La stesura del libro è conforme all’originale in mio possesso, se si eccettuano alcune modifiche per errori ortografici e per eventi storici obsoleti. Non sono incluse né le fotografie né le piantine topografiche.

 

GAETANO AMOROSO   Tenente colonnello di Fanteria – Medaglia d’Oro al Valor Militare

 

MORTAI E LUPI IN CATALOGNA

Editrice Lorenzo Rattero – Torino – 1941

QUESTO LIBRO È DEDICATO

- ai valorosi legionari dei battaglioni “Mortai e Lupi” della “Littorio d’Assalto” caduti in terra di Spagna,

- alle madri, alle spose ed ai figli che hanno sofferto in silenzio aspettando invano il loro ritorno.

Tutti i mortaisti e i “Lupi” che hanno avuto la gioia di ritornare alle loro case si raccolgono oggi attorno a me, anch’essi in silenzio, per rivolgere un commosso pensiero ai loro valorosi camerati che non ebbero la fortuna di vedere il volto luminoso della bella ed ambita vittoria.

Morti della Grande Crociata, il vostro sacrificio suscita in noi l’orgoglio di essere stati con voi nel giorno della dura battaglia; centuplica in noi la fede – la vostra stessa ardentissima fede – e tutti ci sospinge verso più ardue prove! In queste pagine, dettate dal fraterno cuore di un vostro compagno d’arme, voi rivivete tutti, uno ad uno, con tutto il vostro valore, con tutta la vostra vita eroica, suggellata col sacrificio estremo!

E voi madri e spose degli eroici Caduti, assorte nel vostro più profondo dolore, levate in alto la fronte e fissate lo sguardo nel fulgido cielo d’Italia: immoto, infinito, bellissimo è l’azzurro che ci avvolge, e in esso splende la figura della Grande Patria Immortale; in esso la vittoria dall’ali dorate, fiancheggiata dal Sacro Littorio, irradia la sua vivida luce. Levate in alto, o meste madri, la fronte! C’è in voi la fierezza delle donne romane che si perpetua nei secoli; c’è in voi, se pur velato di pianto, il commosso ricordo del trionfo che rese più lieve il sacrificio; c’è la fiaccola dell’inestinguibile fede che ci anima e ci guida verso un domani più bello.

No, non sono morti i vostri cari scomparsi! Tutti sono ancora con noi e in noi, nel nostro cuore, nel nostro spirito, ardenti sempre di purissima fede. Essi vivono ancora nella religione della Patria venerati dai commilitoni che sanno l’ardore della lotta, e nella riconoscenza di un popolo che col loro sacrificio riscattò il suo onore e la sua libertà. Ed io oggi vivi li riporto a voi con questo ricordo, vivi e pieni di ardore, palpitanti ancora come nei giorni della dura battaglia, come allora animosi, arditissimi!

2 febbraio 1941

CAPITOLO I.           DEPOSITO 22° REGGIMENTO FANTERIA

Pisa: 26 luglio-31 agosto

L’atto di nascita del “Primo battaglione speciale mortai da 81” si può riassumere in alcune date e poche parole.

23 luglio 1938: mi giunge a Messina, dove mi trovo in licenza ordinaria di dieci giorni, il telegramma di destinazione in O.M.S. (NdR: Oltre Mare Spagna). Devo presentarmi, il 26 luglio, al Deposito del 22° Reggimento Fanteria in Pisa, per assumere il comando del XIII battaglione complementi. Parto subito. Dopo una breve sosta a Roma per ritirare i documenti di viaggio, proseguo per Pisa e vi giungo la sera del 26. Vi trovo l’ordine di costituzione del battaglione, ma nessun soldato e nessun ufficiale. Il mattino del giorno successivo arriva il tenente dei bersaglieri Cronia Trifone. Nel pomeriggio dello stesso giorno arrivano alcuni altri: Arista, Verniani, Foscarini, Toccafondi, Baldi, Conte. Anche i graduati incominciano ad arrivare: sono quelli che, già in servizio presso i corpi, hanno chiesto di essere destinati in O.M.S. Una quarantina in tutto. I primi richiamati dovrebbero giungere la sera del 30. Il battaglione deve essere pronto il 5 di agosto. Non c’è tempo da perdere.

Costituisco i quadri delle tre compagnie: 1a: Verniani, 2a: Cronia, 3a: Foscarini (poi Allamandola). Arista aiutante maggiore in esperimento. Grande fatica per trovare i locali, come succede sempre in simili casi. Comunque,  superate le inevitabili difficoltà, riesco a predisporre gli alloggi per circa 400 uomini. Il tempo stringe. Bisogna ancora prelevare le serie di vestiario e di armamento, i materiali di servizio generale, ecc.

30 luglio sera: giungono i richiamati. Indimenticabile sera, perché mi accingevo ad una impresa densa di incognite, ma di grande interesse e piena di attrattive. Notte magnifica perché tutti quegli uomini ardenti e pieni di entusiasmo mi passarono davanti uno ad uno, lieti e sorridenti come se fossero venuti ad una festa. In pochi giorni sono tutti vestiti, equipaggiati, pronti nello spirito.

Si inizia un nuovo addestramento. Occorre formare i reparti e dare ad essi una fisionomia organica ben definita non soltanto nel senso di numero, ma anche in quello di entità tattica in piena efficienza. Compito difficile questo, per molte ragioni: prima fra tutte la brevità del tempo disponibile. Il numero dei volontari aumenta ogni giorno.Giungono da tutte le regioni d’Italia: dal Veneto, dalla Toscana, dalla Sicilia, dalla Sardegna, dalle Puglie, dalle Calabrie; tutti sono pieni di vita e di volontà, tutti incontenibili nella fede e nell’entusiasmo.

Giorni belli quelli di Pisa, o miei cari soldati! Io cercavo di convincervi che era opportuno un periodo breve di addestramento, necessario anche per voi vecchi soldati, pronti a tutto osare con forte animo e serena fermezza. Ricordate, o miei baldi legionari (e chi avrebbe detto allora che avreste così bene meritato questo nome?) quel periodo di ansia e di incertezza mentre i giorni passavano e l’ordine della partenza non giungeva? Fu un mese lunghissimo!

Ma il 16 agosto, di ritorno da Roma, vi portai la notizia della prossima trasformazione del XIII battaglione in battaglione mortai, ed allora l’entusiasmo raggiunse in voi una intensità indescrivibile. Tutti sentiste, fin da allora, che i vincoli di cordialità e di affetto che incominciavano a stabilirsi tra noi, ufficiali e soldati, si sarebbero mantenuti anche in O.M.S. ed oltre, ciò che non sarebbe stato possibile in un battaglione di complementi quale era il XIII, destinato a sciogliersi appena sbarcato a Cadice. Passarono così quei lunghissimi giorni di agosto, tra marce, tiri, riviste e ispezioni; in ognuno di voi si leggeva l’ansia della partenza e la sopportazione della lunga attesa.

Il pomeriggio del 26 agosto giunse l’ordine tanto atteso: il XIII battaglione complementi si scioglieva. Con i suoi 850 componenti si dovevano costituire:

- un battaglione mortai da 81 destinato a trasferirsi subito a Tarquinia per addestramento;

- due compagnie di complementi che dovevano rimanere a Pisa in attesa della partenza.

Quell’ordine, mentre diffondeva in tutti voi un vivo senso di rammarico per la separazione che determinava tra gli elementi del XIII battaglione – ormai amalgamato e bene affiatato – costituiva peraltro, da solo, l’atto di nascita di quel “Primo battaglione speciale mortai da 81” il cui nominativo – “Batmo” – doveva sin da allora essere il comune nome di battesimo, ed il segnacolo di fede e di vittoria attorno al quale si sarebbero raccolti tutti  i suoi componenti. Fino allora nessun battaglione organico di mortai era stato costituito nell’Esercito Italiano. Soltanto in occasione dell’esercitazione tattica a fuoco svolta a Civitavecchia, nel maggio 1938, alla presenza di Hitler, era stato costituito un battaglione di formazione con alcune compagnie mortai divisionali appositamente riunite.

Il “Primo battaglione speciale mortai da 81” può perciò vantare questo primato, quello cioè di essere stato il “Primo battaglione mortai” dell’Esercito Italiano, costituito e impiegato in guerra – in una guerra che vide ardimento e valore, fede ed entusiasmo, passione e sacrificio – con risultati che fanti e camicie nere, carristi e artiglieri, tutti legionari di una Grande Crociata, giudicarono superiori a qualsiasi aspettativa.

I giorni di fine agosto a Pisa trascorsero rapidi e laboriosi. Ma ora abbiamo molto cammino da percorrere, e non vale attardarsi sulle rive dell’Arno, tanto più che i nostri ricordi pisani ci lasciano del tutto indifferenti. Per me particolarmente quel periodo non fu che una lunga teoria di comuni avvenimenti, fatta eccezione delle ore che passavo in mezzo a voi parlandovi da fratello a fratelli, da soldato a soldati, e che costituivano per me un vero godimento spirituale. Il giorno in cui, ad un colpo di fischietto del tenente Arista – che aveva ultimato brillantemente il periodo di “esperimento” da aiutante maggiore – saliste sul treno per Tarquinia pieni di entusiasmo che traspariva dallo sguardo fermo e consapevole fisso in quello dei superiori venuti a salutarvi, voi deste spettacolo di superba disciplina. In quel giorno per la prima volta i volontari del XIII battaglione dimostrarono di aver già forgiato un’anima ed un abito morale e disciplinare saldissimo, lieto auspicio e sicura promessa di quello che sarebbe stato il loro comportamento in guerra.

E da quel giorno, infatti, incominciò la vostra ascesa.

 

CAPITOLO II.          PRIMO BATTAGLIONE SPECIALE MORTAI DA 81

Tarquinia: 31 agosto-6 novembre.

Il “Primo battaglione speciale mortai da 81” giunse a Tarquinia il pomeriggio del 31 agosto. Erano ad attenderlo alla stazione il colonnello Romano, comandante della Scuola Centrale di Fanteria di Civitavecchia, ed il tenente colonnello Maestri, anch’egli della Scuola Centrale di Fanteria.

Silenziosi, ordinatissimi, scendeste dal treno col vostro pesante affardellamento e vi allineaste in forma perfetta sulla strada che porta in città, mentre io già ricevevo i primi ordini. Il colonnello Romano vi passò in rapida rassegna, vi fissò negli occhi e mi parve leggesse nel vostro sguardo la fermezza dei vostri propositi, la volontà di portarli a compimento. Egli comprese certamente subito che eravate soldati decisi ad ogni lotta, pronti ad ogni sacrificio. Vi disse poche parole, e nella cordialità delle sue espressioni traspariva che era rimasto assai soddisfatto di voi.

Avevo avuto l’onore e il piacere di incontrarmi col colonnello Romano in Africa, a Dire Daua. Egli comandava il IV reggimento fanteria ed io un battaglione del III. Conoscevo perciò le sue doti di carattere, di intelligenza e le sue virtù di comandante; a Tarquinia, conoscendolo più da vicino, ne ebbi ampia conferma. Quell’uomo merita da parte nostra una profonda riconoscenza. Egli mi dimostrò più volte di volervi bene e di stimarvi moltissimo. Ricordatelo e riconoscetegli forte tempra di soldato nel senso più puro della parola. Ricordate quello che vi disse il giorno della vostra partenza per l’O.M.S., sul piazzale esterno della stazione di Tarquinia, quando stretti attorno a lui, pendevate dal suo labbro. Sottovoce, quasi volesse penetrare nell’intimo del vostro cuore, scandiva le parole che gli venivano dal più profondo dell’anima: “Miei cari soldati – diceva – nel baciare il vostro comandante sento di baciare tutti voi. Sono certo che con soldati come voi è assicurato il trionfo della Santa causa per la quale andate a combattere nel nome del Re e della Patria!”. Vi aveva osservato in due mesi di intensa vita e di azione, in caserma, nelle istruzioni, nelle marce, nelle riviste, in libera uscita. Aveva letto nel vostro cuore.  Aveva seguito la vostra quotidiana fatica; aveva apprezzato la vostra volontà di rendervi subito padroni della nuova arma che vi era stata consegnata per combattere contro un nemico agguerrito e tenace; aveva percepito in voi l’ansia che vi agitava per la sempre più ritardata partenza; aveva vissuto tra il vostro entusiasmo ed aveva intuito che il vostro canto non esprimeva soltanto la fede e l’impeto della vostra fiorente giovinezza, ma anche la serenità con la quale vi accingevate a dare la vostra vita per la Patria, la solennità della vostra promessa di essere pronti ad ogni ardimento.

Io, vostro comandante, modesto fante di quella Grande Crociata, parlando di voi sento risalire dal più profondo del cuore tutti gli affetti e tutte le gioie che mi avete procurato col vostro contegno di fronte al nemico, ed ancor oggi penso con passione e nostalgia al tempo in cui vissi tra voi. E ben ricordo che in quel giorno, su quella strada di Tarquinia, appena partito il colonnello Romano, vi gridai con cuore commosso: “Zaino in spalla”, e sentii di tornare a vent’anni con lo stesso entusiasmo della giovinezza lontana. Compresi che da quel momento incominciava la vostra mirabile affermazione, la vostra bella e grande giornata di sacrificio e di gloria.

Zaino in spalla! Avanti, passo passo, su per quella strada, verso Tarquinia, tappa necessaria per riprendere lena nella marcia faticosa verso l’ignoto destino. Zaino in spalla! Il vostro passo lento e deciso risuonava sul selciato con cadenza ritmica, come se battesse il tempo per le vostre future e sicure conquiste. Giungemmo ai nostri accantonamenti dopo circa un’ora, eppure vi sembrò di aver marciato un istante. In quella piccola ma bella città, nessuno diede segno di accorgersi del vostro arrivo. Incominciaste il vostro lavoro. La fatica giornaliera vi teneva intensamente occupati. Il vostro svago in libera uscita non era chiassoso, ma gaio e modesto. I primi giorni tutti vi osservarono cauti e diffidenti. Presto però impararono a conoscervi e vi corrisposero con la più viva simpatia perché si erano accorti che i legionari del “Primo battaglione speciale mortai”, uomini già formati alla severa scuola di una disciplina, avevano una educazione militare e civile che li rendeva degni della massima stima. E quando poi le note della vostra piccola fanfara squillarono per le vie della città e nelle piazze diffondendo una schietta allegria, io sentii che non a caso si erano già stabiliti fra popolazione e soldati vincoli di affetto e di cordialità che trovarono ogni giorno una sempre più intima e particolare manifestazione.

Là volli che ognuno di voi si avvicinasse a Dio, prima della partenza, in quella mistica chiesetta francescana del Cancellone – ed io stesso ve ne diedi l’esempio – non certo e soltanto per una semplice se pur profonda convinzione dell’anima mia, ma anche ed essenzialmente per dimostrarvi che il legionario della nuova Italia, mentre si appresta a combattere per la causa più santa, non disdegna di portare con sé, nell’intimo del suo cuore, il sacro viatico di fede per l’anima immortale, nella infinita pace di Dio.

Là consentii, come certo ricorderete, di mandarvi alle vostre case a salutare le vostre famiglie, tutti, in pochi giorni, non certo per farvi dare l’ultimo addio alle vostre madri, alle vostre spose, ai vostri figli, ma per dimostrarvi che la disciplina, quella vera e sentita che predispone ai più grandi ed ai più puri sacrifici, trae la sua essenza da una necessità di ordine superiore, ma nella sua rigidezza, che può a volte sembrare eccessiva, non trascura i doveri santi verso la famiglia la quale, nella sua dolce intimità profumata di semplicità e di modestia, rappresenta pur sempre la nostra comune e ben più grande famiglia: l’Italia.

Là, o legionari, nel sacro giorno dedicato ai morti levaste in alto la fronte e portaste anche voi la vostra corona di alloro ai Caduti tarquiniensi della grande guerra, e sentiste in voi quale alta ragione spirituale ad essi vi affratellava. Quelli avevano lottato per una grande causa, ed avevano vinto; voi vi accingevate invece, guidati dal loro grande esempio, illuminati dalla loro stessa idea e dalla loro stessa fede, a perpetuarne la tradizione. Ed anche alla vostra Crociata ha arriso la vittoria.

Ma le giornate di Tarquinia non furono soltanto liete; esse conobbero tutta la vostra dura fatica per la febbrile preparazione tecnica. Pensate al caro tenente colonnello Maestri. Egli non può non avere, assieme al capitano Soave, un posto nel vostro cuore. Io li ricordo quegli ottimi colleghi, e li rivedo nella loro paziente operosità, nelle spiegazioni semplici, chiare e persuasive, nei consigli e nelle discussioni, in ogni loro atto che non fu mai cattedratico, ma sempre improntato a modestia, dote precipua di chi sa e sa insegnare. E spero che anche loro vi ricorderanno, o miei cari legionari: nella vostra volontà di apprendere, nell’entusiasmo che vi prendeva quando le salve colpivano il bersaglio, nell’ansia dell’attesa, nel fermo proposito di tutto osare, consapevoli di tutti i pericoli da superare sulla via della gloria.

Ricordo le giornate di Tarquinia trascorse nella più lieta serenità di un lavoro proficuo; i tiri giornalieri interessanti ed istruttivi per tutti; le marce tra i canti festosi dei miei legionari talvolta bagnati fin troppo da una pioggia improvvisa ed abbondante, o affaticati dal passo forzato nella salita faticosa; nelle riviste sempre allietate dall’elogio del superiore. Ricordo l’intensa attività del tenente Toccafondi che, addetto ai materiali, era sempre intento a schiodare casse e cassette per procurarsi lui per primo la gioia di vedere e toccare le nuove armi, appena giunte; l’instancabile e ineguagliabile operosità del tenente Foscarini, tutto occupato e preoccupato di ammannire il rancio a volte speciale (oh! bella giornata del capretto al forno!); la corsa affannata dei tre baldi capitani – Verniani, Cronia, Allamandola – per tentare di superarsi a vicenda nella cameratesca competizione giornaliera, pur non riuscendo ognuno a dare alla propria compagnia un primato, ma soltanto una impronta personale, quella del proprio carattere: “disciplinata” la 1a, ”bersagliera” la 2a, “salda” la 3a. Sì, le ricordo le belle giornate di Tarquinia, passate nell’ansia dell’attesa di una partenza che troppo si faceva aspettare; nel dubbio di non essere pronti all’ora stabilita; nella responsabilità decisamente affrontata di trascurare le lettere anonime che annunziavano un pericolo, come se i miei legionari non fossero decisi ad affrontarli tutti ed a superarli; nell’insidia del furto della cassa organizzato, ma non consumato, dalla mente malsana di quel tale “Ciaglio” che trovò la sua prima e giusta condanna nella esclusione dalle vostre file. Ricordo la commovente cerimonia della benedizione delle nostre armi, dove quel piccolo fraticello in ginocchio a braccia aperte davanti a Dio, invocava su di esse la benedizione Divina. Ricordo le feste che popolo ed Autorità vollero offrirvi prima della partenza per attestarvi il loro affetto e la loro considerazione che avevate saputo ben meritare. Tutto ricordo di quelle giornate indimenticabili.

Ma qui, nel mio cuore, o legionari, c’è un posto assai più intimo per voi, perché sento di essere stato, più che il vostro comandante, il vostro “fratello maggiore” nel senso più lato della parola. Tutto ho condiviso con voi: l’aspra fatica e il disagio, il riposo sempre assai breve, l’ansia dell’attesa e la gioia della partenza, il giaciglio sotto la tenda improvvisata, il rancio caldo o freddo, il pericolo in tutta la sua intensità ed incertezza, perché sempre in mezzo a voi e con voi io trascorsi tutte le mie giornate tristi o liete, brutte o belle!

Un posto particolare c’è nel mio cuore per taluni di voi, per quelli che mi furono più vicini:

- Arista, fiorentino elettissimo, infaticabile e strillone fino all’estremo limite del possibile e…dell’impossibile, che mi fu compagno di lavoro e conobbe tutta la mia fatica, sempre affrontata e sostenuta in “perfetta letizia”;

- Foscarini, simbolo della modestia e del lavoro silenzioso e tenace, scrupoloso e preciso, presente sempre coi suoi muli e le sue marmitte, con la sua impenetrabile serietà;

- Toccafondi, mite e tranquillo, tutto preso dalla sua Delfina lontana, pronto nell’obbedire, esatto nell’eseguire, devoto e modesto anche lui, ma semplice soprattutto, semplice fino all’ingenuità!!!

Come dimenticarvi, cari e buoni compagni di lavoro e di sacrificio, in Tarquinia ed oltre, per tutta la lunga odissea che ci trovò sempre in piedi, pronti a rispondere “presente” in ogni circostanza. Come dimenticarvi umili ed eroici legionari, che non avete conosciuto stanchezza, che non avete mai chiesto riposo, ma sempre avete sollecitato lavoro, rischio, pericolo?

I primi giorni di novembre ci portarono, finalmente, dopo tanta attesa, la gioia più bella. Voi sentiste il triplice segnale del mio fischietto più volte promessovi e più volte rimandato, e fu subito, in quella piccola caserma divenuta come un immenso, operoso termitaio, tutto un intenso affacendarsi di uomini. Il mio segnale vi diede, in un attimo, una gaia spensieratezza quasi incosciente, il vostro cuore fu subito pervaso da un grande entusiasmo, ed in pochi momenti, attuate le ultime disposizioni e indossati gli abiti civili che vi dovevano sottrarre all’odioso controllo della “Commissione del non intervento”, foste pronti a muovere. Ed in quel 5 di novembre ebbe inizio la vostra commovente, silenziosa, ma pur tanto eloquente sfilata per le vie della città. Qualcuno vi salutò in silenzio, col saluto romano, qualche altro vi gridò delle parole di augurio, ma altri – molti altri – vi avevano già salutato più intimamente, e forse a me non giunse completamente il segreto pianto di qualche ragazza che la vostra partenza aveva teneramente commosso. Molti vi accompagnarono alla stazione, compresi il Podestà e il Segretario Politico, per darvi il loro commiato e l’augurio più vivo. Ma laggiù, alla stazione, l’ho già ricordato, un uomo – il colonnello Romano – toccò profondamente il vostro cuore e vi disse parole assai profonde di significato, parole di fede e di certezza, di augurio, di auspicio, di speranza, perché sentiva e vedeva nel vostro sguardo la vostra sicura promessa.

E quando il treno, emesso il suo fischio acuto e prolungato, si mosse, nel vostro lungo ed appassionato arrivederci, nello sventolìo dei vostri fazzoletti, nell’agitarsi festoso delle braccia e nelle lacrime che bagnavano le gote di tutti, voi vedeste e sentiste che non potevate non mancare mai a quella solenne promessa scambiata, nel muto linguaggio degli occhi e del cuore, tra popolo e legionari, nel santo nome d’Italia, con fede immensa profondamente sentita. Il treno veloce vi trasportò nella sua corsa affannosa verso il vostro nuovo destino.

A Gaeta, in quella notte stellata, come ombre vaganti giungeste al porto e, isolati o a piccoli gruppi, vi imbarcaste muti e consapevoli, con tutto il vostro bagaglio di fede, d’amore e di volontà. E nessuno si avvide certo di tutta la luce che irradiava dagli occhi vostri, di quale fiamma ardeva il vostro cuore, sotto quale vessillo di fede e d’ardore vi accingevate a combattere, con quanta dedizione avevate sposato la Santa causa per la Grande Patria immortale! E nella notte fonda l’ “Adriatico” levò le sue ancore e salpò verso la nostra meta lontana.

 

CAPITOLO III.         SUL MARE NOSTRO

Gaeta-Cadice: 6-10 novembre.

Pochi di voi, miei cari legionari, pochi di voi certamente avevano già assistito al rito del levarsi dell’ancora su di un piroscafo che si accinge a salpare per intraprendere un viaggio per mete belle e lontane. Le maglie della lunga catena, tirate su una ad una dall’abisso profondo del mare, stridono e salgono lente, mosse dall’argano che cigola accanto, fragoroso e possente. Il piroscafo inizia il suo movimento lento e continuo, e l’anima, nella gioia della partenza, canta la sua canzone nostalgica, talvolta colma di grandi speranze.

Questa musica io avevo altra volta ascoltato sul lontano mare di Mogadiscio: musica soave ed assai lieta per l’animo mio. Ritornavo in Patria. Curvo sul parapetto al limite dell’imponente prua del “Sardegna”, osservavo con occhio attento e con animo trepidante il levarsi dell’ancora gigante che legava ancora la grande nave al fondo sabbioso della nostra Somalia. Salivano una ad una le maglie di quella lunga catena e con esse, una ad una si chiudevano dietro a me le pagine di un periodo di grande tristezza. Sebbene in terra legata alla Patria, avevo vissuto laggiù lunghe giornate di solitudine penosa e spesso la mia mente si era smarrita pensando all’interminabile teoria di chilometri che dalla Patria mi separava. E quando, affiorata l’ancora e incominciato il turbinio delle eliche, il “Sardegna” iniziò il suo interminabile viaggio sulla via del ritorno, io sentii rinascere tutto in me e sognai il sorriso della mia bella terra siciliana che presto avrei ricalcato con grande gioia.

Ma in quella notte del novembre ’38, mentre l’ancora dell’ “Adriatico” risaliva dal profondo del mare, in quel piccolo porto di Gaeta, il fragore di quella catena che lenta, maglia a maglia risaliva su dal mare al piroscafo, non suscitava in noi l’ansia del ritorno, ma l’allegro e spensierato sussurro dell’avventura densa di incognite, il canto di gioia nella corsa verso una grande vittoria che volevamo ad ogni costo raggiungere con l’impeto della giovinezza, infiammati dalla fede più pura e più bella. E infatti, in quel giorno, mentre il “Batmo” iniziava la sua navigazione sul nostro Tirreno, diviso in due piroscafi, a 24 ore di distanza, ma uno nello spirito e nell’anima che si era formata, uno nella fede e nella volontà, in quel giorno – dico – nulla ci parve più bello di quel sogno che avevamo tanto sognato e che già incominciava a prendere in noi forme concrete e positive.

Leggeri e veloci correvano i due piroscafi sul mare nostro cullandosi sull’onda, e rapido il nostro cuore batteva nell’ebbrezza della realtà viva e fremente. Ci seguiva a distanza l’incrociatore di scorta, voce vigile e pronta della grande Patria presente. Ci incrociavano i piroscafi, ed al loro saluto, sibilante fischio delle sirene, fremeva il nostro cuore e sentiva tutta la gioia dell’impresa, tutta la bellezza e tutto il fascino dell’ignoto che ci attendeva.

A sera nel vespero, riuniti nello spazio di prora cantavate gli inni della Patria, e mentre il vostro coro saliva solenne nell’azzurro infinito del cielo, il vostro petto si gonfiava di un più ampio respiro, come se foste intenti a misurare voi stessi nella pienezza dei vostri polmoni che sapevate atti a qualunque corsa. E vi fu anche allora, per un felice incontro che il caso ci offrì, un lieto auspicio per il vostro avvenire, perché lì, su quella nave, per la prima volta, e per mezzo di un ufficiale spagnolo ferito reduce da una corsa in Italia, imparaste quel “Cara al sol”, inno magnifico che vi avrebbe più tardi infiammati e sospinti in uno sbalzo meraviglioso oltre le sponde del Segre e più in là, verso Barcellona e Gerona, ultime tappe della vostra bella epopea legionaria.

Trascorsero così, sempre in “perfetta letizia”, i giorni di navigazione, ultimi nel tormento oscuro dell’ignoto. Nelle acque spagnole ci venne incontro la nuova scorta, e più in là, verso Ceuta, ci apparve all’orizzonte nerastro la superba mole della “Canarias” pronta anch’essa a difenderci da ogni insidia avversaria. Ma i rossi non conoscevano ardire e, soprattutto, non avevano né hanno mai conosciuto la fede, né mai la conosceranno. E così il nostro trasporto attraversò tranquillo lo stretto di Gibilterra e, preceduto di 24 ore dal primo scaglione, giunse la sera del 10 novembre a Cadice.

Ricordate, o miei cari legionari, il salto in quel piccolo battello traballante sul mare agitato, nella notte oscura e profonda? Ricordate quel povero vostro compagno gravemente ammalato che voi stessi sbarcaste a braccia, con gran pena e fatica, e con grande pericolo per il risucchio delle onde? Ma la vostra volontà e la vostra accortezza ebbero ragione dell’acqua insidiosa, ed anch’egli, semplice legionario che vedeva interrotto il suo sogno, giunse tra le capaci fiancate del “Gradisca”, dove ritrovò poi forza e vigore per riprendere il suo posto tra le vostre file. Fu perciò con un salto – dal battello sulla banchina – che voi posaste il piede saldo e fermo sulla terra di Spagna. E suggellando davanti a Dio la vostra promessa, foste ancora una volta consapevoli che non sareste ritornati nella vostra cara terra natale se non inebriati dal vivo soffio della più completa vittoria.

E così fu, infatti.

 

CAPITOLO IV.        PRIMO SALUTO DELLA SPAGNA IN TORMENTO

Puerto de Santa Maria: 11-16 novembre

Lo sbarco a Cadice ed il trasferimento in treno, nella stessa notte, a Puerto de Santa Maria, diedero inizio alla seconda tappa del nostro cammino verso l’ignoto. In quella piccola ma bella cittadina sul mare ci fermammo pochissimi giorni: soltanto il tempo necessario per riunirci, riprendere i materiali, indossare l’uniforme che avevamo temporaneamente lasciato, aspettare gli automezzi, formare il nuovo convoglio che ci doveva portare più lontano. Questa breve permanenza, sebbene trascorresse rapida e densa di attività, ci portò qualche vivo disappunto perché il nostro “Batmo” venne mutilato della sua 3a compagnia, messa a disposizione della divisione “Frecce verdi”. Fu questa una mutilazione assai dolorosa per quelli che si distaccavano e per quelli che rimanevano. Le esigenze militari hanno talvolta necessità imprescindibili alle quali un soldato non può sottrarsi e deve accettare con ferma disciplina. Ma in quel caso, quell’ordine fu veramente penoso perché non toccò soltanto una entità tattica, ma anche una salda compagine organica ben costituita, forte materialmente ed ancor più forte moralmente, già legata da vincoli di fraterna solidarietà. Rimpiangemmo perciò sinceramente quella mutilazione, la quale d’altra parte ci parve anche assai strana perché al “Batmo” fu poi data altra compagnia (ma di questo parleremo più avanti), mentre la nostra 3a passò a far parte di un battaglione di mitraglieri. Comunque, l’ordine, se pur poco gradito, fu eseguito dagli elementi tutti del “Batmo” con quel senso di profonda e ben sentita disciplina

che sa rassegnarsi all’inevitabile. Ma ritorniamo a Puerto de Santa Maria.

Come un giardino fiorito in quel tardo autunno che sapeva un po’ di tepore primaverile, tale cittadina vi diede il primo saluto della Spagna tormentata, accogliendovi come nuovi fratelli venuti a dare il loro valido e generoso contributo alla ormai lunga ed estenuante lotta per il trionfo dell’ordine e della civiltà. E voi accoglieste quel saluto come una nuova manifestazione della solidarietà dei due popoli legati nella lotta contro la barbarie rossa, forma reale e concreta della distruzione e della negazione della Patria e di Dio. E quel saluto, raccolto e ricambiato in quelle chiare giornate di novembre, allietò maggiormente il vostro spirito, vi rese più giocondi e più sicuri nell’affrontare la prova decisiva che si avvicinava a grandi passi. Anch’io volli in quei giorni dare tranquillità al mio spirito, chiamando a raccolta in me stesso tutti i miei pensieri più intimi. Tra una corsa a Siviglia ed una passeggiata sul lungo mare, osservando quel piccolo “barco” tanto caratteristico che andava e tornava da Cadice in soli 20 minuti, passai col caro Allamandola – che doveva lasciarci – ore assai liete e serene. Voi invece, tutti presi dagli svaghi e dalla letizia (qualcuno anche un po’ troppo: o Brunori! o Matteazzi! o Lochner!), non vi accorgevate che il vostro “fratello maggiore”, pur nella serenità del suo spirito e dei suoi atti, che non gli è venuta mai meno, vegliava sempre su voi e vi seguiva in ogni istante col pensiero e col cuore, occupandosi e preoccupandosi – talvolta anche più del necessario – del presente e del futuro.

Giunse così il mattino del 17 novembre. Tutti salimmo su quell’interminabile treno, e pigiati in quei carri partimmo verso il nord lontano, nuovo luogo di sosta forzata. Già la 3a compagnia ci aveva preceduti di un’ora, e correva anch’essa verso la zona di Calatayud, dove l’attendeva il suo nuovo destino. Salutaste i vostri compagni col pianto nel cuore, ma il vostro saluto, scambiato con la più segreta speranza, fu piuttosto un accorato arrivederci lungo e appassionato. E infatti, anche durante la battaglia, nei fugaci incontri che spesso si verificarono, rinnovaste l’abbraccio coi vostri fratelli della 3a, intimo ed affettuoso poiché anch’essi vivevano nel pericolo e gran gioia era ritrovarli dopo lunga e penosa lontananza. Ma anche da lontano, attraverso lettere e cartoline, foste sempre gli uni accanto agli altri e vi raccontaste episodi, ansie e fatiche, mantenendo vivo nel vostro cuore il ricordo e lo spirito del vecchio “Batmo” che tuttavia sopravvive ancor oggi in tutti noi nella sua inscindibile unità morale e spirituale. Ma il treno interminabile aveva già iniziato la corsa lentissima attraverso l’Andalusia assolata e ridente.

 

CAPITOLO V.         DIVISIONE D’ASSALTO “LITTORIO”

Andalusia, terra di sole: 17-20 novembre

Un lungo viaggio in treno in terra di Spagna, durante la guerra era certamente un avvenimento che non poteva non lasciare in noi una certa impressione. Chi ne ha compiuto qualcuno, sa bene cosa voglia dire.  Abituati ai nostri treni velocissimi, divoratori di centinaia di chilometri in poche ore, quell’interminabile, lentissimo viaggio è sempre vivo nella nostra mente. La guerra civile esercitava anche in questo campo la sua funesta influenza: la deficienza di combustibile, il materiale ferroviario vecchio e scarso, deteriorato e diviso fra le due parti avverse, il forzato abbandono del lavoro nelle officine, l’orientamento imposto dalle necessità della guerra ad ogni forma di attività nazionale quasi esclusivamente protesa verso l’annientamento delle oscure forze della distruzione e del male, determinavano una lentezza talvolta impressionante nell’attività civile della vita spagnola di quel tempo. Né ad essa si potevano sottrarre i trasporti militari. Per contro, l’aspetto caratteristico della terra di Spagna ci apparve in tutta la sua completa bellezza. Lentissimo il treno si muoveva sulla fertile terra dell’Andalusia, ricca di sole e di sorrisi. Le campagne si susseguivano coltivate ed immense, perdendosi verso l’orizzonte lontano; città e borghi si alternavano accoglienti e festosi nei colori bianchissimi delle loro case. Lunghe fermate nelle stazioni consentivano di prendere qualche contatto con i cittadini e discorsi ed auguri venivano scambiati con effusione e spontaneità. La Spagna ci apparve, in quel brevissimo giorno, come una bella terra promessa per la cui libertà valeva la pena di lottare. Sopraggiunta la sera, la corsa attraverso l’Andalusia volse al termine, e mentre scendeva la notte, assai monotono divenne quel viaggio perché i nostri occhi immoti si aprivano su di una oscurità fitta e impenetrabile. Non luci nel treno e nei campi, ma buio intenso e profondo, e cielo cupo e sinistro.

Già l’Estremadura si avvivinava, e la nostra corsa lentissima conservava sempre il suo attraente mistero. Ci passarono accanto villaggi e città ricche di ricordi e di tradizioni. A tutte la lotta civile aveva dato una storia recente: Mérida e Badajoz, Caceres e il Tago che lento scendeva dalla Nuova Castiglia per Toledo e Talavera, attardandosi a tratti nel suo letto sinuoso, tra il fertile piano. Scorgemmo nell’ombra nera della notte boschi di ulivi e sterminate distese pianeggianti cui l’oscurità dava l’aspetto del vuoto indefinito e indefinibile. E stanchi alfine di guardare nel nulla, ci adagiammo sul nostro duro giaciglio e trascorremmo la notte tra un dormiveglia inquieto e poco riposante.

Ma il mattino successivo ci vide in gran pena perché un nostro compagno, il sergente maggiore Bonina, forse perché un po’ distratto, cadde dal treno in movimento. Subito lo raccogliemmo, e non fummo generosi con lui perché la sua inavvedutezza avrebbe potuto causare un sinistro se quel treno fosse stato più veloce, o se il largo bordo del piano ferroviario non lo avesse trattenuto sanguinante e malconcio.

A Valladolid rivedemmo ancora una volta i nostri fratelli della 3a compagnia e li risalutammo con la nostra consueta cordialità ed espansività. Al ristorante della stazione gli ufficiali si riunirono per “l’ultima cena”…..e per la prima

volta, dopo tanti mesi, la mensa fu silenziosa; Arista aveva smesso di gridare e Foscarini cercava invano le parole per prendere ancora in giro il “diavolo giallo”, il piccolo Conte che si allontanava con la sua compagnia.

Forti e baldi legionari della 3a compagnia, nel momento in cui il vostro treno vi portava via, assai sentimmo il vuoto che lasciavate in noi, e molto ci addolorò il vedervi partire.  Vi seguimmo con lo sguardo  e nei nostri occhi  c’era

una lacrima: pensavamo che non saremmo stati insieme nel giorno del pericolo, mentre avremmo voluto ammirarvi nella vostra battaglia che certo avreste condotto con tenacia e valore. Arrivederci, caro e buon Allamandola, che il buon Dio ti assista! Mai venga meno in te la fede! Portino i tuoi soldati tra le “Frecce” la forza del loro entusiasmo e sia con voi e per voi la bella, la fulgida, la santa vittoria!  Arrivederci, o fratelli! Nel giorno della lotta saremo accanto a voi con tutto il nostro spirito, con tutto il nostro cuore, e la vostra vittoria sarà pure la nostra, così come la vostra gioia, così come il vostro dolore.

Il nostro lunghissimo viaggio continuò tra i monti della Vecchia Castiglia, fino a Miranda e Haro, dove giungemmo il mattino del 20 novembre. Prendemmo contatto col nostro comando di Divisione e, ricevuti gli ordini, proseguimmo in autocolonna fino a La Guardia.

La Guardia: 20 novembre-6 dicembre

Col 20 novembre, giorno di arrivo a La Guardia, si inizia un nuovo periodo della nostra movimentata vita spagnola. Entriamo infatti nella nostra nuova famiglia: quella della DIVISIONE D’ASSALTO “LITTORIO”.

Pronunciamo queste parole con un tremito nella voce. Un’ondata di appassionante entusiasmo ci pervade e ci esalta trascinandoci nella marea infinita dei ricordi! “Divisione d’Assalto Littorio”, grande e bella famiglia di legionari che tutto hanno dato ed osato, tu ci accogliesti nel tuo grembo in quel freddo e nebbioso mattino di novembre, e sin da allora fosti il nostro vessillo di fede, di speranza e d’amore. All’ombra del tuo santo “Littorio” lottammo e vincemmo nel nome d’Italia.

Ultimi giunti tra voi, forti veterani delle invitte legioni temprati ai più duri cimenti in oltre due anni di epiche lotte, quale poteva essere il nostro apporto alla causa per la quale avevate già offerto in olocausto tutte le vostre energie  ed il fiore dei vostri fratelli migliori? Quale poteva essere il nostro apporto, se non quello di una fede incrollabile e profonda, se non quello del nostro ardire fresco e pieno di entusiasmo? Ultimi giunti tra voi, eroi delle più dure battaglie, quale poteva essere il nostro apporto se non quello della voce della grande Patria lontana che mandava ancora i suoi figli ad affiancarsi ai veterani della bella Crociata?

Allenati ad un ritmo di intensa e feconda attività, usi alla fatica che rinforza i muscoli ed allarga i polmoni in un più ampio respiro, riprendeste subito i vostri materiali, le vostre armi, il vostro addestramento, e presto foste pronti, saldo il cuore, tesa la volontà. Avevamo già ingrossate le nostre file: ceduta nostro malgrado la “salda” 3a compagnia al battaglione mitraglieri della Divisione “Frecce verdi”, altri e non meno valorosi legionari si affiancarono a noi. Già provati in molte battaglie, i “rimasti” del battaglione mitraglieri medaglia d’oro “Palella” costituirono la nuova 3a compagnia, e si affiancarono a noi con la loro magnifica tradizione di eroismo e  di gloria.  Avevano lasciato

le mitragliatrici, fedeli ed affezionate compagne delle lotte dure e sanguinose, ma nel prendere i piccoli mortai d’assalto, lo spirito dell’eroe di cui portavano fieramente il nome, li seguì e fu con loro nei giorni della dura lotta. Completato il loro addestramento, esercitatisi al tiro, già permeati di spiccato spirito offensivo, furono presto anch’essi pronti all’assalto con i mortai. Chi vi vide in quei giorni, baldi e forti legionari vecchi e nuovi del “Batmo”, vibranti di entusiasmo e di passione, anelanti di misurarvi col nemico tenacissimo, non potè nascondere, né nascose del resto, l’impressione di saldezza spirituale e materiale che gli avevate dato in quei momenti di grande vigilia.

COMANDO BATTAGLIONE MORTAI “LITTORIO”

La Guardia, 26 novembre 1938

ORDINE PERMANENTE N. 1.

In seguito ad ordine del “CTV”, sotto la data del 17 novembre c. a. il 1° battaglione speciale mortai da 81 mm ha assunto la  denominazione di battaglione mortai “Littorio” assorbendo la 3a compagnia mortai da 45 costituita  con elementi del disciolto battaglione mitraglieri “Palella” e cedendo la 3a compagnia mortai da 81 alla divisione mista “Frecce Verdi”.

Il plotone comando di battaglione, sotto la stessa data, si è trasformato in compagnia comando di battaglione.

IL MAGGIORE COMANDANTE DEL BATTAGLIONE

F.to Gaetano Amoroso

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Preparavamo allora la grande offensiva della Catalogna, quell’offensiva che doveva dare il tracollo completo e definitivo alle forze rosse che ancora baldanzose resistevano sul Segre e sull’Ebro. In continui, quasi giornalieri contatti coi battaglioni dei due reggimenti – 1°: “Gloria”; 2°: “Oliveti” – ci affiatammo coi fratelli d’arme accanto ai quali dovevamo combattere. Non avevamo le bombe a grande effetto che sui colli di Tarquinia vi avevano tanto entusiasmato; ma in un viaggio a Saragozza, il vostro comandante ed il capitano Castro – del Comando di Divisione – concretarono con l’Intendenza spagnola una modifica alle vostre armi. E fu per effetto di questa modifica, attuata poi in mezzo a quasi insormontabili difficoltà, che poteste, terminate le bombe di ghisa acciaiosa, continuare il vostro fuoco con quelle spagnole, più grosse, il cui rifornimento era assicurato in lunga misura.

O La Guardia! tappa indimenticabile del nostro intenso raccoglimento, i giorni che trascorremmo tra le tue vie, nelle tue campagne, nelle tue case, nelle tue piazze, sono da noi ricordati con vera e profonda commozione. Già Zingarello – nostro maestro di musica – aveva riaperto le casse e rilucidati gli strumenti, e tutte le sere soffiava dentro alla sua “brillante cornetta”, e si sfiatava per regalarvi le solite allegre marcette. E voi le ascoltavate in quella piccola piazza di un subito trasformata in vasta sala da ballo. Animati da schietta allegria, raccoglievate allora i sorrisi delle belle “chicas” dagli occhi nerissimi e maliosi, e le stringevate a voi tenacemente come sicure conquiste nella vostra semplice danza. Il vostro comandante, muto e solo talvolta si soffermava in un angolo a guardarvi sentendo in cuor suo una vera letizia perché era riuscito a procurarvi uno svago.

Già i giorni passavano rapidi come se fossero ore, e l’attesa visita del Generalissimo, prima rimandata e poi affrettatamente annunziata per il 6 dicembre, doveva costituire il “momento” culminante della vostra preparazione, Il “via” per la vostra marcia trionfale nel cuore della Catalogna. Ma ad un tratto, che cosa succede? Il Generalissimo non sarebbe più venuto a passarvi in rivista: c’erano invece i treni che vi aspettavano alle stazioni di partenza. Già spiritualmente e materialmente pronti, in un attimo affardellaste gli zaini, lucidaste le anime dei vostri mortai con lo scovolo di legno improvvisato, riprendeste la marcia verso un più grande destino. Zaino in spalla, zaino in spalla ancora una volta! E avanti, avanti, col passo sicuro delle quadrate legioni romane, all’ombra dei neri gagliardetti che garrivano al vento col loro sacro e invincibile “Littorio” di Roma.

Albalate: 7-9 dicembre

Un altro lunghissimo treno…lumaca! Grave disappunto per tutti. Ognuno di voi sembrava dicesse: “Perché questa lentezza snervante? Eppure si va verso la fronte! Incontro al nemico si corre a pieni polmoni per travolgerlo nell’impeto dell’assalto: ogni sosta rompe l’entusiasmo, ogni tregua dà respiro al nemico. Corri, corri, treno…lumaca, tu trasporti saldi cuori d’acciaio e ferree volontà tutte protese verso una immancabile vittoria. Corri, corri, non sostare. Non ti attardare su questi binari che costringono e inceppano il tuo movimento. Sorpassa i più lenti e portaci avanti; portaci di fronte al nemico: siamo i baldi figli d’Italia!” Ma il treno lumaca non sentiva l’ansia dei nostri cuori frementi e continuava nel suo lentissimo moto, si indugiava in lunghissime fermate mentre sulla “carretera” che ci fiancheggiava ci sorpassavano le autocolonne dei viveri, dei materiali e dei servizi che avevamo preceduto nella partenza.

Giungemmo infine ad Albalate sul Cinca. Un prato, ancora quasi pantano per le recenti piogge e per la vicinanza del fiume, vide sorgere le nostre tende, piccole sotto gli ulivi annosi. Una minuscola cascina ospitò il vostro comandante e qualche altro ufficiale, servì di deposito per i materiali, e fu poi prima base per lo sbalzo tanto atteso. E però, per quante ore quella piccola cascina sul Cinca ospitò il vostro comandante? Una breve sosta, e poi subito al comando di Divisione per un lungo rapporto finito tardissimo; e alle prime luci dell’alba nuovamente  in piedi per la ricognizione della fronte, verso le trincee, verso quelle trincee che dovevamo presto raggiungere.

Seròs: notte del 10 dicembre

Partimmo autocarrati per Seròs nelle ore pomeridiane del 9 dicembre. A Fraga sostammo. L’autocolonna si snodava su quella magnifica strada asfaltata, in salita, a zig zag, su, verso il colle. L’accampamento dei marocchini sulle pendici opposte del monte luccicava di mille tenui luci facendo assumere a tutta la valle l’aspetto caratteristico di un villaggio zingaresco pieno di vita misera e misteriosa. A tratti qualche grido incomprensibile richiamava nell’aria l’eco quasi sinistra che si perdeva lontano nell’oscurità della valle. Anche il Cinca scorreva laggiù nel suo letto largo e pianeggiante, quasi tenue mormorio rotto solo dall’ansare di qualche motore sul lungo ponte di legno. Dato il segnale della partenza, dopo quel piccolo sogno quasi africano avvolto di mistero, durato appena mezz’ora, riprendemmo la salita, cuori e motori in forte e pulsante attività. Sul colle piegammo a destra e, fari spenti e marcia lentissima, iniziammo la discesa nell’ampia vallata del Segre. Avevamo già percorso, nel buio della sera fredda e silenziosa, oltre 100 chilometri su pessima strada, incrociando e sorpassando salmerie e qualche reparto. L’abitato ci aspettava laggiù, oscuro e silenzioso in fondo alla valle; unico segno di vita: qualche luce lontana, verso la testa di ponte. Più a valle, una mitragliatrice cantava a scatti, nella notte fonda.

La strada a mezza costa, in quasi tutto il suo percorso fangosa, difficile e ripida, rendeva la marcia lenta e pericolosa per i continui slittamenti. All’ingresso dell’abitato ci fermammo, scendemmo dagli autocarri e, materiali a spalla, proseguimmo a piedi. Attraversammo il paese: la guerra vi era passata con tutte le sue conseguenze più tristi: distruzione completa e spietata. Non una casa si era salvata: tutte levavano alte le loro informi mutilazioni nell’ombra della notte, quali braccia protese verso il cielo, su dalle macerie che ne colmavano gli interni. Nessuna traccia di vita. Silenzio tenebroso, desolazione e devastazione regnavano assolute e sovrane su tutte le cose. Oltrepassammo la piazza: un grande viale volgeva a destra, verso il ponte. Lo avevo percorso il giorno avanti. Lo rifeci quella notte, rattristato e pensoso. Guerra di Spagna, lotta di fratelli contro fratelli, qui si erano accaniti gli spiriti folli del comunismo rosso di onta e di sangue. Quale Santa vendetta andavate a compiere, o legionari d’Italia, in quella sera silenziosa, contro lo spirito immondo del male che aveva seminato strage e tormenti, pene e martirio su tutto un popolo ricco di glorie, di tradizioni e di civiltà umane e cristiane?

Cadenzato e sicuro il vostro passo continuò in quell’ora, verso l’ultima tappa dalla quale si doveva iniziare la vostra marcia trionfale. Giunti sul ponte sicuri lo attraversaste, fiera avanguardia di una più fiera Divisione che era pronta a scattare per vincere nel santo nome d’Italia!

 

CAPITOLO VI.        LUNGA VIGILIA

Nella testa di ponte di Seròs: 10-22 dicembre

Ripenso ora a voi, o legionari del “Batmo”, e vi rivedo con me, nel silenzio di quella notte oscura e piena di mistero. Vi precedevo silenzioso su quel ponte fiancheggiato a monte da sacchetti di sabbia. Mi seguivate anche voi silenziosi, uno dietro l’altro; e quando fummo tutti di là del Segre, sentimmo il nostro cuore battere come campana a martello. Dove vi portavo io, giovani pieni di ardore e di vita, avanzando nel buio della notte in fondo alla piccola valle fangosa e sassosa? Che cosa frullava nella vostra mente, quali erano i vostri pensieri reconditi in quei momenti in cui ogni passo vi avvicinava sempre più al pericolo? Sentivate vicina la trincea. La sensazione del vuoto del campo di battaglia vi prendeva, incerti sul domani; ma avevate fede nel vostro destino. Vi accovacciaste sulla terra arida e dura, sui sassi e sugli spuntoni delle piccole rocce affioranti che vi si conficcavano nei fianchi; vi arrotolaste nel telo, tra cappotto e coperta, e dormiste così il vostro primo sonno all’addiaccio, a pochi passi dal nemico che nei ricoveri blindati riposava tranquillo e inconsapevole della grande bufera che gli si addensava d’attorno.

Anche in quella notte il vostro “fratello maggiore” non dormì, ma molto camminò sul pendio del monte e sul breve pianoro, per essere certo che non aveva sbagliato; e qualcuno di voi lo accompagnò per gran tratto (Bacchetta, Mellas, buoni e fedeli compagni), finchè non si accovacciò anch’egli dietro a un muretto, in mezzo a voi, anch’egli avvolto nel cappotto grigioo-verde, tra la coperta e il telo, aspettando le prime luci del giorno. All’alba vi svegliò, e voi lo vedeste scrollarsi d’addosso – come facevate anche voi – la rugiada che lo aveva bagnato durante la notte. Vi riordinaste nei ranghi e subito vi portaste al posto assegnato.

Alacre incominciò il vostro lavoro: prima le postazioni per le armi, poi le tende, piccole casette di tela aggrappate al ripido pendio e dietro al muretto di sostegno in fondo alla valletta sistemata a terrazze. Già il sole, fugata la nebbia del grigio mattino, era salito alto nel cielo a sorridervi, e già il vostro lavoro incominciava a prendere forma e consistenza come se una piccola allegra tendopoli fosse sorta come per incanto, mimetica e irregolare. Qualcuno di voi più curioso aveva già fatto una corsa nella trincea vicinissima. La possibilità di vedere il nemico, il pensiero che eravate in trincea, il desiderio di sentire da vicino una scarica di fucileria o il canto di una mitragliatrice, vi rendeva smaniosi. Nel frattempo il nemico si era anch’esso svegliato e di quando in quando sfogava la sua rabbia con qualche tiro sul ponte o tra i ruderi del paese quasi completamente distrutto, mentre voi, tranquilli, attendevate al vostro lavoro; e alti sibilavano i proiettili che cadendo nel Segre o tra le case sollevavano immense colonne d’acqua o nuvolette di polvere grigiastra.

Il giorno successivo, qualche colpo più corto vi mise in allarme, e qualche altro, bene aggiustato nei pressi del ponte, tra il ponte e il mulino, tra il mulino e il monte, cadde e, purtroppo, colpì nel segno. Alle prime notizie, il vostro “fratello maggiore” si portò al mulino: doloroso momento quello, doloroso e penoso perché un vostro compagno, intento a tendere i fili del telefono,  era stato colpito a morte, ed un altro ferito. Fu quello il nostro primo lutto, il nostro primo grande dolore, il primo tributo pagato alla nostra grande causa.

Franchina! Forte legionario che avevi lottato in due anni di dura campagna, da Malaga a Bilbao, da Santander al Levante, tu fosti il primo compagno d’arme caduto in quella vigilia, ed il tuo nome è tuttora inciso nel nostro cuore. Ti vidi con lo sguardo immoto e la testa all’insù; il pianto mi si annodò in gola fin quasi a soffocarmi, e nello stendere sul tuo viso la rude coperta da campo, il mio pensiero volò alla tua cara mamma lontana che ti aspettava e che non ti avrebbe più riveduto! Pace a te, camerata valoroso! Coraggio, buona e cara vecchietta sperduta laggiù nel piccolo, lontano paese; tuo figlio non è ancor morto tra noi: egli vive ora la sua vita eterna nel cielo e ci aspetta lassù tra gli eroi che hanno offerto la loro balda giovinezza in olocausto alla Grande Patria immortale!

Il vostro lavoro continuò senza soste. Ultimate le postazioni incominciaste i ricoveri, poi i camminamenti, poi le strade. La pioggia cadeva fitta e penetrante, tutti i giorni. L’offensiva, predisposta per il giorno 13, dovette essere rimandata a causa delle avverse condizioni atmosferiche le quali, se pur non avessero notevolmente ostacolato il primo sbalzo, ne avrebbero certo impedito il successivo sviluppo. Foste perciò costretti a rimanere 14 lunghissimi giorni nella testa di ponte di Seròs, tra la pioggia continua ed il freddo, in mezzo al fango, martellati dal “cecchinaggio” avversario e dal tiro dell’artiglieria incessante, talvolta rabbioso, spesso efficace. Quello fu il vostro primo collaudo. A voi toccò l’alto onore di dare il primo Caduto e i primi feriti alla nostra bella e valorosa Divisione.

Si susseguivano intanto con ritmo sempre crescente le ricognizioni degli ufficiali dei reggimenti della Divisione accampati nella zona di Fraga, in attesa dell’ordine di raggiungere le posizioni di partenza.

COMANDO DIVISIONE D’ASSALTO “LITTORIO”

                                                                                                                      13 dicembre 1938

AL SIG. COMANDANTE DEL BATTAGLIONE MORTAI “LITTORIO”

Nelle mie visite al battaglione ho rilevato con compiacimento l’alto spirito combattivo che anima ufficiali e gregari. Per quanto di recente formazione dimostra già di essere della stessa tempra dei reparti che l’hanno preceduto nella lotta. L’onore di aver dato alla divisione il primo Caduto sia per i legionari del battaglione motivo di orgogliosa fierezza ed incitamento alle prove future. A tutti il mio vivo elogio.

IL COMANDANTE LA DIVISIONE

      Generale di Brigata I. G. S.

G. Bitossi

 

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vennero gli ufficiali dei “Lupi”, dell’ “Inflessibile”, dell’ “Ardente”, del “Vampa” e del reggimento d’artiglieria; curiosarono attraverso le feritoie e alzando la testa tra sacchetto e sacchetto, dissero la loro parola, concretarono il loro programma: “Di qui non si può passare” – “Di là si passa meglio” – “Laggiù c’è una mitragliatrice” – “Lassù è terreno scoperto” – “In mezzo c’è fitto reticolato”! Ma guardando la trincea avversaria protetta da fitto reticolato, vedendo il monte Farinas levarsi laggiù a sinistra, rossiccio e turrito, ogni comandante, raccolto in sé, in silenzio, pensò ai suoi prodi legionari che avrebbero dovuto scattare da quella informe trincea fangosa, sotto il tiro rabbioso delle mitragliatrici avversarie. E la sua fronte si corrugò un istante.

Su, via, fieri comandanti delle invitte legioni! Nessun triste pensiero vi prenda! Tutti i vostri baldi legionari raggiungeranno la meta nel primo eroico assalto; i loro cuori d’acciaio, temprati alle più dure battaglie, resisteranno alla corsa affannosa, e il mitragliere rosso rintanato nel suo ricovero non avrà cuore né tempo di sgranare il suo micidiale rosario poiché resterà nella tana immoto e tremante, e l’impeto dei vostri forti soldati lo travolgeranno in pochi attimi. Su, animo, forti legionari del santo “Littorio”: ci saremo anche noi nel giorno della dura battaglia, mortaisti decisi e precisi, pieni di vita e di ardore, pronti a combattere con voi fianco a fianco, pronti a seguirvi passo passo, nella vostra corsa meravigliosa; ci saranno gli artiglieri dei pezzi da 65, i quali porteranno a spalla il loro cannone e sono anch’essi decisi, forti e saldi nei cuori e nei muscoli; e cannoni e cannoni ancora più potenti; e l’Ala italiana valorosa e insuperabile, trionfante nel cielo, arditissima nella caccia, terrificante nel bombardamento! Soprattutto c’è la nostra idea gigante, la nostra immensa fede nel successo. Rasserenate la vostra fronte, fieri comandanti delle invitte legioni! Vinceremo!

Il 14 dicembre fu assegnata al “Batmo” una compagnia di mortai da 81 – “Valero” – costituita da elementi spagnoli e comandata da un ufficiale italiano: il tenente Cavazzuti Lionello. Avremo ancora occasione di occuparci di questo valoroso soldato pieno di fede e di entusiasmo e della sua compagnia. Per ora ci basti rilevare che questo rinforzo fu veramente prezioso perché i mortai “Valero” assicurarono al “Batmo” una maggiore potenza di fuoco.

Pochi giorni prima dello scatto giunsero nella testa di ponte i valorosi battaglioni del 1° e del 2° reggimento camicie nere. Accanto a noi si attendarono i “Lupi” di Olita, e con essi vivemmo gli ultimi giorni della grande vigilia, in fraterna comunione di spirito e di fede. Con loro dividemmo la scatoletta di tonno, il fiaschetto di vino, la pagnotta un po’ dura ma saporosa di grano. E sin da allora si annodarono tra noi quei rapporti di  cameratesca ed affettuosa cordialità che ci dovevano accompagnare per tutta la campagna.

O fratelli del “Lupi”, come vi ricordo ancor oggi pieno di commozione e di fede. Come vorrei ancor oggi, coi miei bravi mortaisti, tornare accanto a voi e combattere insieme quest’altra più dura battaglia che ci affrancherà nel Mare Nostro! Come vorrei ancor oggi confondermi con voi nell’impeto dell’assalto (a quota 806 di Santa Coloma de Queralt!), mortaisti e mitraglieri, fianco a fianco, camicie nere e soldati, compagni d’arme legati da una grande fede e dall’entusiasmo vivissimo, sotto il segno del sacro “Littorio”. Ma i lunghi giorni d’attesa passarono, e l’alba fatidica giunse in quel radioso mattino di dicembre, col rombo del cannone e dei motori nel cielo, con l’ardore degli animi e l’entusiasmo che traspariva dagli occhi pieni di speranza, di augurio, di fede, di grandissima fede!

 

CAPITOLO VII.       I “LUPI” ALL’ASSALTO

L’abbrivo eroico: mattino del 23 dicembre

La nostra bella e gloriosa Divisione d’Assalto “Littorio” scattò dalla testa di ponte di Seròs il mattino del 23 dicembre. Schierati per ala – 1° reggimento a destra, 2° a sinistra, battaglione mortai col 2° reggimento – la Divisione d’Assalto “Littorio” si era ammassata nella piccola testa di ponte. Affilate le armi, temprato lo spirito, volitiva e possente, si sentiva ed era pronta ad affrontare un nemico che appariva sempre più tenace, forte e deciso a non cedere.

I nove battaglioni che la costituivano – camicie nere e intrepidi soldati reduci di cento battaglie, giovani mortaisti pieni di vita, di entusiasmo e di fede, artiglieri sempre pronti al sacrificio per l’arma sorella – si erano raccolti attorno al loro fiero e valoroso Comandante decisi a lottare in continua gara di valore, ardimento e tenacia, per superarsi a vicenda; e nell’impeto irresistibile e travolgente, ebbero un’anima sola, una sola fede, una sola forte volontà: vincere! Noi non possiamo seguire tutta quella eroica giovinezza nella sua corsa magnifica verso la grande vittoria. Non possiamo seguirla – ed assai ce ne duole – perché non potremmo adeguatamente parlare degli eroismi compiuti a Blancfort, a Santa Coloma de Queralt e in tutti gli altri gloriosi combattimenti cui prese parte. Nulla potremmo dire infatti dei valorosi reparti che sotto la guida di un fiero comandante – il colonnello Gloria – marciarono sempre di vittoria in vittoria, perché non fummo accanto a loro nei momenti culminanti dell’epica lotta, e solo da lontano ci giunse l’eco dell’ardore col quale la condussero e del valore che in essa dimostrarono. Altri e più degnamente assolveranno questo grande debito di gratitudine e di onore; e perciò noi torniamo ora ai mortaisti ed ai “Lupi” nostri valorosi camerati, anch’essi insuperabili combattenti.

Gran tempo è ormai trascorso da quel memorabile giorno, eppure, ancor oggi, a due anni di distanza, balza ancora nella mia mente vivo il ricordo di quelle ore indimenticabili. Vi svegliaste di primo mattino e foste pronti assai prima dell’ora stabilita. Anche i “Lupi” avevano raggiunto il loro posto di battaglia compatti e pronti nei ranghi, mano ai pugnali.

Alle 8 incominciò la battaglia.  I cannoni lanciarono sulle posizioni avversarie un numero infinito di proietti di ogni calibro. Gli aerei condussero la loro sarabanda nel cielo e rovesciarono il loro pesantissimo carico. I pezzi da 65 imboccarono con inesorabile precisione tutte le feritoie e martellarono la trincea nemica in tutta la sua lunghezza. I mortai lanciarono ininterrottamente tutte le bombe che erano state approntate e che, piovendo dall’alto, silenziose e terribili, frantumarono ricoveri, schiantarono paletti, aprirono varchi nel fitto reticolato, mentre i “Lupi” sostavano silenziosi in agguato. Alle 10 apparve ancora nel cielo una pesante formazione da bombardamento. Procedeva rumorosa ma lenta ed appariva visibilmente stracarica. Sorvolò l’abitato di Seròs ed il fiume, passò sulle nostre teste, si spinse alquanto sul cielo nemico volteggiando come fa il falco quando scorge la preda, ed assunse formazione di attacco. Le squadriglie, rumorose e possenti, si incolonnarono una dietro l’altra abbassandosi a tal punto che si scorgevano i bombardieri sporgersi dalle cabine. Giunsero sulla trincea avversaria, sulle linee dei rincalzi, sui ricoveri; rovesciarono il loro carico di bombe e subito cadde dal cielo come una immensa grandinata micidiale e terribile. Lo schianto che ne seguì fu spaventoso! La terra sussultò fortemente, ed anche i nostri cuori tremarono sotto l’impressione di quell’inferno che non accennava a diminuire d’intensità. Le squadriglie, succedendosi e alternandosi con precisione impeccabile, volarono ininterrottamente, lente, inesorabili per oltre mezz’ora rovesciando bombe e seminando distruzione e morte. Intanto a terra, i reparti ed i carri erano pronti sulle posizioni di partenza.

L’artiglieria avversaria martellava anch’essa con tiri precisi le nostre trincee, e tutto il campo di battaglia, tra il sibilo acuto e stridente dei proietti, nell’immenso fragore delle esplosioni, assumeva l’aspetto di un immane sconvolgimento tra cui brulicava uno sciame di uomini in arme. E questi uomini a un tratto, subentrato come per incanto il silenzio, su tutte le cose, all’infinito fragore delle armi, scattarono come leoni da lungo tempo in agguato. Fu un attimo! Inebriati dalle note solenni della fanfara che Oliveti aveva trascinato lassù, nell’esaltazione di quel grido che conosce tante vittorie: “Savoia” – “Italia” – “Savoia” – “Italia”, le camicie nere del “Vampa” e i “Lupi” di Olita, più vicini a noi, ci apparvero veramente insuperabili nel loro eroismo, nella loro intrepidezza.

Vi ammiro tanto, o balde camicie nere del “Lupi” e del “Vampa” in quell’assalto meraviglioso che mi ricordava quelli epici del Carso, che trascinato dal vostro slancio irresistibile balzai anch’io sulla trincea gridandovi con tutto il cuore e con tutta la forza dei miei polmoni, la mia parola di incitamento e di fede! E subito, Cavagliano in testa, mortai a spalla, vi seguimmo nell’avanzata travolgente!

Così ebbe inizio la nostra corsa trionfale che insieme avremmo concluso, o fieri e valorosi figli d’Italia, che sempre più in alto portaste il vostro glorioso gagliardetto, se la sorte mi fosse stata più propizia. Non mancò tuttavia a Gerona al vostro fianco il vessillo dei miei valorosi mortaisti ai quali, nel lasciarli perché forzato dal destino, avevo dato una consegna: osare, combattere e vincere nel nome d’Italia.

 

CAPITOLO VIII.      DA SERÒS A COGULL

“Siamo sulla Sierra Grosa”: pomeriggio del 23 dicembre

Dopo l’abbrivo eroico, il passo di marcia dei forti battaglioni della “Littorio d’Assalto” continuò ininterrottamente per diversi giorni. Scavalcata la trincea di partenza e superata in una velocissima corsa la “striscia azzurra” e i reticolati frantumati tra i paletti divelti, i legionari di Roma piombarono come fulmini sulla trincea nemica annientandone i difensori a colpi di bombe. Si lanciarono poi contro i rincalzi e li travolsero con impeto irrefrenabile. Si spinsero quindi più oltre, sempre più oltre. Il battaglione mortai seguì i “Lupi” in stretto contatto; giunse sulle batterie nemiche , le oltrepassò. Fu più volte investito da intense raffiche di mitragliatrici annidate in ogni piega del terreno e nei cespugli, ne ebbe sempre ragione ed avanzò con impeto gareggiando in ardimento con gli altri reparti. Giunse coi primi sulle pendici ovest della Sierra Grosa, obiettivo della giornata per il 2° reggimento camicie nere. Prese postazione: era in testa la compagnia mortai “Valero” comandata da Cavazzuti. Questo magnifico reparto spagnolo agli ordini di un ufficiale italiano deciso e prontissimo di spirito e d’intelligenza, appostò i suoi mortai in una piccola piega del terreno sulle pendici della Sierra Grosa fronte a nord.

Una forte colonna nemica sostava sulla strada in fondo alla valle: erano oltre mille miliziani visibilmente indecisi e sorpresi di trovarsi di fronte ai legionari italiani. Dopo un fallito tentativo di indurli alla resa, Cavazzuti aprì il suo fuoco precisissimo. Sotto gli effetti micidiali di quell’inferno di bombe, lo sciame disordinato di uomini sbandati si mise in fuga precipitosa cercando riparo dietro le case e dietro il costone. Sopraggiunse intanto la 2a compagnia – Cronia – ed anch’essa appostò le sue armi, di più lunga gittata. Intanto il nemico tentava di riordinarsi, ed iniziava una violenta reazione. Il tiro delle sue mitragliatrici, in un primo tempo lungo e disordinato, divenne preciso e quasi continuo. Fu in questa prima giornata di battaglia che rifulse il valore di un nostro modesto compagno. Non possiamo non ricordarlo ora, con vera commozione.

Povero e caro tenente Marotta! Giunse tra noi a Tarquinia e la sua anima buona e generosa, il suo carattere mite ci avevano fin dal primo momento colpito. Chiuso spesso in sé, durava fatica a prender parte all’allegra brigata degli spensierati subalterni del “Batmo”; ma allorché, vinta la prima incertezza, riusciva a confondersi con gli altri nel coro forte e vigoroso, la sua voce diveniva calda e appassionata. Era spesso pensoso e taciturno, forse perché presentiva la sua sorte. E infatti, subito lo perdemmo: proprio il primo giorno! Inesorabile fu il suo destino! Sulle pendici di quel tristo monte, tra un’arma e l’altra sempre in piedi incitando, esortando, la inesorabile pallottola che lo colpì al petto attraversandogli il cuore, gli lasciò soltanto pochi istanti di vita per rivolgere il pensiero alla sua casa lontana, alla sua mamma che lo aspettava silenziosa ed affranta nell’attesa angosciosa. Il suo capitano – compagno e fratello anche lui – stringendolo tra le sue braccia tremanti, raccolse il suo ultimo respiro; i suoi mortaisti gli fecero per un istante corona…ma subito furono ripresi dall’ardore della lotta e trascinati lontano dall’impeto dell’assalto che progrediva verso la vittoria. Ed oggi, ricordando il passato, essi ripensano a lui e lo ricordano con commozione, perché lo conobbero buono e generoso, pieno di fede e di entusiasmo, valoroso ed audace. Povero e caro tenente Marotta! Anch’io ricordandoti sono oltremodo commosso, e un solo pensiero mi tormenta, un solo rimpianto mi accora perché sento che anche tu, come me, tuo “fratello maggiore”, non sei riuscito a vedere in pieno viso, nell’ebbrezza della corsa vittoriosa, la nostra completa vittoria, fulgida e smagliante. Oggi tutti ti sentiamo ancora qui con noi! Legionari del “Batmo”, innastate le baionette, presentate le armi e rispondete a gran voce all’appello: 

– Tenente Marotta! – Presente!

Nel tardo pomeriggio del 23 dicembre giungemmo sulla Sierra Grosa. Il tenente colonnello Oliveti, fiero e valoroso comandante del 2° reggimento camicie nere, installò la radio e iniziò la trasmissione delle sue notizie: “Pronto – Pronto” – “Parla – Fernando – Parla – Fernando” – “Siamo – sulla – Sierra – Grosa” – “Siamo – sulla – Sierra – Grosa” – “Prego – dire – a – Gervasio – che – siamo – sulla – Sierra – Grosa” – “Passo – Passo”. Lenta , continua, la voce di Oliveti scandiva e ripeteva le parole come se ogni sillaba fosse il colpo di un martello su di una grossa campana: “Siamo – sulla – Sierra – Grosa” – “Dire –a – Gervasio – che – siamo – sulla – Sierra -  Grosa”!

Anche su questo monte i due battaglioni di primo scaglione presero posizione, ed anche noi ci disponemmo accanto ai “Lupi” con le nostre armi e le nostre bombe. Bisognava trascorrervi la notte: la colonna di miliziani che avevamo disperso in fondo alla valle avrebbe certamente tratto profitto dalla inevitabile sosta notturna per riordinarsi e contrattaccare. Bisognava perciò essere pronti a sostenere l’urto e, soprattutto, essere decisi a fronteggiarlo e respingerlo.

Fu una notte tempestosa! Verso le ore 23 i miliziani fecero il primo tentativo. Il fragoroso scoppio delle bombe a mano, l’incessante crepitio delle mitragliatrici, rivelò subito l’accanimento della lotta. Lontano da noi, un po’ più indietro, sulla sinistra, il battaglione “Inflessibile” era rimasto a presidiare il primo vertice alto ed aguzzo della Sierra Grosa e, attaccato anch’esso, resisteva meravigliosamente. Se avesse ceduto, saremmo stati tagliati fuori. Accanto a noi il “Lupi” sosteneva gli attacchi senza sparare una fucilata: quei meravigliosi soldati restavano impassibili, aspettavano il nemico a tiro di bomba, e poi, già a tutto braccio, lo fulminavano e lo respingevano inesorabilmente. Sette volte, in quella notte oscura e tenebrosa, l’avversario rinnovò gli attacchi sempre più accanitamente, sempre con maggiore tenacia, e sette volte fu nettamente respinto. Anche noi lanciammo tutte le nostre bombe, ed anche qui la compagnia di Cavazzuti fu insuperabile. Più largamente dotata di bombe, iniziò il suo tiro per prima e le faville che sprizzavano alte nel cielo, dall’anima dei potenti mortai nel momento del lancio, si susseguivano con celerità impressionante. Allora e sempre queste armi si dimostrarono preziose e ben a ragione oggi quasi tutti gli eserciti ne sono largamente forniti. Risolto il problema del rifornimento delle munizioni, esse hanno provato di poter sostenere in qualunque terreno un ruolo importantissimo nella battaglia offensiva, ed ancor più in quella difensiva. Su posizioni bene scelte, tirarono lungamente senza che l’avversario riuscisse ad individuarle. Il loro tiro, sempre a massa, dopo pochi colpi di aggiustamento, si dimostrò sempre efficacissimo nel campo materiale e, soprattutto, in quello morale. L’arrivo delle bombe, non preannunziate da alcun sibilo, il forte angolo di caduta che le fa giungere in ogni angolo morto, come grandine improvvisa, micidialissima, il potere dilaniante dell’esplosivo adoperato, rende questi effetti sempre più deprimenti, sempre più spaventosi.

Questa breve dissertazione ci sarà certamente perdonata dai nostri cari mortaisti per diverse ragioni: prima fra tutte quella che noi stessi constatammo questi effetti, di fronte al Casone bianco oltre Cogull, il giorno in cui ci attendammo in quel terribile vallone della morte, seminato di cadaveri. Ed anche perché questi effetti materiali e morali ci furono poi pienamente confermati dalle ripetute dichiarazioni dei prigionieri, i quali apparivano tutti profondamente demoralizzati e terrorizzati dai nostri mortai.

Il rancio tra gli ulivi: 24 dicembre

Verso le 4 del mattino i miliziani tentarono il loro ultimo contrattacco che fu, come tutti gli altri, sanguinosamente respinto. Poi aspettarono le prime luci del giorno. Assai breve fu la loro attesa perché rapida ed improvvisa una colonna di carri veloci giunse alle loro spalle e pochi poterono salvarsi dandosi a fuga precipitosa. Balzammo anche noi subito all’inseguimento, e molto proseguimmo oltre la strada di Sarroca. Un reparto del 2° reggimento camicie nere occupò Torrebeses. Sul pianoro ad ovest di questo abitato, tra lunghi filari di ulivi, distribuimmo in gran fretta il rancio che l’infaticabile Foscarini ci aveva portato. Ma da dove era venuto, quale strada aveva percorso questo insuperabile ragazzo per giungere fino a noi in quel giorno così movimentato? Come aveva fatto a trovarci? Nessun altro reparto aveva toccato cibo dalla mattina del giorno precedente. La corsa che avevamo compiuto, oltre ogni ottimistica previsione, ci aveva molto allontanato dalla testa di ponte; eppure i nostri cucinieri, i nostri muli, ora prima, ora dopo, erano giunti tra una sosta e l’altra del combattimento e ci avevano portato una gavetta di brodo, un pezzo di carne, una pagnotta, una scatoletta di tonno o di sardine. Quanti miracoli compì questo bravo ufficiale aiutato dall’infaticabile Cattapan improvvisato cavaliere sul mio bucefalo sempre inquieto. Entrambi resistentissimi, sempre decisi a raggiungerci a costo di qualunque sacrificio, a costo di qualunque fatica; scendevano e risalivano vallate, attraversavano boschi di ulivi e di mandorli, saltavano fossi e trincee, esploravano case e villaggi, riconoscevano piste e sentieri, e giungevano a noi in qualunque ora del giorno o della notte, a sera o al mattino, portando pane e sigarette, minestrone e vino; ogni giorno, tutti i giorni, immancabili, insuperabili.

Consumato in pochi momenti quel rancio inaspettato, riprendemmo la corsa con rinnovata lena. A tarda sera giungemmo e sostammo su un altro pianoro a nord ovest di Torrebeses, su cui ci disponemmo a difesa. Cronia trovò una piccola grotta sotto un enorme masso sulle pendici del colle, quasi sotto il ciglio del pianoro. L’ampliammo con un piccolo scavo e lì ci accingemmo a passare la notte. Olita schierò i suoi “Lupi” in quadrato, e fece l’appello dei suoi caduti. Passarono davanti a noi le figure dei valorosi compagni e il rito, eseguito sul campo di battaglia, di fronte al nemico, si svolse come in un ambiente di solenne e commossa intimità. Raccolti in silenzio, chiusi nei nostri pensieri più cari pensammo anche noi ai nostri poveri morti: Franchina e Marotta, e rivolgemmo a Dio la nostra silenziosa preghiera.

 

Il miracolo di Grañena: 25 dicembre

La notte trascorse silenziosa e tranquilla. Nelle prime ore del giorno proseguimmo la nostra avanzata. In vista di Grañena scorgemmo sulla destra le pattuglie del 1° reggimento che lente proseguivano sotto il tiro avversario. Una breve sosta del combattimento consentì al colonnello Gloria di rinforzare l’attacco, e qualche colpo di artiglieria bene aggiustato favorì il movimento e condusse i nostri tra le prime case dell’abitato. A un tratto ci parve, tendendo l’orecchio, di sentire un suono dapprima indistinto, come di campane a distesa. Erano infatti le campane della piccola chiesetta di Grañena che, sfuggite per miracolo alla furia devastatrice dei rossi, suonavano a stormo. Ma che cosa era successo?

Fu questo uno dei tanti magnifici e commoventi episodi della guerra di Spagna: una nostra pattuglia, riuscita ad infiltrarsi tra le difese avversarie, aveva raggiunto la piccola chiesetta, e qualcuno più ardito, scorgendo quelle campane, si era lanciato su pel campanile e afferratosi a quella corda, si era dato a suonare a gran festa. La solenne voce di Dio si diffondeva così, misticamente, alta nel cielo, chiamando a raccolta il popolo cristiano e fedele, nella località liberata. E mentre i nostri occhi si velavano di lacrime, quell’inno sovrumano di speranza e di fede si spandeva nell’aria e diceva, e ripeteva: “Salute, salute, o popolo di Grañena! Corri alla tua casa libera alfine! Corri alla tua chiesa sulla piccola piazza e prega a gran voce, in ginocchio. E pregando ringrazia la Santissima Vergine benedetta e Dio Onnipotente: la Sua giustizia giunge sempre, sicura, immancabile”.

Il suono di quelle campane ci aveva tutti profondamente commosso. Il pensiero che un legionario italiano aveva compiuto quel gesto, arrampicandosi su quel campanile per diffondere da lassù la voce di Dio al di sopra della furia degli uomini, ci rese alquanto pensosi. Sì, era proprio il miracolo che si compiva in quell’ora, era proprio il volere di Dio che affidava ai legionari di Roma la Santa missione di riportare la fede cristiana nelle case e nelle chiese devastate dall’orda bolscevica.

Cessato il pio rintocco di quelle campane e passato quell’istante di raccoglimento e di commozione, il nostro cuore si riscosse e la nostra volontà più forte si protese verso la meta ancora lontana. Avanti, ancora avanti, o legionari d’Italia, oltre Grañena vi aspettano numerose le città e i villaggi, e molto popolo chiede ancora ed attende di essere libero ed uno, sotto il sacro e glorioso vessillo della nuova Spagna risorta! Avanti, avanti, o legionari d’Italia, dura lotta ancora vi attende e lunga è la strada per giungere al mare. Avanti, sempre più avanti, sempre più oltre! Correte, e in corsa affannosa portate sempre più in alto i vostri gloriosi vessilli, segni della Patria Imperiale, segni di Roma immortale!

Nel tardo pomeriggio giungemmo sotto ad un cocuzzolo che per la strana forma di naso schiacciato aveva suscitato la nostra ilarità appena si era profilato all’orizzonte, sullo sfondo azzurro del cielo. Anche questa notte trascorse abbastanza tranquilla, e fu buona vigilia per l’accanita battaglia del giorno seguente.

 

Cogull: 26 dicembre – 1 gennaio

All’alba del 26 dicembre riprendemmo il movimento verso Cogull. Compito del 2° reggimento  camicie nere era: occupare Cogull, sorpassare il rio Set e costituire una testa di ponte sul M. Forcas. Sulla destra avrebbe operato il 1° reggimento, con obiettivo M. Fosca. Inizialmente l’avanzata proseguì con relativa facilità, contrastata solo da qualche nucleo di mitraglieri rossi abilmente appostato; non appena però giungemmo in vista dell’abitato, la resistenza divenne consistente e tenace. Le forze rosse, solidamente stabilitesi sulla destra del Set, ci aspettavano decise a non cedere. Dal Farcas e dal Fosca dominavano il fiume e una larga zona di terreno ad ovest dell’abitato. Numerose mitragliatrici sventagliavano intense, rabbiose e continue raffiche sui campi, sulle strade, ovunque si muovesse un uomo, un mulo, un portaordini; ma l’ardimento delle camicie nere di Oliveti non conosceva ostacoli. Soffermatisi infatti pochi momenti in vista di Cogull, osservate le posizioni nemiche e concretato il loro piano, con azione fulminea si lanciarono ai margini dell’abitato, li sorpassarono, giunsero sul Set, corsero al ponte e, trovatolo intatto, saltarono pronti sull’altra riva.

Frattanto le artiglierie avevano preso postazione ad ovest di Cogull. In pochi momenti scatenarono un uragano di fuoco preciso contro le batterie avversarie e contro le mitragliatrici di quota 318, proteggendo le valorose camicie nere che già si erano arrampicate sulle pendici scoscese e rocciose del Forcas e incominciavano a giungere in vetta.

E il “Batmo”? Il “Batmo” scrisse in quel giorno un’altra pagina gloriosa. Aveva già distaccato la compagnia mortai “Valero” in appoggio al 1° reggimento che doveva operare sul Fosca, ed ora sostava con le altre compagnie ad ovest di Cogull in attesa di ordini. Ma mentre si accendeva il combattimento per la conquista dell’abitato, il suo comandante, accompagnato dall’aiutante maggiore e da un fido portaordini, aveva raggiunto il comando del 2°camicie nere per sollecitare l’impiego dei mortai. Oliveti osservava il movimento dei suoi valorosi legionari dal muretto interno di una cascina già colpita da tiro avversario. C’era con lui Albanese, l’intrepido aiutante maggiore, che lo seguiva ad ogni passo, e Nicoletti, valoroso subalterno destinato a sgambettare spesso da un battaglione all’altro, a portare il pensiero del comandante. L’attacco, dopo il primo impeto, sostava un momento per riprendere lena e vigore. Gli ordini che ricevetti furono brevi e precisi, chiari ed inequivocabili: “appoggiare l’azione che si sarebbe ripresa fra mezz’ora”.

Mezz’ora è un tempo lunghissimo per chi deve sostare sotto il fuoco delle artiglierie nemiche. Mezz’ora è un’eternità se sulle teste fischiano le raffiche delle mitragliatrici e sibilano i proietti del rabbioso tiro avversario. Il “Batmo” è chiamato ancora ad aiutare i compagni d’arme nell’assalto furioso, dando sul campo di battaglia la sua cameratesca ed efficace collaborazione che tanto contribuirà alla vittoria. Dal punto dove sosta non può assolvere il suo compito. Le balde camicie nere dell’ “Ardente”, già appollaiate sulla quota 318 e sul Forcas tra roccia e roccia, pronte allo scatto, attendono che i mortai con il loro tiro micidiale spianino la strada. E allora, avanti, o fieri mortaisti, raggiungiamo i nostri compagni d’arme su quelle aspre pendici. Portiamo lassù a spalla i nostri mortai e le nostre bombe, e accanto a loro, fianco a fianco, nel fragore della mischia, cogliamo anche noi la nostra vittoria. Che importa se nell’attesa la mitraglia avversaria ha ferito un altro nostro compagno, il sottotenente Lochner? Che importa se la zona da attraversare è fortemente battuta? Bisogna discendere in fondo alla valle del Set, passare il fiume, risalire il ripido pendio del monte e serrar sotto ai fieri battaglioni del 2° reggimento per sostenerli e proteggerli. Voi non conoscete tentennamenti od ostacoli, la vostra decisione è pari al vostro ardimento.

Il movimento in avanti si svolse con celerità, sotto il tiro nemico perché la strada e le adiacenze di essa erano battute dall’artiglieria e dalle mitragliatrici avversarie. Pallottole e proietti piovevano con intensità sempre crescente sulla strada, attorno alle postazioni delle nostre artiglierie accanto alle quali dovevamo sfilare, attorno a voi mortaisti infaticabili e pieni d’ardore. Ma quell’ardore subì, come a Seròs, un altro duro collaudo. Un proietto rabbioso colpì in pieno un plotone della 2a compagnia! Fu un tonfo cupo e sinistro. Alcuni camerati caddero, ma gli altri proseguirono e tutti passaste davanti a me, alta la fronte, fieri ed orgogliosi di aver pagato anche in quel giorno il vostro prezioso contributo di sangue. Raggiungemmo l’abitato, lo oltrepassammo, scendemmo in fondo valle e attraversammo il fiume, alcuni sul ponte, altri a guado. Il nemico continuava a battere il versante opposto, l’abitato, la strada, ma noi eravamo già accanto ai nostri valorosi compagni dell’ “Inflessibile” e dell’ “Ardente”, e la gragnuola delle nostre bombe non tardò a flagellare il nemico ostinato.

La tenacia e l’impeto dei due battaglioni attaccanti ebbero così presto ragione dell’avversario che sgombrata la quota 318 e la vetta del Forcas, ripiegava al di là del monte ed oltre la valle, sul costone successivo. Davanti a noi un Casone bianco, a sinistra, oltre il costone, rifletteva le ultime luci del sole al tramonto, mentre intorno ad esso e sul rovescio cadevano le nostre bombe precise, fragorose negli scoppi, terribili negli effetti. Fu davanti a questo imponente spettacolo che scese lenta la notte, appena rischiarata dal raggio della luna nascente.

La notte trascorse relativamente tranquilla sulla nostra fronte; sulla sinistra, invece, reparti della “Divisione Frecce Nere” condussero numerosi combattimenti a colpi di bombe. Gli attacchi susseguentisi con impressionante frequenza, e lo spostarsi delle zone degli scoppi delle bombe, ora in avanti, ora più indietro, visibile nella notte buia dopo il tramonto lunare, rivelavano le alterne vicende della lotta e gli accaniti contrattacchi a volte riusciti, a volte ributtati. Anche sulla destra il 1° reggimento continuò a battagliare tutta la notte e nessuno pensava allora  quanto sarebbe durato quel doloroso calvario per quei valorosi. Ma di questo parleremo più avanti.

L’indomani Oliveti spinse i battaglioni “Inflessibile” e “Ardente” ancora più oltre, sul costone successivo, e noi assistemmo allo sbalzo meraviglioso di quegli eroici soldati, instancabili e insuperabili: li vedemmo sfilare in fondo alla valle, risalire l’opposto versante senza sostare un minuto, sempre combattendo accanitamente, con grande valore. Noi li seguimmo, a scaglioni, trascinati da quell’impeto travolgente, inserendoci tra l’uno e l’altro battaglione, sulla nuova posizione più vicina al Casone bianco. Appostammo i nostri mortai ed iniziammo subito il nostro fuoco preciso, confondendoci in linea con le valorose schiere del 2° reggimento delle quali già ci consideravamo parte integrante.

Su quel gradino di roccia, a pochi passi dalla linea delle vedette, vedette anche noi su quell’estremo lembo di terra spagnola riconquistata, ci sentimmo tutti veramente fratelli, accomunati nello stesso pericolo e nella stessa sorte, animati dalla stessa immensa fede nella sicura vittoria. L’ “Ardente” aveva subito perdite considerevoli: anche il comandante centurione Swich, che aveva sostituito il seniore Giombini gravemente ferito, camminava tra i suoi soldati, sulle primissime linee, col braccio al petto, ferito e ancora sanguinante. Fu perciò necessario sostituire l’ “Ardente” col “Lupi”.

Sostammo su quella posizione, accanto al “Lupi” fino alla notte sul 2 gennaio, e tutte queste giornate trascorsero in una atmosfera di eroismo e di sacrificio. Nei giorni precedenti, il nemico, eseguito uno sbalzo indietro brevissimo, aveva imbastito una forte difesa sulla linea Aspe-Casone bianco-monte Fosca. Sulla vetta di questo monte il 1° reggimento, che d’impeto l’aveva strappato al nemico nell’assalto eroico e sanguinoso del giorno 26, era stato costretto a sostare a breve distanza delle trincee avversarie, continuamente battuto dalle artiglierie che incrociavano il tiro su quelle terribili quote. Sulla nostra fronte i contrattacchi si ripetevano con frequenza e intensità sempre crescente. Scorgevamo i rossi venire da lontano, serrar sotto, lungo i filari degli ulivi a nord ed a nord ovest del Casone, ammassarsi, riordinarsi in fondo valle e buttarsi poi disperatamente all’attacco falciati dalle nostre mitragliatrici, battuti fin dal primo apparire dalle nostre bombe, dalla nostra artiglieria, inesorabilmente ributtati sulle posizioni di partenza.

Pur tra l’ardore della lotta, quei giorni di sosta ci rinfrancarono alquanto. Riordinammo le file, ci rifornimmo di bombe e ricostituimmo le nostre riserve predisponendoci ad un nuovo sbalzo. Le autorità spagnole ci avevano fatto pervenire i doni di Natale. Li distribuimmo ai soldati, ed ognuno di essi ebbe il suo pacchetto. Foscarini ci portò vino, sigarette, cioccolata, e il buon panettone che il comando C.T.V. aveva fatto venire dall’Italia. Genovesi, attivissimo comandante della compagnia comando, direttore di mensa e di tutti i servizi del battaglione, ci portò tra l’altro qualche bottiglia di liquore che ci fu molto gradita.

Il giorno 29, una comunicazione del Comando della Divisione ci avvertì che “Gervasio” attribuiva somma importanza ad un intervento dei mortai per alleviare la pressione di fuoco che il nemico continuava ad esercitare sui reparti del 1° reggimento, sulle posizioni del monte Fosca. Prendemmo subito contatto col 1° reggimento. La distanza che ci separava non ci consentiva di battere le posizioni nemiche che fronteggiavano il Fosca. Già su questo monte la compagnia Cavazzuti si era duramente impegnata ed aveva anche dato largo contributo di sangue. Mi portai sul Fosca con Brunori e il mio portaordini. Trovammo il comandante del 1° reggimento sotto una piccola tenda triangolare dietro un muretto alto circa un metro, sotto alla sella tra le due quote del monte. Era con lui Bugliarello, suo “valiente” Aiutante maggiore. I proietti avversari giungevano numerosissimi. Screstavano tra la sella sibilando sinistramente, cadevano nella valletta sottostante satura di muli e di soldati, colpivano inesorabilmente seminando la morte. Da sei giorni lunghissimi il 1° reggimento era sottoposto a questo duro e continuo martellamento, e numerose furono le vittime in uomini e quadrupedi. Basterebbe questo solo periodo, questo grave sacrificio di sangue per dare gloria imperitura a questo valoroso reggimento.

A noi che sostammo soltanto poche ore vicino a quella piccola tenda del comandante, tra quell’infernale susseguirsi di proietti, apparve urgente la necessità del nostro intervento per cercare di alleggerire, se non eliminare del tutto, la forte pressione avversaria. Offrimmo quindi con spirito di spontanea ed assoluta dedizione al dovere, di trasferirci lassù con tutti o buona parte dei nostri mortai per rispondere con maggiore intensità ed efficacia alla furia rabbiosa dell’avversario. Il colonnello Gloria ce ne dispensò, e noi, tornati al nostro posto accanto ai “Lupi”, riferimmo a Gervasio gli accordi che … non avevamo preso, e non potemmo che rinnovare la nostra offerta di pronta ed assoluta collaborazione. Ma la cosa non ebbe alcun seguito, e noi restammo di fronte al Casone bianco coi “Lupi”, nella vigile attesa di riprendere la vittoriosa avanzata verso est, che avrebbe certamente determinato il ripiegamento avversario anche dalla zona del Fosca.

Gli ordini per la ripresa dell’attacco ci giunsero la sera del 30 dicembre. Avremmo così dato l’addio all’anno che moriva  in un fragore di armi. Però, il mattino successivo ci riserbava un’amara delusione. Avevamo appena iniziato il movimento, allorché ci pervenne l’ordine di tornare indietro e riprendere la dislocazione precedente, in attesa di nuovi ordini. Frenati gli entusiasmi e smorzato l’impeto dell’assalto che avevamo ritenuto imminente, ritornammo coi “Lupi” al posto che avevamo lasciato, ed ivi sostammo fino al giorno seguente. 

 

CAPITOLO IX.        DA COGULL A FORÉS

 Sosta a Grañena: 2-3 gennaio

 Nella notte sul 2 gennaio, le “Frecce azzurre” sostituirono la Divisione d’Assalto “Littorio” sulle posizioni davanti al Casone bianco e sul monte Fosca. I reparti della Divisione ripiegarono così nella zona di Grañena, dove avrebbero dovuto restare alcuni giorni a riposo. La compagnia di mortai “Valero”, che aveva perduto il suo comandante – ferito nell’azione del giorno precedente, e sostituito dal tenente Aprea – rimase a disposizione della Divisione “Frecce azzurre”. Il “Batmo” si attendò nei pressi del km. 17 sulla strada di Grañena. Non aveva però ancora sistemato il suo accampamento quando giunse, il 3 gennaio, il preavviso di tenersi pronto a partire il giorno successivo. Ci eravamo orientati, bisogna sinceramente confessarlo, verso un riposo ristoratore di qualche notte, e invece, ecco che dovevamo riprendere il passo di marcia. L’entusiasmo dei primi giorni non era peraltro ancora sopito in noi, tanto che molto a malincuore avevamo ceduto il nostro posto alle “Frecce azzurre”, anche perché l’andamento della battaglia si era manifestato sin dal primo momento particolarmente favorevole e prometteva grandiosi risultati.

 

Verso Albi e Vinaixa: 4-8 gennaio

 Il mattino del 4 riprendemmo la marcia con rinnovato entusiasmo. La prima nuova tappa ci riportò davanti al Casone bianco. Nel frattempo, la Divisione “Frecce azzurre”, che ci aveva sostituito, era riuscita, il 3 gennaio, a ricacciare l’avversario e così noi potemmo serrar sotto, sul rovescio delle posizioni che avevamo fronteggiato nei giorni precedenti, e constatare gli effetti che il nostro tiro aveva prodotto tra le file nemiche.

Numerosi giacevano i morti, irrigiditi nelle pose più strane: taluni colti  all’improvviso nel fosso della trincea appena scavata, altri mentre si slanciavano in corsa all’assalto, e perciò curvi in avanti, col fucile sul fianco, accanto al braccio o nella mano che lo stringeva ancora, anch’essa irrigidita; altri ancora col busto all’indietro e il volto al cielo, contratto e deforme; altri ancora stringevano nella destra la bomba a mano che non erano riusciti a lanciare; altri infine sostavano rannicchiati in gruppo, forse attorno a qualche mitragliatrice o a qualche mortaio che le casse vicine, di proiettili e bombe, piene ed intatte, rivelavano poco o nessun impiego.

E i feriti? Quanti erano stati i feriti? Quanti erano corsi al riparo dietro quel piccolo salto di roccia affiorante tra le zolle erbose, e vi avevano trovato invece i compagni caduti, e avevano sostato accanto ad essi in attesa che il nostro uragano cessasse? Era la guerra, nella sua realtà tragica, talvolta fatale! Al segnale dell’assalto nemico i mortai già puntati con estrema precisione, lanciavano le bombe che salivano altissime nel cielo per poi ricadere silenziose sulle posizioni avversarie a seminarvi la distruzione e la strage.

 Il 5 mattino lasciammo quella triste zona e ritornammo a Cogull per risalire la vallata del Set. Marciammo fino a sera su quella strada di fondo valle, al seguito della Divisione “Frecce” che procedeva a gran tappe vittoriose. Verso le ore 19 giungemmo a Cervia, dove pernottammo attendati ad ovest dell’abitato. Il mattino successivo riprendemmo a marciare. I rossi continuavano a cedere di fronte alla nostra forte pressione. Dove ci avrebbero opposto resistenza? Dove si sarebbero fermati per ostacolare il nostro vittorioso cammino?

La sera del 6 sostammo ad est di Albi, nei pressi di una piccola casetta abbandonata, addossata al monte, tra gli ulivi ed i mandorli già carichi di gemme, e il 7 mattina ci incolonnammo ancora lungo la strada di Albi, diretti a Vinaixa. Avevamo da poco oltrepassato Albi allorché una rapida incursione di apparecchi rossi ci costrinse a sospendere per breve tempo il nostro movimento, per occultarci. I bombardieri rossi ci avevano onorati della loro attenzione, ma le loro bombe e le raffiche delle loro mitragliatrici erano state così mal dirette da fare una sola vittima, un povero cane che ci aveva fino allora fedelmente seguito! Essi peraltro, dopo la fugace apparizione si dileguarono rapidamente come erano venuti, inseguiti dalle scie luminose dei nostri proietti da 20 mm.

La sera del 7 pernottammo attorno a Vinaixa. Il giorno 8 scavalcammo le “Frecce” e ritornammo in prima schiera. L’avanzata ebbe inizio alle ore 11,30, dapprima senza incontrare il nemico, poi fortemente ostacolata dal fuoco avversario. Alle ore 14 occupammo Tarres, che subito oltrepassammo, e Vimbodi, obiettivo della Divisione Navarra, alla quale fu poi ceduto. Pernottammo a nord est di Tarres.

Alle ore 10,30 del 9 riprendemmo l’avanzata, dopo aver distaccato la 1a compagnia presso il 1° reggimento.

 

Solivella: 9-11 gennaio

 Mentre la 1a compagnia seguiva il 1° reggimento passando di vittoria in vittoria, da Espluga de Francoli a Plan de Luna, a Blancofort, a S. Coloma de Queralt, noi iniziavamo la seconda tappa del nostro trionfale cammino. Scavalcate le “Frecce” il giorno 8, dovevamo puntare su Solivella; ma le forze rosse ci contendevano il passo opponendo successive e tenaci resistenze. I carri armati nemici sostavano sulle “carretere”, aprivano improvvisamente il fuoco e ci martellavano inchiodandoci dietro i ripari improvvisati.

Il primo giorno le camicie nere di Oliveti ebbero facilmente ragione delle resistenze avversarie, ma il 10 si scontrarono ancora una volta col nemico, e non solo non riuscirono a travolgerlo, malgrado l’ardore che spiegarono nella lotta sanguinosa, ma Oliveti fu costretto a spostare il battaglione “Inflessibile” verso sinistra per parare ad una seria minaccia sul fianco. Anche noi levammo le tende e ci spostammo un po’ a sinistra, dietro ai “Lupi”. Intanto la nostra artiglieria eseguiva un intenso tiro di interdizione a raffiche – talvolta un po’ troppo corte – sul rovescio delle posizioni nemiche e sull’abitato di Solivella. L’avversario per conto suo ci teneva sotto continuo tiro delle mitragliatrici causandoci qualche perdita.

Passò così, incerta e sanguinosa, questa giornata di Solivella. Ma all’alba dell’11 l’attacco riprese con rinnovato accanimento. Accanto a noi gli artiglieri di Tirotti sparavano a tiro diretto sui muretti a secco improvvisati dall’avversario durante la notte. I mortai battevano incessantemente il cocuzzolo boscoso dietro cui si nascondeva l’abitato e i rovesci della sella che degradavano verso nord. Mezz’ora di questo fuoco intenso e preciso facilitò l’attacco che i “Lupi” conducevano tenacemente, da muretto a muretto, incuranti del tiro avversario. Ma quando giunsero a portata di bomba, la resistenza nemica non attese l’assalto, cessò come per incanto e pronta si dileguò nell’abitato, tra casa e casa, tra strada e strada, e poi sempre più ad est, sottraendosi lesta.

I “Lupi” ricomposero presto le file e ripresero l’inseguimento. Il “Batmo” li seguì a stretto contatto. Oltrepassammo Solivella e puntammo sulla strada di Sarreal.

 

Forés: 11-14 gennaio

 Questo paese appariva da lontano alto sull’ultimo monte proiettato all’orizzonte. Da alcuni giorni lo vedevamo laggiù, col suo aguzzo campanile proteso verso l’azzurro del cielo, ed ogni giorno, ogni ora che passava, più ci si avvicinava. Forse lo avremmo raggiunto la sera, forse il giorno dopo. Chi sa?

La strada che da Sarreal conduceva al paese si arrampicava a zig zag nell’ultimo tratto sulle pendici sud della Sierra, ripida e quasi inaccessibile. Il terreno che dovevamo percorrere per giungere al paese era assai movimentato ed a forte pendenza. Nei pressi dell’abitato, ampi gradini sostenuti da altissimi muri impedivano il passaggio tranne che attraverso la strada. Non sapevamo spiegarci come mai il nemico non avesse utilizzato quella naturale fortezza per contrastarci il passo: pochi animosi, con poche armi, asseragliati lassù, avrebbero potuto resistere a qualsiasi attacco per moltissimo tempo. Forse perché non aveva avuto il tempo di sistemarsi a difesa, o forse perché i rossi non sarebbero stati capaci di tanto ardimento?

 

Il giorno 11 ci fermammo tra Solivella e la strada che da Sarreal porta a Forés. Sulla nostra sinistra, la Divisione “Frecce” trovava tenace resistenza sulla Sierra del Tallato, e non riusciva ancora a progredire. Pertanto, la minaccia sul nostro fianco sinistro, che già il giorno precedente eravamo riusciti a sventare, continuava a persistere e consigliava una certa prudenza nello spingerci oltre. Fummo perciò costretti a rimandare l’attacco su Forés. Nel tardo pomeriggio, però, i nostri avamposti catturarono alcuni autocarri rossi carichi di truppa destinata a Forés. L’interrogatorio di quei prigionieri ci indusse a ritenere che l’organizzazione difensiva del paese non fosse ancora in perfetta efficienza. E perciò fu deciso l’attacco.

La notte era già sopraggiunta allorché le camicie nere di Oliveti iniziarono la scalata di quelle aspre pendici. Nel buio della notte, quei meravigliosi soldati sfilarono tra gradino e gradino, nelle cunette e negli impluvi; posero piede nelle prime case dell’abitato lasciando a destra la parte più alta del paese, le oltrepassarono. Insuperabili si buttarono a capo fitto vincendo tutti gli ostacoli, non badando a pericoli; il loro ardore fu incontenibile: tutti sentivano la necessità di approfittare dell’incertezza nemica senza attendere il giorno successivo per organizzare l’attacco, che sarebbe stato certamente durissimo. Ed ebbero ragione.

Anche noi li raggiungemmo, durando fatica su per le balze ripide del monte, ansando nella corsa per giungere presto in vetta, frementi d’ardore e di entusiasmo. Quel campanile che ci era parso scolpito nel cielo tutto azzurro, quel paese di sogno posto in cima ad un monte come in un presepio magnifico, era già nostro, era già liberato dai legionari italiani.

 Dai duri combattimenti che sosteneste sempre con grande fede e grande valore, affiancati alla balda giovinezza della “Falange” sotto la guida del valoroso Caudillo, o eroi legionari, fu ricostruita così, pezzo a pezzo, lembo a lembo, sulle rovine del ringhioso comunismo internazionale, la Spagna Nazionale di oggi. Questa Spagna, che ancor oggi pensa a voi, non potrà mai dimenticare i Crociati del “Littorio”, né il prezioso contributo di sangue e di valore che essi hanno dato alla sua santa causa, alla sua vittoria, alla sua liberazione!

 

CAPITOLO X.         IL CALVARIO DEI “LUPI”

 Savallà del Condado: 14 gennaio

 La sosta a Forés ci aveva alquanto rimessi dopo la lunga teoria di chilometri che avevamo percorsi da Grañena a Cogull, da Cogull ad Albi, a Solivella, a Forés. Mellas, il mio fedelissimo attendente, sardo affezionato e devoto, si era rivelato fin dalla sera del 12 abilissimo cuoco e arrostiva polli, conigli e capretti alla diavola, all’uso delle sue belle e caratteristiche terre. E noi li mangiavamo con molta avidità perché gustosi. Ma era Mellas un vero taumaturgo della cucina, o era invece il nostro appetito che, costretto da alcuni giorni alla semplice scatoletta di tonno o sardine, trovava tutto eccellente? Sta di fatto che il povero Mellas, malgrado spiegasse la massima attività nell’assolvere il suo nuovo ed importantissimo compito, non riusciva a soddisfare prontamente le nostre pressanti richieste.

Avevamo preso alloggio nella casa di un tale che, da documenti in essa rinvenuti, risultava attivissimo propagandista rosso. Egli era fuggito al sopraggiungere delle forze nazionali, ma il giorno dopo era tornato. Interrogato sulla sua attività che aveva destato i nostri sospetti, si giustificò affermando che la minaccia ed il timore di rappresaglie verso i suoi famigliari, lo avevano costretto a continuare in quella sua attività a favore dei rossi. E perché era allora scappato? Non aveva in paese qualcuno che avrebbe potuto testimoniare sulla sua buona fede? Comunque, lo facemmo accompagnare al nostro comando di Divisione e nulla più sapemmo di lui, né tanto meno curammo di avere sue notizie.

 Il mattino del 14 fummo pronti nei ranghi, in attesa di marciare. Oliveti lanciò i suoi battaglioni di primo scaglione decisamente verso nord est. L’avanzata proseguì senza incontrare notevoli difficoltà. Fabris – nuovo comandante dell’ “Inflessibile”, quarto dall’inizio dell’offensiva – marciava a fianco del suo battaglione, a cavallo di un irrequieto bucefalo che talvolta, con una improvvisa sgroppata chiedeva all’implacabile e …pesante cavaliere di … scendere di sella. E Fabris, naturalmente, non poteva fare a meno dall’accogliere, suo malgrado, quella pressante e brusca richiesta.

Giungemmo in vista della strada di Conesa che si svolge ad ampi gomiti rientranti sul versante opposto della valle, e sostammo sul piccolo pianoro che la domina. Sulla strada, ben dissimulate dagli alberi, alcune autoblinde nemiche ci aspettavano al varco. Se gli esploratori non ce le avessero segnalate in tempo, ci avrebbero falciati al momento in cui avremmo iniziata la discesa in fondo alla valle. Tirotti appostò i pezzi della sezione di accompagnamento ed aprì improvvisamente il fuoco. Notammo subito un affrettato e agitato impartire di ordini e le tre autoblinde mettersi subito in moto e ripiegare verso Segura. Distaccato un reparto di sicurezza sul fianco, proseguimmo su Savallà del Condado.

La torre alta e quadrata di questo abitato, diroccata alquanto negli spigoli e in alto, ci guardava da lontano, silenziosa. Appunto questo silenzio ci induceva in sospetto, e siccome l’ora era tarda e già il grigiore del crepuscolo preannunziava la sera, Oliveti decise di fermare i reparti e sostare in forte quadrato osservando il paese. Più tardi però, cedendo alle nostre insistenti richieste, consentì di tentarne l’occupazione ed ordinò alla sezione di Tirotti di saggiare con qualche colpo l’eventuale reazione avversaria.

L’assalto fu brillantemente condotto da una compagnia del “Lupi”, ed anche noi vi partecipammo con tutta la nostra 3a compagnia. La facile vittoria conseguita, il cupo silenzio che gravava su tutte le cose, e quella gran torre nera  e spettrale che ci stava accanto, destavano le nostre apprensioni.  Fortuna volle invece che i rossi, forse perché incominciavano a convincersi che la loro sconfitta era ormai inevitabile, o forse perché avevano deciso di sistemarsi a difesa su posizioni retrostanti, non si fecero vivi per tutta la notte, e noi potemmo, con relativa tranquillità, scaldarci accanto al camino, nella grande casa di una generosa famiglia che, felice di essere stata alfine liberata dall’incubo rosso, ci offrì pane bianco di riso, ottimo vino e larga e cordialissima ospitalità per tutta la notte.

 

Raurich – Montargull: 15 gennaio

 I giorni che seguirono furono tutti duramente combattuti. Il giorno 15 marciammo su Montargull: precedeva l’“Inflessibile”, affiancato all’ “Ardente”, sulla sinistra. Il “Batmo” seguiva nell’intervallo, tra l’uno e l’altro battaglione. A metà del percorso alcune mitragliatrici avversarie ben appostate e nuclei di fucilieri decisi e tenaci, ci costrinsero a sfilare sul fondo di un piccolo burrone. L’ “Inflessibile” combatteva accanitamente sulla nostra estrema sinistra ed era già fortemente provato. Il “Lupi” lo scavalcò e così potemmo proseguire. Più in là verso est, in vista di Raurich, fummo ancora una volta costretti a fermarci. L’attacco proseguiva deciso, ma lento. I prigionieri catturati dall’ “Inflessibile” rimanevano muti a qualsiasi interrogatorio. Alcuni civili ci corsero incontro esultanti e con le lacrime agli occhi. Un gruppo di donne sfilava lontano sulla “carretera” che si perdeva laggiù, dietro al costone: procedeva assai lento come se le componenti stessero assorte in tristi pensieri, incuranti della guerra che passava. In quella zona infatti, la guerra passava veloce, ma terribile, e lasciava dietro di sé tutto l’orrore che lasciano le orde in fuga disordinata.

A un certo punto, nascosto dietro ad una cascina, ci apparve un povero vecchio. Alcuni uomini gli stavano intorno festanti, come se lo avessero proprio allora ritrovato. Ma questa scena fu presto superata da altra assai più commovente. Marciavano con noi alcuni civili ai quali avevamo consentito di seguirci fino alle loro case che avevano abbandonato in fretta qualche giorno prima, per sottrarsi alla cattura correndo incontro alle forze liberatrici. Taluni di essi avevano lasciato i loro congiunti – vecchi, mamme, spose, bambini – nelle zone ancora dominate dai rossi, e questi se li trascinavano dietro quali preziosi ostaggi, nella ritirata precipitosa.

Giungeva appunto di là dal fronte di battaglia, miracolosamente riuscito a sfuggire all’artiglio disperato del nemico, uno di questi ostaggi: uomo maturo, alto, magro piuttosto, barba folta da più giorni non rasa.  Veniva di corsa non molto veloce, quasi trotterellando, ed ansava sostenendo grande fatica nel proseguire. Si asciugava spesso la fronte forse mescolando sul viso lacrime e sudore, e a tratti sollevava alto il braccio sventolando il fazzoletto e gridando la sua gioia incontenibile verso le truppe vittoriose che avanzavano riportando la pace nel focolare domestico. A un tratto dalle file di quei civili che ci seguivano tristi e pensosi, si staccò un giovane che si precipitò incontro allo sconosciuto gridando come preso da un impulso forsennato. In un attimo lo raggiunse, gli saltò al collo, lo strinse  in un abbraccio interminabile, commovente, gioioso: padre e figlio si erano ritrovati!

Avevano vissuto giorni di infinito martirio: il padre, sequestrato dai rossi, aveva tanto pensato alla sua casa forse distrutta, alla sua buona famiglia, ed ora accennava alle sue dolorose vicende; il figlio, in gran pena per la triste sorte del padre che, riuscito a sfuggire all’inesorabile condanna, poteva ora riabbracciare con infinita tenerezza.

 Il ricordo di questo episodio tanto commovente ci induce a riflettere un istante sulle dolorose vicende di quella guerra civile che vide orrori ed errori in ogni campo, lotte accanite e furibonde di fratelli contro fratelli, taluni dominati da fanatismo eretico, altri pervasi dallo spirito di distruzione e del male, altri mercenari assoldati fra la peggiore feccia internazionale, che non avevano mai posto alcun limite alla loro insaziata sete di sangue e di rovina. E però, per buona sorte della Spagna e del mondo, le forze nazionali liberatrici e i legionari italiani marciavano a gran passo verso la più grande vittoria.

Riprendemmo la marcia. I “Lupi” a sinistra si arrampicavano sulle pendici del monte a nord-est di Raurich. L’ “Ardente” a destra, sulla dorsale, proseguiva con impeto, vittoriosamente. Oltrepassammo il paese. L’ampia valle si chiudeva laggiù all’orizzonte. La strada per Santa Coloma de Queralt, volgendo decisamente a destra sulle basse pendici del colle, proseguiva a mezza costa e ad ampie curve verso la vasta pianura sottostante.

A sinistra, il forte baluardo che fronteggiava Montargull si era già popolato di “Lupi” e più avanti, verso l’abitato e nei pressi del cimitero, gli esploratori di Alimonda saltavano velocissimi da muretto a muretto, da cespuglio a cespuglio, da casa a casa, sfilando cauti dietro i muri per vedere e non essere visti. Il “Batmo” raggiunse la testata della valle e si appostò sul rovescio del costone che degradando da Montargull si riattaccava e risaliva verso destra, sul monte già occupato dai reparti avanzati dell’ “Ardente”.

 Lenta scendeva la sera ed il silenzio gravava su tutte le cose. La fucileria era cessata su tutta la fronte. L’incertezza e il vuoto del campo di battaglia riprendeva il sopravvento sul fragore delle armi che aveva imperversato fino a pochi momenti prima. Rifacemmo, come tutte le sere, il bilancio della giornata e riordinammo le file per riprendere l’avanzata il mattino seguente. Seguito da Cavagliano, Olimpio e Job, mi avviai verso Montargull per prendere contatto con i reparti avanzati. Le prime case erano chiuse, alcune sbarrate, altre completamente abbandonate: per le vie nessun civile, nessun nemico visibile, silenzio assoluto, solo a tratti interrotto dal canto di qualche gallo che accennava a concludere la sua giornata tranquilla tra il branco di galline che gli stava attorno.

In paese trovammo Alimonda con i “Lupi” esploratori. Appiattati dietro ai muretti di pietre, o nascosti dietro ai tronchi degli alberi, sostavano tutti silenziosi spiando il terreno circostante che scendeva a ripido pendio e risaliva poi sulle opposte pendici del monte. Ad est del paese due alti cocuzzoli a cono, staccati e ben visibili, l’uno vicino all’altro quanto uno sbalzo di corsa, si profilavano grigi nel cielo che li avvolgeva nell’ombra cupa della sera già inoltrata. Alimonda ci ragguagliò sulla situazione indugiandosi nei particolari dell’azione della giornata. Questo valoroso ufficiale, baldo e fiero figlio della Sardegna fedelissima, era veramente una delle figure più belle di quel magnifico battaglione. Ci disse che, raggiunto il paese, aveva proseguito fino al cimitero. E infatti anche noi lo avevamo veduto mentre risalivamo la valle, nei pressi del muro di cinta aggirarsi con circospezione, moschetto spianato, baionetta innastata, pronto a balzare anche lui, decisamente. Dal cimitero si era poi spinto ancora più in là fino ai due cocuzzoli a cono, da dove ritornava ora, dopo di avervi lasciato una pattuglia in osservazione.

 Osservammo anche noi con una certa attenzione per poter regolare i nostri tiri durante la notte, ma fummo ad un tratto sorpresi di notare in fondo alla valle figure umane muoversi verso di noi. Il grigiore della sera ci impediva di vedere bene, ma aguzzando lo sguardo, e richiamata l’attenzione di tutti, notammo che da laggiù importanti forze nemiche a piccoli nuclei, favoriti dal buio della notte, serravano sotto e risalivano il monte con l’evidente intenzione di assalirci. Avanzavano in fila, cauti e silenziosi. Ma quanti erano? Quanti si erano già riuniti dietro ai muretti della valletta a terrazze, inosservati tra gli alberi fitti nel bosco insidioso?

I “Lupi” esploratori puntarono la loro mitragliatrice, ed anche noi – ricordate Alimonda, Cavagliano, Olimpio? – anche noi afferrammo un fucile e molte bombe lanciammo in quella oscura sera! L’avversario, vistosi scoperto, esitò, si fermò. Il suo tentativo era ormai sventato, la sua sorpresa non era riuscita, le sue file, scompigliate dal nostro tiro, si disordinarono. Ma nella notte, che cosa avrebbe fatto? Certo avrebbe riordinato le forze e ritentata l’impresa. Pochi erano i “Lupi” di Alimonda. Bisognava rinforzarli, sostenerli, appoggiarli. Non c’era tempo da perdere! Bisognava correre ai nostri mortai e preparare il nostro tiro preciso per sventare definitivamente ogni velleità del nemico.

Avvertimmo il comandante dei “Lupi” affinché rinforzasse Alimonda e si predisponesse a sostenere l’eventuale attacco notturno. Ritornammo poi subito tra i nostri mortaisti. Erano tutti già pronti. Verificammo i dati di tiro, direzione, elevazione, cariche. Demmo a Cronia gli ordini del caso. Spostammo qualche arma; preparammo le bombe. Il nemico non accennava ancora a muoversi. Tuttavia iniziammo il tiro. Prima pochi colpi di aggiustamento; poi qualche salve di efficacia, giunta nel segno. Ma appunto, in quel “segno”, quali erano stati gli effetti? I nemici erano ancora lì? O non si erano forse spostati? O continuavano ancora a raccogliersi nel fondo di quella valle a terrazze, o tra gli alberi?

L’ansia ci dominava. Il nostro tiro continuava intermittente, a salve di sette-otto colpi, giungendo preciso in quel “segno”. La notte era già discesa col suo impenetrabile velo ed il nemico non accennava ad attaccare. Olita aveva dunque avuto tutto il tempo per prendere le sue decisioni, ma quali ordini aveva dato?

 La posizione del “Batmo” era veramente difficile. Sulla destra si appoggiava alle ripide pendici del monte occupato dall’ “Ardente”, e lì la situazione appariva tranquilla. Sulla sinistra invece, l’esiguo nucleo di esploratori del “Lupi” appariva gravemente minacciato e non era in grado di resistere da solo ad un attacco avversario. Le forze più avanzate del “Lupi” si erano sistemate a difesa su posizioni arretrate rispetto alla estrema sinistra del “Batmo”. La testata della valle scendeva ripida sul nostro fianco sinistro appena coperto dagli esploratori di Alimonda. Se questi fosse stato costretto a ripiegare, la minaccia per il “Batmo” sarebbe divenuta molto pericolosa.

 In questa situazione ebbe inizio, verso le ore 23, l’attacco dei rossi su Montargull. Cantavano le mitragliatrici sulla nostra sinistra, nel buio della notte, e l’eco si ripercuoteva nella valle, sinistramente. I mortai facevano fuoco quasi senza interruzione, succedendosi nel tiro plotone a plotone. Gli esploratori del “Lupi” lottavano con tenacia e valore. Ma ad un tratto le mitragliatrici tacquero, e lo scoppio continuo delle bombe a mano annunziò che la lotta vicina era già nella fase decisiva. Furono pochi minuti! Il silenzio che seguì ci rese ansiosi e trepidanti. Come si era risolta la lotta? Avevano i rossi desistito dall’attacco, ovvero gli esploratori erano stati sopraffatti?

Sapemmo più tardi che Olita aveva disposto il ripiegamento degli esploratori. Alimonda non si era perciò impegnato a fondo nella difesa dell’abitato e, attaccato da forze preponderanti, aveva ripiegato sulle posizioni occupate dal battaglione.

E però, in quella incertezza, la situazione del “Batmo” ci appariva chiarissima, se pure difficile. Comunque, i mortaisti erano decisi a non ripiegare: se il loro fianco sinistro fosse rimasto scoperto, se grave fosse stata la minaccia, tutti sarebbero rimasti fermi e decisi al loro posto di battaglia come a Savallà, a Forés, a Cogull e sulla Sierra Grosa. Con questo deliberato proposito – di non cedere, a nessun costo – il “Batmo” si accinge ad affrontare la lotta.

Cavagliano disloca due plotoni dei suoi valorosi mortaisti assaltatori, veterani di Santander, dell’Ebro e del Levante, a protezione del fianco sinistro, del Battaglione tra il costone e la valle. E vigila per tutta la notte. Il suo piano di difesa è semplice e ardimentoso.  Se il nemico tenterà di avanzare, lo farà giungere a breve distanza, anzi, lo sospingerà in fondo alla valle e gli faciliterà il passaggio incoraggiandone i progressi; ma appena vi sarà giunto baldanzoso e sicuro, lo tempesterà di bombe, spezzerà il suo impeto, e lo annienterà con la massa dei suoi 18 mortai; frantumando la sua efficienza materiale e morale, rintuzzerà la sua baldanza e gli salterà addosso alla baionetta coi suoi vecchi e provati legionari audaci e tenaci che molte volte hanno visto volgere in fuga il nemico.

Durante tutta la notte Cavagliano fece infatti buona guardia e i rossi non rinnovarono l’attacco, ma si limitarono a spingere qualche pattuglia che fu accolta in silenzio e facilmente sorpresa e catturata. Il giorno successivo altri importanti avvenimenti ci aspettavano!

 

Il calvario di q. 806: 16-17 gennaio

 Ecco gli ordini dati da Oliveti per il mattino del 16 gennaio:

·         ·         L’ “Inflessibile” sostituisca il “Lupi” di fronte a Montargull, attacchi questo abitato, raggiunga i due cocuzzoli a cono e prosegua verso est, su Aguilò;

·         ·         Il “Lupi” si riunisca dietro l’ “Ardente” sulle posizioni della forcella ad est di Santa Coloma de Queralt, lo scavalchi, occupi la quota 806 e punti anch’esso su Aguilò;

·         ·         Il “Batmo” appoggi l’azione del “Lupi”.

 

Continua così, anzi si ingigantisce in quel giorno, si fonde e si esalta nel fulgido calvario la fratellanza d’armi delle camicie nere del “Lupi” col “Batmo”! Esercito e Milizia fusi in un mirabile blocco di volontà e di forza, di fede e di entusiasmo, danno la prova più tangibile della loro validissima collaborazione, e la cementano col sangue sull’aspro campo di battaglia. Esercito e Milizia, soldati e camicie nere, ufficiali e gregari hanno un’anima sola, ed agiscono sotto un solo segno glorioso: quello del sacro “Littorio”, che significa lotta, tenacia, ardimento, sacrificio, valore, vittoria.

I “Lupi” di Olita, i mortaisti del “Batmo”, gli artiglieri di Tirotti non sono, in quella giornata di battaglia, combattenti o reparti isolati che agiscono con spirito di individualità, ciascuno per proprio conto, ma sono invece tutti soldati e legionari della Grande Patria immortale che hanno una sola inestinguibile fede, lottano per una sola fulgidissima idea, per un solo grande nome: Italia, Italia, Italia!

 E in questa perfetta fusione di volontà e di spiriti che si inizia la battaglia del 16 gennaio.

Già il “Lupi”, sostituito dall’ “Inflessibile” di fronte a Montargull, incomincia ad affluire verso l’ “Ardente”, mentre il “Batmo” someggia i mortai. Poco dopo anche i mortaisti iniziano il loro movimento e pagano subito il loro primo contributo di sangue della giornata. Verso le 9,30 Olita comunica che l’azione di un plotone di mortai potrebbe riuscire particolarmente efficace se spinta sotto alle compagnie di primo scaglione. Aderisco senz’altro, tenendo il rimanente del battaglione pronto ad intervenire.

 Olita sostava a breve distanza da noi: lo raggiungemmo. Intanto, lo scavalcamento dell’ “Ardente” era quasi compiuto. I “Lupi” aspettavano ora l’inizio dell’attacco, appollaiati sotto le vette dei due cocuzzoli che formavano la strettissima forcella.

Ci recammo ad osservare le posizioni nemiche. Sulla linea di partenza, sotto la vetta, la Sezione di accompagnamento predisponeva gli appostamenti dei due pezzi da 65. Tirotti era insuperabile! Questo  baldo artigliere non ha mai conosciuto riparo.  Il tiro dei suoi cannoni è sempre stato diretto dalla linea dei fanti. I suoi pezzi hanno sempre “veduto” il muretto avversario. Traguardando nell’anima dei cannoni, quegli artiglieri fierissimi hanno sempre puntato sulla mitragliatrice avversaria e l’hanno sempre rapidamente smontata. Quanti come questi ignoti e valorosi artiglieri vi sono tra le file dei soldati d’Italia? Certo moltissimi! L’arma “eroica e possente” così prepara i suoi combattenti!

Dalla forcella il terreno scendeva scoperto ed a pendio ripidissimo nel fondo valle e risaliva poi ancora più ripido in vetta, sassoso, uniforme, senza un salto, senza un muretto. La quota 806 era munitissima di mitragliatrici. Alta ed imponente si mostrava sulla fronte inaccessibile e tetra. Sulla forcella dove sostavano i “Lupi”, ogni uomo che tentava di alzare la testa veniva investito da intense raffiche di mitragliatrici. I carri armati avversari tiravano con estremo accanimento.  Osservando con attenzione, si scorgeva la lunga e robusta trincea nemica che coronava la quota e si estendeva verso nord, seguendo il costone che risaliva verso i due cocuzzoli a cono ad est di Montargull, anche essi già fortemente presidiati. Alle ore 10,30 il nostro attacco sarebbe partito da lassù, verso i due cocuzzoli, preceduto dai carri. Successivamente i “Lupi” si sarebbero buttati in fondo valle, saltando giù dalla forcella, e avrebbero risalito la quota.

Ma caro il mio Olita, come vuoi che io lasci laggiù quei fieri mortaisti a impoltrire in attesa che i tuoi “Lupi” siano tutti falciati dalla pronta reazione nemica? Ma hai chiesto un solo plotone! Un plotone ha appena due armi. Se una bomba si incanta nell’anima di un mortaio, ci vogliono almeno due minuti per estrarla, ed altrettanti per riprendere il tiro. Resterai protetto da un solo mortaio mentre gli altri…stanno inoperosi laggiù. In pochi i tuoi “Lupi” potranno giungere su quella terribile quota. Quanti ne hai? 500? Ne lascerai metà per la strada!

Aspetta, aspetta! Qui vi sono gli artiglieri fierissimi di Tirotti: qui c’è posto anche per tutti i mortai! Su, coraggio, avanti quassù, tutti quassù! Siamo tutti di una sola fiera legione: la Divisione d’assalto del sacro “Littorio”! Abbiamo tutti la stessa anima: camicie nere, fanti ed artiglieri, qui tutti ci stringiamo in fiera coorte attorno al simbolo della nostra fede, e tutti lottiamo per una stessa vittoria.

E vinceremo: camicie nere del “Lupi”! levate in alto il vostro gagliardetto e lanciate a gran voce il grido dell’assalto! E noi tutti vi seguiremo!

 In pochi momenti tutti i mortai presero il loro posto accanto ai “Lupi”, accanto agli artiglieri. Mancava ancora mezz’ora per l’assalto. Iniziammo il tiro. I mortai, a pochi passi sotto la cresta, rovesciavano le loro bombe sulla trincea nemica, sui rovesci della quota. I 65 di Tirotti sparavano allo scoperto. Furono subito individuati e presto uno di essi rimase colpito e inutilizzato. I proietti nemici screstavano appena e scoppiavano accanto a noi, tra le casse, tra le armi, tra i muli porta-munizioni ancora carichi. Uno di questi muli fu colpito sul cassone pieno di proietti e cadde a terra come fulminato. Ma subito si riscosse, scalciò alquanto nell’aria e si levò diritto in piedi sgroppando: era incolume!

 

 L’artiglieria divisionale concentrava ora il suo tiro preciso sui cocuzzoli a cono ad est di Montargull. Mancavano ancora pochi minuti all’assalto. I “Lupi” fremevano nell’attesa, appiattati sotto la vetta, pronti a scattare. Ma gli occhi di tutti si appuntavano ora verso Montargull, da dove l’ “Inflessibile” avrebbe presto preso lo slancio al seguito dei carri. I fanti, i modestissimi fanti delle più dure trincee hanno spesso vissuto momenti di queste terribili attese e sanno perciò che cosa voglia dire sostare sotto il tiro nemico aspettando il “via” che deve sospingere in corsa affannosa all’assalto! E sanno altresì che, balzati fuori dal piccolo riparo improvvisato o dal piccolo fosso che appena nasconde, la morte è sempre in agguato e aspetta per ghermirli coi suoi artigli inesorabili. E sanno ancora che la corsa più è veloce e più è decisa nell’impeto, più li salva e li porta trionfanti alla meta. Ma questi pensieri non sorgevano ancora nella mente dei “Lupi” che guardavano a nord per scorgere i fratelli dell’ “Inflessibile” balzare al seguito dei carri su per le aspre pendici dei due cocuzzoli a cono. Non sorgevano in loro perché l’ansia era tutta per i fratelli che li avrebbero preceduti nell’attacco, nel settore di Montargull. Ma anch’essi, i “Lupi”, si sarebbero presto lanciati in rapida corsa per giungere a valle e risalire in vetta, sulla terribile quota!

 Ad un tratto appaiono lassù, sulla strada di Montargull, i nostri primi carri leggeri. Avanzano velocissimi e le balde camicie nere dell’ “Inflessibile” li seguono a breve distanza, ma affannano, si fermano, si riprendono!

La strada che essi percorrono avvolge i due cocuzzoli da sud, a mezza costa. La reazione nemica è violentissima. Si inizia da lassù, si intensifica anche più a sud, lungo il costone, e risale alla quota. I carri proseguono, ma sono ora più lenti: qualcuno si ferma, qualche altro si capovolge e si rovescia lungo le falde del monte! Sulle nostre teste passano rabbiose le raffiche delle mitragliatrici avversarie: imboccano la cresta della forcella, tonfano sulla terra sassosa, sollevano nuvole di polvere, rimbalzano, ci passano accanto sibilando sinistramente.

Intanto ad est di Montargull l’attacco è fermato. Olita mi guarda: lo guardo anch’io, negli occhi! Caro compagno e fratello, buon camerata e soldato generoso, conosco la tua pena, so il segreto pensiero che ti assilla. Tu pensi ai tuoi “Lupi” che non osi lanciare ancora in quel salto vertiginoso e terribile verso la morte!

Ebbene, buon camerata, non ti crucciare! Questa è la lotta, e questo è il nostro nemico: tenace! Ma prevarrà il valore dei tuoi legionari! Non ti ricordi a Seròs? E sulla Sierra Grosa? Sette  assalti respinsero e vinsero per la loro tenacia, per il loro ardimento. Vinceremo nuovamente, e presto tu vedrai su quella terribile quota sventolare il tuo bel gagliardetto portato sempre più in alto dai tuoi “Lupi” magnifici.

Sotto, Cronia! Sotto mortaisti! Puntate i vostri mortai. Vedete lassù? Da quella piccola e bassa torretta di pietre si leva un filo di fumo sottile: lì c’è una mitragliatrice che spara rabbiosamente. E più in là verso destra un’altra ce n’è dietro al basso cespuglio. A sinistra, più in basso, accanto all’alberello isolato, tronco divelto dalle vostre bombe, altre ve ne sono e tirano adesso e imboccano la forcella.

Su, presto, puntate i mortai, lanciate le bombe, fulminate i nemici, annientateli!

E tu, artigliere, carica il tuo pezzo che sporge con la sua volata dal ciglio insanguinato, e spara, spara, spara!

“Lupi”, artiglieri, mortaisti! Guardate tutti lassù! Vedete quanti colpi cadono lì,  precisi, micidiali, terribili? Anche oggi, o “Lupi”, avrete ragione di questo accanito avversario! Vedete quel rosso che scappa? Egli abbandona la sua mitragliatrice! Ma ecco anche altri lo seguono, scappano, vedete?

Tirate, sparate!

Ma uno ritorna indietro! Ha molto coraggio, bravo! Si ferma accanto all’arma abbandonata, la smonta, la porta via, lascia il treppiede. Bravo, nemico: chi sei?

Sei un valoroso! Non importa se hai un’altra fede: sei un valoroso! Lo vedete lassù? Ha salvato la sua mitragliatrice: è un valoroso!

 Olita trasse profitto del momento di panico che aveva preso il nemico e lanciò i suoi “Lupi” all’assalto di quell’imponente fortezza. Al suo segno i “Lupi” balzarono in piedi e si buttarono in corsa giù dalla forcella, magnifici, eroici! Correvano incontro alla morte bella, ma sentivano di vivere in quel solo momento tutta la loro più fulgida vita di guerra, tutto il poema della loro fiera giovinezza che offrivano in olocausto alla Patria immortale, illuminati dalla loro incrollabile fede! Si lanciarono e corsero a pieni polmoni, ed anche noi fummo trascinati dall’impeto.

Baldi legionari del “Lupi”, forti figli della nuova Italia imperiale, volitiva e possente, fieri soldati di una grande idea, in quel fatidico giorno voi discendeste a valle tra la china scoscesa del monte, e nella corsa muta e senza respiro, ben 63 vostri fratelli, baldi e fieri come voi, caddero falciati dal piombo nemico!  E voi non sostaste, ma decisi ascendeste il vostro doloroso calvario su cui già splendeva la vivida luce della vostra bella vittoria!

Quota 806, duro calvario dei “Lupi” di Olita , in quell’aspro pomeriggio del 16 gennaio, tu ricevesti l’offerta più santa dei legionari italiani che ti conquistarono a viva forza immolandoti un forte manipolo di eroi puri e generosi.

Combattevano laggiù nella piana ad est di Santa Coloma de Queralt i baldi fanti del 1° reggimento e la nostra 1a compagnia; sfilavano tra i filari i valorosi fanti della “Navarra” che risalivano anch’essi verso l’obiettivo da voi conquistato; cantavano ancora le rabbiose mitragliatrici avversarie ad est di Montargull sui due cocuzzoli a cono, di fronte all’ “Inflessibile” duramente provato, ma tu già vedevi, o fatidica quota, sventolar sulla vetta, glorioso e mai vinto il sacro segno di Roma!

E voi, o miei “Lupi”, o mortaisti, o artiglieri, miei più nell’anima, miei più nella fede, miei più nell’ardore della lotta e dell’impeto, levate in alto la fronte e le insegne e salutate i vostri prodi compagni caduti! Qui, tra di voi, c’è anche un vostro camerata, un vostro fido compagno d’arme che voleste chiamare “Lupo” tra i “Lupi”; anch’egli leva in alto la fronte e la rivolge al cielo pensando ai vostri, ai nostri poveri morti, e forte, dal più profondo dell’anima, vi acclama a gran voce e vi proclama tutti, morti e superstiti, eroi, eroi, eroi!

 

2° REGGIMENTO “CC. NN.”

BATTAGLIONE D’ASSALTO “CC. NN.” LUPI

 

Il maggiore Amoroso Gaetano per avere, in ogni fase dell’azione di Catalogna, dimostrata altissima perizia fusa a leggendario valore fu sul campo (quota 806 di S. Coloma di Queralt 16-1-1939….) dai legionari del Battaglione “Lupi” nominato “Lupo Onorario”.

                                                                                              In fede, perché possa portare il distintivo del Btg. Lupi

                                                                                                                             Il Comandante del Btg.

                                                                                                                             (1° Seniore Olita Oscar)

                Visto

Il Comandante del Reggimento

(Ten. Col. i.g.s. Oliveti Ferdinando)

 

 

 

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Aguilò: 18-20 gennaio

 La sosta sulla quota 806 si protrasse fino all’alba del 18 gennaio. La reazione nemica divenne violenta nel tardo pomeriggio del 16, continuò persistente durante tutta la notte e nel successivo giorno 17. Verso sera però le cose cambiarono. La reazione avversaria si fece un po’ fiacca. Giungevano intanto notizie di notevoli progressi che le forze nazionali avevano realizzato da Cervera, in direzione di Igualada. In conseguenza di ciò, Oliveti manifestò l’intenzione di tentare un colpo di mano su Aguilò. Olita ne organizzò l’esecuzione e insieme stabilimmo alcune modalità.  I “Lupi” non conoscevano stanchezza: tutti volevano prendervi parte. I mortaisti sollecitavano anch’essi la loro partecipazione. Tutti erano pieni di entusiasmo, presi ancora dall’ebbrezza della precedente vittoria.

 Alle prime luci dell’alba del giorno 18, una forte compagnia del “Lupi”, rinforzata da 80 mortaisti assaltatori, scende le pendici sud est della quota, attraversa la larga pianura sottostante e punta decisamente sulle alture a sud ovest di Aguilò. L’attacco realizza sin dal primo momento notevoli risultati. La compagnia del “Lupi” ed i due plotoni di mortaisti assaltatori agli ordini di Cavagliano avanzano celermente approfittando della densa foschia del primo mattino. Anche noi ci sentiamo trascinati dal nuovo impeto che anima quegli instancabili, forti legionari. Sulla quota, intorno a noi, vi sono ancora una cinquantina di mortaisti assaltatori che esultano pei rapidi progressi dei loro compagni e fremono nell’ansia di lanciarsi anch’essi. Non sanno aspettare. Ci sospingono, ci esortano, come se proprio noi avessimo bisogno del loro incitamento per correre al seguito di quei valorosi.

Non esitiamo infatti. La compagnia del “Lupi” si dirige a sud ovest del paese, punta sulle alture che lo dominano, sulla destra. E noi allora ci lanciamo a sinistra, diritti al paese, proteggendo il fianco dei nostri compagni. Se la sorte ci assiste, ripeteremo il miracolo di Grañena! Come a Grañena ci stringeremo attorno alla piccola chiesa; uno dei nostri si aggrapperà alla corda della campana e suonerà, a distesa, l’inno della liberazione, l’inno del trionfo dei legionari di Roma.

Avanti anche voi, piccoli e valorosi mortaisti assaltatori della 3a compagnia, avanti anche voi baldi soldati della 2a. Oggi si chiude un periodo glorioso della nostra bella battaglia, e lassù, su quel piccolo campanile nerastro, suggellate il vostro valore facendo nuovamente squillare la diana della liberazione!

Quel forte manipolo di fanti, al comando di Arista, scende velocissimo al piano, traversa la strada, si butta in fila tra i campi, affianca le sue squadre e giunge a circa 100 metri dal paese e sosta pochi minuti per riprendere fiato. Arista osserva il terreno, studia la via più sicura per giungervi meglio e presto. I mortaisti sono carichi di mortai e di bombe, ma il loro ardore è incontenibile ed i loro polmoni atti a qualunque fatica. Balzano tutti ad un cenno. La reazione nemica è pronta, ma è fiacca. Qualche fucilata, come da pattuglie che ripiegano in fretta, fischia alta e si perde molto lontano, poi quasi più nulla, e silenzio infinito. I mortaisti raggiungono di corsa le prime case. Alcuni civili si affacciano ai balconi ed accolgono i liberatori battendo loro le mani. Ma i mortaisti non badano allora a quel piccolo trionfo, corrono ancora, raggiungono la piazza, si spingono fino alla chiesa, non trovano la campana; alcuni di essi con noi si portano sull’altura che domina il paese, sulla destra, la coronano di armi, sbarrano la strada, mentre i “Lupi” lassù raggiungono il monte.

Aguilò è libera alfine! Ma questa tua libertà, piccolo paese sperduto nel cuore della Catalogna, solo da pochi istanti conquistata, tu non puoi cantarla a gran voce; tu non puoi chiamare a raccolta i tuoi pochi abitanti superstiti che da tempo non hanno il conforto della loro grande fede; tu non puoi udire la dolce preghiera che ringrazia Dio nel tempio devastato! E però sono qui con te i soldati di Roma, i legionari della Prima Crociata dell’Italia, sono qui con te le forze della grande idea, le forze della fede e della vittoria. E se la tua voce non può oggi levarsi alta e forte nel cielo, se il tuo osanna non può giungere a Dio, asciuga le tue lacrime e prega in ginocchio: Dio sa la tua fede, Dio sa il tuo martirio, Dio sa il tuo sacrificio.

E noi, legionari d’Italia, siamo anche noi tutti qui raccolti come in santa preghiera; qui, su questo piccolo colle! E preghiamo anche noi in silenzio, con tutto il nostro cuore commosso, con tutta la nostra fede infinita, qui, sotto la volta del cielo, davanti a Dio creatore, davanti alle cose create, e pensiamo alla nostra Patria lontana, alle nostre famiglie, ed esultiamo nell’intimo del nostro cuore: Viva l’Italia, Viva la Spagna libera per sempre!

 Mio caro Olita, non posso chiudere questo capitolo di vita dura ed intensa dedicato ai tuoi “Lupi”, ai miei “Lupi”, senza rivolgerti il mio commosso pensiero!

Buono e caro camerata, consentirai che io dica “miei Lupi”. La nostra giornata spagnola ci strinse in un forte abbraccio fraterno; il comune pericolo che spesso – quasi sempre – affrontammo fianco a fianco, “Lupi” e mortaisti; i sacrifizi che la dura lotta ci impose; lo spirito di intima cooperazione che spontaneo e cordialissimo ci guidò in ogni circostanza; le alterne vicende della lotta che sempre ci videro quasi fatalmente gli uni accanto agli altri, “Lupi” e mortaisti inseparabili; la stessa grande fede che ci animò e ci sospinse verso la grande vittoria, tutto ci rese fratelli nel senso più puro e più bello della parola.

E noi mortaisti, veramente vi fummo fratelli perché fianco a fianco lottammo nei giorni della più aspra battaglia; perché accanto a voi soffrimmo in silenzio la nostra dura odissea; perché con voi dividemmo la manciata di paglia raccolta nel casolare abbandonato per farcene men duro giaciglio; perché questo giaciglio sempre fu accanto al vostro nella piccola tenda improvvisata o nella casupola a larghe pietre sovrapposte; perché come voi sentimmo la pena e l’ansia dell’attesa, l’ardore della lotta, la gioia della vittoria, il dolore per i compagni caduti!

 

Ma oggi, o miei “Lupi”, i mortaisti vi lasciano. Oggi i mortaisti si caricano a spalla i loro mortai, si armano anch’essi delle mitragliatrici tolte al nemico, si lanciano in corsa per giungere lontano, molto lontano!

Addio, o miei “Lupi”, forse più in là ci rivedremo; forse più in là torneremo a combattere insieme, con voi e per voi; forse la sorte ci afferrerà tra le sue spire insidiose; chi sa?

Il vostro valore, il vostro sacrificio, il vostro coraggio costituiranno per noi il più caro ricordo, il ricordo più intimo e profondo che incide nel cuore per tutta la vita incancellabile segno.

Addio Olita, addio Alimonda, addio Chiavellati!

Anzi, arrivederci buoni e cari compagni d’arme valorosi, arrivederci o miei “Lupi”, che la fortuna vi assista, tutti, e che la vostra sorte sia la “buena suerte” per tutti!

Arrivederci!

 

 CAPITOLO  XI.      SEMPRE PIÙ OLTRE

 

Ullastrell: 21-25 gennaio

 Lasciammo Aguilò il mattino del 21 gennaio. La 1a compagnia era già tornata al battaglione. Durante la lunga assenza aveva combattuto ad Espluga de Francoli, a Blancfort, a S. Coloma de Queralt. Noi l’avevamo seguita con il nostro pensiero e con tutto il nostro cuore, certi che non avrebbe mai smentita la tradizione di gloria e di eroismo che già il Batmo si era conquistata. L’avevamo seguita col pensiero e col cuore e assai gioimmo allorché tornò tra noi in quel radioso mattino di gennaio.

La nostra marcia proseguiva speditamente. Davanti a noi le Divisioni “Frecce” si erano tenacemente poste alle calcagna del nemico in fuga. Superate le difese di Santa Coloma, di quota 806, di Montargull, la nostra avanzata aveva assunto l’aspetto di un travolgente inseguimento. Soltanto in qualche tratto della fronte la lotta continuava ad avere qualche momento di asprezza, ma in complesso si manteneva episodica e slegata, quasi di pattuglie o di piccoli reparti. Di fronte a Manresa, però, i rossi resistevano ancora. Igualada era invece caduta, Villafranca e Vendrell superate. Si proseguiva così di vittoria in vittoria. A tarda sera si giungeva alla tappa, si sostava in sicurezza per tutta la notte, e all’alba del giorno successivo si riprendeva a marciare.

Il “Batmo” era pieno d’ardore: avanti, sempre più avanti! Tutti i miei mortaisti marciavano con passo cadenzato e sicuro, e tutti li sentivo nella mia volontà, nella mia fede: avanti!

21 gennaio: S. Maria de Miralles!

22 gennaio: Vallbona!

23 gennaio: Piera! Masquefa! Avanti!

Ecco la Sierra del Montserrat arcigna e ferrigna, forte ed inespugnabile baluardo che chiude sul fianco la porta di Barcellona. Per noi tu sei una rocca di speranza e di fede, meta di devoti pellegrinaggi per il tuo santuario meraviglioso tra i picchi delle tue rocce aguzze, vedetta verso il gran mare nostro nei secoli. Molti sono i giorni che ti giriamo attorno, e tu fiera ci guardi con ansioso sguardo d’attesa. Eccoci ai tuoi piedi, tra i prati ubertosi e i boschi di ulivi e di mandorli in fiore che ti fanno ridente corona. Tu sorgi maestosa e bella e noi ti guardiamo commossi mentre ti cingiamo da oriente nel fraterno abbraccio che ti libera alfine dal tristo giogo dei rossi. Tu rientri così nella tua Patria d’amore! Tu ti stringi così alle altre belle provincie già salvate dall’onta e dall’odio, e ben ti accolgono coloro che per te lottarono e vinsero.

E lotteranno ancora, e vinceranno ancora! Domani le fiere corti di Roma ti avranno già superata! Il fascio del sacro “Littorio” continuerà a colpire e a stroncare con la sua scure tagliente il braccio e l’artiglio rosso di sangue che ti ha martoriato! Domani le vittoriose schiere delle forze liberatrici giungeranno al Llobregat e si tufferanno nel fiume a piedi calzati arsi dalla fatica, piagati dal lungo cammino, segnandosi la fronte con la mano bagnata nell’acqua silenziosamente benedetta da Dio, per suggellare ancora una volta con piena fede cristiana la loro santa promessa!

 Avanti, discendiamo lungo la striscia d’argento del Llobregat magnifico: essa ci porta rapidi al mare!

Laggiù all’orizzonte c’è soltanto un piccolo monte che copre Barcellona, la bella, la grande città catalana. Su di esso si scorgono i tralicci che si levano alti nel cielo quali braccia protese come in muta preghiera, e tra le cime degli alberi, e tra la selva, le ville isolate e ridenti circondate dal verde puro della più bella speranza!

Avanti, avanti, scendiamo rapidi al mare ed entriamo in Barcellona! Prepariamo, o legionari, il nostro santo vessillo affinché sventoli vittorioso sulle baionette innastate e corriamo, corriamo a gran fiato verso il mare nostro nei secoli!

 Il “Batmo” raggiunse Martorell la sera del 24 e ripartì il mattino successivo. Risalì per gran tratto il Llobregat sulla sinistra, poi volse ad est e puntò su Ullastrell. Vi giunse e lo oltrepassò senza molto indugiarvisi. Accanto alla chiesa due o tre proietti rabbiosi tirati da un carro armato fecero alcuni feriti. Intanto sulla destra combattevano le camicie nere di Oliveti. A tarda sera sostammo nei pressi di una grande villa sulla strada per Tarrasa.

L’alba del 26 ci portò una grande sorpresa ed una grandissima gioia: il “Batmo” lasciava i quadrupedi, si motorizzava, balzava in testa!

 

Sabadell: 26 gennaio

 O radioso mattino di gennaio, tiepido di sole e saturo d’ebbrezza, su quella candida strada per Tarrasa! Ti ricordo e mi sento tutto pieno di gioia!

Mortaisti! Rinsaldate le file e ritemprate gli animi nel crogiuolo della vostra inestinguibile fede: oggi marceremo a gran passo, e andremo lontano, molto lontano!

Foscarini, Genovese, Toccafondi, riunite gli autocarri!

Rossi, raccogli i quadrupedi e parca il carreggio. Sosta ed aspetta: ti darò degli ordini.

Olimpio, Lucci, fieri centauri, saltate sulle vostre motociclette pulsanti e correte, chiamando a raccolta il mio “Batmo”, tutto il mio “Batmo”, il “Batmo” d’acciaio, forte, volitivo, possente!

Adunata, adunata, mortaisti valorosi, giunge l’ora vostra, l’ora tutta vostra, soltanto vostra! Serrate le file, qui, attorno a me, adunata!

Riprendiamo la corsa velocissima! Da Gaeta, da Tarquinia, da Pisa partimmo, e qui giungemmo attraverso il mare nostro, nostro nell’anima, nostro nel cuore, nostro nel palpito più intenso e profondo.

Ed ecco laggiù lo stesso mare ci attende: corriamo! Lo stesso nostro mare ci attende: quello che bagna la terra della nostra grande Patria immortale; quello che porta coi flutti il sospiro delle nostre famiglie che ci aspettano in pena; quello tutto azzurro e infinito come il nostro cielo ricoperto di stelle; quello che dall’alba al tramonto è solcato dal solco profondo di vita che sarà tutta quanta italiana, marinara nei secoli come le vecchie italiane repubbliche; quello che a sera si accende di mille piccole luci nelle sue belle città e nei suoi borghi costieri; quello che a notte risplende della pallida luce degli astri riflessa giù dalla volta del cielo, argentea, tremula, quasi festante o nostalgica! Lo stesso mare ci attende, corriamo, corriamo!

 I mortaisti del “Batmo” salirono sugli autocarri il mattino del 26 gennaio, sulla strada che da Ullastrell porta a Tarrasa. Erano oltre trecento. Li guardavo negli occhi e vedevo traboccarne la gioia. Ognuno di loro nascondeva nel petto una bandiera tricolore. E se tentavo di toccare il tascapane di ognuno, lo sentivo tutto pieno di bombe.

Dove andiamo? Non lo so! Corriamo, andiamo a riprendere il nemico, andiamo a raggiungerlo poiché la sua fuga è veloce, andiamo a precederlo per sbarrargli la strada, andiamo a fugarlo per non dargli più tregua o respiro ovunque tenti sostare. Siete pronti?

Prontissimi!

Verso sera giungemmo a Santa Maria di Barbara, di fronte a Sabadell, e ci schierammo a difesa tra la ferrovia e la strada, a circa un miglio dall’abitato. Il cielo imbruniva. Verso le ore 19 giunse un uomo col viso insanguinato e ci disse che i rossi lo avevano percosso ed erano ancora in paese. Chiedemmo ed ottenemmo di andare a snidarli.

Non fu certo una grande battaglia, e nemmeno fu un grosso episodio. Ma vi fu in voi, fieri mortaisti divenuti fucilieri in un solo mattino, molto ardire e moltissimo ardore. Le vostre pattuglie marciarono svelte nella notte piena di stelle, frugarono ogni cascina, saltarono fossi, siepi e steccati, giunsero alle prime case dell’abitato e sentirono, nel silenzio della sera avanzata, il fragore indistinto di alcuni motori. Accelerarono il passo, seguite a breve distanza dalle squadre in fila nelle cunette e lungo le siepi. Accelerarono il passo e il rumore si fece più chiaro, più preciso, più intenso. Indubbiamente era di carri armati. Si sentiva il fragore dei cingoli che stridevano svolgendosi sul fondo duro della strada.

Allora le pattuglie sostarono un istante: ripresero fiato. Le squadre in fila serrarono sotto. Bisognava correre, bisognava lanciarsi in uno sbalzo impetuoso e raggiungere i carri che scappavano. Bisognava assalirli, piombar loro addosso, inutilizzarne qualcuno, tentare di seminare il disordine, gareggiare in audacia, riuscire a fermarli, costringerli alla resa!

Ma i carri sfilavano laggiù, lontani, velocissimi! Erano trenta? Erano quaranta? Scappavano!

 Che sera, o mortaisti, quella di Sabadell! E che pena sentire quei carri volgere in fuga e vederli sparire laggiù, nel crocicchio della larghissima piazza, e non poter mettere le ali ai piedi, e volare, raggiungerli, annientarli!

Perché ci fermammo quella sera davanti a Sabadell, e aspettammo che quell’uomo sanguinante ci avvertisse? E perché appena giunti non corremmo invece al paese per liberarlo più presto? Quale ricco bottino non avrebbe premiato il vostro ardire?

Ma insomma, nella guerra talvolta si vorrebbe esser mille quando appena si è in dieci, si vorrebbe aver l’ali quando invece legati si sta tutti quanti alla terra, e pesa la carne mentre in alto sospinge lo spirito, e vince la materia talvolta, mentre invece è l’idea che vorrebbe trionfare gigante, mentre invece è la fede che possente ci esalta e ci inebria di magnifica ebbrezza!

Avanti, avanti, o legionari di Roma! Non importa se il nemico ci sfugge! Corriamogli dietro! È un nemico che scappa: facciamogli sentire che gli siamo alle costole e non gli diamo più tregua. Lo ritroveremo domani a sbarrarci il cammino, o forse la sua fuga sarà senza speranza, ma intanto spariamogli addosso perché si affretti ancora di più e precipiti in rotta disastrosa e completa!

Avanti, avanti, mortaisti del “Batmo”!

 

CAPITOLO XII.       LA SMAGLIANTE VITTORIA

 

Badalona: 27-28 gennaio

 Sulla strada di Sabadell gli autocarri sostavano in fila pronti allo sbalzo. Anche i mortaisti sostavano cantando gli inni della Patria. Giunse Foscarini col rancio, che fu subito distribuito.

Alle 9 circa comparve sulla lunga strada un motociclista che procedeva a gran corsa. Gli avamposti lo fermarono: veniva dal comando rosso di Vich ed era diretto a Barcellona. Portava alcune lettere dirette al Ministero della Guerra rosso, a Barcellona già liberata. Feci sequestrare le lettere e la moto e, seguito da Arista, lo accompagnai al vicino comando di Divisione. Avevo la sensazione che si dovesse trattare di cose importanti, e la stessa impressione deve aver provato il Console Radogna che appena mi vide mi venne incontro nel piccolo piazzale esterno della stazione. Aitante nella persona, sguardo acuto e penetrante, pizzo alla D’Artagnan, Radogna ci accolse con una esclamazione e con un sorriso eloquentissimo:

- Buona caccia, eh! caro Amoroso, in questo mattino d’attesa…

Prese le lettere, le aprì…Non si era sbagliato. L’intelligentissimo e versato penalista romano, spirito vivace e indagatore, aveva subito intuito che il comando rosso di Vich non poteva aver spedito un corriere in moto per comunicazioni di poca importanza. Infatti, le lettere erano veramente importanti! Fra di esse ve ne era una “personale” diretta al Ministro della Difesa in Barcellona.

- Ottima caccia – mi diceva dirigendosi trionfante verso l’ufficio di Scala. Quante cose si possono apprendere da una “lettera personale”, e quanta importanza non hanno le “espressioni confidenziali!”

Gli ordini per la ripresa dell’azione si facevano attendere. Li sollecitammo. Ma alfine giunsero, ed erano meravigliosi: “Avanti! Avanti fino al mare!” Fu quella, o miei mortaisti, la vostra marcia trionfale! Cronia ci precedeva in avanguardia. Ma poi si fermò a protezione del fianco, e noi lo sorpassammo.

 

Casella di testo:  
MARCONIGRAMMA IN ARRIVO
26 gennaio 1939 – Ore 21.15
DA COMANDO C. T. V.
AT DIVISIONE ASSALTO LITTORIO
Nostre truppe sono entrate in Barcellona Stop. La gloria est indistinta di tutti Stop Il reparto fortunato nulla toglie alla gloria di chi ha strenuamente combattuto e tuttora combatte stop Bravo Stop
. . . . . . . Stop
									f.to GAMBARA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

Avanti, avanti fino al mare! C’era laggiù, sulla riva, una meravigliosa città che ci attendeva. Noi avremmo chiuso da nord il cerchio che l’avrebbe unita alla valorosa Spagna del Caudillo. Noi saremmo giunti alla riva ed avremmo sbarrata la strada: quella strada costiera che corre lungo il nostro magnifico mare; quella strada bianchissima che si snoda tra ville e abitati, supera ponti e speroni che degradano al mare, lambisce la spiaggia e corre, corre verso il lontano confine francese.

 Avanti, avanti, legionari del “Batmo”! Correte a bandiere spiegate tra gli applausi del popolo che vi accoglie festante; correte con la gioia nel cuore: forse la guerra oggi si chiude, forse la strage oggi si cheta. E riprende la vita!

Su, correte! Passa con voi la vittoria delle armi; passa con voi la radiosa bandiera d’Italia che significa vittoria, pace, lavoro; passa con voi nell’impeto la luce immortale di Roma che parla di bene nella santa e meritata vittoria; passa con voi l’idea immortale che si leva alta nel cielo come vivida stella; passa con voi la fede sempre più salda, sempre più forte, sempre più bella e sentita, chiara come acqua di limpida fonte, semplice come anima pura, intensa come il palpito del vostro cuore fremente!

 

COMANDO DIVISIONE ASSALTO “LITTORIO”

                                                                                     27 GENNAIO 1939

ORDINE DEL GIORNO

Legionari della Littorio! Le città e le case di questa terra non sono nostre.

Il mare è nostro: andiamo al mare! Troveremo il nemico!

                                                                                                          IL GENERALE COMANDANTE  

                                                                                                                      f.to Bitossi

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

Avanti, avanti, questa è la vittoria radiosa e magnifica! Avanti, avanti! Siete alla testa! Portate una fiamma, portate una fiaccola che arde di speranza e di fede. Siete ancora come nel primo giorno di lotta, quella fiera avanguardia della “Littorio d’Assalto” che partì da Albalate nel dicembre già scorso; quella fiera avanguardia che non conobbe mai tregua, né riposo si diede; quella fiera avanguardia delle balde legioni della “Littorio d’Assalto” che hanno tanto lottato fino a Santa Coloma, e sono ancora pronte ad osare; quella fiera avanguardia che porta in trionfo il “Littorio”, e nel nome di Dio, nella fede si esalta e si inebria.

Avanti, avanti, mortaisti del sacro Littorio!

O giornata di fede e di vittoria, io ti ripenso e sento nel mio cuore tutta la gioia dell’avvenimento. Su quei colli ubertosi il nemico già battuto e disperso risaliva senza speranza verso il lontano confine francese!

Non era la sconfitta che l’aveva sommerso, l’onta o l’obbrobrio lo aveva travolto nel fango! Non era l’ardore che lo aveva vinto in battaglia, già la vergogna gli aveva sferzato il viso tutto sporco di sangue fraterno; non la miccia alla mina aveva trasmesso il suo fuoco, ma la perfidia e l’insidia erano penetrate dovunque seminando l’orrore e la strage; non la bomba aveva colpito la chiesa, il santuario, o la casa, era la fede che aveva perduto ogni fascino, e non timore di Dio aveva infuso negli animi perché, follemente smarrita tra l’ateo e il bolscevico, tra l’assassino ed il vandalo, tra il perverso e il fanatico aveva cancellato dagli animi ogni timore di Dio; non il prete aveva risalito lo spalto per morire fucilato, né taceva, sterminati i fedeli, la gran voce di Dio, ma dal folle tumulto risorgeva, essa stessa, la fede, ancora più forte e più bella nel sacrifizio dei martiri!

 Ammazza! Ammazza! Fucila e distruggi, annienta e devasta, questo era il tuo motto o insano, o feroce nemico; ed era pure la tua condanna! Guardate, o legionari, i bei ponti divelti, i templi e le chiese distrutte ancor fumanti di immense rovine; le case saccheggiate e sventrate; la nuda campagna; i borghi incendiati sotto la Sierra Montserrat; le centrali che accumulano energia per le fiorenti officine, le fabbriche che filano e tessono il cotone, la lana e la seta, tutto divelto, tutto rovinato o distrutto, tutto travolto dalla furia che passa inesorabile e trista!

 Avanti, avanti, mortaisti del sacro Littorio! Passa con voi la vittoria più bella, la vittoria più alta nel trionfo di Roma, nella gloria di Dio che è con noi! Non sentite l’anelito dei motori pulsanti? Non sentite la voce che vi chiama e si perde lontano? Non sentite l’ansare del nemico che fugge e va in cerca di grotte o spelonche, o di tane per ficcarvisi dentro e rimanervi nascosto? Il suo fiacco polmone nella fuga si è già esaurito e più non resiste ad un largo respiro. Avanti, avanti, mortaisti del sacro Littorio! Superatelo in corsa! C’è laggiù il nostro mare che attende!

 

Il nostro mare che attende! Su di esso, risospinto dall’onda, il nostro triplice grido giungerà alla Patria lontana:

- “Salute, o santo mare d’Italia! Tu ne adduci alla dolce Patria!”

- “Salute, o santo mare di Roma! A te protendiamo le braccia!”

- “Salute, o santo mar tutto nostro! È per te che lottammo e vincemmo!”

È per te che durammo nella nostra muta fatica, e ben ti vogliamo tutto nostro per sempre, libero al glorioso vessillo d’Italia, libero alla vela, libero al timone, non più schiavo d’Albione, non più chiuso alle porte, ma libero ti vogliamo alfine, libero dalle odiose catene, libero dalle esose barriere, libero per l’Impero di Roma, per l’Impero immortale del sacro “Littorio”!

 Avanti, o mortaisti, avanti fino al mare luminoso e bello, ricco di sole e ricco di sorrisi; mare che parla al nostro cuore con la dolce voce della Patria lontana; mare che ci chiama in silenzio, sospirando come persona cara che trema nell’attesa e si accora; mare che sa dirci quanto sia bello il soffrire aspettando una gioia, quanto sia triste il sognare e sentirsi morire senza speranza, mentre bussa alla porta del cuore una promessa di vita, una promessa di luce, una promessa di fede che da molto e con ansia si aspetta!

Avanti, avanti, mortaisti del sacro Littorio! Su questi colli, su quella strada costiera, su quella spiaggia bagnata dal nostro magico mare, si libra in alto la bella, la smagliante vittoria, e su di voi il suo volo  sarà maestoso e più ampio, come per compensare la vostra fatica, e l’ardore della vostra indomita e indomabile fede. E scenderà su di voi per baciarvi la fronte! E porterà il “Littorio”, il vostro sacro “Littorio”, il “Littorio” di Roma, sempre più in alto, su pei cieli del mondo!

Avanti, avanti, fino al mar tutto nostro, tutto nostro nei secoli!

Proseguendo nella sua marcia trionfale il “Batmo” giunse all’ultimo colle e lo superò decisamente puntando sulla rotabile costiera. Il nostro mare si apriva laggiù tutto tinto d’azzurro e sfolgorante di luce. Il nostro sguardo avido lo rimirava con infinita esultanza e il nostro cuore accelerava i palpiti nell’ansia di raggiungerlo. Quale bella promessa si compiva in quell’ora fatidica? Quale sogno, quale voto a Dio si realizzava in quell’ora?

O miei baldi mortaisti, era quella la sacra promessa che avevate scambiato a Tarquinia col colonnello Romano, nel muto linguaggio degli occhi e del cuore; la solenne promessa che avevate fatto a voi stessi nel lasciare il vostro focolare; la santa promessa che avevate fatto alla vostra grande Patria lontana nel lasciare le sue belle sponde per recarvi a combattere per l’idea che vi infiamma!

E quella santa promessa, ecco, si compiva!

Davanti al mare tutto azzurro, sotto la volta del cielo infinitamente bello e luminoso, scendevano i mortaisti veloci verso il magico mare d’Italia, gonfio il lor petto di un anelito possente, satura l’anima della grande fede di Dio, vittoriosi, invincibili!

Lì, o vittoriosi, si chiudeva un eroico ciclo della vostra storia spagnola! Lì, o valorosi, si vinceva all’ombra del sacro “Littorio” da voi portato in trionfo! Lì il comunismo internazionale rosso di sangue ammainava la sua ingloriosa bandiera tutta sporca di fango e di vergogna e fuggiva cercando riparo verso il lontano confine.

Lì passava la vittoria, la verità, la bellezza, la fede, e moriva per sempre, sul suolo di Spagna, l’errore, l’orrore e l’insidia, l’orribile insidia che striscia nel fango e avvelena lo spirito!

 Viva la Spagna! Viva la Spagna una, libera, e grande, fiera e vera sorella mediterranea, a noi ora indissolubilmente legata da un vincolo fraterno cementato nel sangue!

E viva anche l’Italia che canta ancor oggi il suo peana di vittoria, e sempre lo canterà sui monti, sui mari e nel cielo, contro lo spirito immondo del male e dell’egoismo!

Il “Batmo” giunse al mare alle ore 13 del 27 gennaio. Sostò sulla strada di Badalona, verso Montgat. Riempì i serbatoi della benzina; fu subito pronto a riprendere il passo di marcia. Ma per quel giorno non fu necessario.

E sostò due giorni a Tiana.

 

CAPITOLO XIII.      DI LÀ DELLA BARRICATA

 

Da Tiana ad Argentona: 29 gennaio

 La breve sosta a Tiana vi rinfrancò dalla lunga fatica. E la bellezza e la pienezza della vostra smagliante vittoria vi resero consapevoli del vostro valore.

Ed io che vi ebbi allora ai miei ordini, mi sento ancor oggi, come allora, fiero ed orgoglioso di avervi comandato, e vi vorrei ancor oggi avere qui con me, tutti con me, nei ranghi della nuova “Littorio”, come in quei giorni di durissima lotta. Vi sentivo allora tutti nella mia volontà, tutti nell’animo mio, e ben avrei potuto prendervi tutti in un pugno e lanciarvi al di là di qualsiasi ostacolo!

Così vi sentì allora, o mortaisti, anche il nostro “Gervasio”. Ascoltate anche voi qualche suo giudizio, e certo ne sarete orgogliosi: “La seconda fase dell’offensiva di Catalogna trova ancora il battaglione mortai…pronto a tutto osare.

I trentacinque giorni della precedente battaglia per la conquista di Barcellona…; i 250 chilometri già percorsi… dal battaglione sempre combattendo vittoriosamente alla testa degli elementi più avanzati della divisione; le perdite non lievi subite… non avevano minimamente scosso, né diminuito la saldezza spirituale di questo magnifico reparto.

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All’inizio del nuovo scatto su Gerona, distante dalla base oltre 110 chilometri, trovai il … battaglione mortai sempre…pieno di entusiasmo, tutto proteso verso la nuova vittoria. Decisi di impiegarlo in modo più aderente alla situazione che richiedeva rapidità di movimento, spregiudicatezza tattica, risolutezza. Mi parve che questo … battaglione … avrebbe potuto costituire con i suoi uomini un forte elemento manovriero, audace e capace di dare il più alto rendimento. Non mi ingannai.

I legionari del battaglione … lasciarono i mortai (armi pesanti, ma ormai troppo ingombranti) con i quali avevano manovrato, combattuto e vinto per oltre 30 giorni la loro dura battaglia. Riuniti in reparti leggeri autocarrati, dotati di mitragliatrici e lanciati contro un nemico agguerrito e tenacissimo nella difesa, accanito nel contrattacco, seppero ancora … vincere brillantemente e strappare all’avversario importanti posizioni.

Sembrò come se soltanto allora fossero entrati in azione, tanto fu alto il loro mordente, fresco lo slancio, incisivo il valore, eccellente lo spirito”.

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Ritemprato adunque lo spirito, partiste da Tiana in quel magnifico mattino di gennaio.

C’era in testa a voi, come sempre, quel vecchio fante della grande guerra che vi aveva guidato, in quella oscura notte sul 10 dicembre, nella testa di ponte di Seròs. Da allora egli non vi aveva chiesto che sacrificio e fatica, e con voi aveva sopportato privazioni e disagi, ma vi aveva sempre portato sulla via dell’onore, di vittoria in vittoria, sempre in silenzio, da vero fante nell’anima e nello spirito.

Ma in quel mattino del 29 gennaio 1939, dopo la breve sosta a Tiana, non era un semplice battaglione di soldati legionari che partiva. Chi vi lanciava in testa, non vi mandava affatto per vincere ancora un combattimento, ma per affermare un’idea luminosa, un ideale di civiltà cristiana e romana.

Perché veramente, o fieri mortaisti del “Batmo”, dopo la fulgida vittoria conquistata con largo contributo di eroismo e di sangue, a prezzo di duri sacrifici, voi non eravate soltanto i legionari del “Batmo”, ma gli apostoli di un’idea sorretta da una fede immacolata e incrollabile che bisognava portare più in là, al di là della “barricata”, oltre gli spalti del comunismo internazionale.

E perciò, a voi non era affidato soltanto un normale compito di guerra, ma era con voi, in testa alla vostra colonna, il simbolo della Patria lontana, una bandiera invitta, una fiamma ardentissima, l’idea fulgidissima che sotto il segno di Roma si riaffermava invincibile nell’Impero immortale del sacro “Littorio”!

E dunque o mortaisti, dove porterete voi questo sacro vessillo di passione e di fede che vi affida il vostro valoroso Generale? Dove porterete voi, o forti mortaisti legionari del “Batmo”, questo glorioso vessillo se non più oltre, di vittoria in vittoria, al di là di qualsiasi ostacolo?   

 Con questo viatico di fede riprendeste la marcia verso la nuova immancabile vittoria. Saliste sugli autocarri già pronti sulla strada di Tiana e lesti raggiungeste Monigat; svoltaste a sinistra, sulla strada costiera, sorpassaste le camicie nere del 2° reggimento che avevano già aperto la marcia, e nell’attraversare le file serrate dei vostri camerati, foste accompagnati da un frenetico susseguirsi di acclamazioni, di auguri, di saluti, di applausi.

Ma nel saluto dei vecchi camerati che continuavano a marciare … “autoscarpati”, c’era sempre l’arguta facezia, forse anche una leggera punta di invidia, certo il rimpianto di non essere anch’essi veramente motorizzati per correre anch’essi verso la nuova meta lontana.

 La strada si svolgeva bianchissima sotto il sole fulgido. A tratti fiancheggiata da platani, essa appariva snodata nelle sue piccole curve che avvolgevano i brevi costoni subito degradanti sul mare. Dove andavate o fieri mortaisti in quella domenica festosa? Per quel giorno non si doveva combattere. La vostra meta, infatti, non era molto lontana: dovevate sostare tra Vilasar de Mar e Matarò.

E vi giungemmo presto: erano appena le 13. Ma appena giunti, mentre svelti piantavamo la nostra tendopoli accanto all’argine della ferrovia, poco oltre il bivio per Argentona, vediamo giungere dalla parte di Masnou un’automobile. Si ferma: un uomo discende: è un ufficiale; viene verso di noi. Aguzziamo lo sguardo: ci sembra di riconoscerlo. Sì, lo riconosciamo: è il colonnello Bodini. Ma che viene a fare qui, da noi, questa estrema punta del Comando del C. T. V.? Ci avviciniamo.

 Ma qui, o mortaisti, questa storia del “Batmo” non può più continuare sullo stesso tono col quale ve l’ho raccontata finora. A questo punto questa vostra esaltazione assume per me un carattere così personale, che io non posso più parlare delle vostre eroiche gesta così come ho fatto finora. Se le norme e gli ordini non mi costringessero ad una doverosa discrezione – che peraltro sento anch’io di dovermi imporre – potrei terminare qui la vostra storia e lasciare la parola a chi vi vide operare e vi seguì con occhio vigile e attento nella durissima lotta di quei giorni. E chi vi vide ebbe per voi tratti ed espressioni che profondamente commuovono talché io, vostro “fratello maggiore”, non riesco più a pronunziare il suo nome senza che un impeto di commozione mi salga su dal cuore e mi faccia nodo alla gola. Più in là riparleremo di Lui, ma tutto quello che potremo dire non sarà che una minima parte di quello che sente il nostro cuore e che la parola non riuscirà ad esprimere con piena efficacia. Per ora bisogna che io finisca queste pagine a voi dedicate. E bisogna altresì che mi limiti alla sola cronaca dei fatti.

Perché, o miei mortaisti, la semplice esposizione dei fatti è già di per sé stessa tutta una mirabile esaltazione del vostro valore, del vostro sacrificio, del vostro eroismo. Traspare da essi un vero e proprio spirito di leggenda; dicono da soli tutto il vostro ardimento, tutta la vostra tenacia, tutta la vostra dedizione. Chi leggerà queste pagine sentirà fremere l’animo suo e ne sarà certamente commosso; ma voi che avete vissuto quei giorni ne sarete non soltanto commossi, ma anche fieri ed orgogliosi. Vi sembrerà di rivivere le pagine di fulgido eroismo che avete scritto in quei giorni marciando a bandiere spiegate verso una inebriante vittoria, portando con voi tutto l’ardore di una fiamma, tutta la potenza di una fede, lottando nel nome della grande Patria immortale. Vi sembrerà di rivivere nelle vecchie e valorose schiere del “Batmo” la stessa vita di pericolo e di sacrificio che viveste allora per la grande Patria immortale.

Ma passiamo alla cronaca.

 

Dosrius: notte del 30 gennaio

 Scambiati i convenevoli con Bodini, egli mi dice, cordialissimo come sempre, che vuol parlare alla truppa.

Squillano i miei tre colpi di fischietto – segno delle grandi adunate – e mi si raccolgono attorno, di corsa, oltre duecento mortaisti. Bodini parla loro e dice che il pane non può arrivare perché i ponti sono tutti interrotti. Al posto del pane può dare, per ora, soltanto … un pacco di sigarette. È veramente un magnifico dono, gradito ai fumatori più di qualunque altro; ed io lo prendo con piacere e lo rassicuro perché fino a quel momento ai mortaisti non era mai mancato il pane, e neppure la carne, e … qualche altra cosa!

Mi stringe la mano e parte … in quarta, come suo solito.

 Mi metto a passeggiare sull’argine su cui corre … o meglio, su cui non corre la ferrovia. A sinistra, in basso, stanno sorgendo le tende dei miei soldati; a destra la spiaggia e il mare incantevoli. Sento l’odore acre della salsedine. Mi ricordo che quando ero ragazzo passeggiavo sulla spiaggia del mio paese … sognando!

Sogno anche adesso, mentre percorro quest’argine, lungo e diritto come una freccia, e penso…

Sento che mi chiamano. Torno indietro. Una macchina mi aspetta sulla strada: “Gervasio” mi ha mandato a chiamare. Salgo sulla macchina e corro da “Gervasio”. Scala mi aspetta e mi accompagna. Ricevo gli ordini: sono brevi, chiarissimi.

Tra Argentona e Dosrius è segnalato un forte nucleo di internazionali. Gli abitanti di Dosrius sono rinchiusi nelle case e chiedono soccorso, per telefono, con voce tremante. Bisogna spingersi su Argentona, sorpassarla, garantire il fianco sinistro della Divisione che a sera giungerà tutta nella zona di Vilasar de Mar-Cabrera de Matarò-Matarò. Ritorno al battaglione. Sono circa le 15. Faccio togliere le tende che incominciavano già ad essere sistemate, e ordino di risalire sugli autocarri.

Torno indietro col battaglione verso Vilasar, fino al bivio per Cabrera-Argentona. Svolto a destra, e risalgo verso Cabrera. Giungo in vista di Argentona. Do ordine di scendere dagli autocarri. Con la 1a compagnia in avanguardia, marcio su Argentona. Trovo questo paese sgombro di nemici, ma gli abitanti mi ripetono che da Dosrius continuano le telefonate imploranti soccorso. Oltrepasso Argentona di un paio di chilometri, scelgo una posizione, schiero il battaglione a sbarramento della valle: il mio compito è chiaro: devo proteggere il fianco sinistro della Divisione.

Alle 17 circa giunge il tenente colonnello Raffaelli del comando di Divisione. Mi comunica ancora le richieste degli abitanti di Dosrius e mi dice che “Gervasio” ha intenzione di mandarvi un reparto del 2° reggimento CC. NN. Lo prego di riferire a Gervasio che in quella zona ci sono già i mortaisti e che perciò non è necessario mandare altri a Dosrius. Raffaelli ritorna a Matarò.

I mortaisti sono impazienti. Tutti vogliono andare a Dosrius. Non riesco a frenarli. Riunisco una compagnia: un plotone della 1a, uno della 2a, uno della 3a. Verniani in testa. Già cade la sera: avanti su Dosrius!

 Ripenso alla missione di Raffaelli. Quale poteva essere? Mi sorge il dubbio che “Gervasio” intendesse disimpegnarmi. In tal caso però sarebbe stato più esplicito. La mia iniziativa su Dosrius troverà certo rispondenza nelle sue intenzioni. Infatti, se egli non avesse voluto accorrere in aiuto degli abitanti di Dosrius, non avrebbe certo pensato di mandarvi un reparto. E allora, questo reparto non poteva essere altro che il “Batmo” che era già su quella strada. Avanti su Dosrius!

 Passa circa mezz’ora. Non ho notizie di Verniani e non sento il fuoco delle mitragliatrici, né lo scoppio delle sue bombe a mano: sono però tranquillo. Passa altra mezz’ora: ancora silenzio. La compagnia di Verniani è già lontana. Forse avrà già raggiunto Dosrius. Chiamo Olimpio con la moto. Vi monto anch’io, sul sediolino posteriore, e … di corsa a Dosrius!

Forza Olimpio, corri! Rallenta! Accendi il faro … non lo accendere! Spegni!… Riaccendi! Va piano … più piano … ma corri, corri ti dico!  Raggiungo Verniani a circa 500 metri da Dosrius. Ha già avuto tre feriti. Si è scontrato con una pattuglia rossa che gli ha sparato alcune fucilate ed è poi sparita nelle tenebre. Non sono riusciti a catturarne nemmeno uno: che peccato! Verniani procede con circospezione. Giungiamo nei pressi del paese. Siamo già sulla piazza all’ingresso dell’abitato. Silenzio assoluto! Sembra che i rossi siano tutti scappati. Forse la pattuglia che Verniani aveva incontrato li ha avvertiti. O forse quelli erano soltanto alcuni sbandati. Oppure erano saccheggiatori che avevano messo in allarme il paese. Certo non hanno avuto il coraggio di aspettarci.

Verniani è fuori di sé: vuole raggiungerli. Lo sospingo in avanti, ma gli raccomando: “non troppo”. Intanto le pattuglie sguinzagliate in paese ci avvertono che c’è un magazzino di oggetti di corredo abbandonato dai rossi. Vado a vederlo: molte calze, oggetti di cancelleria, e … tante altre cose. Tutti si provvedono di calze, senza economia. Dopo la mezzanotte giungono reparti del battaglione “Ardente” destinati a sostituirci. C’è anche il comandanre del battaglione. All’una e mezza torna Vernani con una ventina di prigionieri: Gli ordino di rientrare ad Argentona.

Il mattino del 30 Gervasio mi manda ancora a chiamare. Vado a Matarò. Il “Batmo” è già tutto riunito e pronto a muovere. Gervasio mi dà gli ordini: è in formazione “la colonna celere Fabris!”

 

La colonna celere Fabris: 30 gennaio

 Ritorno subito al battaglione. Dispongo affinché siano accantonati in Argentona tutti i materiali esuberanti. Il battaglione deve assumere una formazione snellissima, particolarmente leggera, sempre autocarrato.

Nulla di speciale però: diverrà, di nome, battaglione di arditi. Dico di nome, e non di fatto, perché di fatto il battaglione mortai è sempre stato un battaglione di arditi. Esso diventa oggi soltanto un po’ più snello, più leggero, ma è sempre quello di prima, con lo stesso spirito, con la stessa volontà. La sua nuova formazione gli consentirà ora di correre più veloce, più diritto verso la vittoria. Lo vedremo.

Intanto a Matarò il capitano Ferrari sta riunendo in un battaglione di formazione gli arditi dei due reggimenti della Divisione.

Parto col “Batmo” da Argentona il 30 mattino, diretto a Matarò. Da questa località, la colonna celere Fabris costituita dal “Batmo” e dal battaglione Ferrari deve proseguire per Arenys e S. Pol de Mar, oltrepassando la divisione “Frecce Azzurre”. Il “Batmo” è in testa: spirito eccellente, volontà ferrea. Sono sul primo autocarro. Tutti gli altri mi seguono: avanti! Oltrepasso Arenys de Mar, sede del comando della Divisione “Frecce”.

Poco prima di Canet de Mar sono schierate a sinistra della strada alcune batterie che scandiscono i loro colpi a brevi intervalli, secchi e sibilanti nell’aria tersa del fresco mattino. A un tratto ho la sensazione di essere solo: mi sembra di non sentire dietro a me il peso di una lunga colonna di autocarri. Mi sporgo a sinistra e vedo che dietro a me vi sono soltanto due autocarri. Che cosa è accaduto? Mi fermo, discendo, do ordine al mio autiere di girare l’autocarro di testa. Arriva intanto uno dei miei motociclisti di coda e mi riferisce che la colonna è stata fermata ad Arenys da un ufficiale della Divisione “Frecce”. Torno indietro, al Comando della Divisione “Frecce” e vengo introdotto in una camera dove molta gente … lavora. È un equivoco che mi fa perdere del tempo prezioso. Chiarisco rapidamente la cosa con quel comando di Divisione e riprendo la marcia con la colonna riunita.

 Il 30 gennaio sosta tra Arenys e Canet de Mar. Il mattino del 31 rapporto al comando di Divisione per ricevere ordini.

Fabris ed io troviamo “Gervasio” attorno ad un mucchio di carte spiegate su di un tavolo. Ci chiniamo anche noi su quel tavolo. “Gervasio” ci fa alcuni cenni facendo scorrere una matita sulla carta. Punta su Tordera, su Fagas, su Hostalrich. C’è lì un vasto triangolo sul quale bisognerà fare una … grossa battuta. Ad ovest di Hostalrich, molto ad ovest, la Divisione “Navarra” non può proseguire perché fortemente ostacolata dai rossi: la nostra battuta deve disimpegnarla.

Partiamo il pomeriggio del 31, verso le 17. Fabris è in testa, con Ferrari. Oltrepassiamo Canet, S. Pol, Malgrat. È già sera inoltrata. Abbiamo scavalcato la Divisione “Frecce Azzurre”. Finalmente! Questa volta non si è opposto nessuno, ma abbiamo perduto un giorno.

Il vuoto del campo di battaglia è assoluto. Ma c’è il nostro ardore che lo anima. Ferrari ha già fatto smontare dagli autocarri un plotone che ci procede a piedi. Nessuna traccia di nemici, per ora. Troviamo un ponte saltato: gli autocarri non possono proseguire. La notte è scurissima. Scendiamo tutti dagli autocarri perché bisogna proseguire a piedi. Il passaggio sul ponte interrotto è molto difficile. Gli arditi di Ferrari lavorano di piccone e passano a stento, uno ad uno, arrampicandosi sui blocchi di calcestruzzo accavallati e sconnessi.

Sono impaziente. Non posso aspettare che passino tutti. Mi do da fare. È impossibile che quel piccolo fiumiciattolo non sia guadabile, a monte o a valle del ponte. Giro, rigiro, cerco di osservare. Scorgo a un tratto, nel buio della notte, sulla destra della strada, una casa che credo abbandonata. Mando i mortaisti a vedere: la casa è proprio abbandonata. Cerco di avvicinarmi anch’io ma ho una gradita sorpresa. Sul campo che attraverso vi sono tracce di carri armati. Le seguo, giungo al torrentello; da qui sono passati i carri rossi. Certo hanno ripiegato dopo che il ponte era saltato.

Subito decido: su quelle tracce passeranno i miei mortaisti. Avanti, dietro a me … per due, per uno … avanti!

Passano tutti in pochi minuti, prima di Ferrari! E però lo aspetto di là: bisogna rispettare l’ordine di precedenza: stanotte tocca a lui. Domani a chi toccherà? Forse a tutti e due. Avanti! Proseguiamo la marcia. Stavo per dire: l’avanzata! Scorgiamo lontano i fari accesi di un’automobile che corre. Dove andrà? Avanti, sempre più avanti!

I fari dell’automobile che corre appaiono e scompaiono forse nascosti dalle curve della strada o dagli alberi; o forse interrotti dall’autiere. Ma l’automobile continua a correre verso di noi. Anche noi proseguiamo, ma ora quei fari non si riaccendono più, e sembra si siano spenti definitivamente.

 Ferrari è sempre in testa. Lo raggiungo e arriviamo insieme ai ponti di Tordera. Sembrano intatti. Sì, sono intatti. Si potrebbe passare subito. Aguzziamo lo sguardo, tendiamo le orecchie.

Dall’altra riva ci giunge uno strano picchiettare come se vi fosse gente che lavori affrettatamente. Senza dubbio è così. Ferrari ed io ci guardiamo negli occhi: ci consultiamo!

- Passerei subito – dico io.

- Anch’io – risponde Ferrari – però passerei sul letto del fiume, a valle – soggiunge.

- Meglio a monte – rispondo – dobbiamo risalire il corso del fiume.

 Intanto Fabris ci raggiunge. Vuole essere ragguagliato sulla situazione. Ascolta anche lui i colpi di piccone affrettati e irregolari. Sono certo i rossi che lavorano.

 Ora tacciono: hanno smesso di lavorare. Intorno è silenzio. Perdiamo così alcuni minuti. Sono impaziente. Ripeto che bisogna passare, e subito. Fabris tace, ma io insisto. Mi accorgo però che è inutile insistere. Perché?

Ricordo a me stesso che il mio compito non è quello di sostare attorno ai ponti sul Tordera. Il fiume lo deve passare Ferrari, e lo deve risalire sulla sinistra, a cavallo della rotabile per Matorell. Io invece devo risalire la destra del torrente, giungere a Fagas, passare lì il fiume, sbarrare la rotabile e la ferrovia Hostalrich-Matorell e minacciare le forze rosse che si accaniscono a resistere ancora ad ovest di Hostalrich, di fronte alla Divisione “Navarra”.

Mi siedo per terra dietro un piccolo argine, per dare un’occhiata alla carta topografica nascondendomi sotto una coperta da campo e accendendo la lampadina tascabile di Arista. Ma … balzo subito in piedi: una forte detonazione mi scuote, e subito una pioggia di sassi e di calcinacci mi cade addosso.

Il ponte è saltato! Non c’è più nulla da fare. Ferrari dovrà passare il fiume a guado, e i rossi sono di là.

Ma a questo ci penserà Ferrari!

Torno da Fabris. Gli chiedo se ha ordini, o se posso senz’altro marciare verso il mio obiettivo. Fabris tace un istante. Mi guarda negli occhi. Mi conferma gli ordini e mi dice che posso andare.

Saluto, faccio dietro fronte, raggiungo il mio battaglione. Sono circa le 4 del mattino.

 

 CAPITOLO XIV.     SPIRITO DI LEGGENDA

 Fagas: 1° febbraio

 Saluto dunque Fabris e raggiungo il battaglione; sono circa le 4 del mattino. Ero un po’ contrariato. Perché non dovevo esserlo? Dovessi andare in capo al mondo oggi, col mio battaglione! O raggiungo Fagas e passo il fiume … o non torno! Mortaisti, avanti! 2a compagnia in testa, d’avanguardia.

L’alba è vicina. È meglio che approfitti di questi momenti di tenue chiarore mattutino. Avanti!

- Cronia, tieni sempre la destra al fiume, avanti! Cauto, ma lesto, ispeziona ogni casolare. Non indugiarti. Avanti!

A sinistra, l’abitato di Tordera è avvolto di nebbia. Lo raggiungo. Vi entro dall’est, accanto alla chiesa. Attraverso il piazzale. I mortaisti della 2a, e poi quelli della 1a, mi seguono tutti. C’è sulla destra una piccola strada dalla quale si accede ad una passerella. Su di essa due uomini sono intenti a qualcosa. Li chiamo gridando : “Hombre”! Si voltano, mi vedono, ci vedono, si danno alla fuga. Tiriamo alcune fucilate. Uno di essi si butta a terra, sulla passerella; l’altro continua a fuggire. Subito Cronia e Cattapan, seguiti da alcuni altri, si lanciano di corsa sulla passerella, raggiungono l’uomo a terra, lo prendono prigioniero, passano di là del fiume.

La passerella è nostra, intatta! Erano intenti a preparare la mina: volevano farla saltare. Ho perciò la mia rivincita … ma questa passerella è ben piccola cosa di fronte a quel bellissimo ponte in muratura saltato! Avanti!

Sono di là di quel braccio di fiume. L’altra riva è davanti a me, silenziosa, muta! Pare non occupata, ma invece!

A un tratto si vede qualcuno muoversi, correre. Faccio appostare una mitragliatrice: una di quelle che Cronia ha tolto ai rossi nei giorni precedenti. Ordino di sparare alcuni colpi. I rossi non rispondono al fuoco. Nessuno si muove più. Silenzio! Che sarà mai? Ma ecco si sente gridare: credo di capire. La voce è ben chiara e c’invita a non sparare: “Compagnero! No tirar!” Sospendo il fuoco. Dico a Cattapan di fargli cenno di passare di qua. Silenzio! Trepidazione! Pronti per il fuoco! Si vedono alcune ombre: sono uomini che vengono avanti, si buttano nell’acqua, cercano di guadare il fiume. Sono disarmati? Si danno prigionieri? Sì, sono disarmati. Non ho più alcun dubbio.

Rapidissimo rinserro le file. Ordino a Cattapan di sbrigarsela, e gli dò una squadra di mortaisti abilissimi. Cattureranno in quel giorno, da soli, oltre cento prigionieri ed un autocarro di armi.

Avanti, Cronia! Avanti, Verniani! Avanti tutti! Ripasso il braccio del fiume: devo andare a Fagas, a qualunque costo: questo è il mio obiettivo. Avanti! La 3a compagnia mi raggiungerà. Avanti, Cronia, decisamente a nord, destra al fiume. Proseguo abbastanza rapidamente sul greto incespugliato del fiume, spesso impantanato. Mi allargo a sinistra tra i prati coltivati, lungo i filari di alberi e lungo le siepi. Dappertutto, sul greto e nei solchi, nei filari e accanto alle siepi, piste di uomini che marciano in fila mi rivelano che da lì il nemico è passato da poco.

Ma Fagas è veramente lontano. Sembra irraggiungibile. Dove sarà mai questo paese invisibile? Guardo la carta: è già giorno. Fagas è segnato sulla destra del fiume, vicino al fiume. Non vi può essere dubbio: risalendo il corso del fiume, sulla riva destra, devo trovarlo. Avanti!

 Ma il fiume fa ampie giravolte fra gomiti ed anse, e lassù, più a nord, un panorama di colli boscosi lo rinserra in gole ristrette. È meglio volgere a sinistra: forse troverò un sentiero, forse una strada. Mi inoltro fra i colli ricoperti di bosco ceduo intricatissimo. Vi sono tracce di passaggio di un carro di campagna: forse porteranno ad una cascina. Se ne vede infatti una laggiù. Vi giungo, ma non sembra abitata. Busso. È ancora presto, e la guerra che avanza ha chiuso in casa donne, vecchi e bambini tremanti. Sento qualcuno che discende le scale. Scendono, sorridono, ci hanno riconosciuti che siamo italiani, ci abbracciano. Chiedo notizie dei rossi. Chiedo notizie di Fagas. I rossi son passati da lì ieri sera e Fagas è ancora molto lontano. Bisogna andare più a nord.

Proseguo. Le colline sono anch’esse interminabili; si succedono le une alle altre come dune sabbiose, ricoperte di fitta vegetazione boschiva, bassa e impenetrabile. Penso all’eventualità di una imboscata. Che farei? Ho con me tutti i miei fieri mortaisti, e nessuna imboscata potrebbe gran che preoccuparmi. Avanti!

Ho lasciato il fiume a destra ed ormai ne sono lontano. Ma dove è mai questo strano paese? Sguinzaglio pattuglie, esploro ogni casa, risalgo ogni colle. È questa la “battuta” ordinata da “Gervasio”? E i rossi? Dunque da qui i rossi son passati ieri sera e risalivano anch’essi verso il nord? Avanti, avanti! Siamo in piena leggenda! Ma questo non è ancora tutto! C’è più in là, sulla destra, la cima di un monte. Se salgo lassù, vedrò certo qualcosa. Avanti, avanti!

 Mentre risalgo il pendio sento le mitragliatrici sparare lontanissime sull’alta Sierra a sinistra. Ma giunto in vetta, mi riappare la striscia d’argento del rio Tordera che lambisce le falde del monte. In basso, sul breve piano tra il fiume e la cresta che lenta degrada, c’è un fitto bosco quadrato a filari regolarissimi, e più a nord, nell’ansa ampia e verdissima, un vasto caseggiato con muro di cinta, basso, isolato, bianchissimo. Il fiume lo avvolge ampiamente da est e da nord e poi svolta deciso verso ovest. È mai possibile che quel caseggiato sia Fagas? Fagas è un abitato, non è un caseggiato!

Mi avvio in discesa tra la fitta vegetazione del bosco ceduo che ricopre le pendici del colle. Guadagno il bosco. Le mie pattuglie sono già allo sbocco di esso, sul davanti, sui fianchi, destra al fiume. Mi inoltro tra gli alberi. Sono meravigliosi, altissimi, a grossi fusti slanciati verso il cielo azzurro. Sembrano magnifiche antenne. Come sventolerebbe bella lassù la nostra invitta bandiera!

 Avanti, andiamo a Fagas! I miei esploratori mi avvertono che proprio quel caseggiato è Fagas, ed è occupato dal nemico. Bene! Benissimo. È quello che volevamo. Avanti, Cronia, oggi è il tuo giorno.

E Cronia si lancia coi suoi mortaisti in un travolgente attacco; serra il nemico nell’ansa ampia del fiume, lo sospinge in rapida corsa verso la riva, lo stringe in una stretta senza uscita, col fiume alle spalle, e tutti li cattura, armi ed armati, soldati e ufficiali, senza distintivi né gradi, ché tutti se l’erano tolti per paura di …..  rappresaglie.

Ma i legionari del “Batmo” non hanno mai conosciuto questo genere di lotta. I soldati del “Batmo” hanno sempre guardato in faccia il nemico e lo hanno sempre sconfitto in buona guerra.

Ma occupato Fagas, liberata la riva destra del fiume, il “Batmo” non ha ancora assolto completamente il suo compito. Il “Batmo” deve ancora passare il fiume e puntare sulla rotabile e sulla ferrovia di Matorell, per aprire la strada alla Divisione “Navarra”.

Percorro gran tratto della riva destra del Rio in cerca del ponte. La carta ne indica uno ben chiaro. Lo cerco: ci deve essere. Forse sarà più a monte. Mando una pattuglia che ben presto ritorna senza aver trovato alcuna traccia di ponte. La carta è dunque errata. Non importa, i mortaisti passeranno lo stesso.

Chiamo Cronia, chiamo Tomasi. Incarico Cronia di preparare un passaggio di circostanza. Ordino a Tomasi di risalire con un plotone la destra del fiume fino ad Hostalrich. Lì è segnato un magnifico ponte. Se riesce a passarlo, si stabilirà saldamente sulla riva sinistra del Rio mandandomi subito ad avvertire.

Intanto Cronia lavora.

E Verniani? Verniani ha ordine di insediarsi nel casolare e sistemarsi a difesa. Egli piazza le mitragliatrici attorno ai muri esterni. Mette un osservatorio sul tetto. Raduna tutti i prigionieri: sono moltissimi. Continuano a giungere da ogni parte. Quanti sono finora? Non lo so: li conteremo stasera.

La 3a compagnia che era di rincalzo ci ha raggiunti. Ora la guarnigione della fortezza improvvisata è al completo e robusta. Il possesso di Fagas è ormai assicurato. La nostra “battuta” è perciò riuscita in pieno; manca soltanto la seconda parte del programma; svolgeremo anche quella.

 Intanto, mortaisti, mangiate pure … il rancio improvvisato. Nel casolare … dico a Fagas, vi sono i padroni di casa, e … molti polli, molti conigli, molte patate. C’è un gran da fare per cucinare tutta questa roba! Ma le donne si moltiplicano nella fatica domestica, e tutti si danno da fare. Gli uomini tirano il collo ai polli e ammazzano i conigli, i soldati sbucciano le patate; e le donne … tutto cucinano con molta allegria!

C’è pure molto vino, buon vino, in quel casolare: non potevate sperare un rancio migliore! Ce n’è per tutti. Sembrano inesauribili le risorse di questi contadini. E poi … danno tutto volentieri, con spontaneità e senza rimpianti. Forse la gioia della liberazione li ha esaltati. Ma anche i mortaisti pagano senza economia. Ognuno ha un bel gruzzolo di “pesetas” e non esitano a darne – anche troppo – con animo lieto, e cederanno anche il rancio quando lo porterà Foscarini.

 Sono impaziente! Non mi giungono ancora notizie di Tomasi. È partito da circa due ore e sono quasi le 11. Scendo al fiume, da Cronia. Lo trovo disperato; il lavoro va male. Non c’è un punto in cui si possa guadare il fiume, o buttare una zattera. Percorro ancora una volta la riva. Orlando mi accompagna. Non riesco a trovare nemmeno io! È impossibile passare. Tomasi non torna ancora, né manda notizie. Come gli sarà andata?

Si sente lontano, verso la “Navarra”, il gracidare delle mitragliatrici ed anche il cannone romba cupo e continuo. Si sente pure l’assordante fragore di alcuni aerei legionari: sono ali italiane. Guai se ci vedono! Ci prenderebbero per rossi e ci rovescerebbero addosso tutto il loro carico di bombe. Sarebbe un grosso pasticcio. Fortunatamente passano alti e diritti: hanno certo anche loro una missione da compiere.

Torno indietro, risalgo ancora il fiume. Sento la voce di Tomasi. Gioisco! Tomasi mi viene incontro rosso in viso lisciandosi i piccoli baffi. Il ponte di Hostalrich è intatto, ma è saldamente tenuto dai rossi, i quali lo infilano con le mitragliatrici appostate sulla riva sinistra del fiume. È impossibile passare lì.

 Allora decido: non aspetto più alcuno. Raggiungo Cronia e lo trovo al lavoro. Gli dico che bisogna forzare il passaggio, buttarsi sotto. Baldi è intento con alcuni mortaisti a tagliare alla base alcuni alberi altissimi. Davanti a noi è un largo braccio di fiume rapidissimo, profondo, quasi vorticoso. Ma se uno di quegli alberi che stanno per essere tagliati, cadendo di là raggiungesse con la cima il ghiaione, o almeno superasse quel primo filone, certo potremmo passare!

Sono momenti di ansia. Orlando mi guarda e tace. Cronia è contrariato: voleva fare una passerella, e invece non è nemmeno riuscito a buttare una zattera. E però, passerà anche lui, ed avrà la sua bella medaglia d’argento!

Coraggio mortaisti, forza, tagliate … tagliate! Ed ecco a un tratto un albero tentenna, ha un fremito, si inclina, cala giù, precipita sull’acqua, la punta è sul ghiaione! Vittoria! Sotto, legionari, siamo di là!

Mi butto in piedi sul tronco, un passo dopo l’altro, mi afferro ai rami e taluni li schivo, tentenno, perdo quasi l’equilibrio, ma mi afferro e … proseguo, salto di là, sono sul ghiaione! Orlando è dietro a me. Cronia è dietro a me!

Avanti legionari della 2a compagnia! Avanzo sul ghiaione oltre il primo braccio del fiume, ormai superato, mi inoltro nell’acqua bassa e lenta che si allarga sul greto. Orlando è sempre accanto a me. È instancabile con la sua “Leica” sempre pronta! Anche Cronia mi segue, ed anche alcuni altri ci hanno raggiunto.

Avanti Melilli e compagni, avanti! L’acqua mi sale piano al polpaccio, ma il piede sprofonda. Ora l’acqua si alza più in su lungo la gamba che spingo innanzi a tentoni. Mi puntello con un grosso bastone. La corrente quasi mi vince, ma procedo. Ancora l’acqua sale, è al ginocchio, e poi alla coscia, e la corrente è sempre più forte. Ma la riva è vicina, forse quindici metri, forse dieci metri: avanti!

Sprofondo ancora di più, faccio forza col bastone e mi puntello più forte a valle e avanzo con passo cauto, a stento, mentre l’acqua sale, e mi bagna ancor più e mi arriva alla cintola. Ma ormai fra qualche passo potrò afferrarmi agli arbusti, sull’altra riva! Ancora un ultimo sforzo e ancora mi puntello col bastone, a valle; allungo il braccio sinistro, mi afferro ad un ramo, tiro, mi sposto in avanti e l’acqua mi trascina, ma resisto, butto il bastone sull’opposta sponda vicinissima e mi afferro anche con la destra ad altro ramo e tiro, tiro e mi aiuto, sono accanto alla riva, la tocco, la risalgo grondante! Riprendo il bastone, mi sporgo sull’acqua e lo porgo ad Orlando e poi agli altri, agli altri ancora, Cronia fra i primi, Baldi e Tomasi, Melilli e compagni, e soldati e soldati, uno ad uno, e l’uno con l’altro si aiutano e tutti si tirano su, avanzano in acqua, risalgono la sponda!

Lancio di là un forte manipolo, sull’argine alto, in vedetta, sulla strada, sulla ferrovia che viene presto raggiunta. Ora siamo tutti al di qua. Dietro a me e con me è tutta la 2a compagnia, la compagnia di Cronia; la catena è formata, il passaggio sicuro, la vittoria certissima. Avanti!

 Mando a dire a Verniani che scenda anche lui sul fiume e passi anche lui, ma non ho completato quest’ordine che sento sull’altra riva un vocione che mi chiama:

- Signor maggiore, signor maggiore … bisogna tornare indietro, il signor Generale ordina di tornare indietro!

È Arista che grida: strillone ineguagliabile, spesso opportuno, talvolta da me stesso incitato! Ma oggi, in questo momento, la sua voce è un colpo di cannone, è come una batteria da 149 che spara!

- Sta zitto co … - urlo anch’io esasperato!

Ho gridato come non ho mai fatto finora. Arista ammutolisce, è mortificato: il mio aggettivo è stato violento … ma lui è sempre il mio Arista! Dunque? Che c’è? Il signor Generale ordina di tornare indietro? E perché? Tornare indietro? Che cosa vuol dire? Ma se sono sulla strada di Gerona! Ma se ho già occupato la ferrovia di Hostalrich! Questa notte, da questa posizione in agguato, mentre serra sotto tutta la Divisione, prenderò almeno 5000 prigionieri, tutti quelli che ripiegheranno di fronte alla “Navarra”, tutti i mezzi, automobili, autocarri, cannoni, carri armati che fuggiranno in disordine! E domattina prestissimo riprenderò la marcia su Gerona, alla testa della Divisione. Gerona è distante 30 chilometri soltanto! Dietro a me potrà passare tutta la Divisione su di un ponte di barche o di circostanza che potrà essere costruito nella notte.

 No. Niente di tutto questo! Bisogna tornare indietro! L’obiettivo della Divisione non è Gerona, è Vidreras!… Bisogna tornare indietro! Indietro! Che brutta parola! Orsù, mortaisti, coraggio! Cronia, ripassiamo il fiume, in ordine, uno alla volta, in silenzio: bisogna tornare indietro! Adunata, Verniani, adunata, Guidi, adunata, Cavagliano! Torniamo indietro. Prigionieri in testa, avanti, torniamo a Tordera!

Così si concluse questa bella giornata legionaria! A mano a mano che proseguivo nella marcia di ritorno la lunga colonna di prigionieri continuava a ingrossare. Giungevano da nord, da ovest, da tutte le parti. Alcuni armati, molti senz’arme, tutti smarriti di trovarci così oltre le linee della battaglia, in zona che loro credevano lontane retrovie.

Anche qui la guerra aveva assunto il suo carattere tutto particolare. E se volessimo ora spiegarci il mistero di quel nostro ritorno a Tordera, potremmo dire che la politica … ma è meglio riprendere la nostra cronaca.

 Giungemmo a Tordera verso le 17. Foscarini ci aspettava col rancio ancora caldo. Contammo i prigionieri: erano 500, ma ancora ne giungevano! Li avviammo al comando di Divisione. Anche le armi che Cattapan aveva raccolte alla passerella erano molto aumentate e bisognò versarle. La nostra “battuta” era stata veramente proficua, ma era proprio terminata, purtroppo!

O dove andremo domani?

 

Sulla strada di Francia: 2 febbraio

 Il 2 febbraio, o miei mortaisti, è giorno di asprissima lotta, ed io non posso ora ricordarlo senza sentirmi profondamente commosso. È la nostra più bella battaglia.  È la nostra giornata più fulgida, piena di eroismo e di sole, di vivo sole che illumina tutta la nostra epopea catalana.

E perciò, o mortaisti, levate in alto l’insegna che il nostro “Gervasio” vi consegnò nel partire da Tiana, perché qui, su questo tratto della strada di Francia, insanguinato e tempestato di bombe, c’è tutto il vostro valore, c’è tutto il vostro sacrifizio, c’è tutta la vostra più superba vittoria. Tornavate appena dal “temerario colpo di mano” su Fagas, e già eravate pronti a rinnovare l’impresa con sempre più incontenibile ardore.

Dopo una giornata così densa e permeata da uno spirito di leggenda, che cosa vi si poteva chiedere in quel giorno se non una prova di estremo sacrifizio, di sfolgorante valore? Che cosa si poteva chiedere a voi se non di meritarvi ancora una volta l’onore, l’alto onore di aprire la marcia alla invitta ed invincibile Divisione d’Assalto “Littorio”, sulla strada di Francia, oltre Tordera, verso Llagostera e Gerona? Di che cosa non sareste stati capaci dopo il “temerario colpo di mano” su Fagas?

Passare un fiume a guado, di notte? Ma se lo avevate già passato in pieno giorno, di fronte al nemico! Ma se vi eravate già buttati nel fiume come un audacissimo manipolo votato alla morte!

E dunque, “Gervasio”, lancia questo pugno di valorosi verso la tua meta lontana! Lanciali come frecce aguzze sulla strada di Francia: tu sai che nessun ostacolo riuscirà a fermarli fino a quando non saranno illuminati in pieno dal fulgido sole della più bella vittoria! E se il loro “fratello maggiore” sarà portato per forza all’ospedale da campo perché ripetutamente ferito, che importa? L’ardore della lotta li anima e li sospinge verso la vittoria e il sacrificio del loro comandante saprà ancor più spingerli sulla via dell’eroismo.

 Avanti dunque, o miei mortaisti, questa è la nostra più bella giornata!

Passammo il fiume con lo stesso impeto del giorno precedente e ci videro le camicie nere di Oliveti e gli arditissimi di Ferrari quando li oltrepassammo.

Avanti! Oggi è in testa la compagnia di Verniani. Cronia è di rincalzo. Avanti. C’è con noi una sezione anticarro di Carina. La comanda Tasciotti: è un ufficiale che sa il fatto suo; può stare con noi. Avanti!

Ci sono con noi i mitraglieri di Oliveti che ben conosciamo. Le loro armi sgranano un rosario senza fine. Non conoscono inceppamenti. Possono stare con noi. Avanti!

Ci raggiungeranno prestissimo i carri armati già provati in cento battaglie. Ogni pilota ha un cuore d’acciaio. Il suo motore freme e pulsa come il suo cuore. Può stare con noi. Avanti!

Avanti, avanti, sulla strada di Francia, verso la vittoria che sarà nostra, verso la vittoria più bella, verso la vittoria che splende e illumina di puro sole italiano: avanti!

Marciarono i mortaisti in quel fatidico giorno, dopo una notte insonne, dopo un’ansia infinita. Si spinsero oltre il Tordera e subito si avviarono verso il loro obiettivo, come frecce lanciate dall’arco portentoso di un abilissimo arciere. Andavano tutti col loro incontenibile ardore, con tutta la loro inestinguibile fede.

 Ma a un tratto scorgo sulla strada di Francia un miliziano che corre e scompare nel fitto bosco ceduo che fiancheggia la strada. Ed un altro lo segue, ed un terzo ancora, a breve distanza. Ma son disarmati?

Rallento la corsa e chiamo in testa Brunori col suo plotone mortai composto di fieri ed audaci soldati che non aspettano il segno, ma si lanciano e sono pronti alla mischia.

Avanti Brunori! Sulla cunetta, a sinistra, c’è il filo gommato di un telefono da campo.

“Taglia quel filo” grido a Brunori! E Brunori lo taglia.   

Ed ecco sulla strada, dalla curva strettissima, sbucano prima un carro armato, e poi due, e poi tre. Avanzano veloci, minacciosi, col cannone puntato.

Do una girata al volante, a sinistra, tutto teso nello sforzo dei muscoli, nell’azione improvvisa che riesco a dominare. L’autiere asseconda con prontezza la mia mossa, e subito l’autocarro è di traverso sulla strada e la sbarra ed arresta la marcia di quei carri armati nemici. Salto a terra e faccio cenno agli autocarri che seguono, ed anche essi in un attimo sono messi in traverso sulla strada.

“Su, svelto, Tasciotti, porta avanti i tuoi pezzi e spara da lì, tra autocarro e cunetta, tra autocarro e scarpata”.

“E tu, Verniani, ecco giunto il tuo giorno! Se ti lanci lassù, sul cocuzzolo ricoperto di bosco a cespugli intricati e fittissimi, e difendi la strada coi tuoi fieri soldati, ecco, il nemico è già vinto”!

“Anche tu, Cavagliano, se ti butti a sinistra, fra la strada e la valle, tutti i rossi che incontrerai laggiù saranno tuoi prigionieri”.

Avanti, coraggio!

“E tu, Brunori, se ancora arditamente ti spingi più avanti sventagliando pattuglie, ecco, giungi a contatto di quei carri e dei rossi che ci contendono il passo. Hai pronta la tua bottiglia di benzina e la bomba? Incendiali tutti”!

 

Avanti, tutti avanti, siete tutti in battaglia, celerissimi, arditi; siete tutti qui, attorno a questa breve cunetta che mi accoglie ferito; siete tutti qui, attorno a me, attorno a questi tre autocarri che sono, o miei prodi, la nostra “barricata” di morte, o gradino per la trionfante vittoria!

Che importa, che importa se qui attorno infuria rabbiosa la mitraglia nemica? Che importa se il mio cappotto è più volte bucato dal proiettile a punta tinto di rosso o tinto di gialliccio? Che importa se il cannone nemico ha incendiato il nostro primo autocarro? Non è quella certo la nostra più salda barriera? Ecco, ecco “la barricata”, e noi qui la difendiamo col nostro petto, col nostro valore, col nostro sangue, col nostro sacrificio.

Ma andremo di là perché là è la nostra vittoria!

 

C’è qui, dietro a noi, tutta l’Assalto “Littorio”, e “Gervasio” è in testa. Ci sono qui attorno, quasi a contatto, i “Lupi” di Santa Coloma, e con essi c’è Olita che accorre! Li ho mandati a chiamare e tutti presto verranno. C’è qui Nicoletti che Oliveti ha mandato in pattuglia di punta. Ci sono già i carri, i nostri carri veloci e c’è pure dietro a noi la colonna degli arditi di Pace, quella colonna che alcuni giorni fa si lanciò velocissima, ardita, ed occupò Terragona. E tutti insieme, bruceremo la tappa, e correremo incontro alla nostra bella vittoria.

E se zoppico un po’, ho però un bastone su cui mi posso appoggiare; e se l’alzo, questo bastone di legno non è più un bastone, perché ha in cima una volontà ed una fiamma, e vi esalta nel suo cenno imperioso: Avanti!

 Avanti, o mortaisti della “Littorio d’Assalto”! È questa la lotta in cui domina ancora la fede, la nostra fede; e l’orgoglio, il nostro orgoglio, di sentirci italiani; e la fierezza, la nostra fierezza, di essere i legionari di Roma. Questo è l’ardore della lotta; e questa è ancora la “barricata” eretta contro il mondo rossissimo, e di qua c’è scritto un gran nome: Italia, Italia, Italia! E di qua ci son cuori che nel loro ampio respiro sono pieni di santa, di profonda fierezza perché lottano all’ombra del “Littorio” di Roma, perché sentono invitta l’invincibile idea che da Roma si irradia sul mondo, in questo magico sole.

Che importa se già il mio braccio sinistro brucia perché è stato graffiato dal piombo nemico? Che importa se bucato è il cappotto all’altezza del gomito, e la giubba e la camicia sono un po’ intrise di sangue? Non c’è nulla che freni l’ardore, o mortaisti d’acciaio. Attraverso la radio ho gridato a “Gervasio” che su questo lembo di strada non vi sono soldati che combattono, ma c’è una bandiera che sventola nel nome d’Italia ed una fede che vince nel santo nome d’Italia. Attraverso la radio ho gridato a “Gervasio” che nessuna ferita potrà fermare la marcia della vittoria trionfante. Ho già detto a “Gervasio” che siete un pugno d’eroi e non conoscete sconfitte.

E “Gervasio” mi ha risposto che è sicuro di voi! Anch’egli risale questa strada insanguinata e sarà presto tra voi. E se intanto altra pena mi affligga, o altro sangue mi sgorghi dalla tibia sinistra forata, o dal piede destro ferito, o dal braccio graffiato o dalla gamba destra bucata, non c’è nulla che riesca ad intaccare questa mia volontà che è pure la vostra; non c’è nulla che possa soffocare l’ardire, o attenuare l’ardore, o contenere la fede che prorompe gagliarda su dal cuore alla voce, allo sguardo, e ogni cosa ci esalta, comandanti e soldati; e ogni cosa ci sospinge all’estremo dolore, all’estremo olocausto, pur di vedere per sempre, una volta per sempre, l’inglorioso vessillo dei rossi tutto sporco di fango, di obbrobrio e di sangue fraterno, ammainato, ammainato per sempre!

 Nel fulgore di quel radioso pomeriggio splende la vittoria. I carri rossi, inseguiti dai nostri proiettili, ripiegano e scappano, e gli internazionali bolscevichi diradano il fuoco e nella stretta tentennano. I “Lupi” e gli arditi di Ferrari li stringono in una morsa, risalendo su pel colle dai fianchi; e avanza sulla strada l’arditissimo nucleo di Pace; e i mortaisti procedono in pattuglie arditissime. Si muove e si stringe la morsa. L’abilissimo arciere ancora una volta ha teso l’arco suo portentoso, e le frecce lancia per lo scatto trionfale!

Ma il vostro “fratello maggiore” non scattò più con voi in quel magnifico giorno, o miei mortaisti valorosi! E voi lo lasciaste, o fratelli accorati, dissanguato e sbiancato in volto, sulla barella da campo. E poi lo caricaste sull’autoambulanza che lo portò a Tordera con le gambe sfasciate e fasciate, ben sei volte colpito, in tre ore di asprissima lotta … in tre ore di vita intensa e magnifica tutta piena di ebbrezza, tutta piena di ardore!

E da Tordera egli passò a Masnou, e poi a Saragozza, a Cadice, ed a Napoli infine, sulla banchina del porto dove vi aspettò trepidante e ancor zoppo, appoggiandosi al suo bastone di legno. E voi lo accoglieste esultanti come se quello fosse ancora il giorno della vostra più bella battaglia vittoriosa.

 

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Qui finisce la storia dei miei valorosi mortaisti, ma non finì in quel giorno la loro gloriosa epopea.

Chi riprese nel pugno il mio vessillo di fede? Quale forza vi diede il mio tributo di sangue?

O non andaste forse anche dopo, di vittoria in vittoria, a Cà della Selva, a Llagostera, a Gerona?

O non travolgeste nell’impeto le residue forze dei rossi, affiancandovi, o valorosi, agli invincibili “Lupi”?

E con essi correste verso la meta luminosa, e con essi piantaste sulla cima più alta il mio vessillo di fede!                 

Fu allora, certo, che vi guardaste d’attorno e sentiste che mancava qualcuno.

Mancava infatti il vostro “fratello maggiore”! Ma ognuno di voi, trattenendo il respiro, lo sentiva presente.

Ed egli vi accolse sempre, nel vostro lungo, continuo e devoto plebiscito d’amore, all’ospedale di Masnou, con caldo sentimento fraterno e fervida fede, come sempre, perché sentiva già vinta la grande, la bella, ma dura crociata, perché vedeva già splendere di vivida luce la vittoria di Roma!

 

CAPITOLO XV.       RASSEGNA DI LEGIONARI

 

Questi furono allora i miei mortaisti ed i “Lupi” e questi sono e saranno ancor oggi e domani, e poi sempre e per sempre, tutti pronti al mio cenno. Ché se grido “adunata!”, o se squillano le trombe del “Batmo”: “adunata!”, come un giorno, sicuri scenderanno dal monte e correranno a gran fiato, lasceranno la casa e la mamma vecchietta, o la florida sposa, col bimbo lattante; e tutti, tutti qui attorno mi si stringeranno compatti, tutti pronti alla lotta, pronti al sacrificio.

Ma non posso concludere questa storia del “Batmo”, o miei fieri soldati, senza passarvi in rassegna. Vi vorrei tutti qui, tutti quanti con me, come sui campi di Tarquinia e di Catalogna; e potervi riguardare tutti negli occhi, ricordare con voi tutti i giorni della lunga odissea; riparlarvi ancora come in taluni momenti della nostra intensa preparazione; leggere nel vostro sguardo fiero e fermissimo l’ansia dei vostri cuori, l’ardore della vostra volontà, la certezza della vostra vittoria!

Ora, ecco, proviamo! Io riprendo il fischietto e tre volte vi soffio, e grido a Zingarello di suonar l’adunata.

 

Vi rivedo! Vi vedo! Siete tutti qui attorno. Adunata! Adunata! Qui, seduti, tutti seduti, per terra, qui, accanto a me, più vicini, serrati, serrati attorno a me! Io risalgo quest’argine affinché tutti vi possa riguardare negli occhi. C’è qualcuno che manca?

Sì, purtroppo, c’è qualcuno che manca! Ma se chiamo Marotta, o se chiamo Franchina, o Farina, o Marziale, e tanti e  tanti altri, mi risponde una voce possente e mi dice che con noi sono anch’essi, i nostri cari morti, tutti quanti presenti! Son tutti con noi. Li sentiamo con noi! Io li vedo tra di voi nelle file laggiù.

Non vi spuntino lacrime! Questo non è un giorno di pianto, ma giorno di vittoria, e possiamo fieramente ricordarli qui tutti: sono gli eroi che hanno fatto la storia – la nostra storia – ed hanno offerto la vita in olocausto alla Patria. Ma nel loro sacrificio si ritempra la vostra volontà, e voi vivi, tornati alle vostre famiglie, ricordate quei morti sempre fieri di essere stati con loro in quell’aspra battaglia. E il pensiero dei morti non vi accori, ma vi esalti e vi spinga più oltre.

Ma qui, oltre ai morti vi son pur molti vivi che han già ripreso il fucile e son tra coloro che combattono su aspri fronti di battaglia, e su dune infuocate dal sole!

 

C’è laggiù, lo vedete?, il capitano della 2a: Cronia. Arrivò a Pisa tenente, e fu il primo del “Batmo”. Aveva tutto il valore di un bersagliere dal polmone di acciaio; spregiudicato e rapido nell’azione come veloci e saldi erano i suoi garretti. Un po’ … duro di orecchio, ma più duro nel chiedere a voi tutti fatica e ancor più duro nell’imporre a sé stesso fatica. Era spesso muto, ma operava in silenzio e, soprattutto, con calma. Sorrideva di rado, ma vi comandava col cuore, ed aveva coraggio, ardimento, perizia.

 

E Restifo, il furiere, suo valido braccio? Anche lui era soldato di purissima fede. Piccolo, vivacissimo, instancabile, generoso. Occhi ardenti, prontezza d’intuito eccezionale e se gli davo un ordine, o un incarico, ero sicuro che lo avrebbe assolto bene, completamente.

 

E Verniani, dal “glabro volto e dalla sguardo glauco”? Giunse anche lui a Pisa con Arista. Entrambi venivano dall’84° Fanteria, ed erano già binomio inseparabile. Fiero di aspetto: “col suo viso, sotto l’elmo, somigliava al prode Anselmo”! Alto, segaligno, chiunque lo vedeva una volta non poteva dimenticarlo: volto bruciato dal sole e dal vento, marcato di rughe agli angoli delle labbra; occhi taglienti; naso appunito, spavaldo … quasi beffardo. Aggressivo sempre, per principio, per norma di vita, spesso per partito preso. Sempre a discutere, sempre a cianciare, e … guai a chi toccava la 1a. Per lui non vi erano altri reparti: sempre la 1a, solo la 1a. Molte le sue frasi celebri nella storia del “Batmo”, e duri sempre gli attacchi, con lo sguardo e … col naso. Povero Arista, quanti ne hai subiti!  “Io non l’ho con te – ti diceva spessissimo – ma chi mi ha fatto assegnare alla 1a tutti gli imbecilli? Non uno capace; tutti sordi; non un piantone un po’ astuto, né un trombettiere che non stecchi”!

“Io non l’ho con te. Ma chi mi manda le circolari lunghe un chilometro che non servono a nulla? E chi dà queste norme più o meno contabili, che mi portano via mille lire in tre rate”?

Ricordate, mortaisti della 1a quell’instancabile brontolone dal gran cuore generoso che vi ha sempre comandati con perizia e valore? Col cappotto infangato, o la “mantas” ed il passamontagna, curvo sotto la pioggia, pensoso talvolta: lo ricordate a Seròs? La sua voce tagliente era un duro comando – “Spolettate le bombe!” “Dall’arma di sinistra, un colpo … due colpi … tre …!”. Più i mortai sgranavano il loro rosario di morte, più la voce di Verniani si faceva alta e stridente.

 

E il medico Caserta? Lo ricordi, Arista? Non ti chiese per prima cosa chi gli avrebbe pagato lo stipendio e quanto gli avrebbero pagato? Non credeva alla tua precisione ed alla tua puntualità di amministratore! Ma appena giunto, Caserta, ottavo medico del battaglione, in due mesi, stabilì vincoli di salda amicizia con tutti. Passano i mesi – ormai passano anche gli anni – e più lo ripenso e più lo apprezzo. Sua norma di azione fu sempre quella di andare incontro al ferito. E così lo vedemmo, questo piccolo calabrese, sotto un cappotto ingiallito e lungo poco più di una giacca, piedi sperduti in due grosse scarpe a barchetta, barba sempre lunga, ma occhi lucidi e mai stanchi, tasche piene di pacchetti di medicazione, di filacce e fialette, di forbici e bende, e cerotto, e bende, bende, bende! Correva sempre, in su, in giù, in avanti, sempre più avanti, da un ferito all’altro. Anche il 2 febbraio mi fu sempre vicino quando ferito non volevo lasciarvi; egli era lì, nella cunetta, accanto a me, con le sue fasce, le sue bende, e … l’inseparabile elmetto!

 

E Toccafondi? Anche lui è laggiù, in quell’angolo, fra autocarri e casse di bombe. Alto non troppo, e magro, magrissimo! Scarmigliato sempre, in disordine spesso, ma sorridente! Semplice d’animo, e schietto. Lavoratore instancabile, e due occhi, due occhi che parlavano sempre, e dicevano sempre un nome: “Delfina”! Oggi Delfina è sua moglie.

 

E Allamandola? Anch’egli è qui, col suo pizzo a punta. Un po’ basso e . . . quadrato, ben saldo, in gamba come le sue belle montagne, bersagliere di fatto, ma alpino nel cuore: poche parole, moltissimi fatti. Giunse in abito civile, pantaloni alla zuava, scarponi a gambale alto alla canadese, sacco da montagna sulle spalle, e … ben pieno!

“È la terza che faccio” disse sorridendo e scrollando le spalle. Ma allora non pensava che avrebbe fatto anche la quarta! Scherzava con tutti e . . . pagava sempre la “butta”.

 

Qui, vicino a me, c’è Biagi il “vecchietto”. Più anziano di tutti – dopo di me, si capisce. Però, questo “vecchio”, se è intento al lavoro, sembra che abbia non più di trent’anni. Da più punti ad un sergentino, e … Verniani ne approfitta. “Biagi, bada alla fureria!”, “Biagi, occupati dei materiali!”, “Biagi, stai attento ai quadrupedi. Se mi mancano le munizioni in linea, ti fucilo!”, “Biagi, curati del rancio!…”

E Biagi trotterellava a destra e a sinistra, avanti e indietro, e il rancio arrivava, e le munizioni non mancavano!

A Cogull, il “vecchietto”, sotto una tempesta di fuoco riesce a portare avanti i suoi muli tirandoli su uno ad uno, e le bombe arrivano in linea, immancabilmente. Ma ha una grossa spina nel cuore questo bravo soldato, e la mormora anch’egli, sottovoce talvolta: “Tutti motorizzati – dice – ma io!… Da Seròs a Gerona, sempre . . . autoscarpato. E poi mi dicono che sono vecchio!”. Il suo capitano gli ha insegnato a brontolare . . . ma talvolta Biagi ha ragione.

 

E Giuliano Bacchetta? Era alto più di un granatiere, e come un granatiere operava ed agiva: puntualissimo, preciso. Arista lo acciuffò subito perché si accorse che aveva una bella calligrafia e non cercò altro requisito. Sottufficiale di maggiorità intelligente… ma piemontese nel senso più completo della parola. Educatissimo, sosteneva sempre con cuore sospeso gli assalti irruenti e le brutte parole di Arista sempre…vulcanico, e, testa in giù, riga, penna e matita, tracciava e ritracciava specchi, ricompilava elenchi, sempre con grande pazienza e … coraggio. Ed ecco Bacchetta in Catalogna, alla presa con casse e cassette. Arista odia le piegature; la carta, qualunque sia la sua grandezza, deve rimanere inalterata, non sgualcita, senza una minima piegatura agli angoli. E Bacchetta non sa più come custodire le carte e gli specchi che inevitabilmente si piegano e …devono essere rifatti. L’ufficio del battaglione va a finire su di uno “Spa 38” attrezzato con tavolo e sgabelli. E Bacchetta ripiega anche lui la sua altezza per non andare a battere la testa contro le centine; e così ripiegato riesce ancora a scrivere, tracciare specchi, chiudere la contabilità in inchiostro nero . . . e rosso.

A Martorell l’autocarro ufficio di Bacchetta assume la denominazione di “U.A.M.” (Ufficio Avanzato Mortai), e precede il battaglione. Ma … tanto lo precede lungo la rotabile (mentre le CC. NN. di Oliveti marciano su per le colline), che arriva in paese prima ancora che i rossi l’abbiano completamente sgomberato. E l’autocarro si ferma sulla piazza, a ridosso di una casa, e…Bacchetta, insieme all’immancabile Bianchi – “la dattilografa” – ricomincia indifferente il suo lavoro. Giunge qualche colpo nelle vicinanze, poi più vicino, poi vicinissimo. Bacchetta incomincia a perdere la calma, e i numeri non gli sono più tanto chiari; la penna vaga dal calamaio nero al rosso ed egli non sa più se deve scrivere rosso o nero. E lo specchio… deve essere rifatto. Ma Bacchetta mormora anche lui…che viziaccio: “Avanti, avanti – dice – sempre più avanti… qualche giorno finiremo tra i rossi…e per difenderci avremo solo le penne e i calamai!”.

“O che vorresti forse un corpo d’armata per difendere i tuoi scartafacci? Cerca di tirare diritte le righe piuttosto, e stai zitto che devo scrivere anch’io” – grida … la “dattilografa” che ha già perso la calma anche…lui.  E Bacchetta china la testa sulle sue carte, mormora qualche brutta parola, e…scrive un cinque invece di un tre.

 

Enzo Bastianelli è nel gruppo di quei fiorentini che stanno tutti insieme laggiù. Si può dire di lui che era il più fiorentino di tutti. Sempre ultimo a parlare…perché attendente di Arista.

Bastianelli, però, non era soltanto l’attendente di Arista: molteplici erano le sue attribuzioni perché molteplici erano le sue capacità: ciclista, portaordini, elettricista, falegname, pittore, ecc. Era sempre presente, dovunque, sempre con una bustina calzata fino alle orecchie, ed una giubba di quarta misura che gli arrivava al ginocchio. Lo sguardo acuto, intelligente, prevedeva e provvedeva tempestivamente a tutti i desideri del suo esigente ufficiale, e si faceva in quattro per accontentarlo. “Bastianelli, attaccami questo bottone!” “Bastianelli, tira la tenda!” “Bastianelli, dove sei ? Non vedi che arriva la mensa?” “Bastianelli, scaldami un po’ di caffè!” “Bastianelli, portami una coperta!” “Bastianelli, ho le gambe scoperte. Avvolgimi col telo!”

E Bastianelli prontissimo correva sorridendo: “La un si preoccupi … la lasci fare a me? … ci penso io!”

Sempre pronto ad offrirsi in ogni più piccola cosa. Non era necessario chiamarlo: bastava uno sguardo, e Bastianelli partiva sgusciando di sasso in sasso, di albero in albero. Ma a Salivella, l’11 gennaio, mentre recapitava un ordine tra l’infuriare delle artiglierie e delle mitragliatrici, Bastianelli piglia le sue due belle pallottole alle gambe, e si arresta nella sua corsa veloce! E quella fu giornata di lutto per tutti perché Bastianelli se n’era andato all’ospedale. Certo lo ritroveremo un giorno o l’altro, con le gambe malconce, ma sempre allegro e ridente.

 

E Guidi, il “gran capitano” della 3a? Lo avemmo con noi a La Guardia, coi fieri mitraglieri del battaglione “Palella”. Di età indefinibile, sembrava giovane a volte, ma più spesso appariva stanco e un po’ vecchio. Occhi azzurri, a tratti luccicanti e strani quasi fossero invasi da spiriti folli. Largamente scarponato anche lui come Caserta, con bustina sul capo a piramide, diritta e rigida come una mitra, e . . . cappotto da artigliere del quarantotto.

Originale sempre, fantastico nei discorsi, occhi fuori dalle orbite, e bastone in mano, rustico e nodoso. Parlava . . . parlava . . . e parlava: “Io sì che la so la politica! . . . Cosa vuoi saperne tu?” E giù… bombe a palate! Ma la mitra non gli stava mai ferma! Tuttavia, ripensate, o mortaisti della 3a: a chi fece del male? Chi non ebbe da lui una dura minaccia? Chi non fu da lui fucilato almeno tre volte? Ma eran tutte parole le sue, e appena uscite dal labbro si perdevano al vento!

Caro e buon Guidi, ti ricordo e ti ricorderò sempre, e sempre sarò lieto di vederti perché se pure eri talvolta un po’ strano, l’animo tuo è sempre stato semplice, profondamente buono, scrupolosamente onesto e, soprattutto, aperto in ogni atto, in ogni pensiero, in ogni circostanza.

 

E Genovesi? Lo chiamavate “Menjou” a motivo dei suoi piccoli baffettini neri e folti. Reduce d’Africa, giunse a Tarquinia il 31 di agosto. Indossava una giubba biancastra, forse stinta dal sole africano; e cravatta nera a pallini rosa. Si conquistò subito il suo bel soprannome, ma dopo i primi giorni, chi lo conobbe meglio, glielo cambiò e lo chiamò “la signorina”. Ma anche questo nuovo nome subì delle modifiche, e divenne poi “Jannuise”. Piccolo, rotondetto, sorridente, sempre arrabbiato se la sveglia importuna lo aveva costretto a svegliarsi di buon mattino: stivali di cuoio naturale, sahariana di fustagno e . . . pistolone di fianco come un Buffalo Bill. Anche lui mormorava qualche volta rivolgendosi ad Arista: “Quando non si sa fare il proprio mestiere – diceva – ci si ammazza!”

Ma Arista era sempre pronto e contrattaccava con energia: “A me lo dici? E che aspetti a tirarti un colpo con quel tuo pistolone?” E Genovesi, nella sua carica di direttore di mensa, concludeva subito la lite, sempre opportunamente pagando il dolce o i biscotti, o il liquore, e calmava così in un attimo le proteste e le voglie dell’aiutante maggiore, il quale, al pari della ben nota lonza dantesca, “dopo il pasto” aveva sempre “più fame che pria”!

 

C’è laggiù verso sinistra un gruppo di mortaisti che sembrano intenti a complottare qualcosa. Parlano tra loro e forse si scambiano i loro ricordi di guerra. Avviciniamoci un po’: chi sono? C’è Tomasi, Germano, Boccadifuoco, Di Franco, Cavagliano, Salerno e Migliozzi.

- Tomasi: robustissimo – un metro di torace – si presentò a Tarquinia con “fiamme cremisi” enormi, che erano tutto un programma. Come Genovesi, anche lui aveva piccoli baffi, ma scomposti, arruffati, foltissimi. Ogni quattro parole intercalava un “per la Ma…rianna!”. Arista lo definì subito “il mugik” e questo nomignolo gli rimase. Io ero contrario ai soprannomi con i quali Arista usava chiamare i colleghi, talvolta anche nelle relazioni di servizio; ma quando mandai Tomasi, con un manipolo di audaci, ad Hostalrich, ed egli tardava a ritornare, non potei fare a meno di esclamare anch’io più di una volta “ma che diavolo fa il «mugik» che non torna?”

Caro, bravissimo Tomasi, ti perdono volentieri le tue “fiamme cremisi” oltre misura; esse indicavano l’ardore che era in te e tutta la bontà e la semplicità del tuo carattere modesto, affezionato e devoto.

 

- Germano: quando arrivammo a “La Guardia”, il primo ufficiale del disciolto battaglione mitraglieri “Palella” che mi venne incontro fu lui, Germano. Pieno di premure, affettuoso, sarebbe rimasto volentieri con noi, ma era stato destinato alla compagnia anticarro divisionale e presto doveva lasciare La Guardia e . . . la sua immancabile “novia”!  Germano fu di grandissimo aiuto al mio Arista perché lo iniziò ai misteri dell’amministrazione spagnola, ed al difficile conteggio delle “pesetas”. In seguito, durante la battaglia di Catalogna, lo rividi più volte, e seppi dei suoi ripetuti atti di valore. Conservò il suo carattere mite e modesto, ed oggi è carrista pieno di ardimento e di fede.

 

- Boccadifuoco: era il braccio destro del capitano Guidi. Per il mio aiutante maggiore aveva due difetti imperdonabili: quello di voler portare una bandoliera spagnola, “marocchinata” chi sa dove, in luogo delle giberne regolamentari; e quello di presentare gli immancabili “specchi” sempre con molte cancellature. Ogni tanto sentivo Arista strillare: “Ho detto che le cancellature si fanno con inchiostro rosso, e quando sono più di due si deve rifare lo specchio. E poi levati codesta bandoliera!!!” Sentendo quelle parole non avevo alcun dubbio: Arista era alle prese con Boccadifuoco.

“Boccadifuoco!” chiamavo. “Comandi, signor Maggiore!” (passo affrettato, alta figura che avanza, colpo di tacchi, ed ecco davanti a me Boccadifuoco). “Boccadifuico, che c’è? L’inchiostro rosso è la tua ossessione? E fai strillare Arista per questo? Ci vuol così poco a contentare l’aiutante maggiore (se ce ne voleva, però!…).

 

- Di Franco: arrivò al battaglione poco prima che si partisse per la Spagna. Appena giunti a La Guardia lo assegnai alla 3a compagnia assieme ad altri elementi vecchi del Batmo per amalgamare i nuovi venuti. Spirito irrequieto, fu sempre in opposizione con Guidi allorché discutevano di politica. Ma il buon Guidi esigeva soltanto di essere ascoltato quando esponeva le sue teorie riformatrici dell’universo, mentre Di Franco era sempre pronto a discutere, a contraddire. In fondo, però, sebbene “l’un contro l’altro armato”, si volevano bene.

 

- Cavagliano: passò alle mie dipendenze a La Guardia, assieme ad altri due subalterni del “Palella”: Aprea e Formato. Il primo morì in seguito a grave malattia contratta a Cogull; il secondo è ora funzionario del Ministero dell’Interno. A presentazioni ultimate colgo un commento di Arista: “Ecco l’ammiraglio! Mi sembra in gamba”! Lì per lì non faccio caso alla frase, ma poi ci ripenso e me ne ricordo nel pomeriggio allorché sento Arista rispondere a Bianchi, “la dattilografa”, che domandava il nome dell’ufficiale di picchetto da comandare sull’ordine del giorno. “Tocca al nostro ammiraglio” risponde Arista. Intervengo: “Si può sapere cosa c’entra la marina con l’ufficiale di picchetto?” “C’entra, signor maggiore, non sente che abbiamo un Nelson!!!” Cavagliano fu così per tutti “l’Ammiraglio” e in ogni circostanza, da buon nocchiero, seppe guidare i suoi uomini con perizia ed ardimento. Due volte ferito, rifiutò di essere ricoverato all’ospedale. “Signor maggiore – diceva – lasciatemi al reparto! Vorrei aspettare qui, al mio posto, come Nelson, il colpo decisivo”! Ma il terzo colpo non venne mai: meno male! Venne invece per lui la medaglia d’argento sul campo.

 

- Salerno e Migliozzi: li ebbi in eredità dal “Palella”. Bravi ragazzi entrambi!  Domandai: “Che cosa fate al comando di battaglione?” “Variazioni matricolari, pratiche sottufficiali e truppa” rispose Salerno. Un reparto autonomo, in relazioni d’ufficio con enti territoriali in Patria, doveva avere una “matricola” propria perché, purtroppo, anche la burocrazia è talvolta necessaria…”si carta cadit, tota scientia galoppat”. “Va bene – dico – continuate”. Ma non andava bene, come al solito, per Arista il quale sempre doveva dire la sua: “Noi potremo rimanere in Spagna ancora vent’anni, ma Salerno e Migliozzi non impareranno mai a fare un ordine permanente . . . Qualche volta ammazzeranno qualcuno e poi lo promuoveranno caporale”!

 

Ma qui tra di voi, o legionari, se guardate un po’ attenti, troverete qualcuno che vi guarda, tace e sorride.

È anch’egli un soldato, un soldato di gran cuore, un legionario che come voi visse quella dura fatica. E ben qui io lo metto, in mezzo a voi, perché questo è il suo posto, e perché voi lo vediate anche oggi in mezzo a voi, come lo vedeste nei giorni più duri di quell’aspra battaglia. Guardatelo! È lì, fermo, impassibile, e vi guarda e sorride. Soldato fra soldati, uomo fra gli uomini, appena vi vide a La Guardia, vi pensò valorosi. E non si ingannò.

Vi comandò con tutto il suo cuore nobile e generoso, con tutta la sua volontà ferrea e intelligente perché sapeva di avervi nel pugno, forti, pronti e decisi anche all’estremo sacrificio. Fu con voi a Seròs, in quella lunga vigilia, e si sporse anch’egli dalla trincea fangosa per vedere da dove sarebbero sbucati fuori i suoi fanti e le sue camicie nere per correre verso la grande vittoria; sostò con voi sotto il tiro nemico, e con voi riprese la rincorsa verso più fulgida meta; dormì il suo breve sonno sul duro giaciglio nella vecchia casa abbandonata, senza letto né panca, aspettando con ansia il domani per lanciarsi più oltre; bevve a piccoli sorsi la vostra gavetta di brodo, e mangiò talvolta la vostra dura pagnotta; e spesso vi venne incontro col sorriso sul labbro ad annunziarvi una lieta novella, o con la pena nel cuore ripensando a un compagno caduto; e spesso riunì attorno a sé alcuni di voi per appuntar loro sul petto una medaglia o una croce al valore; e ancora più spesso sostò in mezzo alla strada, sull’auto, aspettando un ordine; ma assai più volte trepidò ascoltando la voce di Oliveti alla radio che parlava scandendo le sue parole di fede, di gioia, di vittoria, o le tristi notizie dei feriti e dei morti!

Sì, o mortaisti, già nel corso di questa vostra esaltazione io ve ne ho parlato più volte: è Gervasio! È Gervasio!

È il primo legionario dell’ “Assalto Littorio”! È il legionario che vi guidò in Catalogna. È quel prode soldato che ferito alle gambe – alle gambe, ripeto – non vi volle lasciare sulla strada di Francia se non quando fu certo della completa vittoria. È quegli che vi lanciò avanti a Seròs, a Cogull, a Sabadell, a Badalona. È quegli che a Tiana vi consegnò l’invitta bandiera d’Italia trionfante di vittoria in vittoria per portarla più in alto, sempre più in alto, nell’azzurro del cielo. Ed è quegli che vi vorrebbe ancor oggi con sé per lanciarvi domani, con la sua volontà, verso mete sempre più belle e radiose. Perché è certo che voi, ancor fieri ai suoi ordini, portereste questa sua volontà al di là di qualsiasi ostacolo!

 

Accanto a lui, ma un po’ più indietro, c’è un altro vero soldato, ed anch’egli vi guarda, tace e sorride. È un fierissimo siciliano che dalla sua terra bella e generosa ha ereditato intelligenza, equilibrio, operosità. Sta in penombra perché conosce a fondo ed ha quasi innata la modestia, e sa perciò lavorare in silenzio, ed obbedire in silenzio. Ma è fermo anch’egli, fermissimo, sereno, impassibile. Riceve gli ordini del Comandante, li traduce sulla carta fedeli e precisi, li completa per la parte che lo riguarda, li dirama fino ai tentacoli più lontani, si assicura che siano ben capiti, vigila alla loro esecuzione, prevede, provvede, verifica, controlla, esegue lui stesso, se occorre.

È perciò anche lui un valoroso, non meno degli altri anche se più decorati di lui. Sempre buon camerata, aperto nel viso e nel carattere, punta addosso gli occhi suoi aguzzi che attraverso le lenti sorridono, ma è duro e intransigente allorché si tratti di eseguire gli ordini del Capo.

E il cuore? Oh! quello sì che è un gran cuore, ben saldo e generoso! Vieni qui, mio caro Scala, vicino a me, e abbracciami fortemente. C’è in noi qualche cosa di più che un semplice affetto che ci lega; c’è in noi, nelle nostre vene, un sangue generoso e fremente che ci accomuna nell’azione e nel pensiero; ed è un lembo della nostra anima siciliana che nel nostro abbraccio si salda.

 

E c’è tra voi il maggiore Bonini. Anch’egli ha sentito squillar le mie trombe ed è corso al richiamo.  È qui, in mezzo a voi, e si confonde con voi nella gioia che vi esalta. Giunse a Llagostera nel giorno della più grande vigilia, e pronto afferrò la bandiera che io avevo consegnato a Verniani in quel tardo pomeriggio del 2 febbraio, quando ferito mi portarono via. L’afferrò e di corsa vi portò a Gerona. E da Gerona, sempre di corsa ancor più travolgente e non meno gloriosa, vi condusse ad Alicante. E da Alicante a Napoli vi portò, dove ancor zoppo, appoggiandomi al bastone, io vi aspettavo trepidante in quel 6 di giugno, appena uscito dall’Ospedale del Celio.

E poi a Salerno da dove vi rimandò a casa in pochi giorni, e pochi ne trattenne con sé, forte e fedele manipolo che costituisce ancor oggi il nucleo centrale di questa nuova “Littorio” che serba sempre bello il ricordo e intatta la tradizione legionaria.

 

Ma come posso finire questa storia del “Batmo” senza pensare ai miei “Lupi”? Sono miei e son vostri perché vi furono accanto valorosi e fedeli compagni. Li vedete laggiù?

C’è Olita silenzioso e . . . ridente. Ha l’elmetto calcato, e, se lo chiamo, non c’è nome che ascolti e che valga a riscuoterlo se non quello di “lupo”! Questa parola è quella che lo animava in battaglia. L’ha gridata più volte alle sue camicie nere a Seròs, il mattino del 23 dicembre dell’anno 1939, e fierissimi i “Lupi” balzarono allora dalla testa di ponte e si lanciarono all’assalto della trincea nemica, subito affiancandosi al “Vampa” che li aveva appena preceduti. Ma ancora più forte la gridò a Santa Coloma, e a quel grido i “Lupi” più non si contennero e in avanti saltarono – veri lupi nell’anima – giù dall’infernale forcella, e velocissimi scesero a valle seminando di morti e di feriti il pendio ripidissimo. E vinsero!

Caro e buon Olita, io non potrò mai abbastanza parlare di te. Sei stato un compagno d’arme valoroso, e sei tuttora uno di quei “Lupi” che sono qui chiusi nel mio cuore, perché il loro nome sa di trincea e di battaglia, e non riesco a staccarmene perché li conosco animati di grandissima, di purissima fede. Ed è questa, o mio Olita, la nostra forza più grande. Sentiamo in noi la potenza dell’idea, lo spirito volontaristico che mai ci abbandona e dà anima ai nostri atti, la volontà che vince, la tenacia che tempra al più duro travaglio, l’ardore che infiamma e trascina nel più arduo cimento. Ed è perciò, o mio Olita, che c’è ancora in noi la forza della giovinezza lontana. Essa risorge in noi con spirito sempre più lieto e gagliardo. Durassimo ancora cent’anni, giovani ancora saremmo e pieni di entusiasmo e di vita – tu e i tuoi “Lupi”, io ed i miei mortaisti – pronti ancora e sempre per la lotta più aspra.

 

Chi hai portato con te, o mio Olita, in questa breve rassegna dei miei mortaisti? Certo è con te qualcuno dei tuoi “Lupi” migliori! Hai portato Alimonda? Eccolo! E ben ti sta a fianco coi suoi baffetti curvi all’ingiù. Guardalo anche tu, rivolgiti indietro, egli è proprio con te, accanto a te! Fatti avanti, Alimonda! Non ricordi il cimitero di Montargull? Ti aggiravi attorno a quel muro di cinta come se cercavi qualcuno. Ma l’avversario era scappato! E a sera però sentisti il crepitare delle sue mitragliatrici: ritentava l’attacco! E nella pena di dovergli cedere il passo, perché questo era l’ordine che avevi ricevuto, ben lo guardasti in faccia e gli gridasti forte la tua parola di sfida e di beffa! Ma ora qui, tra i miei mortaisti ed i “Lupi”, tu non sei soltanto l’eroe di Montargull; nelle tue vene circola sangue puro di Sardegna, e le medaglie che brillano sul tuo petto parlano del tuo valore, del tuo coraggio, della tua intrepidezza. E certo anche tu verrai con me alla mia adunata di guerra, e porterai con te una robusta centuria dei tuoi fieri soldati forti e decisi come te, pronti alla lotta e pronti al sacrificio, ma ancora più pronti a ghermire la vittoria. E vinceremo!

 

Ed è pure con te il tuo vecchio aiutante maggiore Chiavellati. Alto, ben piantato, domina col suo vocione robusto tutti i “Lupi”, e però li ha saputi tutti avvincere a sé come fratelli. Come Alimonda, anche lui ti segue con fedeltà e passione, e se gli parli di assalti o di battaglie, vedi il suo sguardo che si illumina ed il suo sorriso che ti vince:

“Avanti, avanti, sempre avanti, i “Lupi” non devono mai essere in secondo scaglione” dice il tuo Chiavellati, volontario di tutte le imprese! Guardagli sul petto, o mio Olita, guarda che cosa nasconde dentro alla sua giubba abbottonata. C’è su quel cuore una bella bandiera tricolore che sventolerà vittoriosa a Gerona, in un tripudio di anime in festa per la meritata vittoria! Caro Chiavellati, possa la tua fede, la nostra fede, la nostra idea che dà anima e forza alla nostra volontà, portarci sempre più avanti, sempre più in alto, sempre più vittoriosi.

 

E il “Lupo” Mazzocca? Eccolo lì, tutto sporco di fango, passamontagna e guantoni…come un turista in vacanza!

Arrivò tra i mortaisti come un fulmine, sulla tenda del comando del “Batmo”, gridando a gran fiato: “Arista! Arista!” Arista lo vide, gli si buttò addosso, lo abbracciò, lo tempestò di urli insolenti e beffardi. Poi lo presentò: suo insegnante presso la III Legione Universitaria in Firenze. E da quel momento Mazzocca divenne mortaista d’elezione, assiduo tra noi, ma ancor più assiduo alla nostra mensa! “Mazzocca, hai fame – dice Arista – mangia con noi!” “Mazzocca, vuoi bere? Eccoti una bottiglia!” “Mazzocca, hai freddo? Eccoti una camicia di flanella, e calzini di lana per i tuoi geloni, e guantoni per le tue mani diacce!”

 

E Oliveti? Come ti rivedo qui in mezzo a noi, o romagnolo fierissimo? Hai anche tu sentito le mie trombe? Tu comandavi tremila vecchie camicie nere insuperabili nell’ardore della lotta, veterani di Spagna, ed ora ti confondi nelle file dei miei mortaisti come se fossi un semplice soldato! Forse ricordi come anch’essi, tutti, si fusero in lotta coi tuoi valorosi legionari, fieri di obbedirti per vincere? Ti ricordo, o valorosissimo, nelle tue decisioni, nelle tue conversazioni radiofoniche con “Gervasio”; ti rivedo a Savallà del Condado, in quella sera oscurissima. Protestavi perché attorno a quella vecchia torre si era raccolto un intero tuo battaglione ed il mio, quasi tutto! E mi dicevi che non intendevi far questo…ma chi avrebbe potuto frenare l’impeto di quei soldati? “Ebbene – ti dissi – ritira le tue camicie nere, e lasciamene qui una sola centuria. Qui resto io coi miei mortaisti, e tu puoi essere sicuro!”

Fu così che ai tuoi ordini ancora una volta si fusero le tue balde camicie nere  ed i miei mortaisti, ed anche quella fu notte di grande vigilia! Oliveti, vecchio compagno d’armi, tu conosci quanto sia aspra la lotta e bello il sacrificio allorché l’idea lo illumina di viva luce: tu sai la bellezza della vittoria quando si libra in alto sulle schiere valorose; tu sei con noi, tu sei coi mortaisti e coi “Lupi”, tu sei coi vittoriosi, come allora e per sempre!

 

E con te è pure quel tuo aiutante maggiore: Adelchi Albanese. Ti sta accanto silenzioso e pensoso. Prende appunti, e prepara il suo poema di gloria per i tuoi prodi che vissero quella bella crociata vittoriosa. Lascialo scrivere! Dirà le cose che ha viste; dirà le cose che sanno dire i soldati di un’idea per la quale hanno avuto il coraggio di imbracciare il fucile e correre alla “barricata”; i soldati che hanno avuto il coraggio di appiattarsi dietro a un cespuglio o nella trincea, e far cantare una mitragliatrice; i soldati che vinsero i rossi di Spagna e gli internazionali bolscevichi, arma e ferro nel pugno, e volontà protesa verso la santa vittoria!

 

Questa vostra rassegna, o miei mortaisti, o miei “Lupi”, volge verso la fine. L’ho condotta d’un fiato, ma sento che non posso concludere. Sento che non posso separarmi da voi senza dare un saluto ad alcuni vostri compagni, a quelli che più mi furono accanto nei lunghi giorni di lotta.

 

Come potrei non ricordarti qui, mio buon Mellas? Appena giunti a Pisa volli che mi si cercasse un attendente sardo, e la scelta cadde su te. Occhi bruni, piccoli e scintillanti, capelli nerissimi sulla fronte bassa e diritta, voce sottile come di donna, ed anima semplice come quella di un fanciullo. Qualunque cosa accadesse, tu non ne sapevi mai nulla: “Eh!…zì, …zignor maggiore, …questo non lo sapevo …questo non me lo aveva detto nessuno, per far questo …aspettavo Bastianelli” (povero Bastianelli, c’entrava sempre anche lui!).

Un giorno ti presentasti con la tua consueta aria ingenua: “Zignor maggiore…hanno portato via l’impermeabile!”

Non avevi ancora terminato di parlare che tutti gli improperi del cielo e della terra piovvero su di te, fulmini e tuoni, lanciati dal furibondo aiutante maggiore che sempre interloquiva, a proposito…ed anche a sproposito: “Imbecille ! … hanno portato via l’impermeabile? E tu cosa ci stai a fare? Ci vuole la sentinella per le cassette del maggiore? Ma sei davvero un sardo tu?”

Ma il mio caro Mellas si rivelò a Forés. Fu per tutti una vera sorpresa. Svelto nel pulire e cucinare i polli e i conigli, fra fornelli e tegami, il mio Mellas era come un re dei cuochi, e tutti gli obbedivano ammirandolo. Agile come un piccolo gatto, occhi rossi di brace, Mellas comandava: “Bastianelli, dammi il sale!” “Bonacina, passami l’olio!” “Mariani, fai presto, non vedi che brucia? Brucia…, si arrosta dico…” “Bonacina, porgimi quel vassoio!”

Per lui, piatto o gavetta era sempre un vassoio. E cucinati i polli, passava subito alle distribuzioni: “Zignor maggiore, prendi questo…mangia questo…senti come è «bellino» questo!…”

Il 4 febbraio Mellas diventa infermiere. Ed eccolo al mio capezzale, nell’Ospedale di Masnou. Ma tutto il tuo affetto e tutta la tua devozione di fedelissimo sardo non valsero, o mio buon Mellas, a raddolcire la mia voce! E però, se ti trattai male talvolta non ero io, credimi, ma era la mia febbre che parlava, e lo spasimo delle mie ferite. E certo tu mi avrai già perdonato!

 

Il suo posto accanto al mio capezzale fu poi preso da Olimpio. Questo piccolo leccese sveltissimo e intelligente, caporale maggiore, autista, motociclista, dattilografo, ragioniere, meccanico, portaordini . . . infermiere, si rivelò nel suo nuovo incarico insuperabile e affezionatissimo. Già lo avevo veduto in battaglia, e già il suo valore mi aveva indotto a proporlo per la medaglia d’argento sul campo e poi per altra ricompensa al valore. Ma se anche ciò non fosse stato, ben lo avevo visto accanto a me nei giorni in cui fischiava la mitraglia o sibilava il proietto del carro armato avversario, e ben gli avevo concesso tutta la mia fiducia e tutto il mio affetto, come lo può concedere un soldato ad un compagno d’armi che riconosce abile e valoroso. Ma dopo la tua devota ed affezionata assistenza, tu, caro il mio Olimpio, non sei soltanto il mio bravo portaordini che spedivo nel momento più critico del combattimento, ma sei più che altro colui che mi aiutò a sopportare le dure sofferenze delle mie sanguinanti ferite, e ben perciò io ti devo il mio tributo di riconoscenza. E di cuore ti abbraccio qui, di fronte a tutti i tuoi valorosi compagni, tu, valoroso tra i valorosi, tu fedelissimo tra i fedeli, tu, devotissimo tra i devoti.

 

E come potrei dimenticare il mio buon Foscarini? Già in tutta questa vostra storia egli ha il suo posto d’onore, che è sempre tra i primi. Posso aggiungere che tutti, quando Foscarini non arrivava, sospiravano profondamente pronunziando il suo nome. E quando appariva da lontano la sua sagoma grigia, un po’ allungata e sottile, si sentiva subito l’odore del brodo o il sapore del minestrone ancor caldo, e tutti eravate ancora una volta convinti che c’era qualcuno che pensava a voi. Sì, c’era quel bravo ragazzo, c’era il nostro Fosco che vegliava tutta la notte coi cucinieri instancabili; c’era l’infaticabile Fosco che arrivava sempre opportuno con muli e marmitte, e … sigarette talvolta! Arrivava di giorno o di notte, con la pioggia o col bel tempo, e mormorava sempre: “Così non può continuare”; ma continuava e durava! La sua era fatica da mulo, ma egli aveva buone gambe e spalle robuste. E soprattutto cuore e tenacia. Sentiva il suo compito, e arrivava sempre, a qualunque costo. E quando un nucleo di rossi rinnegati lo attaccò lungo il percorso, egli seppe riunire un pugno di audaci, e li portò all’assalto con le bombe a mano riuscendo a disperderli e a meritarsi la sua bella medaglia.

 

E Arista? Tu sei all’ultimo posto perché sei chiaccherone e strillone! Sai però che tutta la storia del “Batmo” parla di te. Sai che qui, nel mio cuore, c’è un gran posto per te. Ma questo non è il momento di ciarle: questo è il momento di agire. Tu mi stai sempre vicino, sempre attaccato alle costole. E anche oggi non sai essere che la mia ombra, fedele sei, ma la mia ombra! Cosa vuoi che me ne faccia di te se mi stai qui vicino? Corri svelto là in fondo: dà un po’ di anima a tutti quelli laggiù, col tuo vocione possente. Strilla, grida a gran fiato, e chiama tutti a raccolta. Fai venir qui Zingarello, e che prepari le trombe.

Chiama qui anche Cronia e mettetevi in riga qui, tutti quanti qui in riga, davanti a me!

Presto, riordinate le file!

E tu Zingarello, attacca la nostra marcia trionfale.

Presto, Cronia, tocca a te! Siete pronti? Via!

                               Evviva il Re! Evviva il Re!  Evviva il Re!

                               Chinate, reggimenti, le bandiere al nostro Re!

                               La gloria e la fortuna dell’Italia con lui è!

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La nostra rassegna è ora finita. Ma non sarebbe ancora veramente finita perché vorrei qui tutti ricordarvi e tutti chiamarvi qui, uno ad uno, perché tutti vi sento in me nel mio cuore e con tutti avrei voluto parlare del nostro vecchio e glorioso “Batmo”. Ma come sarebbe possibile farlo? Quanto dovrebbe durare questa vostra rassegna?

 

Tornate dunque alle vostre case e riprendete l’aratro o la vanga, la pialla, la cazzuola e il martello; e lavorate, lavorate e costruite. Costruite la vostra piccola casa, il vostro focolare, e formate la vostra dolce famiglia, all’ombra del mistico campanile che svetta alto nel cielo e vi sveglia di buon mattino con la sua campana squillante; e fecondate la terra col vostro lavoro, col sudore della vostra fronte. Ricche messi vi attendono a compensare la vostra dura fatica. E in attesa di essere chiamati a difenderle, se ancora non lo siete stati, tenete sempre pronto il moschetto e, soprattutto, ritemprate e risaldate lo spirito e mantenetelo sempre forte e fiero, sempre legionario . . . .

 

O M I S S I S