dal passo forzato nella salita faticosa; nelle riviste sempre
allietate dall’elogio del superiore. Ricordo l’intensa attività del tenente
Toccafondi che, addetto ai materiali, era sempre intento a schiodare casse e
cassette per procurarsi lui per primo la gioia di vedere e toccare le nuove
armi, appena giunte; l’instancabile e ineguagliabile operosità del tenente
Foscarini, tutto occupato e preoccupato di ammannire il rancio a volte speciale
(oh! bella giornata del capretto al forno!); la corsa affannata dei tre baldi
capitani – Verniani, Cronia, Allamandola – per tentare di superarsi a vicenda
nella cameratesca competizione giornaliera, pur non riuscendo ognuno a dare
alla propria compagnia un primato, ma soltanto una impronta personale, quella
del proprio carattere: “disciplinata” la 1a, ”bersagliera” la 2a,
“salda” la 3a. Sì, le ricordo le belle giornate di Tarquinia,
passate nell’ansia dell’attesa di una partenza che troppo si faceva aspettare;
nel dubbio di non essere pronti all’ora stabilita; nella responsabilità
decisamente affrontata di trascurare le lettere anonime che annunziavano un
pericolo, come se i miei legionari non fossero decisi ad affrontarli tutti ed a
superarli; nell’insidia del furto della cassa organizzato, ma non consumato,
dalla mente malsana di quel tale “Ciaglio” che trovò la sua prima e giusta
condanna nella esclusione dalle vostre file. Ricordo la commovente cerimonia
della benedizione delle nostre armi, dove quel piccolo fraticello in ginocchio
a braccia aperte davanti a Dio, invocava su di esse la benedizione Divina.
Ricordo le feste che popolo ed Autorità vollero offrirvi prima della partenza
per attestarvi il loro affetto e la loro considerazione che avevate saputo ben
meritare. Tutto ricordo di quelle giornate indimenticabili.
Ma qui, nel mio cuore, o legionari, c’è un
posto assai più intimo per voi, perché sento di essere stato, più che il vostro
comandante, il vostro “fratello maggiore” nel senso più lato della parola.
Tutto ho condiviso con voi: l’aspra fatica e il disagio, il riposo sempre assai
breve, l’ansia dell’attesa e la gioia della partenza, il giaciglio sotto la
tenda improvvisata, il rancio caldo o freddo, il pericolo in tutta la sua
intensità ed incertezza, perché sempre in mezzo a voi e con voi io trascorsi
tutte le mie giornate tristi o liete, brutte o belle!
Un posto particolare c’è nel mio cuore per
taluni di voi, per quelli che mi furono più vicini:
- Arista, fiorentino elettissimo,
infaticabile e strillone fino all’estremo limite del possibile
e…dell’impossibile, che mi fu compagno di lavoro e conobbe tutta la mia fatica,
sempre affrontata e sostenuta in “perfetta letizia”;
- Foscarini, simbolo della modestia e del
lavoro silenzioso e tenace, scrupoloso e preciso, presente sempre coi suoi muli
e le sue marmitte, con la sua impenetrabile serietà;
- Toccafondi, mite e tranquillo, tutto
preso dalla sua Delfina lontana, pronto nell’obbedire, esatto nell’eseguire,
devoto e modesto anche lui, ma semplice soprattutto, semplice fino
all’ingenuità!!!
Come dimenticarvi, cari e buoni compagni
di lavoro e di sacrificio, in Tarquinia ed oltre, per tutta la lunga odissea
che ci trovò sempre in piedi, pronti a rispondere “presente” in ogni
circostanza. Come dimenticarvi umili ed eroici legionari, che non avete
conosciuto stanchezza, che non avete mai chiesto riposo, ma sempre avete
sollecitato lavoro, rischio, pericolo?
I primi giorni di novembre ci portarono,
finalmente, dopo tanta attesa, la gioia più bella. Voi sentiste il triplice
segnale del mio fischietto più volte promessovi e più volte rimandato, e fu
subito, in quella piccola caserma divenuta come un immenso, operoso termitaio,
tutto un intenso affacendarsi di uomini. Il mio segnale vi diede, in un attimo,
una gaia spensieratezza quasi incosciente, il vostro cuore fu subito pervaso da
un grande entusiasmo, ed in pochi momenti, attuate le ultime disposizioni e
indossati gli abiti civili che vi dovevano sottrarre all’odioso controllo della
“Commissione del non intervento”, foste pronti a muovere. Ed in quel 5 di
novembre ebbe inizio la vostra commovente, silenziosa, ma pur tanto eloquente
sfilata per le vie della città. Qualcuno vi salutò in silenzio, col saluto
romano, qualche altro vi gridò delle parole di augurio, ma altri – molti altri
– vi avevano già salutato più intimamente, e forse a me non giunse
completamente il segreto pianto di qualche ragazza che la vostra partenza aveva
teneramente commosso. Molti vi accompagnarono alla stazione, compresi il
Podestà e il Segretario Politico, per darvi il loro commiato e l’augurio più vivo.
Ma laggiù, alla stazione, l’ho già ricordato, un uomo – il colonnello Romano –
toccò profondamente il vostro cuore e vi disse parole assai profonde di
significato, parole di fede e di certezza, di augurio, di auspicio, di
speranza, perché sentiva e vedeva nel vostro sguardo la vostra sicura promessa.
E quando il treno, emesso il suo fischio
acuto e prolungato, si mosse, nel vostro lungo ed appassionato arrivederci,
nello sventolìo dei vostri fazzoletti, nell’agitarsi festoso delle braccia e
nelle lacrime che bagnavano le gote di tutti, voi vedeste e sentiste che non
potevate non mancare mai a quella solenne promessa scambiata, nel muto
linguaggio degli occhi e del cuore, tra popolo e legionari, nel santo nome
d’Italia, con fede immensa profondamente sentita. Il treno veloce vi trasportò
nella sua corsa affannosa verso il vostro nuovo destino.
A Gaeta, in quella notte stellata, come
ombre vaganti giungeste al porto e, isolati o a piccoli gruppi, vi imbarcaste
muti e consapevoli, con tutto il vostro bagaglio di fede, d’amore e di volontà.
E nessuno si avvide certo di tutta la luce che irradiava dagli occhi vostri, di
quale fiamma ardeva il vostro cuore, sotto quale vessillo di fede e d’ardore vi
accingevate a combattere, con quanta dedizione avevate sposato la Santa causa
per la Grande Patria immortale! E nella notte fonda l’ “Adriatico” levò le sue
ancore e salpò verso la nostra meta lontana.
CAPITOLO III. SUL MARE NOSTRO
Gaeta-Cadice:
6-10 novembre.
Pochi di voi, miei cari legionari, pochi
di voi certamente avevano già assistito al rito del levarsi dell’ancora su di
un piroscafo che si accinge a salpare per intraprendere un viaggio per mete
belle e lontane. Le maglie della lunga catena, tirate su una ad una dall’abisso
profondo del mare, stridono e salgono lente, mosse dall’argano che cigola
accanto, fragoroso e possente. Il piroscafo inizia il suo movimento lento e
continuo, e l’anima, nella gioia della partenza, canta la sua canzone
nostalgica, talvolta colma di grandi speranze.
Questa musica io avevo altra volta
ascoltato sul lontano mare di Mogadiscio: musica soave ed assai lieta per
l’animo mio. Ritornavo in Patria. Curvo sul parapetto al limite dell’imponente
prua del “Sardegna”, osservavo con occhio attento e con animo trepidante il
levarsi dell’ancora gigante che legava ancora la grande nave al fondo sabbioso
della nostra Somalia. Salivano una ad una le maglie di quella lunga catena e
con esse, una ad una si chiudevano dietro a me le pagine di un periodo di
grande tristezza. Sebbene in terra legata alla Patria, avevo vissuto laggiù
lunghe giornate di solitudine penosa e spesso la mia mente si era smarrita
pensando all’interminabile teoria di chilometri che dalla Patria mi separava. E
quando, affiorata l’ancora e incominciato il turbinio delle eliche, il
“Sardegna” iniziò il suo interminabile viaggio sulla via del ritorno, io sentii
rinascere tutto in me e sognai il sorriso della mia bella terra siciliana che
presto avrei ricalcato con grande gioia.
Ma in quella notte del novembre ’38,
mentre l’ancora dell’ “Adriatico” risaliva dal profondo del mare, in quel
piccolo porto di Gaeta, il fragore di quella catena che lenta, maglia a maglia
risaliva su dal mare al piroscafo, non suscitava in noi l’ansia del ritorno, ma
l’allegro e spensierato sussurro dell’avventura densa di incognite, il canto di
gioia nella corsa verso una grande vittoria che volevamo ad ogni costo
raggiungere con l’impeto della giovinezza, infiammati dalla fede più pura e più
bella. E infatti, in quel giorno, mentre il “Batmo” iniziava la sua navigazione
sul nostro Tirreno, diviso in due piroscafi, a 24 ore di distanza, ma uno nello
spirito e nell’anima che si era formata, uno nella fede e nella volontà, in
quel giorno – dico – nulla ci parve più bello di quel sogno che avevamo tanto
sognato e che già incominciava a prendere in noi forme concrete e positive.
Leggeri e veloci correvano i due piroscafi
sul mare nostro cullandosi sull’onda, e rapido il nostro cuore batteva
nell’ebbrezza della realtà viva e fremente. Ci seguiva a distanza
l’incrociatore di scorta, voce vigile e pronta della grande Patria presente. Ci
incrociavano i piroscafi, ed al loro saluto, sibilante fischio delle sirene,
fremeva il nostro cuore e sentiva tutta la gioia dell’impresa, tutta la
bellezza e tutto il fascino dell’ignoto che ci attendeva.
A sera nel vespero, riuniti nello spazio
di prora cantavate gli inni della Patria, e mentre il vostro coro saliva
solenne nell’azzurro infinito del cielo, il vostro petto si gonfiava di un più
ampio respiro, come se foste intenti a misurare voi stessi nella pienezza dei
vostri polmoni che sapevate atti a qualunque corsa. E vi fu anche allora, per
un felice incontro che il caso ci offrì, un lieto auspicio per il vostro
avvenire, perché lì, su quella nave, per la prima volta, e per mezzo di un
ufficiale spagnolo ferito reduce da una corsa in Italia, imparaste quel “Cara
al sol”, inno magnifico che vi avrebbe più tardi infiammati e sospinti in uno
sbalzo meraviglioso oltre le sponde del Segre e più in là, verso Barcellona e Gerona,
ultime tappe della vostra bella epopea legionaria.
Trascorsero così, sempre in “perfetta
letizia”, i giorni di navigazione, ultimi nel tormento oscuro dell’ignoto.
Nelle acque spagnole ci venne incontro la nuova scorta, e più in là, verso
Ceuta, ci apparve all’orizzonte nerastro la superba mole della “Canarias”
pronta anch’essa a difenderci da ogni insidia avversaria. Ma i rossi non
conoscevano ardire e, soprattutto, non avevano né hanno mai conosciuto la fede,
né mai la conosceranno. E così il nostro trasporto attraversò tranquillo lo
stretto di Gibilterra e, preceduto di 24 ore dal primo scaglione, giunse la
sera del 10 novembre a Cadice.
Ricordate, o miei cari legionari, il salto
in quel piccolo battello traballante sul mare agitato, nella notte oscura e
profonda? Ricordate quel povero vostro compagno gravemente ammalato che voi
stessi sbarcaste a braccia, con gran pena e fatica, e con grande pericolo per
il risucchio delle onde? Ma la vostra volontà e la vostra accortezza ebbero
ragione dell’acqua insidiosa, ed anch’egli, semplice legionario che vedeva
interrotto il suo sogno, giunse tra le capaci fiancate del “Gradisca”, dove
ritrovò poi forza e vigore per riprendere il suo posto tra le vostre file. Fu
perciò con un salto – dal battello sulla banchina – che voi posaste il piede
saldo e fermo sulla terra di Spagna. E suggellando davanti a Dio la vostra
promessa, foste ancora una volta consapevoli che non sareste ritornati nella
vostra cara terra natale se non inebriati dal vivo soffio della più completa
vittoria.
E così fu, infatti.
CAPITOLO IV. PRIMO SALUTO DELLA SPAGNA IN TORMENTO
Puerto de Santa Maria:
11-16 novembre
Lo
sbarco a Cadice ed il trasferimento in treno, nella stessa notte, a Puerto de
Santa Maria, diedero inizio alla seconda tappa del nostro cammino verso
l’ignoto. In quella piccola ma bella cittadina sul mare ci fermammo pochissimi
giorni: soltanto il tempo necessario per riunirci, riprendere i materiali,
indossare l’uniforme che avevamo temporaneamente lasciato, aspettare gli automezzi,
formare il nuovo convoglio che ci doveva portare più lontano. Questa breve
permanenza, sebbene trascorresse rapida e densa di attività, ci portò qualche
vivo disappunto perché il nostro “Batmo” venne mutilato della sua 3a
compagnia, messa a disposizione della divisione “Frecce verdi”. Fu questa una
mutilazione assai dolorosa per quelli che si distaccavano e per quelli che
rimanevano. Le esigenze militari hanno talvolta necessità imprescindibili alle
quali un soldato non può sottrarsi e deve accettare con ferma disciplina. Ma in
quel caso, quell’ordine fu veramente penoso perché non toccò soltanto una
entità tattica, ma anche una salda compagine organica ben costituita, forte
materialmente ed ancor più forte moralmente, già legata da vincoli di fraterna solidarietà.
Rimpiangemmo perciò sinceramente quella mutilazione, la quale d’altra parte ci
parve anche assai strana perché al “Batmo” fu poi data altra compagnia (ma di
questo parleremo più avanti), mentre la nostra 3a passò a far parte
di un battaglione di mitraglieri. Comunque, l’ordine, se pur poco gradito, fu
eseguito dagli elementi tutti del “Batmo” con quel senso di profonda e ben
sentita disciplina
che sa rassegnarsi all’inevitabile. Ma
ritorniamo a Puerto de Santa Maria.
Come un giardino fiorito in quel tardo
autunno che sapeva un po’ di tepore primaverile, tale cittadina vi diede il
primo saluto della Spagna tormentata, accogliendovi come nuovi fratelli venuti
a dare il loro valido e generoso contributo alla ormai lunga ed estenuante
lotta per il trionfo dell’ordine e della civiltà. E voi accoglieste quel saluto
come una nuova manifestazione della solidarietà dei due popoli legati nella
lotta contro la barbarie rossa, forma reale e concreta della distruzione e
della negazione della Patria e di Dio. E quel saluto, raccolto e ricambiato in
quelle chiare giornate di novembre, allietò maggiormente il vostro spirito, vi
rese più giocondi e più sicuri nell’affrontare la prova decisiva che si
avvicinava a grandi passi. Anch’io volli in quei giorni dare tranquillità al
mio spirito, chiamando a raccolta in me stesso tutti i miei pensieri più
intimi. Tra una corsa a Siviglia ed una passeggiata sul lungo mare, osservando
quel piccolo “barco” tanto caratteristico che andava e tornava da Cadice in
soli 20 minuti, passai col caro Allamandola – che doveva lasciarci – ore assai
liete e serene. Voi invece, tutti presi dagli svaghi e dalla letizia (qualcuno
anche un po’ troppo: o Brunori! o Matteazzi! o Lochner!), non vi accorgevate
che il vostro “fratello maggiore”, pur nella serenità del suo spirito e dei
suoi atti, che non gli è venuta mai meno, vegliava sempre su voi e vi seguiva
in ogni istante col pensiero e col cuore, occupandosi e preoccupandosi –
talvolta anche più del necessario – del presente e del futuro.
Giunse così il mattino del 17 novembre.
Tutti salimmo su quell’interminabile treno, e pigiati in quei carri partimmo
verso il nord lontano, nuovo luogo di sosta forzata. Già la 3a
compagnia ci aveva preceduti di un’ora, e correva anch’essa verso la zona di
Calatayud, dove l’attendeva il suo nuovo destino. Salutaste i vostri compagni
col pianto nel cuore, ma il vostro saluto, scambiato con la più segreta
speranza, fu piuttosto un accorato arrivederci lungo e appassionato. E infatti,
anche durante la battaglia, nei fugaci incontri che spesso si verificarono,
rinnovaste l’abbraccio coi vostri fratelli della 3a, intimo ed
affettuoso poiché anch’essi vivevano nel pericolo e gran gioia era ritrovarli
dopo lunga e penosa lontananza. Ma anche da lontano, attraverso lettere e
cartoline, foste sempre gli uni accanto agli altri e vi raccontaste episodi,
ansie e fatiche, mantenendo vivo nel vostro cuore il ricordo e lo spirito del
vecchio “Batmo” che tuttavia sopravvive ancor oggi in tutti noi nella sua
inscindibile unità morale e spirituale. Ma il treno interminabile aveva già
iniziato la corsa lentissima attraverso l’Andalusia assolata e ridente.
CAPITOLO V. DIVISIONE D’ASSALTO “LITTORIO”
Andalusia, terra di sole:
17-20 novembre
Un lungo viaggio in treno in terra di Spagna,
durante la guerra era certamente un avvenimento che non poteva non lasciare in
noi una certa impressione. Chi ne ha compiuto qualcuno, sa bene cosa voglia
dire. Abituati ai nostri treni
velocissimi, divoratori di centinaia di chilometri in poche ore, quell’interminabile,
lentissimo viaggio è sempre vivo nella nostra mente. La guerra civile
esercitava anche in questo campo la sua funesta influenza: la deficienza di
combustibile, il materiale ferroviario vecchio e scarso, deteriorato e diviso
fra le due parti avverse, il forzato abbandono del lavoro nelle officine,
l’orientamento imposto dalle necessità della guerra ad ogni forma di attività
nazionale quasi esclusivamente protesa verso l’annientamento delle oscure forze
della distruzione e del male, determinavano una lentezza talvolta
impressionante nell’attività civile della vita spagnola di quel tempo. Né ad
essa si potevano sottrarre i trasporti militari. Per contro, l’aspetto
caratteristico della terra di Spagna ci apparve in tutta la sua completa bellezza.
Lentissimo il treno si muoveva sulla fertile terra dell’Andalusia, ricca di
sole e di sorrisi. Le campagne si susseguivano coltivate ed immense, perdendosi
verso l’orizzonte lontano; città e borghi si alternavano accoglienti e festosi
nei colori bianchissimi delle loro case. Lunghe fermate nelle stazioni
consentivano di prendere qualche contatto con i cittadini e discorsi ed auguri
venivano scambiati con effusione e spontaneità. La Spagna ci apparve, in quel
brevissimo giorno, come una bella terra promessa per la cui libertà valeva la
pena di lottare. Sopraggiunta la sera, la corsa attraverso l’Andalusia volse al
termine, e mentre scendeva la notte, assai monotono divenne quel viaggio perché
i nostri occhi immoti si aprivano su di una oscurità fitta e impenetrabile. Non
luci nel treno e nei campi, ma buio intenso e profondo, e cielo cupo e
sinistro.
Già l’Estremadura si avvivinava, e la
nostra corsa lentissima conservava sempre il suo attraente mistero. Ci
passarono accanto villaggi e città ricche di ricordi e di tradizioni. A tutte
la lotta civile aveva dato una storia recente: Mérida e Badajoz, Caceres e il
Tago che lento scendeva dalla Nuova Castiglia per Toledo e Talavera,
attardandosi a tratti nel suo letto sinuoso, tra il fertile piano. Scorgemmo nell’ombra
nera della notte boschi di ulivi e sterminate distese pianeggianti cui
l’oscurità dava l’aspetto del vuoto indefinito e indefinibile. E stanchi alfine
di guardare nel nulla, ci adagiammo sul nostro duro giaciglio e trascorremmo la
notte tra un dormiveglia inquieto e poco riposante.
Ma il mattino successivo ci vide in gran
pena perché un nostro compagno, il sergente maggiore Bonina, forse perché un
po’ distratto, cadde dal treno in movimento. Subito lo raccogliemmo, e non
fummo generosi con lui perché la sua inavvedutezza avrebbe potuto causare un
sinistro se quel treno fosse stato più veloce, o se il largo bordo del piano
ferroviario non lo avesse trattenuto sanguinante e malconcio.
A
Valladolid rivedemmo ancora una volta i nostri fratelli della 3a
compagnia e li risalutammo con la nostra consueta cordialità ed espansività. Al
ristorante della stazione gli ufficiali si riunirono per “l’ultima cena”…..e
per la prima
volta, dopo tanti mesi, la mensa fu
silenziosa; Arista aveva smesso di gridare e Foscarini cercava invano le parole
per prendere ancora in giro il “diavolo giallo”, il piccolo Conte che si
allontanava con la sua compagnia.
Forti
e baldi legionari della 3a compagnia, nel momento in cui il vostro
treno vi portava via, assai sentimmo il vuoto che lasciavate in noi, e molto ci
addolorò il vedervi partire. Vi seguimmo
con lo sguardo e nei nostri occhi c’era
una lacrima: pensavamo che non saremmo
stati insieme nel giorno del pericolo, mentre avremmo voluto ammirarvi nella
vostra battaglia che certo avreste condotto con tenacia e valore. Arrivederci,
caro e buon Allamandola, che il buon Dio ti assista! Mai venga meno in te la
fede! Portino i tuoi soldati tra le “Frecce” la forza del loro entusiasmo e sia
con voi e per voi la bella, la fulgida, la santa vittoria! Arrivederci, o fratelli! Nel giorno della
lotta saremo accanto a voi con tutto il nostro spirito, con tutto il nostro
cuore, e la vostra vittoria sarà pure la nostra, così come la vostra gioia, così
come il vostro dolore.
Il nostro lunghissimo viaggio continuò tra
i monti della Vecchia Castiglia, fino a Miranda e Haro, dove giungemmo il
mattino del 20 novembre. Prendemmo contatto col nostro comando di Divisione e,
ricevuti gli ordini, proseguimmo in autocolonna fino a La Guardia.
La Guardia: 20
novembre-6 dicembre
Col 20 novembre, giorno di arrivo a La
Guardia, si inizia un nuovo periodo della nostra movimentata vita spagnola.
Entriamo infatti nella nostra nuova famiglia: quella della DIVISIONE D’ASSALTO
“LITTORIO”.
Pronunciamo queste parole con un tremito
nella voce. Un’ondata di appassionante entusiasmo ci pervade e ci esalta
trascinandoci nella marea infinita dei ricordi! “Divisione d’Assalto Littorio”,
grande e bella famiglia di legionari che tutto hanno dato ed osato, tu ci
accogliesti nel tuo grembo in quel freddo e nebbioso mattino di novembre, e sin
da allora fosti il nostro vessillo di fede, di speranza e d’amore. All’ombra
del tuo santo “Littorio” lottammo e vincemmo nel nome d’Italia.
Ultimi giunti tra voi, forti veterani
delle invitte legioni temprati ai più duri cimenti in oltre due anni di epiche
lotte, quale poteva essere il nostro apporto alla causa per la quale avevate
già offerto in olocausto tutte le vostre energie ed il fiore dei vostri fratelli migliori? Quale
poteva essere il nostro apporto, se non quello di una fede incrollabile e
profonda, se non quello del nostro ardire fresco e pieno di entusiasmo? Ultimi
giunti tra voi, eroi delle più dure battaglie, quale poteva essere il nostro
apporto se non quello della voce della grande Patria lontana che mandava ancora
i suoi figli ad affiancarsi ai veterani della bella Crociata?
Allenati
ad un ritmo di intensa e feconda attività, usi alla fatica che rinforza i
muscoli ed allarga i polmoni in un più ampio respiro, riprendeste subito i
vostri materiali, le vostre armi, il vostro addestramento, e presto foste
pronti, saldo il cuore, tesa la volontà. Avevamo già ingrossate le nostre file:
ceduta nostro malgrado la “salda” 3a compagnia al battaglione
mitraglieri della Divisione “Frecce verdi”, altri e non meno valorosi legionari
si affiancarono a noi. Già provati in molte battaglie, i “rimasti” del
battaglione mitraglieri medaglia d’oro “Palella” costituirono la nuova 3a
compagnia, e si affiancarono a noi con la loro magnifica tradizione di eroismo
e di gloria. Avevano lasciato
le mitragliatrici, fedeli ed affezionate
compagne delle lotte dure e sanguinose, ma nel prendere i piccoli mortai
d’assalto, lo spirito dell’eroe di cui portavano fieramente il nome, li seguì e
fu con loro nei giorni della dura lotta. Completato il loro addestramento,
esercitatisi al tiro, già permeati di spiccato spirito offensivo, furono presto
anch’essi pronti all’assalto con i mortai. Chi vi vide in quei giorni, baldi e
forti legionari vecchi e nuovi del “Batmo”, vibranti di entusiasmo e di
passione, anelanti di misurarvi col nemico tenacissimo, non potè nascondere, né
nascose del resto, l’impressione di saldezza spirituale e materiale che gli
avevate dato in quei momenti di grande vigilia.
La Guardia, 26 novembre
1938 ORDINE PERMANENTE N. 1. In seguito ad ordine del “CTV”, sotto la data del 17
novembre c. a. il 1° battaglione speciale mortai da 81 mm ha assunto
la denominazione di battaglione
mortai “Littorio” assorbendo la 3a compagnia mortai da 45
costituita con elementi del
disciolto battaglione mitraglieri “Palella” e cedendo la 3a
compagnia mortai da 81 alla divisione mista “Frecce Verdi”. Il plotone comando di battaglione, sotto la stessa data,
si è trasformato in compagnia comando di battaglione. IL MAGGIORE COMANDANTE DEL BATTAGLIONE F.to Gaetano Amoroso
COMANDO BATTAGLIONE MORTAI “LITTORIO”
Preparavamo allora la grande offensiva
della Catalogna, quell’offensiva che doveva dare il tracollo completo e
definitivo alle forze rosse che ancora baldanzose resistevano sul Segre e
sull’Ebro. In continui, quasi giornalieri contatti coi battaglioni dei due
reggimenti – 1°: “Gloria”; 2°: “Oliveti” – ci affiatammo coi fratelli d’arme
accanto ai quali dovevamo combattere. Non avevamo le bombe a grande effetto che
sui colli di Tarquinia vi avevano tanto entusiasmato; ma in un viaggio a
Saragozza, il vostro comandante ed il capitano Castro – del Comando di
Divisione – concretarono con l’Intendenza spagnola una modifica alle vostre
armi. E fu per effetto di questa modifica, attuata poi in mezzo a quasi
insormontabili difficoltà, che poteste, terminate le bombe di ghisa acciaiosa,
continuare il vostro fuoco con quelle spagnole, più grosse, il cui rifornimento
era assicurato in lunga misura.
O La Guardia! tappa indimenticabile del
nostro intenso raccoglimento, i giorni che trascorremmo tra le tue vie, nelle
tue campagne, nelle tue case, nelle tue piazze, sono da noi ricordati con vera
e profonda commozione. Già Zingarello – nostro maestro di musica – aveva
riaperto le casse e rilucidati gli strumenti, e tutte le sere soffiava dentro
alla sua “brillante cornetta”, e si sfiatava per regalarvi le solite allegre
marcette. E voi le ascoltavate in quella piccola piazza di un subito
trasformata in vasta sala da ballo. Animati da schietta allegria, raccoglievate
allora i sorrisi delle belle “chicas” dagli occhi nerissimi e maliosi, e le
stringevate a voi tenacemente come sicure conquiste nella vostra semplice
danza. Il vostro comandante, muto e solo talvolta si soffermava in un angolo a
guardarvi sentendo in cuor suo una vera letizia perché era riuscito a
procurarvi uno svago.
Già i giorni passavano rapidi come se
fossero ore, e l’attesa visita del Generalissimo, prima rimandata e poi
affrettatamente annunziata per il 6 dicembre, doveva costituire il “momento”
culminante della vostra preparazione, Il “via” per la vostra marcia trionfale
nel cuore della Catalogna. Ma ad un tratto, che cosa succede? Il Generalissimo
non sarebbe più venuto a passarvi in rivista: c’erano invece i treni che vi
aspettavano alle stazioni di partenza. Già spiritualmente e materialmente
pronti, in un attimo affardellaste gli zaini, lucidaste le anime dei vostri
mortai con lo scovolo di legno improvvisato, riprendeste la marcia verso un più
grande destino. Zaino in spalla, zaino in spalla ancora una volta! E avanti,
avanti, col passo sicuro delle quadrate legioni romane, all’ombra dei neri
gagliardetti che garrivano al vento col loro sacro e invincibile “Littorio” di
Roma.
Albalate:
7-9 dicembre
Un altro lunghissimo treno…lumaca! Grave
disappunto per tutti. Ognuno di voi sembrava dicesse: “Perché questa lentezza
snervante? Eppure si va verso la fronte! Incontro al nemico si corre a pieni
polmoni per travolgerlo nell’impeto dell’assalto: ogni sosta rompe
l’entusiasmo, ogni tregua dà respiro al nemico. Corri, corri, treno…lumaca, tu
trasporti saldi cuori d’acciaio e ferree volontà tutte protese verso una
immancabile vittoria. Corri, corri, non sostare. Non ti attardare su questi
binari che costringono e inceppano il tuo movimento. Sorpassa i più lenti e
portaci avanti; portaci di fronte al nemico: siamo i baldi figli d’Italia!” Ma
il treno lumaca non sentiva l’ansia dei nostri cuori frementi e continuava nel
suo lentissimo moto, si indugiava in lunghissime fermate mentre sulla
“carretera” che ci fiancheggiava ci sorpassavano le autocolonne dei viveri, dei
materiali e dei servizi che avevamo preceduto nella partenza.
Giungemmo infine ad Albalate sul Cinca. Un
prato, ancora quasi pantano per le recenti piogge e per la vicinanza del fiume,
vide sorgere le nostre tende, piccole sotto gli ulivi annosi. Una minuscola
cascina ospitò il vostro comandante e qualche altro ufficiale, servì di
deposito per i materiali, e fu poi prima base per lo sbalzo tanto atteso. E
però, per quante ore quella piccola cascina sul Cinca ospitò il vostro
comandante? Una breve sosta, e poi subito al comando di Divisione per un lungo
rapporto finito tardissimo; e alle prime luci dell’alba nuovamente in piedi per la ricognizione della fronte,
verso le trincee, verso quelle trincee che dovevamo presto raggiungere.
Seròs:
notte del 10 dicembre
Partimmo autocarrati per Seròs nelle ore
pomeridiane del 9 dicembre. A Fraga sostammo. L’autocolonna si snodava su
quella magnifica strada asfaltata, in salita, a zig zag, su, verso il colle.
L’accampamento dei marocchini sulle pendici opposte del monte luccicava di
mille tenui luci facendo assumere a tutta la valle l’aspetto caratteristico di
un villaggio zingaresco pieno di vita misera e misteriosa. A tratti qualche
grido incomprensibile richiamava nell’aria l’eco quasi sinistra che si perdeva
lontano nell’oscurità della valle. Anche il Cinca scorreva laggiù nel suo letto
largo e pianeggiante, quasi tenue mormorio rotto solo dall’ansare di qualche
motore sul lungo ponte di legno. Dato il segnale della partenza, dopo quel
piccolo sogno quasi africano avvolto di mistero, durato appena mezz’ora,
riprendemmo la salita, cuori e motori in forte e pulsante attività. Sul colle
piegammo a destra e, fari spenti e marcia lentissima, iniziammo la discesa
nell’ampia vallata del Segre. Avevamo già percorso, nel buio della sera fredda
e silenziosa, oltre 100 chilometri su pessima strada, incrociando e sorpassando
salmerie e qualche reparto. L’abitato ci aspettava laggiù, oscuro e silenzioso
in fondo alla valle; unico segno di vita: qualche luce lontana, verso la testa
di ponte. Più a valle, una mitragliatrice cantava a scatti, nella notte fonda.
La strada a mezza costa, in quasi tutto il
suo percorso fangosa, difficile e ripida, rendeva la marcia lenta e pericolosa
per i continui slittamenti. All’ingresso dell’abitato ci fermammo, scendemmo
dagli autocarri e, materiali a spalla, proseguimmo a piedi. Attraversammo il
paese: la guerra vi era passata con tutte le sue conseguenze più tristi:
distruzione completa e spietata. Non una casa si era salvata: tutte levavano
alte le loro informi mutilazioni nell’ombra della notte, quali braccia protese
verso il cielo, su dalle macerie che ne colmavano gli interni. Nessuna traccia
di vita. Silenzio tenebroso, desolazione e devastazione regnavano assolute e
sovrane su tutte le cose. Oltrepassammo la piazza: un grande viale volgeva a
destra, verso il ponte. Lo avevo percorso il giorno avanti. Lo rifeci quella
notte, rattristato e pensoso. Guerra di Spagna, lotta di fratelli contro
fratelli, qui si erano accaniti gli spiriti folli del comunismo rosso di onta e
di sangue. Quale Santa vendetta andavate a compiere, o legionari d’Italia, in
quella sera silenziosa, contro lo spirito immondo del male che aveva seminato
strage e tormenti, pene e martirio su tutto un popolo ricco di glorie, di
tradizioni e di civiltà umane e cristiane?
Cadenzato e sicuro il vostro passo
continuò in quell’ora, verso l’ultima tappa dalla quale si doveva iniziare la
vostra marcia trionfale. Giunti sul ponte sicuri lo attraversaste, fiera
avanguardia di una più fiera Divisione che era pronta a scattare per vincere
nel santo nome d’Italia!
CAPITOLO VI. LUNGA VIGILIA
Nella testa di ponte di Seròs:
10-22 dicembre
Ripenso ora a voi, o legionari del
“Batmo”, e vi rivedo con me, nel silenzio di quella notte oscura e piena di
mistero. Vi precedevo silenzioso su quel ponte fiancheggiato a monte da
sacchetti di sabbia. Mi seguivate anche voi silenziosi, uno dietro l’altro; e
quando fummo tutti di là del Segre, sentimmo il nostro cuore battere come
campana a martello. Dove vi portavo io, giovani pieni di ardore e di vita,
avanzando nel buio della notte in fondo alla piccola valle fangosa e sassosa?
Che cosa frullava nella vostra mente, quali erano i vostri pensieri reconditi
in quei momenti in cui ogni passo vi avvicinava sempre più al pericolo?
Sentivate vicina la trincea. La sensazione del vuoto del campo di battaglia vi
prendeva, incerti sul domani; ma avevate fede nel vostro destino. Vi
accovacciaste sulla terra arida e dura, sui sassi e sugli spuntoni delle
piccole rocce affioranti che vi si conficcavano nei fianchi; vi arrotolaste nel
telo, tra cappotto e coperta, e dormiste così il vostro primo sonno
all’addiaccio, a pochi passi dal nemico che nei ricoveri blindati riposava
tranquillo e inconsapevole della grande bufera che gli si addensava d’attorno.
Anche in quella notte il vostro “fratello
maggiore” non dormì, ma molto camminò sul pendio del monte e sul breve pianoro,
per essere certo che non aveva sbagliato; e qualcuno di voi lo accompagnò per
gran tratto (Bacchetta, Mellas, buoni e fedeli compagni), finchè non si
accovacciò anch’egli dietro a un muretto, in mezzo a voi, anch’egli avvolto nel
cappotto grigioo-verde, tra la coperta e il telo, aspettando le prime luci del
giorno. All’alba vi svegliò, e voi lo vedeste scrollarsi d’addosso – come
facevate anche voi – la rugiada che lo aveva bagnato durante la notte. Vi
riordinaste nei ranghi e subito vi portaste al posto assegnato.
Alacre incominciò il vostro lavoro: prima
le postazioni per le armi, poi le tende, piccole casette di tela aggrappate al
ripido pendio e dietro al muretto di sostegno in fondo alla valletta sistemata
a terrazze. Già il sole, fugata la nebbia del grigio mattino, era salito alto
nel cielo a sorridervi, e già il vostro lavoro incominciava a prendere forma e
consistenza come se una piccola allegra tendopoli fosse sorta come per incanto,
mimetica e irregolare. Qualcuno di voi più curioso aveva già fatto una corsa
nella trincea vicinissima. La possibilità di vedere il nemico, il pensiero che
eravate in trincea, il desiderio di sentire da vicino una scarica di fucileria
o il canto di una mitragliatrice, vi rendeva smaniosi. Nel frattempo il nemico
si era anch’esso svegliato e di quando in quando sfogava la sua rabbia con
qualche tiro sul ponte o tra i ruderi del paese quasi completamente distrutto,
mentre voi, tranquilli, attendevate al vostro lavoro; e alti sibilavano i proiettili
che cadendo nel Segre o tra le case sollevavano immense colonne d’acqua o
nuvolette di polvere grigiastra.
Il giorno successivo, qualche colpo più
corto vi mise in allarme, e qualche altro, bene aggiustato nei pressi del
ponte, tra il ponte e il mulino, tra il mulino e il monte, cadde e, purtroppo,
colpì nel segno. Alle prime notizie, il vostro “fratello maggiore” si portò al
mulino: doloroso momento quello, doloroso e penoso perché un vostro compagno,
intento a tendere i fili del telefono,
era stato colpito a morte, ed un altro ferito. Fu quello il nostro primo
lutto, il nostro primo grande dolore, il primo tributo pagato alla nostra
grande causa.
Franchina! Forte legionario che avevi
lottato in due anni di dura campagna, da Malaga a Bilbao, da Santander al
Levante, tu fosti il primo compagno d’arme caduto in quella vigilia, ed il tuo
nome è tuttora inciso nel nostro cuore. Ti vidi con lo sguardo immoto e la
testa all’insù; il pianto mi si annodò in gola fin quasi a soffocarmi, e nello
stendere sul tuo viso la rude coperta da campo, il mio pensiero volò alla tua
cara mamma lontana che ti aspettava e che non ti avrebbe più riveduto! Pace a
te, camerata valoroso! Coraggio, buona e cara vecchietta sperduta laggiù nel
piccolo, lontano paese; tuo figlio non è ancor morto tra noi: egli vive ora la
sua vita eterna nel cielo e ci aspetta lassù tra gli eroi che hanno offerto la
loro balda giovinezza in olocausto alla Grande Patria immortale!
Il vostro lavoro continuò senza soste.
Ultimate le postazioni incominciaste i ricoveri, poi i camminamenti, poi le
strade. La pioggia cadeva fitta e penetrante, tutti i giorni. L’offensiva,
predisposta per il giorno 13, dovette essere rimandata a causa delle avverse
condizioni atmosferiche le quali, se pur non avessero notevolmente ostacolato
il primo sbalzo, ne avrebbero certo impedito il successivo sviluppo. Foste
perciò costretti a rimanere 14 lunghissimi giorni nella testa di ponte di
Seròs, tra la pioggia continua ed il freddo, in mezzo al fango, martellati dal
“cecchinaggio” avversario e dal tiro dell’artiglieria incessante, talvolta
rabbioso, spesso efficace. Quello fu il vostro primo collaudo. A voi toccò
l’alto onore di dare il primo Caduto e i primi feriti alla nostra bella e
valorosa Divisione.
Si susseguivano intanto con ritmo sempre
crescente le ricognizioni degli ufficiali dei reggimenti della Divisione
accampati nella zona di Fraga, in attesa dell’ordine di raggiungere le
posizioni di partenza.
13 dicembre 1938 Nelle mie visite al battaglione ho rilevato con
compiacimento l’alto spirito combattivo che anima ufficiali e gregari. Per
quanto di recente formazione dimostra già di essere della stessa tempra dei
reparti che l’hanno preceduto nella lotta. L’onore di aver dato alla
divisione il primo Caduto sia per i legionari del battaglione motivo di
orgogliosa fierezza ed incitamento alle prove future. A tutti il mio vivo
elogio. IL COMANDANTE LA DIVISIONE Generale di Brigata I. G. S. G. Bitossi
COMANDO DIVISIONE D’ASSALTO “LITTORIO”
AL SIG. COMANDANTE DEL BATTAGLIONE MORTAI “LITTORIO”
Vennero gli ufficiali dei “Lupi”, dell’ “Inflessibile”, dell’ “Ardente”, del “Vampa” e del reggimento d’artiglieria; curiosarono attraverso le feritoie e alzando la testa tra sacchetto e sacchetto, dissero la loro parola, concretarono il loro programma: “Di qui non si può passare” – “Di là si passa meglio” – “Laggiù c’è una mitragliatrice” – “Lassù è terreno scoperto” – “In mezzo c’è fitto reticolato”! Ma guardando la trincea avversaria protetta da fitto reticolato, vedendo il monte Farinas levarsi laggiù a sinistra, rossiccio e turrito, ogni comandante, raccolto in sé, in silenzio, pensò ai suoi prodi legionari che avrebbero dovuto scattare da quella informe trincea fangosa, sotto il tiro rabbioso delle mitragliatrici avversarie. E la sua fronte si corrugò un istante.
Su, via, fieri comandanti delle invitte
legioni! Nessun triste pensiero vi prenda! Tutti i vostri baldi legionari
raggiungeranno la meta nel primo eroico assalto; i loro cuori d’acciaio,
temprati alle più dure battaglie, resisteranno alla corsa affannosa, e il
mitragliere rosso rintanato nel suo ricovero non avrà cuore né tempo di
sgranare il suo micidiale rosario poiché resterà nella tana immoto e tremante,
e l’impeto dei vostri forti soldati lo travolgeranno in pochi attimi. Su,
animo, forti legionari del santo “Littorio”: ci saremo anche noi nel giorno
della dura battaglia, mortaisti decisi e precisi, pieni di vita e di ardore,
pronti a combattere con voi fianco a fianco, pronti a seguirvi passo passo,
nella vostra corsa meravigliosa; ci saranno gli artiglieri dei pezzi da 65, i
quali porteranno a spalla il loro cannone e sono anch’essi decisi, forti e
saldi nei cuori e nei muscoli; e cannoni e cannoni ancora più potenti; e l’Ala
italiana valorosa e insuperabile, trionfante nel cielo, arditissima nella
caccia, terrificante nel bombardamento! Soprattutto c’è la nostra idea gigante,
la nostra immensa fede nel successo. Rasserenate la vostra fronte, fieri
comandanti delle invitte legioni! Vinceremo!
Il 14 dicembre fu assegnata al “Batmo” una
compagnia di mortai da 81 – “Valero” – costituita da elementi spagnoli e
comandata da un ufficiale italiano: il tenente Cavazzuti Lionello. Avremo
ancora occasione di occuparci di questo valoroso soldato pieno di fede e di
entusiasmo e della sua compagnia. Per ora ci basti rilevare che questo rinforzo
fu veramente prezioso perché i mortai “Valero” assicurarono al “Batmo” una
maggiore potenza di fuoco.
Pochi giorni prima dello scatto giunsero
nella testa di ponte i valorosi battaglioni del 1° e del 2° reggimento camicie
nere. Accanto a noi si attendarono i “Lupi” di Olita, e con essi vivemmo gli
ultimi giorni della grande vigilia, in fraterna comunione di spirito e di fede.
Con loro dividemmo la scatoletta di tonno, il fiaschetto di vino, la pagnotta
un po’ dura ma saporosa di grano. E sin da allora si annodarono tra noi quei
rapporti di cameratesca ed affettuosa
cordialità che ci dovevano accompagnare per tutta la campagna.
O fratelli del “Lupi”, come vi ricordo
ancor oggi pieno di commozione e di fede. Come vorrei ancor oggi, coi miei
bravi mortaisti, tornare accanto a voi e combattere insieme quest’altra più
dura battaglia che ci affrancherà nel Mare Nostro! Come vorrei ancor oggi
confondermi con voi nell’impeto dell’assalto (a quota 806 di Santa Coloma de
Queralt!), mortaisti e mitraglieri, fianco a fianco, camicie nere e soldati,
compagni d’arme legati da una grande fede e dall’entusiasmo vivissimo, sotto il
segno del sacro “Littorio”. Ma i lunghi giorni d’attesa passarono, e l’alba
fatidica giunse in quel radioso mattino di dicembre, col rombo del cannone e
dei motori nel cielo, con l’ardore degli animi e l’entusiasmo che traspariva
dagli occhi pieni di speranza, di augurio, di fede, di grandissima fede!
CAPITOLO VII. I “LUPI” ALL’ASSALTO
L’abbrivo eroico:
mattino del 23 dicembre
La nostra bella e gloriosa Divisione
d’Assalto “Littorio” scattò dalla testa di ponte di Seròs il mattino del 23
dicembre. Schierati per ala – 1° reggimento a destra, 2° a sinistra,
battaglione mortai col 2° reggimento – la Divisione d’Assalto “Littorio” si era
ammassata nella piccola testa di ponte. Affilate le armi, temprato lo spirito,
volitiva e possente, si sentiva ed era pronta ad affrontare un nemico che
appariva sempre più tenace, forte e deciso a non cedere.
I nove battaglioni che la costituivano –
camicie nere e intrepidi soldati reduci di cento battaglie, giovani mortaisti
pieni di vita, di entusiasmo e di fede, artiglieri sempre pronti al sacrificio
per l’arma sorella – si erano raccolti attorno al loro fiero e valoroso
Comandante decisi a lottare in continua gara di valore, ardimento e tenacia,
per superarsi a vicenda; e nell’impeto irresistibile e travolgente, ebbero
un’anima sola, una sola fede, una sola forte volontà: vincere! Noi non possiamo
seguire tutta quella eroica giovinezza nella sua corsa magnifica verso la
grande vittoria. Non possiamo seguirla – ed assai ce ne duole – perché non
potremmo adeguatamente parlare degli eroismi compiuti a Blancfort, a Santa
Coloma de Queralt e in tutti gli altri gloriosi combattimenti cui prese parte.
Nulla potremmo dire infatti dei valorosi reparti che sotto la guida di un fiero
comandante – il colonnello Gloria – marciarono sempre di vittoria in vittoria,
perché non fummo accanto a loro nei momenti culminanti dell’epica lotta, e solo
da lontano ci giunse l’eco dell’ardore col quale la condussero e del valore che
in essa dimostrarono. Altri e più degnamente assolveranno questo grande debito
di gratitudine e di onore; e perciò noi torniamo ora ai mortaisti ed ai “Lupi”
nostri valorosi camerati, anch’essi insuperabili combattenti.
Gran tempo è ormai trascorso da quel memorabile
giorno, eppure, ancor oggi, a due anni di distanza, balza ancora nella mia
mente vivo il ricordo di quelle ore indimenticabili. Vi svegliaste di primo
mattino e foste pronti assai prima dell’ora stabilita. Anche i “Lupi” avevano
raggiunto il loro posto di battaglia compatti e pronti nei ranghi, mano ai
pugnali.
Alle 8 incominciò la battaglia. I cannoni lanciarono sulle posizioni
avversarie un numero infinito di proietti di ogni calibro. Gli aerei condussero
la loro sarabanda nel cielo e rovesciarono il loro pesantissimo carico. I pezzi
da 65 imboccarono con inesorabile precisione tutte le feritoie e martellarono
la trincea nemica in tutta la sua lunghezza. I mortai lanciarono
ininterrottamente tutte le bombe che erano state approntate e che, piovendo
dall’alto, silenziose e terribili, frantumarono ricoveri, schiantarono paletti,
aprirono varchi nel fitto reticolato, mentre i “Lupi” sostavano silenziosi in
agguato. Alle 10 apparve ancora nel cielo una pesante formazione da
bombardamento. Procedeva rumorosa ma lenta ed appariva visibilmente stracarica.
Sorvolò l’abitato di Seròs ed il fiume, passò sulle nostre teste, si spinse
alquanto sul cielo nemico volteggiando come fa il falco quando scorge la preda,
ed assunse formazione di attacco. Le squadriglie, rumorose e possenti, si
incolonnarono una dietro l’altra abbassandosi a tal punto che si scorgevano i
bombardieri sporgersi dalle cabine. Giunsero sulla trincea avversaria, sulle
linee dei rincalzi, sui ricoveri; rovesciarono il loro carico di bombe e subito
cadde dal cielo come una immensa grandinata micidiale e terribile. Lo schianto
che ne seguì fu spaventoso! La terra sussultò fortemente, ed anche i nostri
cuori tremarono sotto l’impressione di quell’inferno che non accennava a
diminuire d’intensità. Le squadriglie, succedendosi e alternandosi con
precisione impeccabile, volarono ininterrottamente, lente, inesorabili per
oltre mezz’ora rovesciando bombe e seminando distruzione e morte. Intanto a
terra, i reparti ed i carri erano pronti sulle posizioni di partenza.
L’artiglieria avversaria martellava
anch’essa con tiri precisi le nostre trincee, e tutto il campo di battaglia,
tra il sibilo acuto e stridente dei proietti, nell’immenso fragore delle
esplosioni, assumeva l’aspetto di un immane sconvolgimento tra cui brulicava
uno sciame di uomini in arme. E questi uomini a un tratto, subentrato come per
incanto il silenzio, su tutte le cose, all’infinito fragore delle armi,
scattarono come leoni da lungo tempo in agguato. Fu un attimo! Inebriati dalle
note solenni della fanfara che Oliveti aveva trascinato lassù, nell’esaltazione
di quel grido che conosce tante vittorie: “Savoia” – “Italia” – “Savoia” –
“Italia”, le camicie nere del “Vampa” e i “Lupi” di Olita, più vicini a noi, ci
apparvero veramente insuperabili nel loro eroismo, nella loro intrepidezza.
Vi ammiro tanto, o balde camicie nere del
“Lupi” e del “Vampa” in quell’assalto meraviglioso che mi ricordava quelli
epici del Carso, che trascinato dal vostro slancio irresistibile balzai anch’io
sulla trincea gridandovi con tutto il cuore e con tutta la forza dei miei
polmoni, la mia parola di incitamento e di fede! E subito, Cavagliano in testa,
mortai a spalla, vi seguimmo nell’avanzata travolgente!
Così ebbe inizio la nostra corsa trionfale
che insieme avremmo concluso, o fieri e valorosi figli d’Italia, che sempre più
in alto portaste il vostro glorioso gagliardetto, se la sorte mi fosse stata
più propizia. Non mancò tuttavia a Gerona al vostro fianco il vessillo dei miei
valorosi mortaisti ai quali, nel lasciarli perché forzato dal destino, avevo
dato una consegna: osare, combattere e vincere nel nome d’Italia.
CAPITOLO VIII. DA SERÒS A COGULL
“Siamo sulla Sierra Grosa”:
pomeriggio del 23 dicembre
Dopo l’abbrivo eroico, il passo di marcia
dei forti battaglioni della “Littorio d’Assalto” continuò ininterrottamente per
diversi giorni. Scavalcata la trincea di partenza e superata in una velocissima
corsa la “striscia azzurra” e i reticolati frantumati tra i paletti divelti, i
legionari di Roma piombarono come fulmini sulla trincea nemica annientandone i
difensori a colpi di bombe. Si lanciarono poi contro i rincalzi e li travolsero
con impeto irrefrenabile. Si spinsero quindi più oltre, sempre più oltre. Il
battaglione mortai seguì i “Lupi” in stretto contatto; giunse sulle batterie
nemiche , le oltrepassò. Fu più volte investito da intense raffiche di
mitragliatrici annidate in ogni piega del terreno e nei cespugli, ne ebbe
sempre ragione ed avanzò con impeto gareggiando in ardimento con gli altri
reparti. Giunse coi primi sulle pendici ovest della Sierra Grosa, obiettivo
della giornata per il 2° reggimento camicie nere. Prese postazione: era in
testa la compagnia mortai “Valero” comandata da Cavazzuti. Questo magnifico
reparto spagnolo agli ordini di un ufficiale italiano deciso e prontissimo di
spirito e d’intelligenza, appostò i suoi mortai in una piccola piega del
terreno sulle pendici della Sierra Grosa fronte a nord.
Una forte colonna nemica sostava sulla
strada in fondo alla valle: erano oltre mille miliziani visibilmente indecisi e
sorpresi di trovarsi di fronte ai legionari italiani. Dopo un fallito tentativo
di indurli alla resa, Cavazzuti aprì il suo fuoco precisissimo. Sotto gli
effetti micidiali di quell’inferno di bombe, lo sciame disordinato di uomini
sbandati si mise in fuga precipitosa cercando riparo dietro le case e dietro il
costone. Sopraggiunse intanto la 2a compagnia – Cronia – ed
anch’essa appostò le sue armi, di più lunga gittata. Intanto il nemico tentava
di riordinarsi, ed iniziava una violenta reazione. Il tiro delle sue
mitragliatrici, in un primo tempo lungo e disordinato, divenne preciso e quasi
continuo. Fu in questa prima giornata di battaglia che rifulse il valore di un
nostro modesto compagno. Non possiamo non ricordarlo ora, con vera commozione.
Povero e caro tenente Marotta! Giunse tra
noi a Tarquinia e la sua anima buona e generosa, il suo carattere mite ci
avevano fin dal primo momento colpito. Chiuso spesso in sé, durava fatica a
prender parte all’allegra brigata degli spensierati subalterni del “Batmo”; ma
allorché, vinta la prima incertezza, riusciva a confondersi con gli altri nel
coro forte e vigoroso, la sua voce diveniva calda e appassionata. Era spesso
pensoso e taciturno, forse perché presentiva la sua sorte. E infatti, subito lo
perdemmo: proprio il primo giorno! Inesorabile fu il suo destino! Sulle pendici
di quel tristo monte, tra un’arma e l’altra sempre in piedi incitando,
esortando, la inesorabile pallottola che lo colpì al petto attraversandogli il
cuore, gli lasciò soltanto pochi istanti di vita per rivolgere il pensiero alla
sua casa lontana, alla sua mamma che lo aspettava silenziosa ed affranta
nell’attesa angosciosa. Il suo capitano – compagno e fratello anche lui – stringendolo
tra le sue braccia tremanti, raccolse il suo ultimo respiro; i suoi mortaisti
gli fecero per un istante corona…ma subito furono ripresi dall’ardore della
lotta e trascinati lontano dall’impeto dell’assalto che progrediva verso la
vittoria. Ed oggi, ricordando il passato, essi ripensano a lui e lo ricordano
con commozione, perché lo conobbero buono e generoso, pieno di fede e di
entusiasmo, valoroso ed audace. Povero e caro tenente Marotta! Anch’io
ricordandoti sono oltremodo commosso, e un solo pensiero mi tormenta, un solo
rimpianto mi accora perché sento che anche tu, come me, tuo “fratello
maggiore”, non sei riuscito a vedere in pieno viso, nell’ebbrezza della corsa
vittoriosa, la nostra completa vittoria, fulgida e smagliante. Oggi tutti ti
sentiamo ancora qui con noi! Legionari del “Batmo”, innastate le baionette,
presentate le armi e rispondete a gran voce all’appello:
– Tenente Marotta! – Presente!
Nel tardo pomeriggio del 23 dicembre
giungemmo sulla Sierra Grosa. Il tenente colonnello Oliveti, fiero e valoroso
comandante del 2° reggimento camicie nere, installò la radio e iniziò la
trasmissione delle sue notizie: “Pronto – Pronto” – “Parla – Fernando – Parla –
Fernando” – “Siamo – sulla – Sierra – Grosa” – “Siamo – sulla – Sierra – Grosa”
– “Prego – dire – a – Gervasio – che – siamo – sulla – Sierra – Grosa” – “Passo
– Passo”. Lenta , continua, la voce di Oliveti scandiva e ripeteva le parole
come se ogni sillaba fosse il colpo di un martello su di una grossa campana:
“Siamo – sulla – Sierra – Grosa” – “Dire –a – Gervasio – che – siamo – sulla –
Sierra - Grosa”!
Anche su questo monte i due battaglioni di
primo scaglione presero posizione, ed anche noi ci disponemmo accanto ai “Lupi”
con le nostre armi e le nostre bombe. Bisognava trascorrervi la notte: la
colonna di miliziani che avevamo disperso in fondo alla valle avrebbe
certamente tratto profitto dalla inevitabile sosta notturna per riordinarsi e
contrattaccare. Bisognava perciò essere pronti a sostenere l’urto e,
soprattutto, essere decisi a fronteggiarlo e respingerlo.
Fu una notte tempestosa! Verso le ore 23 i
miliziani fecero il primo tentativo. Il fragoroso scoppio delle bombe a mano,
l’incessante crepitio delle mitragliatrici, rivelò subito l’accanimento della
lotta. Lontano da noi, un po’ più indietro, sulla sinistra, il battaglione
“Inflessibile” era rimasto a presidiare il primo vertice alto ed aguzzo della
Sierra Grosa e, attaccato anch’esso, resisteva meravigliosamente. Se avesse
ceduto, saremmo stati tagliati fuori. Accanto a noi il “Lupi” sosteneva gli
attacchi senza sparare una fucilata: quei meravigliosi soldati restavano
impassibili, aspettavano il nemico a tiro di bomba, e poi, già a tutto braccio,
lo fulminavano e lo respingevano inesorabilmente. Sette volte, in quella notte oscura
e tenebrosa, l’avversario rinnovò gli attacchi sempre più accanitamente, sempre
con maggiore tenacia, e sette volte fu nettamente respinto. Anche noi lanciammo
tutte le nostre bombe, ed anche qui la compagnia di Cavazzuti fu insuperabile.
Più largamente dotata di bombe, iniziò il suo tiro per prima e le faville che
sprizzavano alte nel cielo, dall’anima dei potenti mortai nel momento del
lancio, si susseguivano con celerità impressionante. Allora e sempre queste
armi si dimostrarono preziose e ben a ragione oggi quasi tutti gli eserciti ne
sono largamente forniti. Risolto il problema del rifornimento delle munizioni,
esse hanno provato di poter sostenere in qualunque terreno un ruolo
importantissimo nella battaglia offensiva, ed ancor più in quella difensiva. Su
posizioni bene scelte, tirarono lungamente senza che l’avversario riuscisse ad
individuarle. Il loro tiro, sempre a massa, dopo pochi colpi di aggiustamento,
si dimostrò sempre efficacissimo nel campo materiale e, soprattutto, in quello
morale. L’arrivo delle bombe, non preannunziate da alcun sibilo, il forte
angolo di caduta che le fa giungere in ogni angolo morto, come grandine
improvvisa, micidialissima, il potere dilaniante dell’esplosivo adoperato,
rende questi effetti sempre più deprimenti, sempre più spaventosi.
Questa breve dissertazione ci sarà
certamente perdonata dai nostri cari mortaisti per diverse ragioni: prima fra
tutte quella che noi stessi constatammo questi effetti, di fronte al Casone
bianco oltre Cogull, il giorno in cui ci attendammo in quel terribile vallone
della morte, seminato di cadaveri. Ed anche perché questi effetti materiali e
morali ci furono poi pienamente confermati dalle ripetute dichiarazioni dei
prigionieri, i quali apparivano tutti profondamente demoralizzati e
terrorizzati dai nostri mortai.
Il rancio tra gli ulivi:
24 dicembre
Verso le 4 del mattino i miliziani
tentarono il loro ultimo contrattacco che fu, come tutti gli altri,
sanguinosamente respinto. Poi aspettarono le prime luci del giorno. Assai breve
fu la loro attesa perché rapida ed improvvisa una colonna di carri veloci
giunse alle loro spalle e pochi poterono salvarsi dandosi a fuga precipitosa.
Balzammo anche noi subito all’inseguimento, e molto proseguimmo oltre la strada
di Sarroca. Un reparto del 2° reggimento camicie nere occupò Torrebeses. Sul
pianoro ad ovest di questo abitato, tra lunghi filari di ulivi, distribuimmo in
gran fretta il rancio che l’infaticabile Foscarini ci aveva portato. Ma da dove
era venuto, quale strada aveva percorso questo insuperabile ragazzo per
giungere fino a noi in quel giorno così movimentato? Come aveva fatto a
trovarci? Nessun altro reparto aveva toccato cibo dalla mattina del giorno
precedente. La corsa che avevamo compiuto, oltre ogni ottimistica previsione,
ci aveva molto allontanato dalla testa di ponte; eppure i nostri cucinieri, i
nostri muli, ora prima, ora dopo, erano giunti tra una sosta e l’altra del
combattimento e ci avevano portato una gavetta di brodo, un pezzo di carne, una
pagnotta, una scatoletta di tonno o di sardine. Quanti miracoli compì questo
bravo ufficiale aiutato dall’infaticabile Cattapan improvvisato cavaliere sul
mio bucefalo sempre inquieto. Entrambi resistentissimi, sempre decisi a
raggiungerci a costo di qualunque sacrificio, a costo di qualunque fatica;
scendevano e risalivano vallate, attraversavano boschi di ulivi e di mandorli,
saltavano fossi e trincee, esploravano case e villaggi, riconoscevano piste e
sentieri, e giungevano a noi in qualunque ora del giorno o della notte, a sera
o al mattino, portando pane e sigarette, minestrone e vino; ogni giorno, tutti
i giorni, immancabili, insuperabili.
Consumato in pochi momenti quel rancio
inaspettato, riprendemmo la corsa con rinnovata lena. A tarda sera giungemmo e
sostammo su un altro pianoro a nord ovest di Torrebeses, su cui ci disponemmo a
difesa. Cronia trovò una piccola grotta sotto un enorme masso sulle pendici del
colle, quasi sotto il ciglio del pianoro. L’ampliammo con un piccolo scavo e lì
ci accingemmo a passare la notte. Olita schierò i suoi “Lupi” in quadrato, e
fece l’appello dei suoi caduti. Passarono davanti a noi le figure dei valorosi
compagni e il rito, eseguito sul campo di battaglia, di fronte al nemico, si
svolse come in un ambiente di solenne e commossa intimità. Raccolti in
silenzio, chiusi nei nostri pensieri più cari pensammo anche noi ai nostri
poveri morti: Franchina e Marotta, e rivolgemmo a Dio la nostra silenziosa
preghiera.
Il miracolo di Grañena:
25 dicembre
La notte trascorse silenziosa e
tranquilla. Nelle prime ore del giorno proseguimmo la nostra avanzata. In vista
di Grañena scorgemmo sulla destra le pattuglie del 1° reggimento che lente
proseguivano sotto il tiro avversario. Una breve sosta del combattimento
consentì al colonnello Gloria di rinforzare l’attacco, e qualche colpo di
artiglieria bene aggiustato favorì il movimento e condusse i nostri tra le
prime case dell’abitato. A un tratto ci parve, tendendo l’orecchio, di sentire
un suono dapprima indistinto, come di campane a distesa. Erano infatti le
campane della piccola chiesetta di Grañena che, sfuggite per miracolo alla
furia devastatrice dei rossi, suonavano a stormo. Ma che cosa era successo?
Fu questo uno dei tanti magnifici e
commoventi episodi della guerra di Spagna: una nostra pattuglia, riuscita ad
infiltrarsi tra le difese avversarie, aveva raggiunto la piccola chiesetta, e
qualcuno più ardito, scorgendo quelle campane, si era lanciato su pel campanile
e afferratosi a quella corda, si era dato a suonare a gran festa. La solenne
voce di Dio si diffondeva così, misticamente, alta nel cielo, chiamando a
raccolta il popolo cristiano e fedele, nella località liberata. E mentre i
nostri occhi si velavano di lacrime, quell’inno sovrumano di speranza e di fede
si spandeva nell’aria e diceva, e ripeteva: “Salute, salute, o popolo di
Grañena! Corri alla tua casa libera alfine! Corri alla tua chiesa sulla piccola
piazza e prega a gran voce, in ginocchio. E pregando ringrazia la Santissima
Vergine benedetta e Dio Onnipotente: la Sua giustizia giunge sempre, sicura,
immancabile”.
Il suono di quelle campane ci aveva tutti
profondamente commosso. Il pensiero che un legionario italiano aveva compiuto
quel gesto, arrampicandosi su quel campanile per diffondere da lassù la voce di
Dio al di sopra della furia degli uomini, ci rese alquanto pensosi. Sì, era
proprio il miracolo che si compiva in quell’ora, era proprio il volere di Dio
che affidava ai legionari di Roma la Santa missione di riportare la fede
cristiana nelle case e nelle chiese devastate dall’orda bolscevica.
Cessato il pio rintocco di quelle campane
e passato quell’istante di raccoglimento e di commozione, il nostro cuore si
riscosse e la nostra volontà più forte si protese verso la meta ancora lontana.
Avanti, ancora avanti, o legionari d’Italia, oltre Grañena vi aspettano
numerose le città e i villaggi, e molto popolo chiede ancora ed attende di
essere libero ed uno, sotto il sacro e glorioso vessillo della nuova Spagna
risorta! Avanti, avanti, o legionari d’Italia, dura lotta ancora vi attende e lunga
è la strada per giungere al mare. Avanti, sempre più avanti, sempre più oltre!
Correte, e in corsa affannosa portate sempre più in alto i vostri gloriosi
vessilli, segni della Patria Imperiale, segni di Roma immortale!
Nel tardo pomeriggio giungemmo sotto ad un
cocuzzolo che per la strana forma di naso schiacciato aveva suscitato la nostra
ilarità appena si era profilato all’orizzonte, sullo sfondo azzurro del cielo.
Anche questa notte trascorse abbastanza tranquilla, e fu buona vigilia per
l’accanita battaglia del giorno seguente.
Cogull:
26 dicembre – 1 gennaio
All’alba del 26 dicembre riprendemmo il
movimento verso Cogull. Compito del 2° reggimento camicie nere era: occupare Cogull, sorpassare
il rio Set e costituire una testa di ponte sul M. Forcas. Sulla destra avrebbe
operato il 1° reggimento, con obiettivo M. Fosca. Inizialmente l’avanzata
proseguì con relativa facilità, contrastata solo da qualche nucleo di
mitraglieri rossi abilmente appostato; non appena però giungemmo in vista
dell’abitato, la resistenza divenne consistente e tenace. Le forze rosse,
solidamente stabilitesi sulla destra del Set, ci aspettavano decise a non
cedere. Dal Farcas e dal Fosca dominavano il fiume e una larga zona di terreno
ad ovest dell’abitato. Numerose mitragliatrici sventagliavano intense, rabbiose
e continue raffiche sui campi, sulle strade, ovunque si muovesse un uomo, un
mulo, un portaordini; ma l’ardimento delle camicie nere di Oliveti non
conosceva ostacoli. Soffermatisi infatti pochi momenti in vista di Cogull,
osservate le posizioni nemiche e concretato il loro piano, con azione fulminea
si lanciarono ai margini dell’abitato, li sorpassarono, giunsero sul Set,
corsero al ponte e, trovatolo intatto, saltarono pronti sull’altra riva.
Frattanto le artiglierie avevano preso
postazione ad ovest di Cogull. In pochi momenti scatenarono un uragano di fuoco
preciso contro le batterie avversarie e contro le mitragliatrici di quota 318,
proteggendo le valorose camicie nere che già si erano arrampicate sulle pendici
scoscese e rocciose del Forcas e incominciavano a giungere in vetta.
E il “Batmo”? Il “Batmo” scrisse in quel
giorno un’altra pagina gloriosa. Aveva già distaccato la compagnia mortai
“Valero” in appoggio al 1° reggimento che doveva operare sul Fosca, ed ora sostava
con le altre compagnie ad ovest di Cogull in attesa di ordini. Ma mentre si
accendeva il combattimento per la conquista dell’abitato, il suo comandante,
accompagnato dall’aiutante maggiore e da un fido portaordini, aveva raggiunto
il comando del 2°camicie nere per sollecitare l’impiego dei mortai. Oliveti
osservava il movimento dei suoi valorosi legionari dal muretto interno di una
cascina già colpita da tiro avversario. C’era con lui Albanese, l’intrepido
aiutante maggiore, che lo seguiva ad ogni passo, e Nicoletti, valoroso
subalterno destinato a sgambettare spesso da un battaglione all’altro, a
portare il pensiero del comandante. L’attacco, dopo il primo impeto, sostava un
momento per riprendere lena e vigore. Gli ordini che ricevetti furono brevi e
precisi, chiari ed inequivocabili: “appoggiare l’azione che si sarebbe ripresa
fra mezz’ora”.
Mezz’ora è un tempo lunghissimo per chi
deve sostare sotto il fuoco delle artiglierie nemiche. Mezz’ora è un’eternità
se sulle teste fischiano le raffiche delle mitragliatrici e sibilano i proietti
del rabbioso tiro avversario. Il “Batmo” è chiamato ancora ad aiutare i
compagni d’arme nell’assalto furioso, dando sul campo di battaglia la sua
cameratesca ed efficace collaborazione che tanto contribuirà alla vittoria. Dal
punto dove sosta non può assolvere il suo compito. Le balde camicie nere dell’
“Ardente”, già appollaiate sulla quota 318 e sul Forcas tra roccia e roccia,
pronte allo scatto, attendono che i mortai con il loro tiro micidiale spianino
la strada. E allora, avanti, o fieri mortaisti, raggiungiamo i nostri compagni
d’arme su quelle aspre pendici. Portiamo lassù a spalla i nostri mortai e le
nostre bombe, e accanto a loro, fianco a fianco, nel fragore della mischia,
cogliamo anche noi la nostra vittoria. Che importa se nell’attesa la mitraglia
avversaria ha ferito un altro nostro compagno, il sottotenente Lochner? Che
importa se la zona da attraversare è fortemente battuta? Bisogna discendere in
fondo alla valle del Set, passare il fiume, risalire il ripido pendio del monte
e serrar sotto ai fieri battaglioni del 2° reggimento per sostenerli e
proteggerli. Voi non conoscete tentennamenti od ostacoli, la vostra decisione è
pari al vostro ardimento.
Il movimento in avanti si svolse con
celerità, sotto il tiro nemico perché la strada e le adiacenze di essa erano
battute dall’artiglieria e dalle mitragliatrici avversarie. Pallottole e
proietti piovevano con intensità sempre crescente sulla strada, attorno alle
postazioni delle nostre artiglierie accanto alle quali dovevamo sfilare,
attorno a voi mortaisti infaticabili e pieni d’ardore. Ma quell’ardore subì,
come a Seròs, un altro duro collaudo. Un proietto rabbioso colpì in pieno un
plotone della 2a compagnia! Fu un tonfo cupo e sinistro. Alcuni
camerati caddero, ma gli altri proseguirono e tutti passaste davanti a me, alta
la fronte, fieri ed orgogliosi di aver pagato anche in quel giorno il vostro
prezioso contributo di sangue. Raggiungemmo l’abitato, lo oltrepassammo,
scendemmo in fondo valle e attraversammo il fiume, alcuni sul ponte, altri a
guado. Il nemico continuava a battere il versante opposto, l’abitato, la
strada, ma noi eravamo già accanto ai nostri valorosi compagni dell’
“Inflessibile” e dell’ “Ardente”, e la gragnuola delle nostre bombe non tardò a
flagellare il nemico ostinato.
La tenacia e l’impeto dei due battaglioni
attaccanti ebbero così presto ragione dell’avversario che sgombrata la quota
318 e la vetta del Forcas, ripiegava al di là del monte ed oltre la valle, sul
costone successivo. Davanti a noi un Casone bianco, a sinistra, oltre il
costone, rifletteva le ultime luci del sole al tramonto, mentre intorno ad esso
e sul rovescio cadevano le nostre bombe precise, fragorose negli scoppi,
terribili negli effetti. Fu davanti a questo imponente spettacolo che scese
lenta la notte, appena rischiarata dal raggio della luna nascente.
La notte trascorse relativamente
tranquilla sulla nostra fronte; sulla sinistra, invece, reparti della
“Divisione Frecce Nere” condussero numerosi combattimenti a colpi di bombe. Gli
attacchi susseguentisi con impressionante frequenza, e lo spostarsi delle zone
degli scoppi delle bombe, ora in avanti, ora più indietro, visibile nella notte
buia dopo il tramonto lunare, rivelavano le alterne vicende della lotta e gli
accaniti contrattacchi a volte riusciti, a volte ributtati. Anche sulla destra
il 1° reggimento continuò a battagliare tutta la notte e nessuno pensava
allora quanto sarebbe durato quel
doloroso calvario per quei valorosi. Ma di questo parleremo più avanti.
L’indomani Oliveti spinse i battaglioni
“Inflessibile” e “Ardente” ancora più oltre, sul costone successivo, e noi
assistemmo allo sbalzo meraviglioso di quegli eroici soldati, instancabili e
insuperabili: li vedemmo sfilare in fondo alla valle, risalire l’opposto
versante senza sostare un minuto, sempre combattendo accanitamente, con grande
valore. Noi li seguimmo, a scaglioni, trascinati da quell’impeto travolgente,
inserendoci tra l’uno e l’altro battaglione, sulla nuova posizione più vicina
al Casone bianco. Appostammo i nostri mortai ed iniziammo subito il nostro
fuoco preciso, confondendoci in linea con le valorose schiere del 2° reggimento
delle quali già ci consideravamo parte integrante.
Su quel gradino di roccia, a pochi passi
dalla linea delle vedette, vedette anche noi su quell’estremo lembo di terra
spagnola riconquistata, ci sentimmo tutti veramente fratelli, accomunati nello
stesso pericolo e nella stessa sorte, animati dalla stessa immensa fede nella
sicura vittoria. L’ “Ardente” aveva subito perdite considerevoli: anche il
comandante centurione Swich, che aveva sostituito il seniore Giombini
gravemente ferito, camminava tra i suoi soldati, sulle primissime linee, col
braccio al petto, ferito e ancora sanguinante. Fu perciò necessario sostituire
l’ “Ardente” col “Lupi”.
Sostammo su quella posizione, accanto al
“Lupi” fino alla notte sul 2 gennaio, e tutte queste giornate trascorsero in
una atmosfera di eroismo e di sacrificio. Nei giorni precedenti, il nemico,
eseguito uno sbalzo indietro brevissimo, aveva imbastito una forte difesa sulla
linea Aspe-Casone bianco-monte Fosca. Sulla vetta di questo monte il 1°
reggimento, che d’impeto l’aveva strappato al nemico nell’assalto eroico e
sanguinoso del giorno 26, era stato costretto a sostare a breve distanza delle
trincee avversarie, continuamente battuto dalle artiglierie che incrociavano il
tiro su quelle terribili quote. Sulla nostra fronte i contrattacchi si
ripetevano con frequenza e intensità sempre crescente. Scorgevamo i rossi
venire da lontano, serrar sotto, lungo i filari degli ulivi a nord ed a nord
ovest del Casone, ammassarsi, riordinarsi in fondo valle e buttarsi poi
disperatamente all’attacco falciati dalle nostre mitragliatrici, battuti fin
dal primo apparire dalle nostre bombe, dalla nostra artiglieria,
inesorabilmente ributtati sulle posizioni di partenza.
Pur tra l’ardore della lotta, quei giorni
di sosta ci rinfrancarono alquanto. Riordinammo le file, ci rifornimmo di bombe
e ricostituimmo le nostre riserve predisponendoci ad un nuovo sbalzo. Le
autorità spagnole ci avevano fatto pervenire i doni di Natale. Li distribuimmo
ai soldati, ed ognuno di essi ebbe il suo pacchetto. Foscarini ci portò vino,
sigarette, cioccolata, e il buon panettone che il comando C.T.V. aveva fatto
venire dall’Italia. Genovesi, attivissimo comandante della compagnia comando,
direttore di mensa e di tutti i servizi del battaglione, ci portò tra l’altro
qualche bottiglia di liquore che ci fu molto gradita.
Il giorno 29, una comunicazione del
Comando della Divisione ci avvertì che “Gervasio” attribuiva somma importanza
ad un intervento dei mortai per alleviare la pressione di fuoco che il nemico
continuava ad esercitare sui reparti del 1° reggimento, sulle posizioni del
monte Fosca. Prendemmo subito contatto col 1° reggimento. La distanza che ci
separava non ci consentiva di battere le posizioni nemiche che fronteggiavano
il Fosca. Già su questo monte la compagnia Cavazzuti si era duramente impegnata
ed aveva anche dato largo contributo di sangue. Mi portai sul Fosca con Brunori
e il mio portaordini. Trovammo il comandante del 1° reggimento sotto una
piccola tenda triangolare dietro un muretto alto circa un metro, sotto alla
sella tra le due quote del monte. Era con lui Bugliarello, suo “valiente”
Aiutante maggiore. I proietti avversari giungevano numerosissimi. Screstavano
tra la sella sibilando sinistramente, cadevano nella valletta sottostante
satura di muli e di soldati, colpivano inesorabilmente seminando la morte. Da
sei giorni lunghissimi il 1° reggimento era sottoposto a questo duro e continuo
martellamento, e numerose furono le vittime in uomini e quadrupedi. Basterebbe
questo solo periodo, questo grave sacrificio di sangue per dare gloria imperitura
a questo valoroso reggimento.
A noi che sostammo soltanto poche ore
vicino a quella piccola tenda del comandante, tra quell’infernale susseguirsi
di proietti, apparve urgente la necessità del nostro intervento per cercare di
alleggerire, se non eliminare del tutto, la forte pressione avversaria.
Offrimmo quindi con spirito di spontanea ed assoluta dedizione al dovere, di
trasferirci lassù con tutti o buona parte dei nostri mortai per rispondere con
maggiore intensità ed efficacia alla furia rabbiosa dell’avversario. Il
colonnello Gloria ce ne dispensò, e noi, tornati al nostro posto accanto ai
“Lupi”, riferimmo a Gervasio gli accordi che … non avevamo preso, e non potemmo
che rinnovare la nostra offerta di pronta ed assoluta collaborazione. Ma la
cosa non ebbe alcun seguito, e noi restammo di fronte al Casone bianco coi
“Lupi”, nella vigile attesa di riprendere la vittoriosa avanzata verso est, che
avrebbe certamente determinato il ripiegamento avversario anche dalla zona del
Fosca.
Gli ordini per la ripresa dell’attacco ci
giunsero la sera del 30 dicembre. Avremmo così dato l’addio all’anno che
moriva in un fragore di armi. Però, il
mattino successivo ci riserbava un’amara delusione. Avevamo appena iniziato il
movimento, allorché ci pervenne l’ordine di tornare indietro e riprendere la
dislocazione precedente, in attesa di nuovi ordini. Frenati gli entusiasmi e
smorzato l’impeto dell’assalto che avevamo ritenuto imminente, ritornammo coi
“Lupi” al posto che avevamo lasciato, ed ivi sostammo fino al giorno seguente.
CAPITOLO IX. DA COGULL A FORÉS
Sosta
a Grañena: 2-3 gennaio
Nella notte sul 2
gennaio, le “Frecce azzurre” sostituirono la Divisione d’Assalto “Littorio”
sulle posizioni davanti al Casone bianco e sul monte Fosca. I reparti della
Divisione ripiegarono così nella zona di Grañena, dove avrebbero dovuto restare
alcuni giorni a riposo. La compagnia di mortai “Valero”, che aveva perduto il
suo comandante – ferito nell’azione del giorno precedente, e sostituito dal
tenente Aprea – rimase a disposizione della Divisione “Frecce azzurre”. Il
“Batmo” si attendò nei pressi del km. 17 sulla strada di Grañena. Non aveva
però ancora sistemato il suo accampamento quando giunse, il 3 gennaio, il
preavviso di tenersi pronto a partire il giorno successivo. Ci eravamo
orientati, bisogna sinceramente confessarlo, verso un riposo ristoratore di
qualche notte, e invece, ecco che dovevamo riprendere il passo di marcia.
L’entusiasmo dei primi giorni non era peraltro ancora sopito in noi, tanto che
molto a malincuore avevamo ceduto il nostro posto alle “Frecce azzurre”, anche
perché l’andamento della battaglia si era manifestato sin dal primo momento
particolarmente favorevole e prometteva grandiosi risultati.
Verso
Albi e Vinaixa:
4-8 gennaio
Il
mattino del 4 riprendemmo la marcia con rinnovato entusiasmo. La prima nuova
tappa ci riportò davanti al Casone bianco. Nel frattempo, la Divisione “Frecce
azzurre”, che ci aveva sostituito, era riuscita, il 3 gennaio, a ricacciare
l’avversario e così noi potemmo serrar sotto, sul rovescio delle posizioni che
avevamo fronteggiato nei giorni precedenti, e constatare gli effetti che il
nostro tiro aveva prodotto tra le file nemiche.
Numerosi
giacevano i morti, irrigiditi nelle pose più strane: taluni colti all’improvviso nel fosso della trincea appena
scavata, altri mentre si slanciavano in corsa all’assalto, e perciò curvi in
avanti, col fucile sul fianco, accanto al braccio o nella mano che lo stringeva
ancora, anch’essa irrigidita; altri ancora col busto all’indietro e il volto al
cielo, contratto e deforme; altri ancora stringevano nella destra la bomba a
mano che non erano riusciti a lanciare; altri infine sostavano rannicchiati in
gruppo, forse attorno a qualche mitragliatrice o a qualche mortaio che le casse
vicine, di proiettili e bombe, piene ed intatte, rivelavano poco o nessun
impiego.
E i
feriti? Quanti erano stati i feriti? Quanti erano corsi al riparo dietro quel
piccolo salto di roccia affiorante tra le zolle erbose, e vi avevano trovato
invece i compagni caduti, e avevano sostato accanto ad essi in attesa che il
nostro uragano cessasse? Era la guerra, nella sua realtà tragica, talvolta
fatale! Al segnale dell’assalto nemico i mortai già puntati con estrema
precisione, lanciavano le bombe che salivano altissime nel cielo per poi
ricadere silenziose sulle posizioni avversarie a seminarvi la distruzione e la
strage.
Il
5 mattino lasciammo quella triste zona e ritornammo a Cogull per risalire la
vallata del Set. Marciammo fino a sera su quella strada di fondo valle, al
seguito della Divisione “Frecce” che procedeva a gran tappe vittoriose. Verso
le ore 19 giungemmo a Cervia, dove pernottammo attendati ad ovest dell’abitato.
Il mattino successivo riprendemmo a marciare. I rossi continuavano a cedere di
fronte alla nostra forte pressione. Dove ci avrebbero opposto resistenza? Dove
si sarebbero fermati per ostacolare il nostro vittorioso cammino?
La
sera del 6 sostammo ad est di Albi, nei pressi di una piccola casetta
abbandonata, addossata al monte, tra gli ulivi ed i mandorli già carichi di
gemme, e il 7 mattina ci incolonnammo ancora lungo la strada di Albi, diretti a
Vinaixa. Avevamo da poco oltrepassato Albi allorché una rapida incursione di
apparecchi rossi ci costrinse a sospendere per breve tempo il nostro movimento,
per occultarci. I bombardieri rossi ci avevano onorati della loro attenzione,
ma le loro bombe e le raffiche delle loro mitragliatrici erano state così mal
dirette da fare una sola vittima, un povero cane che ci aveva fino allora
fedelmente seguito! Essi peraltro, dopo la fugace apparizione si dileguarono
rapidamente come erano venuti, inseguiti dalle scie luminose dei nostri
proietti da 20 mm.
La
sera del 7 pernottammo attorno a Vinaixa. Il giorno 8 scavalcammo le “Frecce” e
ritornammo in prima schiera. L’avanzata ebbe inizio alle ore 11,30, dapprima
senza incontrare il nemico, poi fortemente ostacolata dal fuoco avversario.
Alle ore 14 occupammo Tarres, che subito oltrepassammo, e Vimbodi, obiettivo
della Divisione Navarra, alla quale fu poi ceduto. Pernottammo a nord est di
Tarres.
Alle
ore 10,30 del 9 riprendemmo l’avanzata, dopo aver distaccato la 1a
compagnia presso il 1° reggimento.
Solivella: 9-11 gennaio
Mentre
la 1a compagnia seguiva il 1° reggimento passando di vittoria in
vittoria, da Espluga de Francoli a Plan de Luna, a Blancofort, a S. Coloma de
Queralt, noi iniziavamo la seconda tappa del nostro trionfale cammino.
Scavalcate le “Frecce” il giorno 8, dovevamo puntare su Solivella; ma le forze
rosse ci contendevano il passo opponendo successive e tenaci resistenze. I
carri armati nemici sostavano sulle “carretere”, aprivano improvvisamente il
fuoco e ci martellavano inchiodandoci dietro i ripari improvvisati.
Il
primo giorno le camicie nere di Oliveti ebbero facilmente ragione delle
resistenze avversarie, ma il 10 si scontrarono ancora una volta col nemico, e
non solo non riuscirono a travolgerlo, malgrado l’ardore che spiegarono nella
lotta sanguinosa, ma Oliveti fu costretto a spostare il battaglione
“Inflessibile” verso sinistra per parare ad una seria minaccia sul fianco.
Anche noi levammo le tende e ci spostammo un po’ a sinistra, dietro ai “Lupi”.
Intanto la nostra artiglieria eseguiva un intenso tiro di interdizione a
raffiche – talvolta un po’ troppo corte – sul rovescio delle posizioni nemiche
e sull’abitato di Solivella. L’avversario per conto suo ci teneva sotto
continuo tiro delle mitragliatrici causandoci qualche perdita.
Passò
così, incerta e sanguinosa, questa giornata di Solivella. Ma all’alba dell’11
l’attacco riprese con rinnovato accanimento. Accanto a noi gli artiglieri di
Tirotti sparavano a tiro diretto sui muretti a secco improvvisati
dall’avversario durante la notte. I mortai battevano incessantemente il
cocuzzolo boscoso dietro cui si nascondeva l’abitato e i rovesci della sella
che degradavano verso nord. Mezz’ora di questo fuoco intenso e preciso facilitò
l’attacco che i “Lupi” conducevano tenacemente, da muretto a muretto, incuranti
del tiro avversario. Ma quando giunsero a portata di bomba, la resistenza
nemica non attese l’assalto, cessò come per incanto e pronta si dileguò
nell’abitato, tra casa e casa, tra strada e strada, e poi sempre più ad est,
sottraendosi lesta.
I
“Lupi” ricomposero presto le file e ripresero l’inseguimento. Il “Batmo” li
seguì a stretto contatto. Oltrepassammo Solivella e puntammo sulla strada di
Sarreal.
Forés: 11-14 gennaio
Questo
paese appariva da lontano alto sull’ultimo monte proiettato all’orizzonte. Da
alcuni giorni lo vedevamo laggiù, col suo aguzzo campanile proteso verso l’azzurro
del cielo, ed ogni giorno, ogni ora che passava, più ci si avvicinava. Forse lo
avremmo raggiunto la sera, forse il giorno dopo. Chi sa?
La strada che da
Sarreal conduceva al paese si arrampicava a zig zag nell’ultimo tratto sulle
pendici sud della Sierra, ripida e quasi inaccessibile. Il terreno che dovevamo
percorrere per giungere al paese era assai movimentato ed a forte pendenza. Nei
pressi dell’abitato, ampi gradini sostenuti da altissimi muri impedivano il
passaggio tranne che attraverso la strada. Non sapevamo spiegarci come mai il
nemico non avesse utilizzato quella naturale fortezza per contrastarci il
passo: pochi animosi, con poche armi, asseragliati lassù, avrebbero potuto
resistere a qualsiasi attacco per moltissimo tempo. Forse perché non aveva
avuto il tempo di sistemarsi a difesa, o forse perché i rossi non sarebbero
stati capaci di tanto ardimento?
Il
giorno 11 ci fermammo tra Solivella e la strada che da Sarreal porta a Forés.
Sulla nostra sinistra, la Divisione “Frecce” trovava tenace resistenza sulla
Sierra del Tallato, e non riusciva ancora a progredire. Pertanto, la minaccia
sul nostro fianco sinistro, che già il giorno precedente eravamo riusciti a
sventare, continuava a persistere e consigliava una certa prudenza nello spingerci
oltre. Fummo perciò costretti a rimandare l’attacco su Forés. Nel tardo
pomeriggio, però, i nostri avamposti catturarono alcuni autocarri rossi carichi
di truppa destinata a Forés. L’interrogatorio di quei prigionieri ci indusse a
ritenere che l’organizzazione difensiva del paese non fosse ancora in perfetta
efficienza. E perciò fu deciso l’attacco.
La
notte era già sopraggiunta allorché le camicie nere di Oliveti iniziarono la
scalata di quelle aspre pendici. Nel buio della notte, quei meravigliosi soldati
sfilarono tra gradino e gradino, nelle cunette e negli impluvi; posero piede
nelle prime case dell’abitato lasciando a destra la parte più alta del paese,
le oltrepassarono. Insuperabili si buttarono a capo fitto vincendo tutti gli
ostacoli, non badando a pericoli; il loro ardore fu incontenibile: tutti
sentivano la necessità di approfittare dell’incertezza nemica senza attendere
il giorno successivo per organizzare l’attacco, che sarebbe stato certamente
durissimo. Ed ebbero ragione.
Anche
noi li raggiungemmo, durando fatica su per le balze ripide del monte, ansando
nella corsa per giungere presto in vetta, frementi d’ardore e di entusiasmo.
Quel campanile che ci era parso scolpito nel cielo tutto azzurro, quel paese di
sogno posto in cima ad un monte come in un presepio magnifico, era già nostro,
era già liberato dai legionari italiani.
Dai
duri combattimenti che sosteneste sempre con grande fede e grande valore,
affiancati alla balda giovinezza della “Falange” sotto la guida del valoroso
Caudillo, o eroi legionari, fu ricostruita così, pezzo a pezzo, lembo a lembo,
sulle rovine del ringhioso comunismo internazionale, la Spagna Nazionale di
oggi. Questa Spagna, che ancor oggi pensa a voi, non potrà mai dimenticare i
Crociati del “Littorio”, né il prezioso contributo di sangue e di valore che
essi hanno dato alla sua santa causa, alla sua vittoria, alla sua liberazione!
CAPITOLO
X. IL CALVARIO DEI “LUPI”
Savallà
del Condado: 14 gennaio
La
sosta a Forés ci aveva alquanto rimessi dopo la lunga teoria di chilometri che
avevamo percorsi da Grañena a Cogull, da Cogull ad Albi, a Solivella, a Forés.
Mellas, il mio fedelissimo attendente, sardo affezionato e devoto, si era
rivelato fin dalla sera del 12 abilissimo cuoco e arrostiva polli, conigli e
capretti alla diavola, all’uso delle sue belle e caratteristiche terre. E noi
li mangiavamo con molta avidità perché gustosi. Ma era Mellas un vero
taumaturgo della cucina, o era invece il nostro appetito che, costretto da
alcuni giorni alla semplice scatoletta di tonno o sardine, trovava tutto
eccellente? Sta di fatto che il povero Mellas, malgrado spiegasse la massima
attività nell’assolvere il suo nuovo ed importantissimo compito, non riusciva a
soddisfare prontamente le nostre pressanti richieste.
Avevamo
preso alloggio nella casa di un tale che, da documenti in essa rinvenuti,
risultava attivissimo propagandista rosso. Egli era fuggito al sopraggiungere
delle forze nazionali, ma il giorno dopo era tornato. Interrogato sulla sua
attività che aveva destato i nostri sospetti, si giustificò affermando che la
minaccia ed il timore di rappresaglie verso i suoi famigliari, lo avevano
costretto a continuare in quella sua attività a favore dei rossi. E perché era
allora scappato? Non aveva in paese qualcuno che avrebbe potuto testimoniare
sulla sua buona fede? Comunque, lo facemmo accompagnare al nostro comando di
Divisione e nulla più sapemmo di lui, né tanto meno curammo di avere sue
notizie.
Il
mattino del 14 fummo pronti nei ranghi, in attesa di marciare. Oliveti lanciò i
suoi battaglioni di primo scaglione decisamente verso nord est. L’avanzata
proseguì senza incontrare notevoli difficoltà. Fabris – nuovo comandante dell’
“Inflessibile”, quarto dall’inizio dell’offensiva – marciava a fianco del suo
battaglione, a cavallo di un irrequieto bucefalo che talvolta, con una
improvvisa sgroppata chiedeva all’implacabile e …pesante cavaliere di …
scendere di sella. E Fabris, naturalmente, non poteva fare a meno
dall’accogliere, suo malgrado, quella pressante e brusca richiesta.
Giungemmo
in vista della strada di Conesa che si svolge ad ampi gomiti rientranti sul
versante opposto della valle, e sostammo sul piccolo pianoro che la domina.
Sulla strada, ben dissimulate dagli alberi, alcune autoblinde nemiche ci
aspettavano al varco. Se gli esploratori non ce le avessero segnalate in tempo,
ci avrebbero falciati al momento in cui avremmo iniziata la discesa in fondo
alla valle. Tirotti appostò i pezzi della sezione di accompagnamento ed aprì
improvvisamente il fuoco. Notammo subito un affrettato e agitato impartire di
ordini e le tre autoblinde mettersi subito in moto e ripiegare verso Segura.
Distaccato un reparto di sicurezza sul fianco, proseguimmo su Savallà del
Condado.
La
torre alta e quadrata di questo abitato, diroccata alquanto negli spigoli e in
alto, ci guardava da lontano, silenziosa. Appunto questo silenzio ci induceva
in sospetto, e siccome l’ora era tarda e già il grigiore del crepuscolo
preannunziava la sera, Oliveti decise di fermare i reparti e sostare in forte quadrato
osservando il paese. Più tardi però, cedendo alle nostre insistenti richieste,
consentì di tentarne l’occupazione ed ordinò alla sezione di Tirotti di
saggiare con qualche colpo l’eventuale reazione avversaria.
L’assalto
fu brillantemente condotto da una compagnia del “Lupi”, ed anche noi vi
partecipammo con tutta la nostra 3a compagnia. La facile vittoria
conseguita, il cupo silenzio che gravava su tutte le cose, e quella gran torre
nera e spettrale che ci stava accanto,
destavano le nostre apprensioni. Fortuna
volle invece che i rossi, forse perché incominciavano a convincersi che la loro
sconfitta era ormai inevitabile, o forse perché avevano deciso di sistemarsi a
difesa su posizioni retrostanti, non si fecero vivi per tutta la notte, e noi
potemmo, con relativa tranquillità, scaldarci accanto al camino, nella grande
casa di una generosa famiglia che, felice di essere stata alfine liberata
dall’incubo rosso, ci offrì pane bianco di riso, ottimo vino e larga e
cordialissima ospitalità per tutta la notte.
Raurich
– Montargull: 15 gennaio
I
giorni che seguirono furono tutti duramente combattuti. Il giorno 15 marciammo
su Montargull: precedeva l’“Inflessibile”, affiancato all’ “Ardente”, sulla
sinistra. Il “Batmo” seguiva nell’intervallo, tra l’uno e l’altro battaglione.
A metà del percorso alcune mitragliatrici avversarie ben appostate e nuclei di
fucilieri decisi e tenaci, ci costrinsero a sfilare sul fondo di un piccolo
burrone. L’ “Inflessibile” combatteva accanitamente sulla nostra estrema sinistra
ed era già fortemente provato. Il “Lupi” lo scavalcò e così potemmo proseguire.
Più in là verso est, in vista di Raurich, fummo ancora una volta costretti a
fermarci. L’attacco proseguiva deciso, ma lento. I prigionieri catturati dall’
“Inflessibile” rimanevano muti a qualsiasi interrogatorio. Alcuni civili ci
corsero incontro esultanti e con le lacrime agli occhi. Un gruppo di donne
sfilava lontano sulla “carretera” che si perdeva laggiù, dietro al costone:
procedeva assai lento come se le componenti stessero assorte in tristi
pensieri, incuranti della guerra che passava. In quella zona infatti, la guerra
passava veloce, ma terribile, e lasciava dietro di sé tutto l’orrore che
lasciano le orde in fuga disordinata.
A un
certo punto, nascosto dietro ad una cascina, ci apparve un povero vecchio.
Alcuni uomini gli stavano intorno festanti, come se lo avessero proprio allora
ritrovato. Ma questa scena fu presto superata da altra assai più commovente.
Marciavano con noi alcuni civili ai quali avevamo consentito di seguirci fino
alle loro case che avevano abbandonato in fretta qualche giorno prima, per
sottrarsi alla cattura correndo incontro alle forze liberatrici. Taluni di essi
avevano lasciato i loro congiunti – vecchi, mamme, spose, bambini – nelle zone ancora
dominate dai rossi, e questi se li trascinavano dietro quali preziosi ostaggi,
nella ritirata precipitosa.
Giungeva
appunto di là dal fronte di battaglia, miracolosamente riuscito a sfuggire
all’artiglio disperato del nemico, uno di questi ostaggi: uomo maturo, alto,
magro piuttosto, barba folta da più giorni non rasa. Veniva di corsa non molto veloce, quasi
trotterellando, ed ansava sostenendo grande fatica nel proseguire. Si asciugava
spesso la fronte forse mescolando sul viso lacrime e sudore, e a tratti
sollevava alto il braccio sventolando il fazzoletto e gridando la sua gioia
incontenibile verso le truppe vittoriose che avanzavano riportando la pace nel
focolare domestico. A un tratto dalle file di quei civili che ci seguivano
tristi e pensosi, si staccò un giovane che si precipitò incontro allo
sconosciuto gridando come preso da un impulso forsennato. In un attimo lo
raggiunse, gli saltò al collo, lo strinse
in un abbraccio interminabile, commovente, gioioso: padre e figlio si
erano ritrovati!
Avevano
vissuto giorni di infinito martirio: il padre, sequestrato dai rossi, aveva
tanto pensato alla sua casa forse distrutta, alla sua buona famiglia, ed ora
accennava alle sue dolorose vicende; il figlio, in gran pena per la triste
sorte del padre che, riuscito a sfuggire all’inesorabile condanna, poteva ora
riabbracciare con infinita tenerezza.
Il
ricordo di questo episodio tanto commovente ci induce a riflettere un istante
sulle dolorose vicende di quella guerra civile che vide orrori ed errori in ogni
campo, lotte accanite e furibonde di fratelli contro fratelli, taluni dominati
da fanatismo eretico, altri pervasi dallo spirito di distruzione e del male,
altri mercenari assoldati fra la peggiore feccia internazionale, che non
avevano mai posto alcun limite alla loro insaziata sete di sangue e di rovina.
E però, per buona sorte della Spagna e del mondo, le forze nazionali
liberatrici e i legionari italiani marciavano a gran passo verso la più grande
vittoria.
Riprendemmo
la marcia. I “Lupi” a sinistra si arrampicavano sulle pendici del monte a
nord-est di Raurich. L’ “Ardente” a destra, sulla dorsale, proseguiva con
impeto, vittoriosamente. Oltrepassammo il paese. L’ampia valle si chiudeva
laggiù all’orizzonte. La strada per Santa Coloma de Queralt, volgendo
decisamente a destra sulle basse pendici del colle, proseguiva a mezza costa e
ad ampie curve verso la vasta pianura sottostante.
A
sinistra, il forte baluardo che fronteggiava Montargull si era già popolato di
“Lupi” e più avanti, verso l’abitato e nei pressi del cimitero, gli esploratori
di Alimonda saltavano velocissimi da muretto a muretto, da cespuglio a
cespuglio, da casa a casa, sfilando cauti dietro i muri per vedere e non essere
visti. Il “Batmo” raggiunse la testata della valle e si appostò sul rovescio
del costone che degradando da Montargull si riattaccava e risaliva verso
destra, sul monte già occupato dai reparti avanzati dell’ “Ardente”.
Lenta
scendeva la sera ed il silenzio gravava su tutte le cose. La fucileria era cessata
su tutta la fronte. L’incertezza e il vuoto del campo di battaglia riprendeva
il sopravvento sul fragore delle armi che aveva imperversato fino a pochi
momenti prima. Rifacemmo, come tutte le sere, il bilancio della giornata e
riordinammo le file per riprendere l’avanzata il mattino seguente. Seguito da
Cavagliano, Olimpio e Job, mi avviai verso Montargull per prendere contatto con
i reparti avanzati. Le prime case erano chiuse, alcune sbarrate, altre
completamente abbandonate: per le vie nessun civile, nessun nemico visibile,
silenzio assoluto, solo a tratti interrotto dal canto di qualche gallo che
accennava a concludere la sua giornata tranquilla tra il branco di galline che
gli stava attorno.
In
paese trovammo Alimonda con i “Lupi” esploratori. Appiattati dietro ai muretti
di pietre, o nascosti dietro ai tronchi degli alberi, sostavano tutti
silenziosi spiando il terreno circostante che scendeva a ripido pendio e
risaliva poi sulle opposte pendici del monte. Ad est del paese due alti
cocuzzoli a cono, staccati e ben visibili, l’uno vicino all’altro quanto uno
sbalzo di corsa, si profilavano grigi nel cielo che li avvolgeva nell’ombra
cupa della sera già inoltrata. Alimonda ci ragguagliò sulla situazione
indugiandosi nei particolari dell’azione della giornata. Questo valoroso
ufficiale, baldo e fiero figlio della Sardegna fedelissima, era veramente una
delle figure più belle di quel magnifico battaglione. Ci disse che, raggiunto
il paese, aveva proseguito fino al cimitero. E infatti anche noi lo avevamo
veduto mentre risalivamo la valle, nei pressi del muro di cinta aggirarsi con
circospezione, moschetto spianato, baionetta innastata, pronto a balzare anche
lui, decisamente. Dal cimitero si era poi spinto ancora più in là fino ai due
cocuzzoli a cono, da dove ritornava ora, dopo di avervi lasciato una pattuglia
in osservazione.
Osservammo
anche noi con una certa attenzione per poter regolare i nostri tiri durante la
notte, ma fummo ad un tratto sorpresi di notare in fondo alla valle figure
umane muoversi verso di noi. Il grigiore della sera ci impediva di vedere bene,
ma aguzzando lo sguardo, e richiamata l’attenzione di tutti, notammo che da
laggiù importanti forze nemiche a piccoli nuclei, favoriti dal buio della
notte, serravano sotto e risalivano il monte con l’evidente intenzione di
assalirci. Avanzavano in fila, cauti e silenziosi. Ma quanti erano? Quanti si
erano già riuniti dietro ai muretti della valletta a terrazze, inosservati tra
gli alberi fitti nel bosco insidioso?
I
“Lupi” esploratori puntarono la loro mitragliatrice, ed anche noi – ricordate
Alimonda, Cavagliano, Olimpio? – anche noi afferrammo un fucile e molte bombe
lanciammo in quella oscura sera! L’avversario, vistosi scoperto, esitò, si
fermò. Il suo tentativo era ormai sventato, la sua sorpresa non era riuscita,
le sue file, scompigliate dal nostro tiro, si disordinarono. Ma nella notte,
che cosa avrebbe fatto? Certo avrebbe riordinato le forze e ritentata
l’impresa. Pochi erano i “Lupi” di Alimonda. Bisognava rinforzarli, sostenerli,
appoggiarli. Non c’era tempo da perdere! Bisognava correre ai nostri mortai e
preparare il nostro tiro preciso per sventare definitivamente ogni velleità del
nemico.
Avvertimmo
il comandante dei “Lupi” affinché rinforzasse Alimonda e si predisponesse a sostenere
l’eventuale attacco notturno. Ritornammo poi subito tra i nostri mortaisti.
Erano tutti già pronti. Verificammo i dati di tiro, direzione, elevazione,
cariche. Demmo a Cronia gli ordini del caso. Spostammo qualche arma; preparammo
le bombe. Il nemico non accennava ancora a muoversi. Tuttavia iniziammo il
tiro. Prima pochi colpi di aggiustamento; poi qualche salve di efficacia,
giunta nel segno. Ma appunto, in quel “segno”, quali erano stati gli effetti? I
nemici erano ancora lì? O non si erano forse spostati? O continuavano ancora a
raccogliersi nel fondo di quella valle a terrazze, o tra gli alberi?
L’ansia
ci dominava. Il nostro tiro continuava intermittente, a salve di sette-otto
colpi, giungendo preciso in quel “segno”. La notte era già discesa col suo
impenetrabile velo ed il nemico non accennava ad attaccare. Olita aveva dunque
avuto tutto il tempo per prendere le sue decisioni, ma quali ordini aveva dato?
La
posizione del “Batmo” era veramente difficile. Sulla destra si appoggiava alle
ripide pendici del monte occupato dall’ “Ardente”, e lì la situazione appariva
tranquilla. Sulla sinistra invece, l’esiguo nucleo di esploratori del “Lupi”
appariva gravemente minacciato e non era in grado di resistere da solo ad un
attacco avversario. Le forze più avanzate del “Lupi” si erano sistemate a
difesa su posizioni arretrate rispetto alla estrema sinistra del “Batmo”. La
testata della valle scendeva ripida sul nostro fianco sinistro appena coperto
dagli esploratori di Alimonda. Se questi fosse stato costretto a ripiegare, la
minaccia per il “Batmo” sarebbe divenuta molto pericolosa.
In
questa situazione ebbe inizio, verso le ore 23, l’attacco dei rossi su
Montargull. Cantavano le mitragliatrici sulla nostra sinistra, nel buio della
notte, e l’eco si ripercuoteva nella valle, sinistramente. I mortai facevano
fuoco quasi senza interruzione, succedendosi nel tiro plotone a plotone. Gli
esploratori del “Lupi” lottavano con tenacia e valore. Ma ad un tratto le
mitragliatrici tacquero, e lo scoppio continuo delle bombe a mano annunziò che
la lotta vicina era già nella fase decisiva. Furono pochi minuti! Il silenzio
che seguì ci rese ansiosi e trepidanti. Come si era risolta la lotta? Avevano i
rossi desistito dall’attacco, ovvero gli esploratori erano stati sopraffatti?
Sapemmo
più tardi che Olita aveva disposto il ripiegamento degli esploratori. Alimonda
non si era perciò impegnato a fondo nella difesa dell’abitato e, attaccato da
forze preponderanti, aveva ripiegato sulle posizioni occupate dal battaglione.
E
però, in quella incertezza, la situazione del “Batmo” ci appariva chiarissima,
se pure difficile. Comunque, i mortaisti erano decisi a non ripiegare: se il
loro fianco sinistro fosse rimasto scoperto, se grave fosse stata la minaccia,
tutti sarebbero rimasti fermi e decisi al loro posto di battaglia come a
Savallà, a Forés, a Cogull e sulla Sierra Grosa. Con questo deliberato
proposito – di non cedere, a nessun costo – il “Batmo” si accinge ad affrontare
la lotta.
Cavagliano
disloca due plotoni dei suoi valorosi mortaisti assaltatori, veterani di
Santander, dell’Ebro e del Levante, a protezione del fianco sinistro, del
Battaglione tra il costone e la valle. E vigila per tutta la notte. Il suo
piano di difesa è semplice e ardimentoso.
Se il nemico tenterà di avanzare, lo farà giungere a breve distanza,
anzi, lo sospingerà in fondo alla valle e gli faciliterà il passaggio
incoraggiandone i progressi; ma appena vi sarà giunto baldanzoso e sicuro, lo
tempesterà di bombe, spezzerà il suo impeto, e lo annienterà con la massa dei
suoi 18 mortai; frantumando la sua efficienza materiale e morale, rintuzzerà la
sua baldanza e gli salterà addosso alla baionetta coi suoi vecchi e provati
legionari audaci e tenaci che molte volte hanno visto volgere in fuga il
nemico.
Durante
tutta la notte Cavagliano fece infatti buona guardia e i rossi non rinnovarono
l’attacco, ma si limitarono a spingere qualche pattuglia che fu accolta in
silenzio e facilmente sorpresa e catturata. Il giorno successivo altri
importanti avvenimenti ci aspettavano!
Il
calvario di q. 806: 16-17 gennaio
Ecco
gli ordini dati da Oliveti per il mattino del 16 gennaio:
·
· L’
“Inflessibile” sostituisca il “Lupi” di fronte a Montargull, attacchi questo abitato,
raggiunga i due cocuzzoli a cono e prosegua verso est, su Aguilò;
·
· Il
“Lupi” si riunisca dietro l’ “Ardente” sulle posizioni della forcella ad est di
Santa Coloma de Queralt, lo scavalchi, occupi la quota 806 e punti anch’esso su
Aguilò;
·
· Il
“Batmo” appoggi l’azione del “Lupi”.
Continua
così, anzi si ingigantisce in quel giorno, si fonde e si esalta nel fulgido
calvario la fratellanza d’armi delle camicie nere del “Lupi” col “Batmo”!
Esercito e Milizia fusi in un mirabile blocco di volontà e di forza, di fede e
di entusiasmo, danno la prova più tangibile della loro validissima
collaborazione, e la cementano col sangue sull’aspro campo di battaglia.
Esercito e Milizia, soldati e camicie nere, ufficiali e gregari hanno un’anima
sola, ed agiscono sotto un solo segno glorioso: quello del sacro “Littorio”,
che significa lotta, tenacia, ardimento, sacrificio, valore, vittoria.
I
“Lupi” di Olita, i mortaisti del “Batmo”, gli artiglieri di Tirotti non sono,
in quella giornata di battaglia, combattenti o reparti isolati che agiscono con
spirito di individualità, ciascuno per proprio conto, ma sono invece tutti
soldati e legionari della Grande Patria immortale che hanno una sola
inestinguibile fede, lottano per una sola fulgidissima idea, per un solo grande
nome: Italia, Italia, Italia!
E
in questa perfetta fusione di volontà e di spiriti che si inizia la battaglia
del 16 gennaio.
Già
il “Lupi”, sostituito dall’ “Inflessibile” di fronte a Montargull, incomincia
ad affluire verso l’ “Ardente”, mentre il “Batmo” someggia i mortai. Poco dopo
anche i mortaisti iniziano il loro movimento e pagano subito il loro primo
contributo di sangue della giornata. Verso le 9,30 Olita comunica che l’azione
di un plotone di mortai potrebbe riuscire particolarmente efficace se spinta
sotto alle compagnie di primo scaglione. Aderisco senz’altro, tenendo il
rimanente del battaglione pronto ad intervenire.
Olita
sostava a breve distanza da noi: lo raggiungemmo. Intanto, lo scavalcamento
dell’ “Ardente” era quasi compiuto. I “Lupi” aspettavano ora l’inizio
dell’attacco, appollaiati sotto le vette dei due cocuzzoli che formavano la
strettissima forcella.
Ci
recammo ad osservare le posizioni nemiche. Sulla linea di partenza, sotto la
vetta, la Sezione di accompagnamento predisponeva gli appostamenti dei due
pezzi da 65. Tirotti era insuperabile! Questo
baldo artigliere non ha mai conosciuto riparo. Il tiro dei suoi cannoni è sempre stato diretto
dalla linea dei fanti. I suoi pezzi hanno sempre “veduto” il muretto avversario.
Traguardando nell’anima dei cannoni, quegli artiglieri fierissimi hanno sempre
puntato sulla mitragliatrice avversaria e l’hanno sempre rapidamente smontata.
Quanti come questi ignoti e valorosi artiglieri vi sono tra le file dei soldati
d’Italia? Certo moltissimi! L’arma “eroica e possente” così prepara i suoi
combattenti!
Dalla
forcella il terreno scendeva scoperto ed a pendio ripidissimo nel fondo valle e
risaliva poi ancora più ripido in vetta, sassoso, uniforme, senza un salto, senza
un muretto. La quota 806 era munitissima di mitragliatrici. Alta ed imponente
si mostrava sulla fronte inaccessibile e tetra. Sulla forcella dove sostavano i
“Lupi”, ogni uomo che tentava di alzare la testa veniva investito da intense
raffiche di mitragliatrici. I carri armati avversari tiravano con estremo
accanimento. Osservando con attenzione,
si scorgeva la lunga e robusta trincea nemica che coronava la quota e si
estendeva verso nord, seguendo il costone che risaliva verso i due cocuzzoli a
cono ad est di Montargull, anche essi già fortemente presidiati. Alle ore 10,30
il nostro attacco sarebbe partito da lassù, verso i due cocuzzoli, preceduto
dai carri. Successivamente i “Lupi” si sarebbero buttati in fondo valle,
saltando giù dalla forcella, e avrebbero risalito la quota.
Ma
caro il mio Olita, come vuoi che io lasci laggiù quei fieri mortaisti a
impoltrire in attesa che i tuoi “Lupi” siano tutti falciati dalla pronta
reazione nemica? Ma hai chiesto un solo plotone! Un plotone ha appena due armi.
Se una bomba si incanta nell’anima di un mortaio, ci vogliono almeno due minuti
per estrarla, ed altrettanti per riprendere il tiro. Resterai protetto da un
solo mortaio mentre gli altri…stanno inoperosi laggiù. In pochi i tuoi “Lupi”
potranno giungere su quella terribile quota. Quanti ne hai? 500? Ne lascerai
metà per la strada!
Aspetta,
aspetta! Qui vi sono gli artiglieri fierissimi di Tirotti: qui c’è posto anche
per tutti i mortai! Su, coraggio, avanti quassù, tutti quassù! Siamo tutti di
una sola fiera legione: la Divisione d’assalto del sacro “Littorio”! Abbiamo
tutti la stessa anima: camicie nere, fanti ed artiglieri, qui tutti ci
stringiamo in fiera coorte attorno al simbolo della nostra fede, e tutti
lottiamo per una stessa vittoria.
E
vinceremo: camicie nere del “Lupi”! levate in alto il vostro gagliardetto e
lanciate a gran voce il grido dell’assalto! E noi tutti vi seguiremo!
In pochi momenti
tutti i mortai presero il loro posto accanto ai “Lupi”, accanto agli
artiglieri. Mancava ancora mezz’ora per l’assalto. Iniziammo il tiro. I mortai,
a pochi passi sotto la cresta, rovesciavano le loro bombe sulla trincea nemica,
sui rovesci della quota. I 65 di Tirotti sparavano allo scoperto. Furono subito
individuati e presto uno di essi rimase colpito e inutilizzato. I proietti
nemici screstavano appena e scoppiavano accanto a noi, tra le casse, tra le
armi, tra i muli porta-munizioni ancora carichi. Uno di questi muli fu colpito
sul cassone pieno di proietti e cadde a terra come fulminato. Ma subito si riscosse,
scalciò alquanto nell’aria e si levò diritto in piedi sgroppando: era incolume!
L’artiglieria divisionale concentrava ora il
suo tiro preciso sui cocuzzoli a cono ad est di Montargull. Mancavano ancora
pochi minuti all’assalto. I “Lupi” fremevano nell’attesa, appiattati sotto la
vetta, pronti a scattare. Ma gli occhi di tutti si appuntavano ora verso
Montargull, da dove l’ “Inflessibile” avrebbe presto preso lo slancio al
seguito dei carri. I fanti, i modestissimi fanti delle più dure trincee hanno
spesso vissuto momenti di queste terribili attese e sanno perciò che cosa
voglia dire sostare sotto il tiro nemico aspettando il “via” che deve
sospingere in corsa affannosa all’assalto! E sanno altresì che, balzati fuori
dal piccolo riparo improvvisato o dal piccolo fosso che appena nasconde, la
morte è sempre in agguato e aspetta per ghermirli coi suoi artigli inesorabili.
E sanno ancora che la corsa più è veloce e più è decisa nell’impeto, più li
salva e li porta trionfanti alla meta. Ma questi pensieri non sorgevano ancora
nella mente dei “Lupi” che guardavano a nord per scorgere i fratelli dell’
“Inflessibile” balzare al seguito dei carri su per le aspre pendici dei due
cocuzzoli a cono. Non sorgevano in loro perché l’ansia era tutta per i fratelli
che li avrebbero preceduti nell’attacco, nel settore di Montargull. Ma
anch’essi, i “Lupi”, si sarebbero presto lanciati in rapida corsa per giungere
a valle e risalire in vetta, sulla terribile quota!
Ad
un tratto appaiono lassù, sulla strada di Montargull, i nostri primi carri
leggeri. Avanzano velocissimi e le balde camicie nere dell’ “Inflessibile” li
seguono a breve distanza, ma affannano, si fermano, si riprendono!
La
strada che essi percorrono avvolge i due cocuzzoli da sud, a mezza costa. La
reazione nemica è violentissima. Si inizia da lassù, si intensifica anche più a
sud, lungo il costone, e risale alla quota. I carri proseguono, ma sono ora più
lenti: qualcuno si ferma, qualche altro si capovolge e si rovescia lungo le
falde del monte! Sulle nostre teste passano rabbiose le raffiche delle
mitragliatrici avversarie: imboccano la cresta della forcella, tonfano sulla
terra sassosa, sollevano nuvole di polvere, rimbalzano, ci passano accanto
sibilando sinistramente.
Intanto
ad est di Montargull l’attacco è fermato. Olita mi guarda: lo guardo anch’io,
negli occhi! Caro compagno e fratello, buon camerata e soldato generoso,
conosco la tua pena, so il segreto pensiero che ti assilla. Tu pensi ai tuoi
“Lupi” che non osi lanciare ancora in quel salto vertiginoso e terribile verso
la morte!
Ebbene,
buon camerata, non ti crucciare! Questa è la lotta, e questo è il nostro
nemico: tenace! Ma prevarrà il valore dei tuoi legionari! Non ti ricordi a
Seròs? E sulla Sierra Grosa? Sette
assalti respinsero e vinsero per la loro tenacia, per il loro ardimento.
Vinceremo nuovamente, e presto tu vedrai su quella terribile quota sventolare
il tuo bel gagliardetto portato sempre più in alto dai tuoi “Lupi” magnifici.
Sotto,
Cronia! Sotto mortaisti! Puntate i vostri mortai. Vedete lassù? Da quella
piccola e bassa torretta di pietre si leva un filo di fumo sottile: lì c’è una
mitragliatrice che spara rabbiosamente. E più in là verso destra un’altra ce
n’è dietro al basso cespuglio. A sinistra, più in basso, accanto all’alberello
isolato, tronco divelto dalle vostre bombe, altre ve ne sono e tirano adesso e
imboccano la forcella.
Su,
presto, puntate i mortai, lanciate le bombe, fulminate i nemici, annientateli!
E
tu, artigliere, carica il tuo pezzo che sporge con la sua volata dal ciglio
insanguinato, e spara, spara, spara!
“Lupi”,
artiglieri, mortaisti! Guardate tutti lassù! Vedete quanti colpi cadono
lì, precisi, micidiali, terribili? Anche
oggi, o “Lupi”, avrete ragione di questo accanito avversario! Vedete quel rosso
che scappa? Egli abbandona la sua mitragliatrice! Ma ecco anche altri lo
seguono, scappano, vedete?
Tirate,
sparate!
Ma uno ritorna
indietro! Ha molto coraggio, bravo! Si ferma accanto all’arma abbandonata, la
smonta, la porta via, lascia il treppiede. Bravo, nemico: chi sei?
Sei
un valoroso! Non importa se hai un’altra fede: sei un valoroso! Lo vedete
lassù? Ha salvato la sua mitragliatrice: è un valoroso!
Olita
trasse profitto del momento di panico che aveva preso il nemico e lanciò i suoi
“Lupi” all’assalto di quell’imponente fortezza. Al suo segno i “Lupi” balzarono
in piedi e si buttarono in corsa giù dalla forcella, magnifici, eroici!
Correvano incontro alla morte bella, ma sentivano di vivere in quel solo
momento tutta la loro più fulgida vita di guerra, tutto il poema della loro
fiera giovinezza che offrivano in olocausto alla Patria immortale, illuminati
dalla loro incrollabile fede! Si lanciarono e corsero a pieni polmoni, ed anche
noi fummo trascinati dall’impeto.
Baldi
legionari del “Lupi”, forti figli della nuova Italia imperiale, volitiva e
possente, fieri soldati di una grande idea, in quel fatidico giorno voi
discendeste a valle tra la china scoscesa del monte, e nella corsa muta e senza
respiro, ben 63 vostri fratelli, baldi e fieri come voi, caddero falciati dal
piombo nemico! E voi non sostaste, ma
decisi ascendeste il vostro doloroso calvario su cui già splendeva la vivida
luce della vostra bella vittoria!
Quota
806, duro calvario dei “Lupi” di Olita , in quell’aspro pomeriggio del 16
gennaio, tu ricevesti l’offerta più santa dei legionari italiani che ti
conquistarono a viva forza immolandoti un forte manipolo di eroi puri e
generosi.
Combattevano
laggiù nella piana ad est di Santa Coloma de Queralt i baldi fanti del 1°
reggimento e la nostra 1a compagnia; sfilavano tra i filari i
valorosi fanti della “Navarra” che risalivano anch’essi verso l’obiettivo da
voi conquistato; cantavano ancora le rabbiose mitragliatrici avversarie ad est
di Montargull sui due cocuzzoli a cono, di fronte all’ “Inflessibile” duramente
provato, ma tu già vedevi, o fatidica quota, sventolar sulla vetta, glorioso e
mai vinto il sacro segno di Roma!
E
voi, o miei “Lupi”, o mortaisti, o artiglieri, miei più nell’anima, miei più
nella fede, miei più nell’ardore della lotta e dell’impeto, levate in alto la
fronte e le insegne e salutate i vostri prodi compagni caduti! Qui, tra di voi,
c’è anche un vostro camerata, un vostro fido compagno d’arme che voleste
chiamare “Lupo” tra i “Lupi”; anch’egli leva in alto la fronte e la rivolge al
cielo pensando ai vostri, ai nostri poveri morti, e forte, dal più profondo
dell’anima, vi acclama a gran voce e vi proclama tutti, morti e superstiti,
eroi, eroi, eroi!
2° REGGIMENTO “CC. NN.” BATTAGLIONE D’ASSALTO “CC.
NN.” LUPI Il maggiore Amoroso Gaetano per avere, in ogni fase
dell’azione di Catalogna, dimostrata altissima perizia fusa a leggendario
valore fu sul campo (quota 806 di S. Coloma di Queralt 16-1-1939….) dai
legionari del Battaglione “Lupi” nominato “Lupo Onorario”. In
fede, perché possa portare il distintivo del Btg. Lupi Il
Comandante del Btg. (1°
Seniore Olita Oscar) Visto Il
Comandante del Reggimento (Ten.
Col. i.g.s. Oliveti Ferdinando)
Aguilò:
18-20 gennaio
La sosta sulla quota 806
si protrasse fino all’alba del 18 gennaio. La reazione nemica divenne violenta
nel tardo pomeriggio del 16, continuò persistente durante tutta la notte e nel
successivo giorno 17. Verso sera però le cose cambiarono. La reazione
avversaria si fece un po’ fiacca. Giungevano intanto notizie di notevoli
progressi che le forze nazionali avevano realizzato da Cervera, in direzione di
Igualada. In conseguenza di ciò, Oliveti manifestò l’intenzione di tentare un
colpo di mano su Aguilò. Olita ne organizzò l’esecuzione e insieme stabilimmo
alcune modalità. I “Lupi” non
conoscevano stanchezza: tutti volevano prendervi parte. I mortaisti
sollecitavano anch’essi la loro partecipazione. Tutti erano pieni di
entusiasmo, presi ancora dall’ebbrezza della precedente vittoria.
Alle prime luci dell’alba del giorno 18, una forte compagnia del “Lupi”, rinforzata da 80 mortaisti assaltatori, scende le pendici sud est della quota, attraversa la larga pianura sottostante e punta decisamente sulle alture a sud ovest di Aguilò. L’attacco realizza sin dal primo momento notevoli risultati. La compagnia del “Lupi” ed i due plotoni di mortaisti assaltatori agli ordini di Cavagliano avanzano celermente approfittando della densa foschia del primo mattino. Anche noi ci sentiamo trascinati dal nuovo impeto che anima quegli instancabili, forti legionari. Sulla quota, intorno a noi, vi sono ancora una cinquantina di mortaisti assaltatori che esultano pei rapidi progressi dei loro compagni e fremono nell’ansia di lanciarsi anch’essi. Non sanno aspettare. Ci sospingono, ci esortano, come se proprio noi avessimo bisogno del loro incitamento per correre al seguito di quei valorosi.
Non esitiamo infatti. La compagnia del “Lupi” si dirige a sud ovest del paese, punta sulle alture che lo dominano, sulla destra. E noi allora ci lanciamo a sinistra, diritti al paese, proteggendo il fianco dei nostri compagni. Se la sorte ci assiste, ripeteremo il miracolo di Grañena! Come a Grañena ci stringeremo attorno alla piccola chiesa; uno dei nostri si aggrapperà alla corda della campana e suonerà, a distesa, l’inno della liberazione, l’inno del trionfo dei legionari di Roma.
Avanti anche voi, piccoli e valorosi mortaisti assaltatori della 3a compagnia, avanti anche voi baldi soldati della 2a. Oggi si chiude un periodo glorioso della nostra bella battaglia, e lassù, su quel piccolo campanile nerastro, suggellate il vostro valore facendo nuovamente squillare la diana della liberazione!
Quel forte manipolo di fanti, al comando di Arista, scende velocissimo al piano, traversa la strada, si butta in fila tra i campi, affianca le sue squadre e giunge a circa 100 metri dal paese e sosta pochi minuti per riprendere fiato. Arista osserva il terreno, studia la via più sicura per giungervi meglio e presto. I mortaisti sono carichi di mortai e di bombe, ma il loro ardore è incontenibile ed i loro polmoni atti a qualunque fatica. Balzano tutti ad un cenno. La reazione nemica è pronta, ma è fiacca. Qualche fucilata, come da pattuglie che ripiegano in fretta, fischia alta e si perde molto lontano, poi quasi più nulla, e silenzio infinito. I mortaisti raggiungono di corsa le prime case. Alcuni civili si affacciano ai balconi ed accolgono i liberatori battendo loro le mani. Ma i mortaisti non badano allora a quel piccolo trionfo, corrono ancora, raggiungono la piazza, si spingono fino alla chiesa, non trovano la campana; alcuni di essi con noi si portano sull’altura che domina il paese, sulla destra, la coronano di armi, sbarrano la strada, mentre i “Lupi” lassù raggiungono il monte.
Aguilò è libera alfine! Ma questa tua libertà, piccolo paese sperduto nel cuore della Catalogna, solo da pochi istanti conquistata, tu non puoi cantarla a gran voce; tu non puoi chiamare a raccolta i tuoi pochi abitanti superstiti che da tempo non hanno il conforto della loro grande fede; tu non puoi udire la dolce preghiera che ringrazia Dio nel tempio devastato! E però sono qui con te i soldati di Roma, i legionari della Prima Crociata dell’Italia, sono qui con te le forze della grande idea, le forze della fede e della vittoria. E se la tua voce non può oggi levarsi alta e forte nel cielo, se il tuo osanna non può giungere a Dio, asciuga le tue lacrime e prega in ginocchio: Dio sa la tua fede, Dio sa il tuo martirio, Dio sa il tuo sacrificio.
E noi, legionari d’Italia, siamo anche noi tutti qui raccolti come in santa preghiera; qui, su questo piccolo colle! E preghiamo anche noi in silenzio, con tutto il nostro cuore commosso, con tutta la nostra fede infinita, qui, sotto la volta del cielo, davanti a Dio creatore, davanti alle cose create, e pensiamo alla nostra Patria lontana, alle nostre famiglie, ed esultiamo nell’intimo del nostro cuore: Viva l’Italia, Viva la Spagna libera per sempre!
Mio caro Olita, non posso chiudere questo capitolo di vita dura ed intensa dedicato ai tuoi “Lupi”, ai miei “Lupi”, senza rivolgerti il mio commosso pensiero!
Buono e caro camerata, consentirai che io dica “miei Lupi”. La nostra giornata spagnola ci strinse in un forte abbraccio fraterno; il comune pericolo che spesso – quasi sempre – affrontammo fianco a fianco, “Lupi” e mortaisti; i sacrifizi che la dura lotta ci impose; lo spirito di intima cooperazione che spontaneo e cordialissimo ci guidò in ogni circostanza; le alterne vicende della lotta che sempre ci videro quasi fatalmente gli uni accanto agli altri, “Lupi” e mortaisti inseparabili; la stessa grande fede che ci animò e ci sospinse verso la grande vittoria, tutto ci rese fratelli nel senso più puro e più bello della parola.
E noi mortaisti, veramente vi fummo fratelli perché fianco a fianco lottammo nei giorni della più aspra battaglia; perché accanto a voi soffrimmo in silenzio la nostra dura odissea; perché con voi dividemmo la manciata di paglia raccolta nel casolare abbandonato per farcene men duro giaciglio; perché questo giaciglio sempre fu accanto al vostro nella piccola tenda improvvisata o nella casupola a larghe pietre sovrapposte; perché come voi sentimmo la pena e l’ansia dell’attesa, l’ardore della lotta, la gioia della vittoria, il dolore per i compagni caduti!
Ma oggi, o miei “Lupi”, i mortaisti vi lasciano. Oggi i mortaisti si caricano a spalla i loro mortai, si armano anch’essi delle mitragliatrici tolte al nemico, si lanciano in corsa per giungere lontano, molto lontano!
Addio, o miei “Lupi”, forse più in là ci rivedremo; forse più in là torneremo a combattere insieme, con voi e per voi; forse la sorte ci afferrerà tra le sue spire insidiose; chi sa?
Il vostro valore, il vostro sacrificio, il vostro coraggio costituiranno per noi il più caro ricordo, il ricordo più intimo e profondo che incide nel cuore per tutta la vita incancellabile segno.
Addio Olita, addio Alimonda, addio Chiavellati!
Anzi, arrivederci buoni e cari compagni d’arme valorosi, arrivederci o miei “Lupi”, che la fortuna vi assista, tutti, e che la vostra sorte sia la “buena suerte” per tutti!
Arrivederci!
CAPITOLO XI. SEMPRE PIÙ OLTRE
Ullastrell: 21-25 gennaio
Lasciammo Aguilò il mattino del 21 gennaio. La 1a compagnia era già tornata al battaglione. Durante la lunga assenza aveva combattuto ad Espluga de Francoli, a Blancfort, a S. Coloma de Queralt. Noi l’avevamo seguita con il nostro pensiero e con tutto il nostro cuore, certi che non avrebbe mai smentita la tradizione di gloria e di eroismo che già il Batmo si era conquistata. L’avevamo seguita col pensiero e col cuore e assai gioimmo allorché tornò tra noi in quel radioso mattino di gennaio.
La nostra marcia proseguiva speditamente. Davanti a noi le Divisioni “Frecce” si erano tenacemente poste alle calcagna del nemico in fuga. Superate le difese di Santa Coloma, di quota 806, di Montargull, la nostra avanzata aveva assunto l’aspetto di un travolgente inseguimento. Soltanto in qualche tratto della fronte la lotta continuava ad avere qualche momento di asprezza, ma in complesso si manteneva episodica e slegata, quasi di pattuglie o di piccoli reparti. Di fronte a Manresa, però, i rossi resistevano ancora. Igualada era invece caduta, Villafranca e Vendrell superate. Si proseguiva così di vittoria in vittoria. A tarda sera si giungeva alla tappa, si sostava in sicurezza per tutta la notte, e all’alba del giorno successivo si riprendeva a marciare.
Il “Batmo” era pieno d’ardore: avanti, sempre più avanti! Tutti i miei mortaisti marciavano con passo cadenzato e sicuro, e tutti li sentivo nella mia volontà, nella mia fede: avanti!
21 gennaio: S. Maria de Miralles!
22 gennaio: Vallbona!
23 gennaio: Piera! Masquefa! Avanti!
Ecco la Sierra del Montserrat arcigna e ferrigna, forte ed inespugnabile baluardo che chiude sul fianco la porta di Barcellona. Per noi tu sei una rocca di speranza e di fede, meta di devoti pellegrinaggi per il tuo santuario meraviglioso tra i picchi delle tue rocce aguzze, vedetta verso il gran mare nostro nei secoli. Molti sono i giorni che ti giriamo attorno, e tu fiera ci guardi con ansioso sguardo d’attesa. Eccoci ai tuoi piedi, tra i prati ubertosi e i boschi di ulivi e di mandorli in fiore che ti fanno ridente corona. Tu sorgi maestosa e bella e noi ti guardiamo commossi mentre ti cingiamo da oriente nel fraterno abbraccio che ti libera alfine dal tristo giogo dei rossi. Tu rientri così nella tua Patria d’amore! Tu ti stringi così alle altre belle provincie già salvate dall’onta e dall’odio, e ben ti accolgono coloro che per te lottarono e vinsero.
E lotteranno ancora, e vinceranno ancora! Domani le fiere corti di Roma ti avranno già superata! Il fascio del sacro “Littorio” continuerà a colpire e a stroncare con la sua scure tagliente il braccio e l’artiglio rosso di sangue che ti ha martoriato! Domani le vittoriose schiere delle forze liberatrici giungeranno al Llobregat e si tufferanno nel fiume a piedi calzati arsi dalla fatica, piagati dal lungo cammino, segnandosi la fronte con la mano bagnata nell’acqua silenziosamente benedetta da Dio, per suggellare ancora una volta con piena fede cristiana la loro santa promessa!
Avanti, discendiamo lungo la striscia d’argento del Llobregat magnifico: essa ci porta rapidi al mare!
Laggiù all’orizzonte c’è soltanto un piccolo monte che copre Barcellona, la bella, la grande città catalana. Su di esso si scorgono i tralicci che si levano alti nel cielo quali braccia protese come in muta preghiera, e tra le cime degli alberi, e tra la selva, le ville isolate e ridenti circondate dal verde puro della più bella speranza!
Avanti, avanti, scendiamo rapidi al mare ed entriamo in Barcellona! Prepariamo, o legionari, il nostro santo vessillo affinché sventoli vittorioso sulle baionette innastate e corriamo, corriamo a gran fiato verso il mare nostro nei secoli!
Il “Batmo” raggiunse Martorell la sera del 24 e ripartì il mattino successivo. Risalì per gran tratto il Llobregat sulla sinistra, poi volse ad est e puntò su Ullastrell. Vi giunse e lo oltrepassò senza molto indugiarvisi. Accanto alla chiesa due o tre proietti rabbiosi tirati da un carro armato fecero alcuni feriti. Intanto sulla destra combattevano le camicie nere di Oliveti. A tarda sera sostammo nei pressi di una grande villa sulla strada per Tarrasa.
L’alba del 26 ci portò una grande sorpresa ed una grandissima gioia: il “Batmo” lasciava i quadrupedi, si motorizzava, balzava in testa!
Sabadell: 26 gennaio
O radioso mattino di gennaio, tiepido di sole e saturo d’ebbrezza, su quella candida strada per Tarrasa! Ti ricordo e mi sento tutto pieno di gioia!
Mortaisti! Rinsaldate le file e ritemprate gli animi nel crogiuolo della vostra inestinguibile fede: oggi marceremo a gran passo, e andremo lontano, molto lontano!
Foscarini, Genovese, Toccafondi, riunite gli autocarri!
Rossi, raccogli i quadrupedi e parca il carreggio. Sosta ed aspetta: ti darò degli ordini.
Olimpio, Lucci, fieri centauri, saltate sulle vostre motociclette pulsanti e correte, chiamando a raccolta il mio “Batmo”, tutto il mio “Batmo”, il “Batmo” d’acciaio, forte, volitivo, possente!
Adunata, adunata, mortaisti valorosi, giunge l’ora vostra, l’ora tutta vostra, soltanto vostra! Serrate le file, qui, attorno a me, adunata!
Riprendiamo la corsa velocissima! Da Gaeta, da Tarquinia, da Pisa partimmo, e qui giungemmo attraverso il mare nostro, nostro nell’anima, nostro nel cuore, nostro nel palpito più intenso e profondo.
Ed ecco laggiù lo stesso mare ci attende: corriamo! Lo stesso nostro mare ci attende: quello che bagna la terra della nostra grande Patria immortale; quello che porta coi flutti il sospiro delle nostre famiglie che ci aspettano in pena; quello tutto azzurro e infinito come il nostro cielo ricoperto di stelle; quello che dall’alba al tramonto è solcato dal solco profondo di vita che sarà tutta quanta italiana, marinara nei secoli come le vecchie italiane repubbliche; quello che a sera si accende di mille piccole luci nelle sue belle città e nei suoi borghi costieri; quello che a notte risplende della pallida luce degli astri riflessa giù dalla volta del cielo, argentea, tremula, quasi festante o nostalgica! Lo stesso mare ci attende, corriamo, corriamo!
I mortaisti del “Batmo” salirono sugli autocarri il mattino del 26 gennaio, sulla strada che da Ullastrell porta a Tarrasa. Erano oltre trecento. Li guardavo negli occhi e vedevo traboccarne la gioia. Ognuno di loro nascondeva nel petto una bandiera tricolore. E se tentavo di toccare il tascapane di ognuno, lo sentivo tutto pieno di bombe.
Dove andiamo? Non lo so! Corriamo, andiamo a riprendere il nemico, andiamo a raggiungerlo poiché la sua fuga è veloce, andiamo a precederlo per sbarrargli la strada, andiamo a fugarlo per non dargli più tregua o respiro ovunque tenti sostare. Siete pronti?
Prontissimi!
Verso sera giungemmo a Santa Maria di Barbara, di fronte a Sabadell, e ci schierammo a difesa tra la ferrovia e la strada, a circa un miglio dall’abitato. Il cielo imbruniva. Verso le ore 19 giunse un uomo col viso insanguinato e ci disse che i rossi lo avevano percosso ed erano ancora in paese. Chiedemmo ed ottenemmo di andare a snidarli.
Non fu certo una grande battaglia, e nemmeno fu un grosso episodio. Ma vi fu in voi, fieri mortaisti divenuti fucilieri in un solo mattino, molto ardire e moltissimo ardore. Le vostre pattuglie marciarono svelte nella notte piena di stelle, frugarono ogni cascina, saltarono fossi, siepi e steccati, giunsero alle prime case dell’abitato e sentirono, nel silenzio della sera avanzata, il fragore indistinto di alcuni motori. Accelerarono il passo, seguite a breve distanza dalle squadre in fila nelle cunette e lungo le siepi. Accelerarono il passo e il rumore si fece più chiaro, più preciso, più intenso. Indubbiamente era di carri armati. Si sentiva il fragore dei cingoli che stridevano svolgendosi sul fondo duro della strada.
Allora le pattuglie sostarono un istante: ripresero fiato. Le squadre in fila serrarono sotto. Bisognava correre, bisognava lanciarsi in uno sbalzo impetuoso e raggiungere i carri che scappavano. Bisognava assalirli, piombar loro addosso, inutilizzarne qualcuno, tentare di seminare il disordine, gareggiare in audacia, riuscire a fermarli, costringerli alla resa!
Ma i carri sfilavano laggiù, lontani, velocissimi! Erano trenta? Erano quaranta? Scappavano!
Che sera, o mortaisti, quella di Sabadell! E che pena sentire quei carri volgere in fuga e vederli sparire laggiù, nel crocicchio della larghissima piazza, e non poter mettere le ali ai piedi, e volare, raggiungerli, annientarli!
Perché ci fermammo quella sera davanti a Sabadell, e aspettammo che quell’uomo sanguinante ci avvertisse? E perché appena giunti non corremmo invece al paese per liberarlo più presto? Quale ricco bottino non avrebbe premiato il vostro ardire?
Ma insomma, nella guerra talvolta si vorrebbe esser mille quando appena si è in dieci, si vorrebbe aver l’ali quando invece legati si sta tutti quanti alla terra, e pesa la carne mentre in alto sospinge lo spirito, e vince la materia talvolta, mentre invece è l’idea che vorrebbe trionfare gigante, mentre invece è la fede che possente ci esalta e ci inebria di magnifica ebbrezza!
Avanti, avanti, o legionari di Roma! Non importa se il nemico ci sfugge! Corriamogli dietro! È un nemico che scappa: facciamogli sentire che gli siamo alle costole e non gli diamo più tregua. Lo ritroveremo domani a sbarrarci il cammino, o forse la sua fuga sarà senza speranza, ma intanto spariamogli addosso perché si affretti ancora di più e precipiti in rotta disastrosa e completa!
Avanti, avanti, mortaisti del “Batmo”!
CAPITOLO XII. LA SMAGLIANTE VITTORIA
Badalona: 27-28 gennaio
Sulla strada di Sabadell gli autocarri sostavano in fila pronti allo sbalzo. Anche i mortaisti sostavano cantando gli inni della Patria. Giunse Foscarini col rancio, che fu subito distribuito.
Alle 9 circa comparve sulla lunga strada un motociclista che procedeva a gran corsa. Gli avamposti lo fermarono: veniva dal comando rosso di Vich ed era diretto a Barcellona. Portava alcune lettere dirette al Ministero della Guerra rosso, a Barcellona già liberata. Feci sequestrare le lettere e la moto e, seguito da Arista, lo accompagnai al vicino comando di Divisione. Avevo la sensazione che si dovesse trattare di cose importanti, e la stessa impressione deve aver provato il Console Radogna che appena mi vide mi venne incontro nel piccolo piazzale esterno della stazione. Aitante nella persona, sguardo acuto e penetrante, pizzo alla D’Artagnan, Radogna ci accolse con una esclamazione e con un sorriso eloquentissimo:
- Buona caccia, eh! caro Amoroso, in questo mattino d’attesa…
Prese le lettere, le aprì…Non si era sbagliato. L’intelligentissimo e versato penalista romano, spirito vivace e indagatore, aveva subito intuito che il comando rosso di Vich non poteva aver spedito un corriere in moto per comunicazioni di poca importanza. Infatti, le lettere erano veramente importanti! Fra di esse ve ne era una “personale” diretta al Ministro della Difesa in Barcellona.
- Ottima caccia – mi diceva dirigendosi trionfante verso l’ufficio di Scala. Quante cose si possono apprendere da una “lettera personale”, e quanta importanza non hanno le “espressioni confidenziali!”
Gli ordini per la ripresa dell’azione si facevano attendere. Li sollecitammo. Ma alfine giunsero, ed erano meravigliosi: “Avanti! Avanti fino al mare!” Fu quella, o miei mortaisti, la vostra marcia trionfale! Cronia ci precedeva in avanguardia. Ma poi si fermò a protezione del fianco, e noi lo sorpassammo.
Avanti, avanti fino al mare! C’era laggiù, sulla riva, una meravigliosa città che ci attendeva. Noi avremmo chiuso da nord il cerchio che l’avrebbe unita alla valorosa Spagna del Caudillo. Noi saremmo giunti alla riva ed avremmo sbarrata la strada: quella strada costiera che corre lungo il nostro magnifico mare; quella strada bianchissima che si snoda tra ville e abitati, supera ponti e speroni che degradano al mare, lambisce la spiaggia e corre, corre verso il lontano confine francese.
Avanti, avanti, legionari del “Batmo”! Correte a bandiere spiegate tra gli applausi del popolo che vi accoglie festante; correte con la gioia nel cuore: forse la guerra oggi si chiude, forse la strage oggi si cheta. E riprende la vita!
Su, correte! Passa con voi la vittoria delle armi; passa con voi la radiosa bandiera d’Italia che significa vittoria, pace, lavoro; passa con voi nell’impeto la luce immortale di Roma che parla di bene nella santa e meritata vittoria; passa con voi l’idea immortale che si leva alta nel cielo come vivida stella; passa con voi la fede sempre più salda, sempre più forte, sempre più bella e sentita, chiara come acqua di limpida fonte, semplice come anima pura, intensa come il palpito del vostro cuore fremente!
27 GENNAIO 1939 Legionari
della Littorio! Le città e le case di questa terra non sono nostre. Il
mare è nostro: andiamo al mare! Troveremo il nemico! IL
GENERALE COMANDANTE f.to
Bitossi
COMANDO DIVISIONE ASSALTO “LITTORIO”
ORDINE DEL GIORNO
Avanti, avanti, questa è la vittoria radiosa e magnifica! Avanti, avanti! Siete alla testa! Portate una fiamma, portate una fiaccola che arde di speranza e di fede. Siete ancora come nel primo giorno di lotta, quella fiera avanguardia della “Littorio d’Assalto” che partì da Albalate nel dicembre già scorso; quella fiera avanguardia che non conobbe mai tregua, né riposo si diede; quella fiera avanguardia delle balde legioni della “Littorio d’Assalto” che hanno tanto lottato fino a Santa Coloma, e sono ancora pronte ad osare; quella fiera avanguardia che porta in trionfo il “Littorio”, e nel nome di Dio, nella fede si esalta e si inebria.
Avanti, avanti, mortaisti del sacro Littorio!
O giornata di fede e di vittoria, io ti ripenso e sento nel mio cuore tutta la gioia dell’avvenimento. Su quei colli ubertosi il nemico già battuto e disperso risaliva senza speranza verso il lontano confine francese!
Non era la sconfitta che l’aveva sommerso, l’onta o l’obbrobrio lo aveva travolto nel fango! Non era l’ardore che lo aveva vinto in battaglia, già la vergogna gli aveva sferzato il viso tutto sporco di sangue fraterno; non la miccia alla mina aveva trasmesso il suo fuoco, ma la perfidia e l’insidia erano penetrate dovunque seminando l’orrore e la strage; non la bomba aveva colpito la chiesa, il santuario, o la casa, era la fede che aveva perduto ogni fascino, e non timore di Dio aveva infuso negli animi perché, follemente smarrita tra l’ateo e il bolscevico, tra l’assassino ed il vandalo, tra il perverso e il fanatico aveva cancellato dagli animi ogni timore di Dio; non il prete aveva risalito lo spalto per morire fucilato, né taceva, sterminati i fedeli, la gran voce di Dio, ma dal folle tumulto risorgeva, essa stessa, la fede, ancora più forte e più bella nel sacrifizio dei martiri!
Ammazza! Ammazza! Fucila e distruggi, annienta e devasta, questo era il tuo motto o insano, o feroce nemico; ed era pure la tua condanna! Guardate, o legionari, i bei ponti divelti, i templi e le chiese distrutte ancor fumanti di immense rovine; le case saccheggiate e sventrate; la nuda campagna; i borghi incendiati sotto la Sierra Montserrat; le centrali che accumulano energia per le fiorenti officine, le fabbriche che filano e tessono il cotone, la lana e la seta, tutto divelto, tutto rovinato o distrutto, tutto travolto dalla furia che passa inesorabile e trista!
Avanti, avanti, mortaisti del sacro Littorio! Passa con voi la vittoria più bella, la vittoria più alta nel trionfo di Roma, nella gloria di Dio che è con noi! Non sentite l’anelito dei motori pulsanti? Non sentite la voce che vi chiama e si perde lontano? Non sentite l’ansare del nemico che fugge e va in cerca di grotte o spelonche, o di tane per ficcarvisi dentro e rimanervi nascosto? Il suo fiacco polmone nella fuga si è già esaurito e più non resiste ad un largo respiro. Avanti, avanti, mortaisti del sacro Littorio! Superatelo in corsa! C’è laggiù il nostro mare che attende!
Il nostro mare che attende! Su di esso, risospinto dall’onda, il nostro triplice grido giungerà alla Patria lontana:
- “Salute, o santo mare d’Italia! Tu ne adduci alla dolce Patria!”
- “Salute, o santo mare di Roma! A te protendiamo le braccia!”
- “Salute, o santo mar tutto nostro! È per te che lottammo e vincemmo!”
È per te che durammo nella nostra muta fatica, e ben ti vogliamo tutto nostro per sempre, libero al glorioso vessillo d’Italia, libero alla vela, libero al timone, non più schiavo d’Albione, non più chiuso alle porte, ma libero ti vogliamo alfine, libero dalle odiose catene, libero dalle esose barriere, libero per l’Impero di Roma, per l’Impero immortale del sacro “Littorio”!
Avanti, o mortaisti, avanti fino al mare luminoso e bello, ricco di sole e ricco di sorrisi; mare che parla al nostro cuore con la dolce voce della Patria lontana; mare che ci chiama in silenzio, sospirando come persona cara che trema nell’attesa e si accora; mare che sa dirci quanto sia bello il soffrire aspettando una gioia, quanto sia triste il sognare e sentirsi morire senza speranza, mentre bussa alla porta del cuore una promessa di vita, una promessa di luce, una promessa di fede che da molto e con ansia si aspetta!
Avanti, avanti, mortaisti del sacro Littorio! Su questi colli, su quella strada costiera, su quella spiaggia bagnata dal nostro magico mare, si libra in alto la bella, la smagliante vittoria, e su di voi il suo volo sarà maestoso e più ampio, come per compensare la vostra fatica, e l’ardore della vostra indomita e indomabile fede. E scenderà su di voi per baciarvi la fronte! E porterà il “Littorio”, il vostro sacro “Littorio”, il “Littorio” di Roma, sempre più in alto, su pei cieli del mondo!
Avanti, avanti, fino al mar tutto nostro, tutto nostro nei secoli!
Proseguendo nella sua marcia trionfale il “Batmo” giunse all’ultimo colle e lo superò decisamente puntando sulla rotabile costiera. Il nostro mare si apriva laggiù tutto tinto d’azzurro e sfolgorante di luce. Il nostro sguardo avido lo rimirava con infinita esultanza e il nostro cuore accelerava i palpiti nell’ansia di raggiungerlo. Quale bella promessa si compiva in quell’ora fatidica? Quale sogno, quale voto a Dio si realizzava in quell’ora?
O miei baldi mortaisti, era quella la sacra promessa che avevate scambiato a Tarquinia col colonnello Romano, nel muto linguaggio degli occhi e del cuore; la solenne promessa che avevate fatto a voi stessi nel lasciare il vostro focolare; la santa promessa che avevate fatto alla vostra grande Patria lontana nel lasciare le sue belle sponde per recarvi a combattere per l’idea che vi infiamma!
E quella santa promessa, ecco, si compiva!
Davanti al mare tutto azzurro, sotto la volta del cielo infinitamente bello e luminoso, scendevano i mortaisti veloci verso il magico mare d’Italia, gonfio il lor petto di un anelito possente, satura l’anima della grande fede di Dio, vittoriosi, invincibili!
Lì, o vittoriosi, si chiudeva un eroico ciclo della vostra storia spagnola! Lì, o valorosi, si vinceva all’ombra del sacro “Littorio” da voi portato in trionfo! Lì il comunismo internazionale rosso di sangue ammainava la sua ingloriosa bandiera tutta sporca di fango e di vergogna e fuggiva cercando riparo verso il lontano confine.
Lì passava la vittoria, la verità, la bellezza, la fede, e moriva per sempre, sul suolo di Spagna, l’errore, l’orrore e l’insidia, l’orribile insidia che striscia nel fango e avvelena lo spirito!
Viva la Spagna! Viva la Spagna una, libera, e grande, fiera e vera sorella mediterranea, a noi ora indissolubilmente legata da un vincolo fraterno cementato nel sangue!
E viva anche l’Italia che canta ancor oggi il suo peana di vittoria, e sempre lo canterà sui monti, sui mari e nel cielo, contro lo spirito immondo del male e dell’egoismo!
Il “Batmo” giunse al mare alle ore 13 del 27 gennaio. Sostò sulla strada di Badalona, verso Montgat. Riempì i serbatoi della benzina; fu subito pronto a riprendere il passo di marcia. Ma per quel giorno non fu necessario.
E sostò due giorni a Tiana.
CAPITOLO
XIII. DI LÀ DELLA BARRICATA
Da
Tiana ad Argentona: 29 gennaio
La
breve sosta a Tiana vi rinfrancò dalla lunga fatica. E la bellezza e la
pienezza della vostra smagliante vittoria vi resero consapevoli del vostro
valore.
Ed
io che vi ebbi allora ai miei ordini, mi sento ancor oggi, come allora, fiero
ed orgoglioso di avervi comandato, e vi vorrei ancor oggi avere qui con me,
tutti con me, nei ranghi della nuova “Littorio”, come in quei giorni di
durissima lotta. Vi sentivo allora tutti nella mia volontà, tutti nell’animo
mio, e ben avrei potuto prendervi tutti in un pugno e lanciarvi al di là di
qualsiasi ostacolo!
Così
vi sentì allora, o mortaisti, anche il nostro “Gervasio”. Ascoltate anche voi
qualche suo giudizio, e certo ne sarete orgogliosi: “La seconda fase
dell’offensiva di Catalogna trova ancora il battaglione mortai…pronto a tutto
osare.
I
trentacinque giorni della precedente battaglia per la conquista di Barcellona…;
i 250 chilometri già percorsi… dal battaglione sempre combattendo
vittoriosamente alla testa degli elementi più avanzati della divisione; le
perdite non lievi subite… non avevano minimamente scosso, né diminuito la
saldezza spirituale di questo magnifico reparto.
. . . . . . . . . . . . . .
All’inizio
del nuovo scatto su Gerona, distante dalla base oltre 110 chilometri, trovai il
… battaglione mortai sempre…pieno di entusiasmo, tutto proteso verso la nuova
vittoria. Decisi di impiegarlo in modo più aderente alla situazione che richiedeva
rapidità di movimento, spregiudicatezza tattica, risolutezza. Mi parve che
questo … battaglione … avrebbe potuto costituire con i suoi uomini un forte
elemento manovriero, audace e capace di dare il più alto rendimento. Non mi
ingannai.
I
legionari del battaglione … lasciarono i mortai (armi pesanti, ma ormai troppo
ingombranti) con i quali avevano manovrato, combattuto e vinto per oltre 30
giorni la loro dura battaglia. Riuniti in reparti leggeri autocarrati, dotati
di mitragliatrici e lanciati contro un nemico agguerrito e tenacissimo nella
difesa, accanito nel contrattacco, seppero ancora … vincere brillantemente e
strappare all’avversario importanti posizioni.
Sembrò
come se soltanto allora fossero entrati in azione, tanto fu alto il loro mordente,
fresco lo slancio, incisivo il valore, eccellente lo spirito”.
. . . . . . . . .
Ritemprato
adunque lo spirito, partiste da Tiana in quel magnifico mattino di gennaio.
C’era
in testa a voi, come sempre, quel vecchio fante della grande guerra che vi
aveva guidato, in quella oscura notte sul 10 dicembre, nella testa di ponte di
Seròs. Da allora egli non vi aveva chiesto che sacrificio e fatica, e con voi
aveva sopportato privazioni e disagi, ma vi aveva sempre portato sulla via
dell’onore, di vittoria in vittoria, sempre in silenzio, da vero fante
nell’anima e nello spirito.
Ma
in quel mattino del 29 gennaio 1939, dopo la breve sosta a Tiana, non era un
semplice battaglione di soldati legionari che partiva. Chi vi lanciava in
testa, non vi mandava affatto per vincere ancora un combattimento, ma per
affermare un’idea luminosa, un ideale di civiltà cristiana e romana.
Perché
veramente, o fieri mortaisti del “Batmo”, dopo la fulgida vittoria conquistata
con largo contributo di eroismo e di sangue, a prezzo di duri sacrifici, voi
non eravate soltanto i legionari del “Batmo”, ma gli apostoli di un’idea
sorretta da una fede immacolata e incrollabile che bisognava portare più in là,
al di là della “barricata”, oltre gli spalti del comunismo internazionale.
E
perciò, a voi non era affidato soltanto un normale compito di guerra, ma era
con voi, in testa alla vostra colonna, il simbolo della Patria lontana, una
bandiera invitta, una fiamma ardentissima, l’idea fulgidissima che sotto il
segno di Roma si riaffermava invincibile nell’Impero immortale del sacro
“Littorio”!
E
dunque o mortaisti, dove porterete voi questo sacro vessillo di passione e di
fede che vi affida il vostro valoroso Generale? Dove porterete voi, o forti
mortaisti legionari del “Batmo”, questo glorioso vessillo se non più oltre, di
vittoria in vittoria, al di là di qualsiasi ostacolo?
Con
questo viatico di fede riprendeste la marcia verso la nuova immancabile
vittoria. Saliste sugli autocarri già pronti sulla strada di Tiana e lesti
raggiungeste Monigat; svoltaste a sinistra, sulla strada costiera, sorpassaste
le camicie nere del 2° reggimento che avevano già aperto la marcia, e
nell’attraversare le file serrate dei vostri camerati, foste accompagnati da un
frenetico susseguirsi di acclamazioni, di auguri, di saluti, di applausi.
Ma
nel saluto dei vecchi camerati che continuavano a marciare … “autoscarpati”,
c’era sempre l’arguta facezia, forse anche una leggera punta di invidia, certo
il rimpianto di non essere anch’essi veramente motorizzati per correre
anch’essi verso la nuova meta lontana.
La
strada si svolgeva bianchissima sotto il sole fulgido. A tratti fiancheggiata
da platani, essa appariva snodata nelle sue piccole curve che avvolgevano i
brevi costoni subito degradanti sul mare. Dove andavate o fieri mortaisti in
quella domenica festosa? Per quel giorno non si doveva combattere. La vostra
meta, infatti, non era molto lontana: dovevate sostare tra Vilasar de Mar e
Matarò.
E
vi giungemmo presto: erano appena le 13. Ma appena giunti, mentre svelti
piantavamo la nostra tendopoli accanto all’argine della ferrovia, poco oltre il
bivio per Argentona, vediamo giungere dalla parte di Masnou un’automobile. Si
ferma: un uomo discende: è un ufficiale; viene verso di noi. Aguzziamo lo
sguardo: ci sembra di riconoscerlo. Sì, lo riconosciamo: è il colonnello
Bodini. Ma che viene a fare qui, da noi, questa estrema punta del Comando del
C. T. V.? Ci avviciniamo.
Ma
qui, o mortaisti, questa storia del “Batmo” non può più continuare sullo stesso
tono col quale ve l’ho raccontata finora. A questo punto questa vostra
esaltazione assume per me un carattere così personale, che io non posso più
parlare delle vostre eroiche gesta così come ho fatto finora. Se le norme e gli
ordini non mi costringessero ad una doverosa discrezione – che peraltro sento
anch’io di dovermi imporre – potrei terminare qui la vostra storia e lasciare
la parola a chi vi vide operare e vi seguì con occhio vigile e attento nella
durissima lotta di quei giorni. E chi vi vide ebbe per voi tratti ed
espressioni che profondamente commuovono talché io, vostro “fratello maggiore”,
non riesco più a pronunziare il suo nome senza che un impeto di commozione mi
salga su dal cuore e mi faccia nodo alla gola. Più in là riparleremo di Lui, ma
tutto quello che potremo dire non sarà che una minima parte di quello che sente
il nostro cuore e che la parola non riuscirà ad esprimere con piena efficacia.
Per ora bisogna che io finisca queste pagine a voi dedicate. E bisogna altresì
che mi limiti alla sola cronaca dei fatti.
Perché,
o miei mortaisti, la semplice esposizione dei fatti è già di per sé stessa
tutta una mirabile esaltazione del vostro valore, del vostro sacrificio, del
vostro eroismo. Traspare da essi un vero e proprio spirito di leggenda; dicono
da soli tutto il vostro ardimento, tutta la vostra tenacia, tutta la vostra
dedizione. Chi leggerà queste pagine sentirà fremere l’animo suo e ne sarà
certamente commosso; ma voi che avete vissuto quei giorni ne sarete non
soltanto commossi, ma anche fieri ed orgogliosi. Vi sembrerà di rivivere le
pagine di fulgido eroismo che avete scritto in quei giorni marciando a bandiere
spiegate verso una inebriante vittoria, portando con voi tutto l’ardore di una
fiamma, tutta la potenza di una fede, lottando nel nome della grande Patria
immortale. Vi sembrerà di rivivere nelle vecchie e valorose schiere del “Batmo”
la stessa vita di pericolo e di sacrificio che viveste allora per la grande
Patria immortale.
Ma
passiamo alla cronaca.
Dosrius: notte del 30 gennaio
Scambiati
i convenevoli con Bodini, egli mi dice, cordialissimo come sempre, che vuol
parlare alla truppa.
Squillano
i miei tre colpi di fischietto – segno delle grandi adunate – e mi si
raccolgono attorno, di corsa, oltre duecento mortaisti. Bodini parla loro e
dice che il pane non può arrivare perché i ponti sono tutti interrotti. Al
posto del pane può dare, per ora, soltanto … un pacco di sigarette. È veramente
un magnifico dono, gradito ai fumatori più di qualunque altro; ed io lo prendo
con piacere e lo rassicuro perché fino a quel momento ai mortaisti non era mai
mancato il pane, e neppure la carne, e … qualche altra cosa!
Mi
stringe la mano e parte … in quarta, come suo solito.
Mi
metto a passeggiare sull’argine su cui corre … o meglio, su cui non corre la
ferrovia. A sinistra, in basso, stanno sorgendo le tende dei miei soldati; a
destra la spiaggia e il mare incantevoli. Sento l’odore acre della salsedine.
Mi ricordo che quando ero ragazzo passeggiavo sulla spiaggia del mio paese …
sognando!
Sogno
anche adesso, mentre percorro quest’argine, lungo e diritto come una freccia, e
penso…
Sento
che mi chiamano. Torno indietro. Una macchina mi aspetta sulla strada:
“Gervasio” mi ha mandato a chiamare. Salgo sulla macchina e corro da
“Gervasio”. Scala mi aspetta e mi accompagna. Ricevo gli ordini: sono brevi,
chiarissimi.
Tra
Argentona e Dosrius è segnalato un forte nucleo di internazionali. Gli abitanti
di Dosrius sono rinchiusi nelle case e chiedono soccorso, per telefono, con
voce tremante. Bisogna spingersi su Argentona, sorpassarla, garantire il fianco
sinistro della Divisione che a sera giungerà tutta nella zona di Vilasar de
Mar-Cabrera de Matarò-Matarò. Ritorno al battaglione. Sono circa le 15. Faccio
togliere le tende che incominciavano già ad essere sistemate, e ordino di
risalire sugli autocarri.
Torno
indietro col battaglione verso Vilasar, fino al bivio per Cabrera-Argentona.
Svolto a destra, e risalgo verso Cabrera. Giungo in vista di Argentona. Do
ordine di scendere dagli autocarri. Con la 1a compagnia in
avanguardia, marcio su Argentona. Trovo questo paese sgombro di nemici, ma gli
abitanti mi ripetono che da Dosrius continuano le telefonate imploranti
soccorso. Oltrepasso Argentona di un paio di chilometri, scelgo una posizione,
schiero il battaglione a sbarramento della valle: il mio compito è chiaro: devo
proteggere il fianco sinistro della Divisione.
Alle
17 circa giunge il tenente colonnello Raffaelli del comando di Divisione. Mi
comunica ancora le richieste degli abitanti di Dosrius e mi dice che “Gervasio”
ha intenzione di mandarvi un reparto del 2° reggimento CC. NN. Lo prego di
riferire a Gervasio che in quella zona ci sono già i mortaisti e che perciò non
è necessario mandare altri a Dosrius. Raffaelli ritorna a Matarò.
I
mortaisti sono impazienti. Tutti vogliono andare a Dosrius. Non riesco a
frenarli. Riunisco una compagnia: un plotone della 1a, uno della 2a,
uno della 3a. Verniani in testa. Già cade la sera: avanti su
Dosrius!
Ripenso
alla missione di Raffaelli. Quale poteva essere? Mi sorge il dubbio che
“Gervasio” intendesse disimpegnarmi. In tal caso però sarebbe stato più
esplicito. La mia iniziativa su Dosrius troverà certo rispondenza nelle sue
intenzioni. Infatti, se egli non avesse voluto accorrere in aiuto degli
abitanti di Dosrius, non avrebbe certo pensato di mandarvi un reparto. E
allora, questo reparto non poteva essere altro che il “Batmo” che era già su
quella strada. Avanti su Dosrius!
Passa
circa mezz’ora. Non ho notizie di Verniani e non sento il fuoco delle
mitragliatrici, né lo scoppio delle sue bombe a mano: sono però tranquillo.
Passa altra mezz’ora: ancora silenzio. La compagnia di Verniani è già lontana.
Forse avrà già raggiunto Dosrius. Chiamo Olimpio con la moto. Vi monto anch’io,
sul sediolino posteriore, e … di corsa a Dosrius!
Forza
Olimpio, corri! Rallenta! Accendi il faro … non lo accendere! Spegni!…
Riaccendi! Va piano … più piano … ma corri, corri ti dico! Raggiungo Verniani a circa 500 metri da
Dosrius. Ha già avuto tre feriti. Si è scontrato con una pattuglia rossa che
gli ha sparato alcune fucilate ed è poi sparita nelle tenebre. Non sono
riusciti a catturarne nemmeno uno: che peccato! Verniani procede con
circospezione. Giungiamo nei pressi del paese. Siamo già sulla piazza
all’ingresso dell’abitato. Silenzio assoluto! Sembra che i rossi siano tutti
scappati. Forse la pattuglia che Verniani aveva incontrato li ha avvertiti. O
forse quelli erano soltanto alcuni sbandati. Oppure erano saccheggiatori che
avevano messo in allarme il paese. Certo non hanno avuto il coraggio di
aspettarci.
Verniani
è fuori di sé: vuole raggiungerli. Lo sospingo in avanti, ma gli raccomando:
“non troppo”. Intanto le pattuglie sguinzagliate in paese ci avvertono che c’è
un magazzino di oggetti di corredo abbandonato dai rossi. Vado a vederlo: molte
calze, oggetti di cancelleria, e … tante altre cose. Tutti si provvedono di
calze, senza economia. Dopo la mezzanotte giungono reparti del battaglione
“Ardente” destinati a sostituirci. C’è anche il comandanre del battaglione.
All’una e mezza torna Vernani con una ventina di prigionieri: Gli ordino di
rientrare ad Argentona.
Il
mattino del 30 Gervasio mi manda ancora a chiamare. Vado a Matarò. Il “Batmo” è
già tutto riunito e pronto a muovere. Gervasio mi dà gli ordini: è in
formazione “la colonna celere Fabris!”
La
colonna celere Fabris: 30 gennaio
Ritorno
subito al battaglione. Dispongo affinché siano accantonati in Argentona tutti i
materiali esuberanti. Il battaglione deve assumere una formazione snellissima,
particolarmente leggera, sempre autocarrato.
Nulla
di speciale però: diverrà, di nome, battaglione di arditi. Dico di nome, e non
di fatto, perché di fatto il battaglione mortai è sempre stato un battaglione
di arditi. Esso diventa oggi soltanto un po’ più snello, più leggero, ma è
sempre quello di prima, con lo stesso spirito, con la stessa volontà. La sua
nuova formazione gli consentirà ora di correre più veloce, più diritto verso la
vittoria. Lo vedremo.
Intanto
a Matarò il capitano Ferrari sta riunendo in un battaglione di formazione gli
arditi dei due reggimenti della Divisione.
Parto
col “Batmo” da Argentona il 30 mattino, diretto a Matarò. Da questa località,
la colonna celere Fabris costituita dal “Batmo” e dal battaglione Ferrari deve
proseguire per Arenys e S. Pol de Mar, oltrepassando la divisione “Frecce
Azzurre”. Il “Batmo” è in testa: spirito eccellente, volontà ferrea. Sono sul
primo autocarro. Tutti gli altri mi seguono: avanti! Oltrepasso Arenys de Mar,
sede del comando della Divisione “Frecce”.
Poco
prima di Canet de Mar sono schierate a sinistra della strada alcune batterie
che scandiscono i loro colpi a brevi intervalli, secchi e sibilanti nell’aria
tersa del fresco mattino. A un tratto ho la sensazione di essere solo: mi
sembra di non sentire dietro a me il peso di una lunga colonna di autocarri. Mi
sporgo a sinistra e vedo che dietro a me vi sono soltanto due autocarri. Che
cosa è accaduto? Mi fermo, discendo, do ordine al mio autiere di girare
l’autocarro di testa. Arriva intanto uno dei miei motociclisti di coda e mi
riferisce che la colonna è stata fermata ad Arenys da un ufficiale della
Divisione “Frecce”. Torno indietro, al Comando della Divisione “Frecce” e vengo
introdotto in una camera dove molta gente … lavora. È un equivoco che mi fa perdere
del tempo prezioso. Chiarisco rapidamente la cosa con quel comando di Divisione
e riprendo la marcia con la colonna riunita.
Il
30 gennaio sosta tra Arenys e Canet de Mar. Il mattino del 31 rapporto al
comando di Divisione per ricevere ordini.
Fabris
ed io troviamo “Gervasio” attorno ad un mucchio di carte spiegate su di un
tavolo. Ci chiniamo anche noi su quel tavolo. “Gervasio” ci fa alcuni cenni
facendo scorrere una matita sulla carta. Punta su Tordera, su Fagas, su
Hostalrich. C’è lì un vasto triangolo sul quale bisognerà fare una … grossa
battuta. Ad ovest di Hostalrich, molto ad ovest, la Divisione “Navarra” non può
proseguire perché fortemente ostacolata dai rossi: la nostra battuta deve
disimpegnarla.
Partiamo
il pomeriggio del 31, verso le 17. Fabris è in testa, con Ferrari.
Oltrepassiamo Canet, S. Pol, Malgrat. È già sera inoltrata. Abbiamo scavalcato
la Divisione “Frecce Azzurre”. Finalmente! Questa volta non si è opposto
nessuno, ma abbiamo perduto un giorno.
Il
vuoto del campo di battaglia è assoluto. Ma c’è il nostro ardore che lo anima.
Ferrari ha già fatto smontare dagli autocarri un plotone che ci procede a
piedi. Nessuna traccia di nemici, per ora. Troviamo un ponte saltato: gli
autocarri non possono proseguire. La notte è scurissima. Scendiamo tutti dagli
autocarri perché bisogna proseguire a piedi. Il passaggio sul ponte interrotto
è molto difficile. Gli arditi di Ferrari lavorano di piccone e passano a
stento, uno ad uno, arrampicandosi sui blocchi di calcestruzzo accavallati e sconnessi.
Sono
impaziente. Non posso aspettare che passino tutti. Mi do da fare. È impossibile
che quel piccolo fiumiciattolo non sia guadabile, a monte o a valle del ponte.
Giro, rigiro, cerco di osservare. Scorgo a un tratto, nel buio della notte,
sulla destra della strada, una casa che credo abbandonata. Mando i mortaisti a
vedere: la casa è proprio abbandonata. Cerco di avvicinarmi anch’io ma ho una
gradita sorpresa. Sul campo che attraverso vi sono tracce di carri armati. Le
seguo, giungo al torrentello; da qui sono passati i carri rossi. Certo hanno
ripiegato dopo che il ponte era saltato.
Subito
decido: su quelle tracce passeranno i miei mortaisti. Avanti, dietro a me … per
due, per uno … avanti!
Passano
tutti in pochi minuti, prima di Ferrari! E però lo aspetto di là: bisogna
rispettare l’ordine di precedenza: stanotte tocca a lui. Domani a chi toccherà?
Forse a tutti e due. Avanti! Proseguiamo la marcia. Stavo per dire: l’avanzata!
Scorgiamo lontano i fari accesi di un’automobile che corre. Dove andrà? Avanti,
sempre più avanti!
I
fari dell’automobile che corre appaiono e scompaiono forse nascosti dalle curve
della strada o dagli alberi; o forse interrotti dall’autiere. Ma l’automobile
continua a correre verso di noi. Anche noi proseguiamo, ma ora quei fari non si
riaccendono più, e sembra si siano spenti definitivamente.
Ferrari
è sempre in testa. Lo raggiungo e arriviamo insieme ai ponti di Tordera.
Sembrano intatti. Sì, sono intatti. Si potrebbe passare subito. Aguzziamo lo
sguardo, tendiamo le orecchie.
Dall’altra
riva ci giunge uno strano picchiettare come se vi fosse gente che lavori
affrettatamente. Senza dubbio è così. Ferrari ed io ci guardiamo negli occhi:
ci consultiamo!
-
Passerei subito – dico io.
-
Anch’io – risponde Ferrari – però passerei sul letto del fiume, a valle –
soggiunge.
-
Meglio a monte – rispondo – dobbiamo risalire il corso del fiume.
Intanto Fabris ci raggiunge. Vuole
essere ragguagliato sulla situazione. Ascolta anche lui i colpi di piccone
affrettati e irregolari. Sono certo i rossi che lavorano.
Ora
tacciono: hanno smesso di lavorare. Intorno è silenzio. Perdiamo così alcuni
minuti. Sono impaziente. Ripeto che bisogna passare, e subito. Fabris tace, ma
io insisto. Mi accorgo però che è inutile insistere. Perché?
Ricordo
a me stesso che il mio compito non è quello di sostare attorno ai ponti sul
Tordera. Il fiume lo deve passare Ferrari, e lo deve risalire sulla sinistra, a
cavallo della rotabile per Matorell. Io invece devo risalire la destra del
torrente, giungere a Fagas, passare lì il fiume, sbarrare la rotabile e la
ferrovia Hostalrich-Matorell e minacciare le forze rosse che si accaniscono a
resistere ancora ad ovest di Hostalrich, di fronte alla Divisione “Navarra”.
Mi
siedo per terra dietro un piccolo argine, per dare un’occhiata alla carta
topografica nascondendomi sotto una coperta da campo e accendendo la lampadina
tascabile di Arista. Ma … balzo subito in piedi: una forte detonazione mi
scuote, e subito una pioggia di sassi e di calcinacci mi cade addosso.
Il
ponte è saltato! Non c’è più nulla da fare. Ferrari dovrà passare il fiume a
guado, e i rossi sono di là.
Ma
a questo ci penserà Ferrari!
Torno
da Fabris. Gli chiedo se ha ordini, o se posso senz’altro marciare verso il mio
obiettivo. Fabris
tace un istante. Mi guarda negli occhi. Mi
conferma gli ordini e mi dice che posso andare.
Saluto,
faccio dietro fronte, raggiungo il mio battaglione. Sono circa le 4 del
mattino.
CAPITOLO
XIV. SPIRITO DI LEGGENDA
Fagas:
1° febbraio
Saluto
dunque Fabris e raggiungo il battaglione; sono circa le 4 del mattino. Ero un
po’ contrariato. Perché non dovevo esserlo? Dovessi andare in capo al mondo
oggi, col mio battaglione! O raggiungo Fagas e passo il fiume … o non torno!
Mortaisti, avanti! 2a compagnia in testa, d’avanguardia.
L’alba
è vicina. È meglio che approfitti di questi momenti di tenue chiarore
mattutino. Avanti!
-
Cronia, tieni sempre la destra al fiume, avanti! Cauto, ma lesto, ispeziona
ogni casolare. Non indugiarti. Avanti!
A
sinistra, l’abitato di Tordera è avvolto di nebbia. Lo raggiungo. Vi entro
dall’est, accanto alla chiesa. Attraverso il piazzale. I mortaisti della 2a,
e poi quelli della 1a, mi seguono tutti. C’è sulla destra una
piccola strada dalla quale si accede ad una passerella. Su di essa due uomini sono
intenti a qualcosa. Li chiamo gridando : “Hombre”! Si voltano, mi vedono, ci
vedono, si danno alla fuga. Tiriamo alcune fucilate. Uno di essi si butta a
terra, sulla passerella; l’altro continua a fuggire. Subito Cronia e Cattapan,
seguiti da alcuni altri, si lanciano di corsa sulla passerella, raggiungono
l’uomo a terra, lo prendono prigioniero, passano di là del fiume.
La
passerella è nostra, intatta! Erano intenti a preparare la mina: volevano farla
saltare. Ho perciò la mia rivincita … ma questa passerella è ben piccola cosa
di fronte a quel bellissimo ponte in muratura saltato! Avanti!
Sono
di là di quel braccio di fiume. L’altra riva è davanti a me, silenziosa, muta!
Pare non occupata, ma invece!
A
un tratto si vede qualcuno muoversi, correre. Faccio appostare una
mitragliatrice: una di quelle che Cronia ha tolto ai rossi nei giorni
precedenti. Ordino di sparare alcuni colpi. I rossi non rispondono al fuoco.
Nessuno si muove più. Silenzio! Che sarà mai? Ma ecco si sente gridare: credo
di capire. La voce è ben chiara e c’invita a non sparare: “Compagnero! No
tirar!” Sospendo il fuoco. Dico a Cattapan di fargli cenno di passare di qua.
Silenzio! Trepidazione! Pronti per il fuoco! Si vedono alcune ombre: sono
uomini che vengono avanti, si buttano nell’acqua, cercano di guadare il fiume.
Sono disarmati? Si danno prigionieri? Sì, sono disarmati. Non ho più alcun
dubbio.
Rapidissimo
rinserro le file. Ordino a Cattapan di sbrigarsela, e gli dò una squadra di
mortaisti abilissimi. Cattureranno in quel giorno, da soli, oltre cento
prigionieri ed un autocarro di armi.
Avanti,
Cronia! Avanti, Verniani! Avanti tutti! Ripasso il braccio del fiume: devo
andare a Fagas, a qualunque costo: questo è il mio obiettivo. Avanti! La 3a
compagnia mi raggiungerà. Avanti, Cronia, decisamente a nord, destra al fiume.
Proseguo abbastanza rapidamente sul greto incespugliato del fiume, spesso
impantanato. Mi allargo a sinistra tra i prati coltivati, lungo i filari di
alberi e lungo le siepi. Dappertutto, sul greto e nei solchi, nei filari e
accanto alle siepi, piste di uomini che marciano in fila mi rivelano che da lì
il nemico è passato da poco.
Ma
Fagas è veramente lontano. Sembra irraggiungibile. Dove sarà mai questo paese
invisibile? Guardo la carta: è già giorno. Fagas è segnato sulla destra del
fiume, vicino al fiume. Non vi può essere dubbio: risalendo il corso del fiume,
sulla riva destra, devo trovarlo. Avanti!
Ma
il fiume fa ampie giravolte fra gomiti ed anse, e lassù, più a nord, un
panorama di colli boscosi lo rinserra in gole ristrette. È meglio volgere a
sinistra: forse troverò un sentiero, forse una strada. Mi inoltro fra i colli
ricoperti di bosco ceduo intricatissimo. Vi sono tracce di passaggio di un
carro di campagna: forse porteranno ad una cascina. Se ne vede infatti una
laggiù. Vi giungo, ma non sembra abitata. Busso. È ancora presto, e la guerra
che avanza ha chiuso in casa donne, vecchi e bambini tremanti. Sento qualcuno
che discende le scale. Scendono, sorridono, ci hanno riconosciuti che siamo
italiani, ci abbracciano. Chiedo notizie dei rossi. Chiedo notizie di Fagas. I
rossi son passati da lì ieri sera e Fagas è ancora molto lontano. Bisogna
andare più a nord.
Proseguo.
Le colline sono anch’esse interminabili; si succedono le une alle altre come
dune sabbiose, ricoperte di fitta vegetazione boschiva, bassa e impenetrabile.
Penso all’eventualità di una imboscata. Che farei? Ho con me tutti i miei fieri
mortaisti, e nessuna imboscata potrebbe gran che preoccuparmi. Avanti!
Ho
lasciato il fiume a destra ed ormai ne sono lontano. Ma dove è mai questo
strano paese? Sguinzaglio pattuglie, esploro ogni casa, risalgo ogni colle. È
questa la “battuta” ordinata da “Gervasio”? E i rossi? Dunque da qui i rossi
son passati ieri sera e risalivano anch’essi verso il nord? Avanti, avanti!
Siamo in piena leggenda! Ma questo non è ancora tutto! C’è più in là, sulla
destra, la cima di un monte. Se salgo lassù, vedrò certo qualcosa. Avanti,
avanti!
Mentre
risalgo il pendio sento le mitragliatrici sparare lontanissime sull’alta Sierra
a sinistra. Ma giunto in vetta, mi riappare la striscia d’argento del rio
Tordera che lambisce le falde del monte. In basso, sul breve piano tra il fiume
e la cresta che lenta degrada, c’è un fitto bosco quadrato a filari
regolarissimi, e più a nord, nell’ansa ampia e verdissima, un vasto caseggiato
con muro di cinta, basso, isolato, bianchissimo. Il fiume lo avvolge ampiamente
da est e da nord e poi svolta deciso verso ovest. È mai possibile che quel
caseggiato sia Fagas? Fagas è un abitato, non è un caseggiato!
Mi
avvio in discesa tra la fitta vegetazione del bosco ceduo che ricopre le
pendici del colle. Guadagno il bosco. Le mie pattuglie sono già allo sbocco di
esso, sul davanti, sui fianchi, destra al fiume. Mi inoltro tra gli alberi.
Sono meravigliosi, altissimi, a grossi fusti slanciati verso il cielo azzurro.
Sembrano magnifiche antenne. Come sventolerebbe bella lassù la nostra invitta
bandiera!
Avanti,
andiamo a Fagas! I miei esploratori mi avvertono che proprio quel caseggiato è
Fagas, ed è occupato dal nemico. Bene! Benissimo. È quello che volevamo.
Avanti, Cronia, oggi è il tuo giorno.
E
Cronia si lancia coi suoi mortaisti in un travolgente attacco; serra il nemico
nell’ansa ampia del fiume, lo sospinge in rapida corsa verso la riva, lo stringe
in una stretta senza uscita, col fiume alle spalle, e tutti li cattura, armi ed
armati, soldati e ufficiali, senza distintivi né gradi, ché tutti se l’erano
tolti per paura di ….. rappresaglie.
Ma
i legionari del “Batmo” non hanno mai conosciuto questo genere di lotta. I
soldati del “Batmo” hanno sempre guardato in faccia il nemico e lo hanno sempre
sconfitto in buona guerra.
Ma
occupato Fagas, liberata la riva destra del fiume, il “Batmo” non ha ancora
assolto completamente il suo compito. Il “Batmo” deve ancora passare il fiume e
puntare sulla rotabile e sulla ferrovia di Matorell, per aprire la strada alla
Divisione “Navarra”.
Percorro
gran tratto della riva destra del Rio in cerca del ponte. La carta ne indica
uno ben chiaro. Lo cerco: ci deve essere. Forse sarà più a monte. Mando una
pattuglia che ben presto ritorna senza aver trovato alcuna traccia di ponte. La
carta è dunque errata. Non importa, i mortaisti passeranno lo stesso.
Chiamo
Cronia, chiamo Tomasi. Incarico Cronia di preparare un passaggio di
circostanza. Ordino a Tomasi di risalire con un plotone la destra del fiume
fino ad Hostalrich. Lì è segnato un magnifico ponte. Se riesce a passarlo, si
stabilirà saldamente sulla riva sinistra del Rio mandandomi subito ad
avvertire.
Intanto
Cronia lavora.
E
Verniani? Verniani ha ordine di insediarsi nel casolare e sistemarsi a difesa.
Egli piazza le mitragliatrici attorno ai muri esterni. Mette un osservatorio
sul tetto. Raduna tutti i prigionieri: sono moltissimi. Continuano a giungere
da ogni parte. Quanti sono finora? Non lo so: li conteremo stasera.
La
3a compagnia che era di rincalzo ci ha raggiunti. Ora la guarnigione
della fortezza improvvisata è al completo e robusta. Il possesso di Fagas è
ormai assicurato. La nostra “battuta” è perciò riuscita in pieno; manca
soltanto la seconda parte del programma; svolgeremo anche quella.
Intanto,
mortaisti, mangiate pure … il rancio improvvisato. Nel casolare … dico a Fagas,
vi sono i padroni di casa, e … molti polli, molti conigli, molte patate. C’è un
gran da fare per cucinare tutta questa roba! Ma le donne si moltiplicano nella
fatica domestica, e tutti si danno da fare. Gli uomini tirano il collo ai polli
e ammazzano i conigli, i soldati sbucciano le patate; e le donne … tutto
cucinano con molta allegria!
C’è
pure molto vino, buon vino, in quel casolare: non potevate sperare un rancio
migliore! Ce n’è per tutti. Sembrano inesauribili le risorse di questi
contadini. E poi … danno tutto volentieri, con spontaneità e senza rimpianti.
Forse la gioia della liberazione li ha esaltati. Ma anche i mortaisti pagano
senza economia. Ognuno ha un bel gruzzolo di “pesetas” e non esitano a darne –
anche troppo – con animo lieto, e cederanno anche il rancio quando lo porterà
Foscarini.
Sono
impaziente! Non mi giungono ancora notizie di Tomasi. È partito da circa due
ore e sono quasi le 11. Scendo al fiume, da Cronia. Lo trovo disperato; il
lavoro va male. Non c’è un punto in cui si possa guadare il fiume, o buttare
una zattera. Percorro ancora una volta la riva. Orlando mi accompagna. Non
riesco a trovare nemmeno io! È impossibile passare. Tomasi non torna ancora, né
manda notizie. Come gli sarà andata?
Si
sente lontano, verso la “Navarra”, il gracidare delle mitragliatrici ed anche
il cannone romba cupo e continuo. Si sente pure l’assordante fragore di alcuni
aerei legionari: sono ali italiane. Guai se ci vedono! Ci prenderebbero per
rossi e ci rovescerebbero addosso tutto il loro carico di bombe. Sarebbe un
grosso pasticcio. Fortunatamente passano alti e diritti: hanno certo anche loro
una missione da compiere.
Torno
indietro, risalgo ancora il fiume. Sento la voce di Tomasi. Gioisco! Tomasi mi
viene incontro rosso in viso lisciandosi i piccoli baffi. Il ponte di Hostalrich
è intatto, ma è saldamente tenuto dai rossi, i quali lo infilano con le
mitragliatrici appostate sulla riva sinistra del fiume. È impossibile passare
lì.
Allora
decido: non aspetto più alcuno. Raggiungo Cronia e lo trovo al lavoro. Gli dico
che bisogna forzare il passaggio, buttarsi sotto. Baldi è intento con alcuni
mortaisti a tagliare alla base alcuni alberi altissimi. Davanti a noi è un
largo braccio di fiume rapidissimo, profondo, quasi vorticoso. Ma se uno di
quegli alberi che stanno per essere tagliati, cadendo di là raggiungesse con la
cima il ghiaione, o almeno superasse quel primo filone, certo potremmo passare!
Sono
momenti di ansia. Orlando mi guarda e tace. Cronia è contrariato: voleva fare
una passerella, e invece non è nemmeno riuscito a buttare una zattera. E però,
passerà anche lui, ed avrà la sua bella medaglia d’argento!
Coraggio
mortaisti, forza, tagliate … tagliate! Ed ecco a un tratto un albero tentenna,
ha un fremito, si inclina, cala giù, precipita sull’acqua, la punta è sul ghiaione!
Vittoria! Sotto, legionari, siamo di là!
Mi
butto in piedi sul tronco, un passo dopo l’altro, mi afferro ai rami e taluni
li schivo, tentenno, perdo quasi l’equilibrio, ma mi afferro e … proseguo,
salto di là, sono sul ghiaione! Orlando è dietro a me. Cronia è dietro a me!
Avanti
legionari della 2a compagnia! Avanzo sul ghiaione oltre il primo
braccio del fiume, ormai superato, mi inoltro nell’acqua bassa e lenta che si
allarga sul greto. Orlando è sempre accanto a me. È instancabile con la sua “Leica”
sempre pronta! Anche Cronia mi segue, ed anche alcuni altri ci hanno raggiunto.
Avanti
Melilli e compagni, avanti! L’acqua mi sale piano al polpaccio, ma il piede
sprofonda. Ora l’acqua si alza più in su lungo la gamba che spingo innanzi a
tentoni. Mi puntello con un grosso bastone. La corrente quasi mi vince, ma
procedo. Ancora l’acqua sale, è al ginocchio, e poi alla coscia, e la corrente
è sempre più forte. Ma la riva è vicina, forse quindici metri, forse dieci
metri: avanti!
Sprofondo
ancora di più, faccio forza col bastone e mi puntello più forte a valle e
avanzo con passo cauto, a stento, mentre l’acqua sale, e mi bagna ancor più e
mi arriva alla cintola. Ma ormai fra qualche passo potrò afferrarmi agli
arbusti, sull’altra riva! Ancora un ultimo sforzo e ancora mi puntello col
bastone, a valle; allungo il braccio sinistro, mi afferro ad un ramo, tiro, mi
sposto in avanti e l’acqua mi trascina, ma resisto, butto il bastone
sull’opposta sponda vicinissima e mi afferro anche con la destra ad altro ramo
e tiro, tiro e mi aiuto, sono accanto alla riva, la tocco, la risalgo
grondante! Riprendo il bastone, mi sporgo sull’acqua e lo porgo ad Orlando e
poi agli altri, agli altri ancora, Cronia fra i primi, Baldi e Tomasi, Melilli
e compagni, e soldati e soldati, uno ad uno, e l’uno con l’altro si aiutano e
tutti si tirano su, avanzano in acqua, risalgono la sponda!
Lancio
di là un forte manipolo, sull’argine alto, in vedetta, sulla strada, sulla
ferrovia che viene presto raggiunta. Ora siamo tutti al di qua. Dietro a me e
con me è tutta la 2a compagnia, la compagnia di Cronia; la catena è
formata, il passaggio sicuro, la vittoria certissima. Avanti!
Mando
a dire a Verniani che scenda anche lui sul fiume e passi anche lui, ma non ho
completato quest’ordine che sento sull’altra riva un vocione che mi chiama:
-
Signor maggiore, signor maggiore … bisogna tornare indietro, il signor Generale
ordina di tornare indietro!
È
Arista che grida: strillone ineguagliabile, spesso opportuno, talvolta da me
stesso incitato! Ma oggi, in questo momento, la sua voce è un colpo di cannone,
è come una batteria da 149 che spara!
-
Sta zitto co … - urlo anch’io esasperato!
Ho
gridato come non ho mai fatto finora. Arista ammutolisce, è mortificato: il mio
aggettivo è stato violento … ma lui è sempre il mio Arista! Dunque? Che c’è? Il
signor Generale ordina di tornare indietro? E perché? Tornare indietro? Che
cosa vuol dire? Ma se sono sulla strada di Gerona! Ma se ho già occupato la
ferrovia di Hostalrich! Questa notte, da questa posizione in agguato, mentre
serra sotto tutta la Divisione, prenderò almeno 5000 prigionieri, tutti quelli
che ripiegheranno di fronte alla “Navarra”, tutti i mezzi, automobili,
autocarri, cannoni, carri armati che fuggiranno in disordine! E domattina
prestissimo riprenderò la marcia su Gerona, alla testa della Divisione. Gerona
è distante 30 chilometri soltanto! Dietro a me potrà passare tutta la Divisione
su di un ponte di barche o di circostanza che potrà essere costruito nella
notte.
No.
Niente di tutto questo! Bisogna tornare indietro! L’obiettivo della Divisione
non è Gerona, è Vidreras!… Bisogna tornare indietro! Indietro! Che brutta
parola! Orsù, mortaisti, coraggio! Cronia, ripassiamo il fiume, in ordine, uno
alla volta, in silenzio: bisogna tornare indietro! Adunata, Verniani, adunata,
Guidi, adunata, Cavagliano! Torniamo indietro. Prigionieri in testa, avanti,
torniamo a Tordera!
Così
si concluse questa bella giornata legionaria! A mano a mano che proseguivo
nella marcia di ritorno la lunga colonna di prigionieri continuava a
ingrossare. Giungevano da nord, da ovest, da tutte le parti. Alcuni armati,
molti senz’arme, tutti smarriti di trovarci così oltre le linee della
battaglia, in zona che loro credevano lontane retrovie.
Anche
qui la guerra aveva assunto il suo carattere tutto particolare. E se volessimo
ora spiegarci il mistero di quel nostro ritorno a Tordera, potremmo dire che la
politica … ma è meglio riprendere la nostra cronaca.
Giungemmo
a Tordera verso le 17. Foscarini ci aspettava col rancio ancora caldo. Contammo
i prigionieri: erano 500, ma ancora ne giungevano! Li avviammo al comando di
Divisione. Anche le armi che Cattapan aveva raccolte alla passerella erano
molto aumentate e bisognò versarle. La nostra “battuta” era stata veramente
proficua, ma era proprio terminata, purtroppo!
O
dove andremo domani?
Sulla
strada di Francia: 2 febbraio
Il
2 febbraio, o miei mortaisti, è giorno di asprissima lotta, ed io non posso ora
ricordarlo senza sentirmi profondamente commosso. È la nostra più bella
battaglia. È la nostra giornata più
fulgida, piena di eroismo e di sole, di vivo sole che illumina tutta la nostra
epopea catalana.
E
perciò, o mortaisti, levate in alto l’insegna che il nostro “Gervasio” vi
consegnò nel partire da Tiana, perché qui, su questo tratto della strada di
Francia, insanguinato e tempestato di bombe, c’è tutto il vostro valore, c’è
tutto il vostro sacrifizio, c’è tutta la vostra più superba vittoria. Tornavate
appena dal “temerario colpo di mano” su Fagas, e già eravate pronti a rinnovare
l’impresa con sempre più incontenibile ardore.
Dopo
una giornata così densa e permeata da uno spirito di leggenda, che cosa vi si
poteva chiedere in quel giorno se non una prova di estremo sacrifizio, di
sfolgorante valore? Che cosa si poteva chiedere a voi se non di meritarvi
ancora una volta l’onore, l’alto onore di aprire la marcia alla invitta ed
invincibile Divisione d’Assalto “Littorio”, sulla strada di Francia, oltre
Tordera, verso Llagostera e Gerona? Di che cosa non sareste stati capaci dopo
il “temerario colpo di mano” su Fagas?
Passare
un fiume a guado, di notte? Ma se lo avevate già passato in pieno giorno, di
fronte al nemico! Ma se vi eravate già buttati nel fiume come un audacissimo
manipolo votato alla morte!
E
dunque, “Gervasio”, lancia questo pugno di valorosi verso la tua meta lontana!
Lanciali come frecce aguzze sulla strada di Francia: tu sai che nessun ostacolo
riuscirà a fermarli fino a quando non saranno illuminati in pieno dal fulgido
sole della più bella vittoria! E se il loro “fratello maggiore” sarà portato
per forza all’ospedale da campo perché ripetutamente ferito, che importa?
L’ardore della lotta li anima e li sospinge verso la vittoria e il sacrificio
del loro comandante saprà ancor più spingerli sulla via dell’eroismo.
Avanti
dunque, o miei mortaisti, questa è la nostra più bella giornata!
Passammo
il fiume con lo stesso impeto del giorno precedente e ci videro le camicie nere
di Oliveti e gli arditissimi di Ferrari quando li oltrepassammo.
Avanti!
Oggi è in testa la compagnia di Verniani. Cronia è di rincalzo. Avanti. C’è con
noi una sezione anticarro di Carina. La comanda Tasciotti: è un ufficiale che
sa il fatto suo; può stare con noi. Avanti!
Ci
sono con noi i mitraglieri di Oliveti che ben conosciamo. Le loro armi sgranano
un rosario senza fine. Non conoscono inceppamenti. Possono stare con noi.
Avanti!
Ci
raggiungeranno prestissimo i carri armati già provati in cento battaglie. Ogni
pilota ha un cuore d’acciaio. Il suo motore freme e pulsa come il suo cuore.
Può stare con noi. Avanti!
Avanti,
avanti, sulla strada di Francia, verso la vittoria che sarà nostra, verso la
vittoria più bella, verso la vittoria che splende e illumina di puro sole
italiano: avanti!
Marciarono
i mortaisti in quel fatidico giorno, dopo una notte insonne, dopo un’ansia
infinita. Si spinsero oltre il Tordera e subito si avviarono verso il loro
obiettivo, come frecce lanciate dall’arco portentoso di un abilissimo arciere.
Andavano tutti col loro incontenibile ardore, con tutta la loro inestinguibile
fede.
Ma
a un tratto scorgo sulla strada di Francia un miliziano che corre e scompare
nel fitto bosco ceduo che fiancheggia la strada. Ed un altro lo segue, ed un
terzo ancora, a breve distanza. Ma son disarmati?
Rallento
la corsa e chiamo in testa Brunori col suo plotone mortai composto di fieri ed
audaci soldati che non aspettano il segno, ma si lanciano e sono pronti alla
mischia.
Avanti
Brunori! Sulla cunetta, a sinistra, c’è il filo gommato di un telefono da
campo.
“Taglia
quel filo” grido a Brunori! E Brunori lo taglia.
Ed
ecco sulla strada, dalla curva strettissima, sbucano prima un carro armato, e
poi due, e poi tre. Avanzano veloci, minacciosi, col cannone puntato.
Do
una girata al volante, a sinistra, tutto teso nello sforzo dei muscoli,
nell’azione improvvisa che riesco a dominare. L’autiere asseconda con prontezza
la mia mossa, e subito l’autocarro è di traverso sulla strada e la sbarra ed
arresta la marcia di quei carri armati nemici. Salto a terra e faccio cenno
agli autocarri che seguono, ed anche essi in un attimo sono messi in traverso
sulla strada.
“Su,
svelto, Tasciotti, porta avanti i tuoi pezzi e spara da lì, tra autocarro e
cunetta, tra autocarro e scarpata”.
“E
tu, Verniani, ecco giunto il tuo giorno! Se ti lanci lassù, sul cocuzzolo
ricoperto di bosco a cespugli intricati e fittissimi, e difendi la strada coi
tuoi fieri soldati, ecco, il nemico è già vinto”!
“Anche
tu, Cavagliano, se ti butti a sinistra, fra la strada e la valle, tutti i rossi
che incontrerai laggiù saranno tuoi prigionieri”.
Avanti,
coraggio!
“E
tu, Brunori, se ancora arditamente ti spingi più avanti sventagliando
pattuglie, ecco, giungi a contatto di quei carri e dei rossi che ci contendono
il passo. Hai pronta la tua bottiglia di benzina e la bomba? Incendiali tutti”!
Avanti,
tutti avanti, siete tutti in battaglia, celerissimi, arditi; siete tutti qui,
attorno a questa breve cunetta che mi accoglie ferito; siete tutti qui, attorno
a me, attorno a questi tre autocarri che sono, o miei prodi, la nostra
“barricata” di morte, o gradino per la trionfante vittoria!
Che
importa, che importa se qui attorno infuria rabbiosa la mitraglia nemica? Che
importa se il mio cappotto è più volte bucato dal proiettile a punta tinto di
rosso o tinto di gialliccio? Che importa se il cannone nemico ha incendiato il
nostro primo autocarro? Non è quella certo la nostra più salda barriera? Ecco,
ecco “la barricata”, e noi qui la difendiamo col nostro petto, col nostro
valore, col nostro sangue, col nostro sacrificio.
Ma
andremo di là perché là è la nostra vittoria!
C’è
qui, dietro a noi, tutta l’Assalto “Littorio”, e “Gervasio” è in testa. Ci sono
qui attorno, quasi a contatto, i “Lupi” di Santa Coloma, e con essi c’è Olita
che accorre! Li ho mandati a chiamare e tutti presto verranno. C’è qui
Nicoletti che Oliveti ha mandato in pattuglia di punta. Ci sono già i carri, i
nostri carri veloci e c’è pure dietro a noi la colonna degli arditi di Pace,
quella colonna che alcuni giorni fa si lanciò velocissima, ardita, ed occupò
Terragona. E tutti insieme, bruceremo la tappa, e correremo incontro alla
nostra bella vittoria.
E
se zoppico un po’, ho però un bastone su cui mi posso appoggiare; e se l’alzo,
questo bastone di legno non è più un bastone, perché ha in cima una volontà ed
una fiamma, e vi esalta nel suo cenno imperioso: Avanti!
Avanti,
o mortaisti della “Littorio d’Assalto”! È questa la lotta in cui domina ancora
la fede, la nostra fede; e l’orgoglio, il nostro orgoglio, di sentirci
italiani; e la fierezza, la nostra fierezza, di essere i legionari di Roma.
Questo è l’ardore della lotta; e questa è ancora la “barricata” eretta contro
il mondo rossissimo, e di qua c’è scritto un gran nome: Italia, Italia, Italia!
E di qua ci son cuori che nel loro ampio respiro sono pieni di santa, di
profonda fierezza perché lottano all’ombra del “Littorio” di Roma, perché
sentono invitta l’invincibile idea che da Roma si irradia sul mondo, in questo
magico sole.
Che
importa se già il mio braccio sinistro brucia perché è stato graffiato dal
piombo nemico? Che importa se bucato è il cappotto all’altezza del gomito, e la
giubba e la camicia sono un po’ intrise di sangue? Non c’è nulla che freni
l’ardore, o mortaisti d’acciaio. Attraverso la radio ho gridato a “Gervasio”
che su questo lembo di strada non vi sono soldati che combattono, ma c’è una
bandiera che sventola nel nome d’Italia ed una fede che vince nel santo nome
d’Italia. Attraverso la radio ho gridato a “Gervasio” che nessuna ferita potrà
fermare la marcia della vittoria trionfante. Ho già detto a “Gervasio” che
siete un pugno d’eroi e non conoscete sconfitte.
E
“Gervasio” mi ha risposto che è sicuro di voi! Anch’egli risale questa strada
insanguinata e sarà presto tra voi. E se intanto altra pena mi affligga, o
altro sangue mi sgorghi dalla tibia sinistra forata, o dal piede destro ferito,
o dal braccio graffiato o dalla gamba destra bucata, non c’è nulla che riesca
ad intaccare questa mia volontà che è pure la vostra; non c’è nulla che possa
soffocare l’ardire, o attenuare l’ardore, o contenere la fede che prorompe
gagliarda su dal cuore alla voce, allo sguardo, e ogni cosa ci esalta,
comandanti e soldati; e ogni cosa ci sospinge all’estremo dolore, all’estremo
olocausto, pur di vedere per sempre, una volta per sempre, l’inglorioso
vessillo dei rossi tutto sporco di fango, di obbrobrio e di sangue fraterno,
ammainato, ammainato per sempre!
Nel
fulgore di quel radioso pomeriggio splende la vittoria. I carri rossi,
inseguiti dai nostri proiettili, ripiegano e scappano, e gli internazionali
bolscevichi diradano il fuoco e nella stretta tentennano. I “Lupi” e gli arditi
di Ferrari li stringono in una morsa, risalendo su pel colle dai fianchi; e
avanza sulla strada l’arditissimo nucleo di Pace; e i mortaisti procedono in
pattuglie arditissime. Si muove e si stringe la morsa. L’abilissimo arciere
ancora una volta ha teso l’arco suo portentoso, e le frecce lancia per lo
scatto trionfale!
Ma
il vostro “fratello maggiore” non scattò più con voi in quel magnifico giorno,
o miei mortaisti valorosi! E voi lo lasciaste, o fratelli accorati, dissanguato
e sbiancato in volto, sulla barella da campo. E poi lo caricaste
sull’autoambulanza che lo portò a Tordera con le gambe sfasciate e fasciate, ben
sei volte colpito, in tre ore di asprissima lotta … in tre ore di vita intensa
e magnifica tutta piena di ebbrezza, tutta piena di ardore!
E
da Tordera egli passò a Masnou, e poi a Saragozza, a Cadice, ed a Napoli
infine, sulla banchina del porto dove vi aspettò trepidante e ancor zoppo,
appoggiandosi al suo bastone di legno. E voi lo accoglieste esultanti come se
quello fosse ancora il giorno della vostra più bella battaglia vittoriosa.
------------------------------
Qui
finisce la storia dei miei valorosi mortaisti, ma non finì in quel giorno la
loro gloriosa epopea.
Chi
riprese nel pugno il mio vessillo di fede? Quale forza vi diede il mio tributo
di sangue?
O
non andaste forse anche dopo, di vittoria in vittoria, a Cà della Selva, a
Llagostera, a Gerona?
O
non travolgeste nell’impeto le residue forze dei rossi, affiancandovi, o
valorosi, agli invincibili “Lupi”?
E
con essi correste verso la meta luminosa, e con essi piantaste sulla cima più
alta il mio vessillo di fede!
Fu
allora, certo, che vi guardaste d’attorno e sentiste che mancava qualcuno.
Mancava
infatti il vostro “fratello maggiore”! Ma ognuno di voi, trattenendo il
respiro, lo sentiva presente.
Ed
egli vi accolse sempre, nel vostro lungo, continuo e devoto plebiscito d’amore,
all’ospedale di Masnou, con caldo sentimento fraterno e fervida fede, come
sempre, perché sentiva già vinta la grande, la bella, ma dura crociata, perché
vedeva già splendere di vivida luce la vittoria di Roma!
CAPITOLO
XV. RASSEGNA DI LEGIONARI
Questi
furono allora i miei mortaisti ed i “Lupi” e questi sono e saranno ancor oggi e
domani, e poi sempre e per sempre, tutti pronti al mio cenno. Ché se grido
“adunata!”, o se squillano le trombe del “Batmo”: “adunata!”, come un giorno,
sicuri scenderanno dal monte e correranno a gran fiato, lasceranno la casa e la
mamma vecchietta, o la florida sposa, col bimbo lattante; e tutti, tutti qui
attorno mi si stringeranno compatti, tutti pronti alla lotta, pronti al
sacrificio.
Ma
non posso concludere questa storia del “Batmo”, o miei fieri soldati, senza
passarvi in rassegna. Vi vorrei tutti qui, tutti quanti con me, come sui campi
di Tarquinia e di Catalogna; e potervi riguardare tutti negli occhi, ricordare
con voi tutti i giorni della lunga odissea; riparlarvi ancora come in taluni
momenti della nostra intensa preparazione; leggere nel vostro sguardo fiero e
fermissimo l’ansia dei vostri cuori, l’ardore della vostra volontà, la certezza
della vostra vittoria!
Ora,
ecco, proviamo! Io riprendo il fischietto e tre volte vi soffio, e grido a
Zingarello di suonar l’adunata.
Vi
rivedo! Vi vedo! Siete tutti qui attorno. Adunata! Adunata! Qui, seduti, tutti
seduti, per terra, qui, accanto a me, più vicini, serrati, serrati attorno a
me! Io risalgo quest’argine affinché tutti vi possa riguardare negli occhi. C’è
qualcuno che manca?
Sì,
purtroppo, c’è qualcuno che manca! Ma se chiamo Marotta, o se chiamo Franchina,
o Farina, o Marziale, e tanti e tanti
altri, mi risponde una voce possente e mi dice che con noi sono anch’essi, i
nostri cari morti, tutti quanti presenti! Son tutti con noi. Li sentiamo con
noi! Io li vedo tra di voi nelle file laggiù.
Non
vi spuntino lacrime! Questo non è un giorno di pianto, ma giorno di vittoria, e
possiamo fieramente ricordarli qui tutti: sono gli eroi che hanno fatto la
storia – la nostra storia – ed hanno offerto la vita in olocausto alla Patria.
Ma nel loro sacrificio si ritempra la vostra volontà, e voi vivi, tornati alle
vostre famiglie, ricordate quei morti sempre fieri di essere stati con loro in
quell’aspra battaglia. E il pensiero dei morti non vi accori, ma vi esalti e vi
spinga più oltre.
Ma
qui, oltre ai morti vi son pur molti vivi che han già ripreso il fucile e son
tra coloro che combattono su aspri fronti di battaglia, e su dune infuocate dal
sole!
C’è
laggiù, lo vedete?, il capitano della 2a: Cronia. Arrivò a Pisa
tenente, e fu il primo del “Batmo”. Aveva tutto il valore di un bersagliere dal
polmone di acciaio; spregiudicato e rapido nell’azione come veloci e saldi
erano i suoi garretti. Un po’ … duro di orecchio, ma più duro nel chiedere a
voi tutti fatica e ancor più duro nell’imporre a sé stesso fatica. Era spesso
muto, ma operava in silenzio e, soprattutto, con calma. Sorrideva di rado, ma
vi comandava col cuore, ed aveva coraggio, ardimento, perizia.
E
Restifo, il furiere, suo valido braccio? Anche lui era soldato di purissima
fede. Piccolo, vivacissimo, instancabile, generoso. Occhi ardenti, prontezza
d’intuito eccezionale e se gli davo un ordine, o un incarico, ero sicuro che lo
avrebbe assolto bene, completamente.
E
Verniani, dal “glabro volto e dalla sguardo glauco”? Giunse anche lui a Pisa
con Arista. Entrambi venivano dall’84° Fanteria, ed erano già binomio
inseparabile. Fiero di aspetto: “col suo viso, sotto l’elmo, somigliava al
prode Anselmo”! Alto, segaligno, chiunque lo vedeva una volta non poteva
dimenticarlo: volto bruciato dal sole e dal vento, marcato di rughe agli angoli
delle labbra; occhi taglienti; naso appunito, spavaldo … quasi beffardo.
Aggressivo sempre, per principio, per norma di vita, spesso per partito preso.
Sempre a discutere, sempre a cianciare, e … guai a chi toccava la 1a.
Per lui non vi erano altri reparti: sempre la 1a, solo la 1a.
Molte le sue frasi celebri nella storia del “Batmo”, e duri sempre gli
attacchi, con lo sguardo e … col naso. Povero Arista, quanti ne hai
subiti! “Io non l’ho con te – ti diceva
spessissimo – ma chi mi ha fatto assegnare alla 1a tutti gli
imbecilli? Non uno capace; tutti sordi; non un piantone un po’ astuto, né un
trombettiere che non stecchi”!
“Io
non l’ho con te. Ma chi mi manda le circolari lunghe un chilometro che non
servono a nulla? E chi dà queste norme più o meno contabili, che mi portano via
mille lire in tre rate”?
Ricordate,
mortaisti della 1a quell’instancabile brontolone dal gran cuore
generoso che vi ha sempre comandati con perizia e valore? Col cappotto
infangato, o la “mantas” ed il passamontagna, curvo sotto la pioggia, pensoso
talvolta: lo ricordate a Seròs? La sua voce tagliente era un duro comando –
“Spolettate le bombe!” “Dall’arma di sinistra, un colpo … due colpi … tre …!”.
Più i mortai sgranavano il loro rosario di morte, più la voce di Verniani si
faceva alta e stridente.
E
il medico Caserta? Lo ricordi, Arista? Non ti chiese per prima cosa chi gli
avrebbe pagato lo stipendio e quanto gli avrebbero pagato? Non credeva alla tua
precisione ed alla tua puntualità di amministratore! Ma appena giunto, Caserta,
ottavo medico del battaglione, in due mesi, stabilì vincoli di salda amicizia
con tutti. Passano i mesi – ormai passano anche gli anni – e più lo ripenso e
più lo apprezzo. Sua norma di azione fu sempre quella di andare incontro al
ferito. E così lo vedemmo, questo piccolo calabrese, sotto un cappotto
ingiallito e lungo poco più di una giacca, piedi sperduti in due grosse scarpe
a barchetta, barba sempre lunga, ma occhi lucidi e mai stanchi, tasche piene di
pacchetti di medicazione, di filacce e fialette, di forbici e bende, e cerotto,
e bende, bende, bende! Correva sempre, in su, in giù, in avanti, sempre più
avanti, da un ferito all’altro. Anche il 2 febbraio mi fu sempre vicino quando
ferito non volevo lasciarvi; egli era lì, nella cunetta, accanto a me, con le
sue fasce, le sue bende, e … l’inseparabile elmetto!
E
Toccafondi? Anche lui è laggiù, in quell’angolo, fra autocarri e casse di
bombe. Alto non troppo, e magro, magrissimo! Scarmigliato sempre, in disordine
spesso, ma sorridente! Semplice d’animo, e schietto. Lavoratore instancabile, e
due occhi, due occhi che parlavano sempre, e dicevano sempre un nome:
“Delfina”! Oggi Delfina è sua moglie.
E
Allamandola? Anch’egli è qui, col suo pizzo a punta. Un po’ basso e . . .
quadrato, ben saldo, in gamba come le sue belle montagne, bersagliere di fatto,
ma alpino nel cuore: poche parole, moltissimi fatti. Giunse in abito civile,
pantaloni alla zuava, scarponi a gambale alto alla canadese, sacco da montagna
sulle spalle, e … ben pieno!
“È
la terza che faccio” disse sorridendo e scrollando le spalle. Ma allora non
pensava che avrebbe fatto anche la quarta! Scherzava con tutti e . . . pagava
sempre la “butta”.
Qui, vicino a me, c’è
Biagi il “vecchietto”. Più anziano di tutti – dopo di me, si capisce. Però,
questo “vecchio”, se è intento al lavoro, sembra che abbia non più di
trent’anni. Da più punti ad un sergentino, e … Verniani ne approfitta. “Biagi,
bada alla fureria!”, “Biagi, occupati dei materiali!”, “Biagi, stai attento ai
quadrupedi. Se mi mancano le munizioni in linea, ti fucilo!”, “Biagi, curati
del rancio!…”
E Biagi trotterellava a
destra e a sinistra, avanti e indietro, e il rancio arrivava, e le munizioni
non mancavano!
A
Cogull, il “vecchietto”, sotto una tempesta di fuoco riesce a portare avanti i
suoi muli tirandoli su uno ad uno, e le bombe arrivano in linea, immancabilmente.
Ma ha una grossa spina nel cuore questo bravo soldato, e la mormora anch’egli,
sottovoce talvolta: “Tutti motorizzati – dice – ma io!… Da Seròs a Gerona,
sempre . . . autoscarpato. E poi mi dicono che sono vecchio!”. Il suo capitano
gli ha insegnato a brontolare . . . ma talvolta Biagi ha ragione.
E
Giuliano Bacchetta? Era alto più di un granatiere, e come un granatiere operava
ed agiva: puntualissimo, preciso. Arista lo acciuffò subito perché si accorse che
aveva una bella calligrafia e non cercò altro requisito. Sottufficiale di
maggiorità intelligente… ma piemontese nel senso più completo della parola.
Educatissimo, sosteneva sempre con cuore sospeso gli assalti irruenti e le
brutte parole di Arista sempre…vulcanico, e, testa in giù, riga, penna e
matita, tracciava e ritracciava specchi, ricompilava elenchi, sempre con grande
pazienza e … coraggio. Ed ecco Bacchetta in Catalogna, alla presa con casse e
cassette. Arista odia le piegature; la carta, qualunque sia la sua grandezza,
deve rimanere inalterata, non sgualcita, senza una minima piegatura agli
angoli. E Bacchetta non sa più come custodire le carte e gli specchi che
inevitabilmente si piegano e …devono essere rifatti. L’ufficio del battaglione
va a finire su di uno “Spa 38” attrezzato con tavolo e sgabelli. E Bacchetta
ripiega anche lui la sua altezza per non andare a battere la testa contro le
centine; e così ripiegato riesce ancora a scrivere, tracciare specchi, chiudere
la contabilità in inchiostro nero . . . e rosso.
A Martorell l’autocarro
ufficio di Bacchetta assume la denominazione di “U.A.M.” (Ufficio Avanzato
Mortai), e precede il battaglione. Ma … tanto lo precede lungo la rotabile
(mentre le CC. NN. di Oliveti marciano su per le colline), che arriva in paese
prima ancora che i rossi l’abbiano completamente sgomberato. E l’autocarro si
ferma sulla piazza, a ridosso di una casa, e…Bacchetta, insieme all’immancabile
Bianchi – “la dattilografa” – ricomincia indifferente il suo lavoro. Giunge qualche
colpo nelle vicinanze, poi più vicino, poi vicinissimo. Bacchetta incomincia a
perdere la calma, e i numeri non gli sono più tanto chiari; la penna vaga dal
calamaio nero al rosso ed egli non sa più se deve scrivere rosso o nero. E lo
specchio… deve essere rifatto. Ma Bacchetta mormora anche lui…che viziaccio:
“Avanti, avanti – dice – sempre più avanti… qualche giorno finiremo tra i
rossi…e per difenderci avremo solo le penne e i calamai!”.
“O che vorresti forse
un corpo d’armata per difendere i tuoi scartafacci? Cerca di tirare diritte le
righe piuttosto, e stai zitto che devo scrivere anch’io” – grida … la
“dattilografa” che ha già perso la calma anche…lui. E Bacchetta china la testa sulle sue carte,
mormora qualche brutta parola, e…scrive un cinque invece di un tre.
Enzo Bastianelli è nel
gruppo di quei fiorentini che stanno tutti insieme laggiù. Si può dire di lui
che era il più fiorentino di tutti. Sempre ultimo a parlare…perché attendente
di Arista.
Bastianelli, però, non
era soltanto l’attendente di Arista: molteplici erano le sue attribuzioni
perché molteplici erano le sue capacità: ciclista, portaordini, elettricista,
falegname, pittore, ecc. Era sempre presente, dovunque, sempre con una bustina
calzata fino alle orecchie, ed una giubba di quarta misura che gli arrivava al
ginocchio. Lo sguardo acuto, intelligente, prevedeva e provvedeva
tempestivamente a tutti i desideri del suo esigente ufficiale, e si faceva in
quattro per accontentarlo. “Bastianelli, attaccami questo bottone!” “Bastianelli,
tira la tenda!” “Bastianelli, dove sei ? Non vedi che arriva la mensa?”
“Bastianelli, scaldami un po’ di caffè!” “Bastianelli, portami una coperta!”
“Bastianelli, ho le gambe scoperte. Avvolgimi col telo!”
E Bastianelli prontissimo
correva sorridendo: “La un si preoccupi … la lasci fare a me? … ci penso io!”
Sempre pronto ad offrirsi
in ogni più piccola cosa. Non era necessario chiamarlo: bastava uno sguardo, e
Bastianelli partiva sgusciando di sasso in sasso, di albero in albero. Ma a
Salivella, l’11 gennaio, mentre recapitava un ordine tra l’infuriare delle
artiglierie e delle mitragliatrici, Bastianelli piglia le sue due belle
pallottole alle gambe, e si arresta nella sua corsa veloce! E quella fu
giornata di lutto per tutti perché Bastianelli se n’era andato all’ospedale.
Certo lo ritroveremo un giorno o l’altro, con le gambe malconce, ma sempre
allegro e ridente.
E Guidi, il “gran
capitano” della 3a? Lo avemmo con noi a La Guardia, coi fieri
mitraglieri del battaglione “Palella”. Di età indefinibile, sembrava giovane a
volte, ma più spesso appariva stanco e un po’ vecchio. Occhi azzurri, a tratti
luccicanti e strani quasi fossero invasi da spiriti folli. Largamente
scarponato anche lui come Caserta, con bustina sul capo a piramide, diritta e
rigida come una mitra, e . . . cappotto da artigliere del quarantotto.
Originale sempre,
fantastico nei discorsi, occhi fuori dalle orbite, e bastone in mano, rustico e
nodoso. Parlava . . . parlava . . . e parlava: “Io sì che la so la politica! .
. . Cosa vuoi saperne tu?” E giù… bombe a palate! Ma la mitra non gli stava mai
ferma! Tuttavia, ripensate, o mortaisti della 3a: a chi fece del
male? Chi non ebbe da lui una dura minaccia? Chi non fu da lui fucilato almeno
tre volte? Ma eran tutte parole le sue, e appena uscite dal labbro si perdevano
al vento!
Caro e buon Guidi, ti
ricordo e ti ricorderò sempre, e sempre sarò lieto di vederti perché se pure
eri talvolta un po’ strano, l’animo tuo è sempre stato semplice, profondamente
buono, scrupolosamente onesto e, soprattutto, aperto in ogni atto, in ogni
pensiero, in ogni circostanza.
E Genovesi? Lo
chiamavate “Menjou” a motivo dei suoi piccoli baffettini neri e folti. Reduce
d’Africa, giunse a Tarquinia il 31 di agosto. Indossava una giubba biancastra,
forse stinta dal sole africano; e cravatta nera a pallini rosa. Si conquistò
subito il suo bel soprannome, ma dopo i primi giorni, chi lo conobbe meglio,
glielo cambiò e lo chiamò “la signorina”. Ma anche questo nuovo nome subì delle
modifiche, e divenne poi “Jannuise”. Piccolo, rotondetto, sorridente, sempre
arrabbiato se la sveglia importuna lo aveva costretto a svegliarsi di buon
mattino: stivali di cuoio naturale, sahariana di fustagno e . . . pistolone di
fianco come un Buffalo Bill. Anche lui mormorava qualche volta rivolgendosi ad
Arista: “Quando non si sa fare il proprio mestiere – diceva – ci si ammazza!”
Ma Arista era sempre
pronto e contrattaccava con energia: “A me lo dici? E che aspetti a tirarti un
colpo con quel tuo pistolone?” E Genovesi, nella sua carica di direttore di
mensa, concludeva subito la lite, sempre opportunamente pagando il dolce o i
biscotti, o il liquore, e calmava così in un attimo le proteste e le voglie
dell’aiutante maggiore, il quale, al pari della ben nota lonza dantesca, “dopo
il pasto” aveva sempre “più fame che pria”!
C’è
laggiù verso sinistra un gruppo di mortaisti che sembrano intenti a complottare
qualcosa. Parlano tra loro e forse si scambiano i loro ricordi di guerra.
Avviciniamoci un po’: chi sono? C’è Tomasi, Germano, Boccadifuoco, Di Franco,
Cavagliano, Salerno e Migliozzi.
- Tomasi: robustissimo
– un metro di torace – si presentò a Tarquinia con “fiamme cremisi” enormi, che
erano tutto un programma. Come Genovesi, anche lui aveva piccoli baffi, ma
scomposti, arruffati, foltissimi. Ogni quattro parole intercalava un “per la
Ma…rianna!”. Arista lo definì subito “il mugik” e questo nomignolo gli rimase.
Io ero contrario ai soprannomi con i quali Arista usava chiamare i colleghi,
talvolta anche nelle relazioni di servizio; ma quando mandai Tomasi, con un
manipolo di audaci, ad Hostalrich, ed egli tardava a ritornare, non potei fare
a meno di esclamare anch’io più di una volta “ma che diavolo fa il «mugik» che
non torna?”
Caro, bravissimo
Tomasi, ti perdono volentieri le tue “fiamme cremisi” oltre misura; esse
indicavano l’ardore che era in te e tutta la bontà e la semplicità del tuo
carattere modesto, affezionato e devoto.
- Germano: quando
arrivammo a “La Guardia”, il primo ufficiale del disciolto battaglione
mitraglieri “Palella” che mi venne incontro fu lui, Germano. Pieno di premure,
affettuoso, sarebbe rimasto volentieri con noi, ma era stato destinato alla
compagnia anticarro divisionale e presto doveva lasciare La Guardia e . . . la
sua immancabile “novia”! Germano fu di
grandissimo aiuto al mio Arista perché lo iniziò ai misteri
dell’amministrazione spagnola, ed al difficile conteggio delle “pesetas”. In
seguito, durante la battaglia di Catalogna, lo rividi più volte, e seppi dei
suoi ripetuti atti di valore. Conservò il suo carattere mite e modesto, ed oggi
è carrista pieno di ardimento e di fede.
- Boccadifuoco: era il braccio destro del capitano Guidi. Per il mio aiutante maggiore aveva due difetti imperdonabili: quello di voler portare una bandoliera spagnola, “marocchinata” chi sa dove, in luogo delle giberne regolamentari; e quello di presentare gli immancabili “specchi” sempre con molte cancellature. Ogni tanto sentivo Arista strillare: “Ho detto che le cancellature si fanno con inchiostro rosso, e quando sono più di due si deve rifare lo specchio. E poi levati codesta bandoliera!!!” Sentendo quelle parole non avevo alcun dubbio: Arista era alle prese con Boccadifuoco.
“Boccadifuoco!” chiamavo. “Comandi, signor Maggiore!” (passo affrettato, alta figura che avanza, colpo di tacchi, ed ecco davanti a me Boccadifuoco). “Boccadifuico, che c’è? L’inchiostro rosso è la tua ossessione? E fai strillare Arista per questo? Ci vuol così poco a contentare l’aiutante maggiore (se ce ne voleva, però!…).
-
Di Franco: arrivò al battaglione poco prima che si partisse per la Spagna.
Appena giunti a La Guardia lo assegnai alla 3a compagnia assieme ad altri
elementi vecchi del Batmo per amalgamare i nuovi venuti. Spirito irrequieto, fu
sempre in opposizione con Guidi allorché discutevano di politica. Ma il buon
Guidi esigeva soltanto di essere ascoltato quando esponeva le sue teorie
riformatrici dell’universo, mentre Di Franco era sempre pronto a discutere, a
contraddire. In fondo, però, sebbene “l’un contro l’altro armato”, si volevano
bene.
-
Cavagliano: passò alle mie dipendenze a La Guardia, assieme ad altri due
subalterni del “Palella”: Aprea e Formato. Il primo morì in seguito a grave
malattia contratta a Cogull; il secondo è ora funzionario del Ministero
dell’Interno. A presentazioni ultimate colgo un commento di Arista: “Ecco
l’ammiraglio! Mi sembra in gamba”! Lì per lì non faccio caso alla frase, ma poi
ci ripenso e me ne ricordo nel pomeriggio allorché sento Arista rispondere a
Bianchi, “la dattilografa”, che domandava il nome dell’ufficiale di picchetto
da comandare sull’ordine del giorno. “Tocca al nostro ammiraglio” risponde
Arista. Intervengo: “Si può sapere cosa c’entra la marina con l’ufficiale di
picchetto?” “C’entra, signor maggiore, non sente che abbiamo un Nelson!!!”
Cavagliano fu così per tutti “l’Ammiraglio” e in ogni circostanza, da buon
nocchiero, seppe guidare i suoi uomini con perizia ed ardimento. Due volte
ferito, rifiutò di essere ricoverato all’ospedale. “Signor maggiore – diceva –
lasciatemi al reparto! Vorrei aspettare qui, al mio posto, come Nelson, il
colpo decisivo”! Ma il terzo colpo non venne mai: meno male! Venne invece per
lui la medaglia d’argento sul campo.
- Salerno e Migliozzi:
li ebbi in eredità dal “Palella”. Bravi ragazzi entrambi! Domandai: “Che cosa fate al comando di
battaglione?” “Variazioni matricolari, pratiche sottufficiali e truppa” rispose
Salerno. Un reparto autonomo, in relazioni d’ufficio con enti territoriali in
Patria, doveva avere una “matricola” propria perché, purtroppo, anche la
burocrazia è talvolta necessaria…”si carta cadit, tota scientia galoppat”. “Va
bene – dico – continuate”. Ma non andava bene, come al solito, per Arista il
quale sempre doveva dire la sua: “Noi potremo rimanere in Spagna ancora
vent’anni, ma Salerno e Migliozzi non impareranno mai a fare un ordine
permanente . . . Qualche volta ammazzeranno qualcuno e poi lo promuoveranno
caporale”!
Ma
qui tra di voi, o legionari, se guardate un po’ attenti, troverete qualcuno che
vi guarda, tace e sorride.
È
anch’egli un soldato, un soldato di gran cuore, un legionario che come voi
visse quella dura fatica. E ben qui io lo metto, in mezzo a voi, perché questo
è il suo posto, e perché voi lo vediate anche oggi in mezzo a voi, come lo
vedeste nei giorni più duri di quell’aspra battaglia. Guardatelo! È lì, fermo,
impassibile, e vi guarda e sorride. Soldato fra soldati, uomo fra gli uomini,
appena vi vide a La Guardia, vi pensò valorosi. E non si ingannò.
Vi
comandò con tutto il suo cuore nobile e generoso, con tutta la sua volontà
ferrea e intelligente perché sapeva di avervi nel pugno, forti, pronti e decisi
anche all’estremo sacrificio. Fu con voi a Seròs, in quella lunga vigilia, e si
sporse anch’egli dalla trincea fangosa per vedere da dove sarebbero sbucati
fuori i suoi fanti e le sue camicie nere per correre verso la grande vittoria;
sostò con voi sotto il tiro nemico, e con voi riprese la rincorsa verso più
fulgida meta; dormì il suo breve sonno sul duro giaciglio nella vecchia casa
abbandonata, senza letto né panca, aspettando con ansia il domani per lanciarsi
più oltre; bevve a piccoli sorsi la vostra gavetta di brodo, e mangiò talvolta
la vostra dura pagnotta; e spesso vi venne incontro col sorriso sul labbro ad
annunziarvi una lieta novella, o con la pena nel cuore ripensando a un compagno
caduto; e spesso riunì attorno a sé alcuni di voi per appuntar loro sul petto
una medaglia o una croce al valore; e ancora più spesso sostò in mezzo alla
strada, sull’auto, aspettando un ordine; ma assai più volte trepidò ascoltando
la voce di Oliveti alla radio che parlava scandendo le sue parole di fede, di
gioia, di vittoria, o le tristi notizie dei feriti e dei morti!
Sì, o mortaisti, già
nel corso di questa vostra esaltazione io ve ne ho parlato più volte: è
Gervasio! È Gervasio!
È il primo legionario
dell’ “Assalto Littorio”! È il legionario che vi guidò in Catalogna. È quel
prode soldato che ferito alle gambe – alle gambe, ripeto – non vi volle
lasciare sulla strada di Francia se non quando fu certo della completa
vittoria. È quegli che vi lanciò avanti a Seròs, a Cogull, a Sabadell, a
Badalona. È quegli che a Tiana vi consegnò l’invitta bandiera d’Italia
trionfante di vittoria in vittoria per portarla più in alto, sempre più in
alto, nell’azzurro del cielo. Ed è quegli che vi vorrebbe ancor oggi con sé per
lanciarvi domani, con la sua volontà, verso mete sempre più belle e radiose.
Perché è certo che voi, ancor fieri ai suoi ordini, portereste questa sua
volontà al di là di qualsiasi ostacolo!
Accanto a lui, ma un
po’ più indietro, c’è un altro vero soldato, ed anch’egli vi guarda, tace e
sorride. È un fierissimo siciliano che dalla sua terra bella e generosa ha
ereditato intelligenza, equilibrio, operosità. Sta in penombra perché conosce a
fondo ed ha quasi innata la modestia, e sa perciò lavorare in silenzio, ed
obbedire in silenzio. Ma è fermo anch’egli, fermissimo, sereno, impassibile.
Riceve gli ordini del Comandante, li traduce sulla carta fedeli e precisi, li
completa per la parte che lo riguarda, li dirama fino ai tentacoli più lontani,
si assicura che siano ben capiti, vigila alla loro esecuzione, prevede,
provvede, verifica, controlla, esegue lui stesso, se occorre.
È perciò anche lui un
valoroso, non meno degli altri anche se più decorati di lui. Sempre buon
camerata, aperto nel viso e nel carattere, punta addosso gli occhi suoi aguzzi
che attraverso le lenti sorridono, ma è duro e intransigente allorché si tratti
di eseguire gli ordini del Capo.
E il cuore? Oh! quello
sì che è un gran cuore, ben saldo e generoso! Vieni qui, mio caro Scala, vicino
a me, e abbracciami fortemente. C’è in noi qualche cosa di più che un semplice
affetto che ci lega; c’è in noi, nelle nostre vene, un sangue generoso e
fremente che ci accomuna nell’azione e nel pensiero; ed è un lembo della nostra
anima siciliana che nel nostro abbraccio si salda.
E c’è tra voi il
maggiore Bonini. Anch’egli ha sentito squillar le mie trombe ed è corso al
richiamo. È qui, in mezzo a voi, e si
confonde con voi nella gioia che vi esalta. Giunse a Llagostera nel giorno
della più grande vigilia, e pronto afferrò la bandiera che io avevo consegnato
a Verniani in quel tardo pomeriggio del 2 febbraio, quando ferito mi portarono
via. L’afferrò e di corsa vi portò a Gerona. E da Gerona, sempre di corsa ancor
più travolgente e non meno gloriosa, vi condusse ad Alicante. E da Alicante a
Napoli vi portò, dove ancor zoppo, appoggiandomi al bastone, io vi aspettavo
trepidante in quel 6 di giugno, appena uscito dall’Ospedale del Celio.
E poi a Salerno da dove
vi rimandò a casa in pochi giorni, e pochi ne trattenne con sé, forte e fedele
manipolo che costituisce ancor oggi il nucleo centrale di questa nuova
“Littorio” che serba sempre bello il ricordo e intatta la tradizione
legionaria.
Ma
come posso finire questa storia del “Batmo” senza pensare ai miei “Lupi”? Sono
miei e son vostri perché vi furono accanto valorosi e fedeli compagni. Li
vedete laggiù?
C’è Olita silenzioso e
. . . ridente. Ha l’elmetto calcato, e, se lo chiamo, non c’è nome che ascolti
e che valga a riscuoterlo se non quello di “lupo”! Questa parola è quella che
lo animava in battaglia. L’ha gridata più volte alle sue camicie nere a Seròs,
il mattino del 23 dicembre dell’anno 1939, e fierissimi i “Lupi” balzarono
allora dalla testa di ponte e si lanciarono all’assalto della trincea nemica,
subito affiancandosi al “Vampa” che li aveva appena preceduti. Ma ancora più
forte la gridò a Santa Coloma, e a quel grido i “Lupi” più non si contennero e
in avanti saltarono – veri lupi nell’anima – giù dall’infernale forcella, e
velocissimi scesero a valle seminando di morti e di feriti il pendio
ripidissimo. E vinsero!
Caro e buon Olita, io
non potrò mai abbastanza parlare di te. Sei stato un compagno d’arme valoroso,
e sei tuttora uno di quei “Lupi” che sono qui chiusi nel mio cuore, perché il
loro nome sa di trincea e di battaglia, e non riesco a staccarmene perché li
conosco animati di grandissima, di purissima fede. Ed è questa, o mio Olita, la
nostra forza più grande. Sentiamo in noi la potenza dell’idea, lo spirito
volontaristico che mai ci abbandona e dà anima ai nostri atti, la volontà che
vince, la tenacia che tempra al più duro travaglio, l’ardore che infiamma e
trascina nel più arduo cimento. Ed è perciò, o mio Olita, che c’è ancora in noi
la forza della giovinezza lontana. Essa risorge in noi con spirito sempre più
lieto e gagliardo. Durassimo ancora cent’anni, giovani ancora saremmo e pieni
di entusiasmo e di vita – tu e i tuoi “Lupi”, io ed i miei mortaisti – pronti
ancora e sempre per la lotta più aspra.
Chi hai portato con te,
o mio Olita, in questa breve rassegna dei miei mortaisti? Certo è con te
qualcuno dei tuoi “Lupi” migliori! Hai portato Alimonda? Eccolo! E ben ti sta a
fianco coi suoi baffetti curvi all’ingiù. Guardalo anche tu, rivolgiti
indietro, egli è proprio con te, accanto a te! Fatti avanti, Alimonda! Non
ricordi il cimitero di Montargull? Ti aggiravi attorno a quel muro di cinta
come se cercavi qualcuno. Ma l’avversario era scappato! E a sera però sentisti
il crepitare delle sue mitragliatrici: ritentava l’attacco! E nella pena di
dovergli cedere il passo, perché questo era l’ordine che avevi ricevuto, ben lo
guardasti in faccia e gli gridasti forte la tua parola di sfida e di beffa! Ma
ora qui, tra i miei mortaisti ed i “Lupi”, tu non sei soltanto l’eroe di
Montargull; nelle tue vene circola sangue puro di Sardegna, e le medaglie che
brillano sul tuo petto parlano del tuo valore, del tuo coraggio, della tua
intrepidezza. E certo anche tu verrai con me alla mia adunata di guerra, e
porterai con te una robusta centuria dei tuoi fieri soldati forti e decisi come
te, pronti alla lotta e pronti al sacrificio, ma ancora più pronti a ghermire
la vittoria. E vinceremo!
Ed
è pure con te il tuo vecchio aiutante maggiore Chiavellati. Alto, ben piantato,
domina col suo vocione robusto tutti i “Lupi”, e però li ha saputi tutti
avvincere a sé come fratelli. Come Alimonda, anche lui ti segue con fedeltà e
passione, e se gli parli di assalti o di battaglie, vedi il suo sguardo che si
illumina ed il suo sorriso che ti vince:
“Avanti, avanti, sempre
avanti, i “Lupi” non devono mai essere in secondo scaglione” dice il tuo
Chiavellati, volontario di tutte le imprese! Guardagli sul petto, o mio Olita,
guarda che cosa nasconde dentro alla sua giubba abbottonata. C’è su quel cuore
una bella bandiera tricolore che sventolerà vittoriosa a Gerona, in un tripudio
di anime in festa per la meritata vittoria! Caro Chiavellati, possa la tua
fede, la nostra fede, la nostra idea che dà anima e forza alla nostra volontà,
portarci sempre più avanti, sempre più in alto, sempre più vittoriosi.
E il “Lupo” Mazzocca?
Eccolo lì, tutto sporco di fango, passamontagna e guantoni…come un turista in
vacanza!
Arrivò tra i mortaisti
come un fulmine, sulla tenda del comando del “Batmo”, gridando a gran fiato:
“Arista! Arista!” Arista lo vide, gli si buttò addosso, lo abbracciò, lo
tempestò di urli insolenti e beffardi. Poi lo presentò: suo insegnante presso
la III Legione Universitaria in Firenze. E da quel momento Mazzocca divenne
mortaista d’elezione, assiduo tra noi, ma ancor più assiduo alla nostra mensa!
“Mazzocca, hai fame – dice Arista – mangia con noi!” “Mazzocca, vuoi bere?
Eccoti una bottiglia!” “Mazzocca, hai freddo? Eccoti una camicia di flanella, e
calzini di lana per i tuoi geloni, e guantoni per le tue mani diacce!”
E Oliveti? Come ti
rivedo qui in mezzo a noi, o romagnolo fierissimo? Hai anche tu sentito le mie
trombe? Tu comandavi tremila vecchie camicie nere insuperabili nell’ardore
della lotta, veterani di Spagna, ed ora ti confondi nelle file dei miei
mortaisti come se fossi un semplice soldato! Forse ricordi come anch’essi,
tutti, si fusero in lotta coi tuoi valorosi legionari, fieri di obbedirti per
vincere? Ti ricordo, o valorosissimo, nelle tue decisioni, nelle tue
conversazioni radiofoniche con “Gervasio”; ti rivedo a Savallà del Condado, in
quella sera oscurissima. Protestavi perché attorno a quella vecchia torre si
era raccolto un intero tuo battaglione ed il mio, quasi tutto! E mi dicevi che
non intendevi far questo…ma chi avrebbe potuto frenare l’impeto di quei
soldati? “Ebbene – ti dissi – ritira le tue camicie nere, e lasciamene qui una
sola centuria. Qui resto io coi miei mortaisti, e tu puoi essere sicuro!”
Fu così che ai tuoi
ordini ancora una volta si fusero le tue balde camicie nere ed i miei mortaisti, ed anche quella fu notte
di grande vigilia! Oliveti, vecchio compagno d’armi, tu conosci quanto sia
aspra la lotta e bello il sacrificio allorché l’idea lo illumina di viva luce:
tu sai la bellezza della vittoria quando si libra in alto sulle schiere
valorose; tu sei con noi, tu sei coi mortaisti e coi “Lupi”, tu sei coi
vittoriosi, come allora e per sempre!
E con te è pure quel
tuo aiutante maggiore: Adelchi Albanese. Ti sta accanto silenzioso e pensoso.
Prende appunti, e prepara il suo poema di gloria per i tuoi prodi che vissero
quella bella crociata vittoriosa. Lascialo scrivere! Dirà le cose che ha viste;
dirà le cose che sanno dire i soldati di un’idea per la quale hanno avuto il
coraggio di imbracciare il fucile e correre alla “barricata”; i soldati che
hanno avuto il coraggio di appiattarsi dietro a un cespuglio o nella trincea, e
far cantare una mitragliatrice; i soldati che vinsero i rossi di Spagna e gli
internazionali bolscevichi, arma e ferro nel pugno, e volontà protesa verso la
santa vittoria!
Questa vostra rassegna,
o miei mortaisti, o miei “Lupi”, volge verso la fine. L’ho condotta d’un fiato,
ma sento che non posso concludere. Sento che non posso separarmi da voi senza
dare un saluto ad alcuni vostri compagni, a quelli che più mi furono accanto
nei lunghi giorni di lotta.
Come potrei non
ricordarti qui, mio buon Mellas? Appena giunti a Pisa volli che mi si cercasse
un attendente sardo, e la scelta cadde su te. Occhi bruni, piccoli e
scintillanti, capelli nerissimi sulla fronte bassa e diritta, voce sottile come
di donna, ed anima semplice come quella di un fanciullo. Qualunque cosa
accadesse, tu non ne sapevi mai nulla: “Eh!…zì, …zignor maggiore, …questo non
lo sapevo …questo non me lo aveva detto nessuno, per far questo …aspettavo
Bastianelli” (povero Bastianelli, c’entrava sempre anche lui!).
Un giorno ti
presentasti con la tua consueta aria ingenua: “Zignor maggiore…hanno portato
via l’impermeabile!”
Non avevi ancora
terminato di parlare che tutti gli improperi del cielo e della terra piovvero
su di te, fulmini e tuoni, lanciati dal furibondo aiutante maggiore che sempre
interloquiva, a proposito…ed anche a sproposito: “Imbecille ! … hanno portato
via l’impermeabile? E tu cosa ci stai a fare? Ci vuole la sentinella per le
cassette del maggiore? Ma sei davvero un sardo tu?”
Ma il mio caro Mellas
si rivelò a Forés. Fu per tutti una vera sorpresa. Svelto nel pulire e cucinare
i polli e i conigli, fra fornelli e tegami, il mio Mellas era come un re dei
cuochi, e tutti gli obbedivano ammirandolo. Agile come un piccolo gatto, occhi
rossi di brace, Mellas comandava: “Bastianelli, dammi il sale!” “Bonacina,
passami l’olio!” “Mariani, fai presto, non vedi che brucia? Brucia…, si arrosta
dico…” “Bonacina, porgimi quel vassoio!”
Per lui, piatto o
gavetta era sempre un vassoio. E cucinati i polli, passava subito alle
distribuzioni: “Zignor maggiore, prendi questo…mangia questo…senti come è
«bellino» questo!…”
Il 4 febbraio Mellas
diventa infermiere. Ed eccolo al mio capezzale, nell’Ospedale di Masnou. Ma
tutto il tuo affetto e tutta la tua devozione di fedelissimo sardo non valsero,
o mio buon Mellas, a raddolcire la mia voce! E però, se ti trattai male
talvolta non ero io, credimi, ma era la mia febbre che parlava, e lo spasimo
delle mie ferite. E certo tu mi avrai già perdonato!
Il suo posto accanto al
mio capezzale fu poi preso da Olimpio. Questo piccolo leccese sveltissimo e
intelligente, caporale maggiore, autista, motociclista, dattilografo,
ragioniere, meccanico, portaordini . . . infermiere, si rivelò nel suo nuovo
incarico insuperabile e affezionatissimo. Già lo avevo veduto in battaglia, e
già il suo valore mi aveva indotto a proporlo per la medaglia d’argento sul
campo e poi per altra ricompensa al valore. Ma se anche ciò non fosse stato,
ben lo avevo visto accanto a me nei giorni in cui fischiava la mitraglia o
sibilava il proietto del carro armato avversario, e ben gli avevo concesso
tutta la mia fiducia e tutto il mio affetto, come lo può concedere un soldato
ad un compagno d’armi che riconosce abile e valoroso. Ma dopo la tua devota ed
affezionata assistenza, tu, caro il mio Olimpio, non sei soltanto il mio bravo
portaordini che spedivo nel momento più critico del combattimento, ma sei più
che altro colui che mi aiutò a sopportare le dure sofferenze delle mie
sanguinanti ferite, e ben perciò io ti devo il mio tributo di riconoscenza. E
di cuore ti abbraccio qui, di fronte a tutti i tuoi valorosi compagni, tu,
valoroso tra i valorosi, tu fedelissimo tra i fedeli, tu, devotissimo tra i
devoti.
E come potrei
dimenticare il mio buon Foscarini? Già in tutta questa vostra storia egli ha il
suo posto d’onore, che è sempre tra i primi. Posso aggiungere che tutti, quando
Foscarini non arrivava, sospiravano profondamente pronunziando il suo nome. E
quando appariva da lontano la sua sagoma grigia, un po’ allungata e sottile, si
sentiva subito l’odore del brodo o il sapore del minestrone ancor caldo, e
tutti eravate ancora una volta convinti che c’era qualcuno che pensava a voi.
Sì, c’era quel bravo ragazzo, c’era il nostro Fosco che vegliava tutta la notte
coi cucinieri instancabili; c’era l’infaticabile Fosco che arrivava sempre
opportuno con muli e marmitte, e … sigarette talvolta! Arrivava di giorno o di
notte, con la pioggia o col bel tempo, e mormorava sempre: “Così non può
continuare”; ma continuava e durava! La sua era fatica da mulo, ma egli aveva
buone gambe e spalle robuste. E soprattutto cuore e tenacia. Sentiva il suo
compito, e arrivava sempre, a qualunque costo. E quando un nucleo di rossi
rinnegati lo attaccò lungo il percorso, egli seppe riunire un pugno di audaci,
e li portò all’assalto con le bombe a mano riuscendo a disperderli e a
meritarsi la sua bella medaglia.
E
Arista? Tu sei all’ultimo posto perché sei chiaccherone e strillone! Sai però
che tutta la storia del “Batmo” parla di te. Sai che qui, nel mio cuore, c’è un
gran posto per te. Ma questo non è il momento di ciarle: questo è il momento di
agire. Tu mi stai sempre vicino, sempre attaccato alle costole. E anche oggi
non sai essere che la mia ombra, fedele sei, ma la mia ombra! Cosa vuoi che me
ne faccia di te se mi stai qui vicino? Corri svelto là in fondo: dà un po’ di
anima a tutti quelli laggiù, col tuo vocione possente. Strilla, grida a gran
fiato, e chiama tutti a raccolta. Fai venir qui Zingarello, e che prepari le
trombe.
Chiama
qui anche Cronia e mettetevi in riga qui, tutti quanti qui in riga, davanti a
me!
Presto,
riordinate le file!
E
tu Zingarello, attacca la nostra marcia trionfale.
Presto,
Cronia, tocca a te! Siete pronti? Via!
Evviva il Re! Evviva
il Re! Evviva il Re!
Chinate,
reggimenti, le bandiere al nostro Re!
La gloria e la
fortuna dell’Italia con lui è!
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La nostra
rassegna è ora finita. Ma non sarebbe ancora veramente finita perché vorrei qui
tutti ricordarvi e tutti chiamarvi qui, uno ad uno, perché tutti vi sento in me
nel mio cuore e con tutti avrei voluto parlare del nostro vecchio e glorioso
“Batmo”. Ma come sarebbe possibile farlo? Quanto dovrebbe durare questa vostra
rassegna?
Tornate
dunque alle vostre case e riprendete l’aratro o la vanga, la pialla, la
cazzuola e il martello; e lavorate, lavorate e costruite. Costruite la vostra
piccola casa, il vostro focolare, e formate la vostra dolce famiglia, all’ombra
del mistico campanile che svetta alto nel cielo e vi sveglia di buon mattino
con la sua campana squillante; e fecondate la terra col vostro lavoro, col
sudore della vostra fronte. Ricche messi vi attendono a compensare la vostra dura
fatica. E in attesa di essere chiamati a difenderle, se ancora non lo siete
stati, tenete sempre pronto il moschetto e, soprattutto, ritemprate e risaldate
lo spirito e mantenetelo sempre forte e fiero, sempre legionario . . . .
O M I S S I S