Le quattro giornate di Napoli 1962, di Nanni Loy Il film Pr. Titanus, Metro, (1962); regia Nanni Loy; sogg. Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, N. Loy; scen. Carlo Ternari, P. Festa Campanile, M. Franciosa, N. Loy; dir. fot. Marcello Gatti; mus. Carlo Rustichelli dirette da Pier Luigi Urbini (ed. mus. Tank); mo. Ruggero Mastroianni; scg.Gianni Polidori; coll.scg. Andrea Frisanti, Luciano Spadoni; d.pr. Giuseppe Bordoni; coll.re. Carlo Lastricati; a.re. Giorgio Gentili; i.p. Anna Davini; op. Giuseppe Ruzzolini; eff.sp. Serse Urbisaglia; fo. Giovanni Rossi.

Int. Lea Massari (Maria), Aldo Giuffrè (Pitrella), Gian Maria Volontè (cap. Stimolo), Georges Wilson (rettore riformatorio), Regina Bianchi (Concetta Capuozzo), Domenico Formato (Gennarino Capuozzo), Franco Sportelli (prof. Rosati), Frank Wolff (Salvatore), Pupella Maggio (madre di Arturo), Enzo Turco (Arnaldo Valente), Jean Sorel (marinaio), Luigi De Filippo (Ciccillo), Raffaele Barbato (Giovanni Aiello), Charles Belmont (sentinella), Curt Lowens (Sakau), Franco Calducci (l’uomo col tricolore), Antonio Casagrande (marito di Maria), Carlo Taranto (il napoletano maniaco delle carte), Enzo Cannavale (il cavaliere), Vera Nandi (moglie di Arnaldo Valente), Silla Bettini (uomo in canottiera con bombe a mano), Silvana Buzzanca (Immacolata), Max Trilli (ufficiale tedesco), Adriana Facchetti, Rosalia Maggio (donne angosciate), Enzo Petito (il professore che protesta), Eduardo Passarelli (autista del taxi), Ferdinando Murolo, Peter Dane, Dale Cummings, Vincenzo Barbato, Giuseppe Jodice, Sergio Jossa, Mario Nandi, Luis Goetz.

Il 28 settembre 1943 il popolo napoletano insorge contro l’esercito tedesco che occupa la città. Tutta la popolazione si batte per quattro giorni con fucili, pietre, bottiglie di benzina, armi improvvisate e oggetti casalinghi. Il film è strutturato come una chanson de geste, con una messa-in-rappresentazione da racconto epico dove i diversi episodi sbalzano per un momento e poi rientrano nella coralità. Tra i tanti quello di Gennarino Capuozzo, un bambino di dieci anni che muore su una barricata mentre combatte con gli altri. E ancora: le imprese della banda Ajello, composta da ragazzi scappati dal riformatorio; l’agguato ai tedeschi in un vicolo (sugli occupanti piovono tavoli, letti, stoviglie); i combattimenti che si susseguono attorno lo stadio del Vomero. Tutto era cominciato con la fucilazione di un marinaio toscano e con l’evacuazione dei quartieri sul mare. Tutto finirà con la battaglia intorno ai carri armati. Il primo ottobre, alla vigilia dell’arrivo degli alleati, i napoletani rientrano nelle rispettive case, anonimi come nei giorni della battaglia.

E veniamo al “grande film resistenziale” degli ultimi tempi, all’epopea di una nazione osservata attraverso la lotta coraggiosa della popolazione di una sua città: Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy. Il film ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro, ha mosso le cancellerie di parecchi ministeri italiani e stranieri, ha ottenuto un eccezionale successo di pubblico e di gran parte della critica: ma ha veramente contribuito alla causa del cinema antifascista? A metà strada tra il film documentario, il film storico e il dramma popolare, Le quattro giornate di Napoli ha preteso di dare degli avvenimenti napoletani del 1943 una rappresentazione il più possibile obiettiva, una ricostruzione il più possibile fedele, una interpretazione il più possibile storicamente esatta. Nel fuoco di un dramma a forti tinte, corale, orchestrato sapientemente e dosato negli effetti spettacolari, le esigenze storicistiche, antifasciste e rivoluzionarie dovevano fondersi in un racconto che accendesse soprattutto i cuori e la fantasia degli spettatori, per poi collocarsi in un più posato ripensamento dei fatti e porsi come base di un giudizio storico e morale. Ma di tutto ciò, dalle immagini del film scaturisce soltanto la scintilla della rivolta, per lo più incontrollata e un poco generica; e non sarebbe poco in un periodo come il nostro in cui è bene tenere accesa nei cuori la fiamma della rivoluzione, se l’obbiettivo fosse meglio precisato, se il legame tra i fatti di allora e quelli di oggi fosse presente. Così com’è, Le quattro giornate di Napoli rimane sul piano della nobiltà dell’ispirazione e dell’accuratezza della fattura, ma politicamente generico, storicamente incompleto e impreciso. Non si vogliono discutere qui le intenzioni degli autori né prendere in considerazione le molteplici difficoltà della realizzazione: certamente il film è pervaso da un sincero spirito antifascista e forse non era possibile fare di più e di meglio. Ma questo spirito antifascista si comunica allo spettatore in maniera chiara e motivata, oppure si confonde con un generico atteggiamento di rivolta contro l’oppressione e l’oppressore, che, naturalmente, è il tedesco, quindi il nemico, lo straniero? Mi sembra che la perfetta ricostruzione della Napoli del ’43, ripresa cinematograficamente in modo tale da suggerire l’impressione di una contemporaneità dei fatti e della loro narrazione, e la rigorosa struttura narrativa della storia così compatta e conchiusa portino ad una rappresentazione insufficiente della verità storica, anche se ciò può apparire paradossale. Più lo spettatore si identifica con i protagonisti della storia, più gli è facile ambientarsi nei luoghi e nei tempi dell’azione, meno agisce in lui la facoltà del giudizio, meno è sensibile alla prospettiva storica. Le avventure cui assiste e delle quali in parte gli sembra di essere partecipe esauriscono sullo schermo la loro carica vitale, poco lasciano nel suo animo. A schermo spento, un giudizio su Le quattro giornate di Napoli, come fatto significativo della nostra storia recente, per la ricorrenza del quale sugli edifici pubblici vengono esposte le bandiere, può essere anche dato, storicamente e moralmente: in tal senso sul piano della divulgazione dei capitoli gloriosi o ufficiali della storia italiana non troppo noti, il film di Loy può avere una funzione non indegna. Ma in un più ampio discorso antifascista e democratico, di lezione civile e politica, il film mostra le sue grosse lacune, mostra l’insufficienza di una visione culturale che confonde la cronaca, come racconto di fatti, con la storia, come “maestra di vita”, in quanto interpretazione di quei fatti. Gianni Rondolino, Atti del convegno nazionale Tendenze attuali del cinema antifascista italiano, Grugliasco, luglio 1963, pp 23-25.

[…] Bisogna pur dire che riconosciamo a Loy, rispetto ai registi che hanno affrontato argomenti simili, due non indifferenti atti di coraggio. Il primo è quello di aver puntato il suo obbiettivo sul coro, sulla massa, su Napoli come collettività escludendo eroi e personaggi, attenendosi cioè ad una descrizione cronachistica con qualche punta epica piuttosto che al romanzo. Il secondo pregio, e maggiore è quello di aver interpretato nel modo migliore il carattere delle “quattro giornate”, non rifiutando di considerarle un’insurrezione spontanea e, come qualcuno ha detto, genericamente pacifista, senza una profonda coscienza antifascista (come invece è avvenuta per la resistenza settentrionale). Egli anzi l’ha assunta in pieno, ma in certo senso capovolgendola: per una volta tanto il profondo pacifismo del popolo napoletano- che però non perde la capacità di entusiasmarsi ed insorgere- , la sua passiva resistenza di fronte al prepotere dei governanti e ai vari nazionalismi patriottardi e sabaudi, non sono accusati di qualunquismo, come tanto spesso si è fatto, ma visti nella loro vera luce, ed anzi sinceramente esaltati, in tutta la loro straordinaria vivacità e spontaneità. E questo non è certo poco. Paolo Gobetti "Il nuovo spettatore cinematografico", n 1, febbraio 1963.

Il regista

Nanni (Giovanni) Loy nasce a Cagliari il 23 ottobre 1925 da famiglia aristocratica. Adolescente, segue la famiglia a Roma dove il padre, noto avvocato cagliaritano, si trasferisce per ragioni di lavoro. Completa gli studi classici e dietro la pressione dei genitori si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza, rinunciando allo studio della filosofia a cui era appassionato.

Contemporaneamente, e in segreto, frequenta il corso di regia al Centro Sperimentale di Cinematografia. Sollecitato da Luigi Zampa inizia il suo lunghissimo apprendistato cinematografico in veste di documentarista e aiuto regista a fianco, tra gli altri dello stesso Zampa, di Goffredo Alessandrini, Augusto Genina, Gian Gaspare Napoletano e Gianni Puccini. Proprio con Puccini nasce un’intesa particolare: con lui firmerà i suoi primi lungometraggi, Parola di ladro (1957) e Il marito (1958). Il suo esordio, da solo, alla regia è con L’audace colpo dei soliti ignoti (1959), il seguito de I soliti ignoti di Monicelli. La realizzazione di questo film è una condizione posta dal produttore Cristaldi per potere girare il successivo Un giorno da leoni (1961) che ha un buon successo di critica e apre la strada al successivo Le quattro giornate di Napoli (1962) dove il regista torna con toni epici, ad affrontare il tema della resistenza. Il film ha la candidatura all’Oscar e scatena un dibattito controverso in Italia e all’estero.

Nel 1964 approda alla TV col programma Specchio segreto, una reinvenzione della candid camera americana che avrà tante nuove edizioni. Nel frattempo realizza ancora per il cinema Made in Italy (1965) e l’autobiografico Il padre di famiglia (1967). Dopo la parentesi bellica di Rosolino Paternò soldato (1970) Nanni Loy torna a far discutere con Detenuto in attesa di giudizio (1971) ispirato all’inchiesta televisiva Verso il carcere di Emilio Sanna. Con Sistemo l’America e torno (1974) realizza il suo primo film all’estero. Seguono tre film a episodi: Signore e Signori, Buonanotte (1976), firmato collettivamente da una nutrita schiera di registi e sceneggiatori; Basta che non si sappia in giro (1976), episodio Macchina d’amore; Quelle strane occasioni (1976) episodio Italian Superman lasciato anonimo. Un momento di impasse brillantemente superato con Cafè express (1979). Negli stessi anni torna alla TV con Viaggio in seconda classe (1977), popolarissimo programma realizzato sulla scia di Specchio segreto.

Del 1982 è il film Testa o croce seguito dalla commedia nera Mi manda Picone (1983), unanimemente apprezzata dalla critica e dal pubblico. Per realizzare Scugnizzi (1988), Loy dovrà nuovamente scendere a patti con i produttori e firmare il sequel Amici miei atto III (1985). Per la TV realizza i film Gioco di società (1989) tratto da un racconto di Sciascia e A che punto è la notte (1992) dal romanzo di Fruttero e Lucentini. La sua carriera cinematografica si conclude con un’opera ancora dedicata a Napoli: Pacco, doppio pacco e contropaccotto (1993), nata come programma televisivo in due puntate.

A partire dal ’91 esordisce come autore teatrale mettendo in scena Scacco pazzo di Vittorio Franceschi; L’ultimo degli amanti focosi (1991) di Neil Simon e Crimini del cuore (1992) di Beth Henley.

Muore il 19 agosto del 1995 mentre lavora alla realizzazione del suo primo film sardo, tratto dal romanzo di Salvatore Mannuzzu Procedura.