I NEMICI DELLA CROCE











Perché molti camminano ....da nemici della croce di Cristo (Paolo, Lettera ai Filippesi III,18)

Benedetto il legno con cui si compie un'opera giusta, ma maledetto l'idolo opera di mani d'uomo e chi lo ha fatto (Libro della Sapienza XIV,7-8)

Pregate per tutti i santi. Pregate anche per i re, per i magistrati e per i principi,
per quelli che vi perseguitano e vi odiano e per i nemici della croce
[Policarpo, Lettera ai Filippesi, XII, 3]





 

I NEMICI DELLA CROCE I nemici della croce

 

La critica più ragionevole che è stata rivolta al cristianesimo è quella che mette in dubbio la logica della morte del giusto per la salvezza dell'umanità. Notevoli miglioramenti della vita dei poveri, degli umili e degli oppressi sono infatti ottenibili eliminando fisicamente (o mettendo in condizione di non nuocere) sfruttatori, criminali, violenti e perversi, mentre discutibili e non misurabili sembrano essere gli effetti della morte del giusto. Tale critica è stata ed è affrontata con sufficienza dai filosofi e dai teologi cristiani, che spesso argomentano spostando la discussione su un piano puramente spirituale. La prima osservazione che va fatta è che il sacrificio della croce fu comunque innaturale e rappresentò una scelta forzata di Dio. L'umanità avrebbe, infatti, potuto salvarsi senza problemi, accettando il Vangelo e riconoscendo il Cristo. Si trattò dell'ultimo ed estremo tentativo di distillare qualcosa di buono da quella che, agli occhi del mondo, sembrava essere stata la sconfitta definitiva dell'abbraccio divino. Del resto la politica dello sterminio dei malvagi era già stata ampiamente utilizzata durante tutta la storia (basti pensare al diluvio), con effetti benefici di breve durata e con la quasi immediata ricrescita del germe del male. Diffusa in tutta l'antichità era anche la convinzione che il sacrificio degli innocenti avrebbe propiziato le varie divinità pagane, così che molti popoli erano perfino ricorsi allo sterminio dei propri primogeniti per ottenere, dall'alto, salvezza, grazie e benefici. Con il sacrificio della croce questa logica perversa (che, a tratti, aveva pure contaminato il pensiero ebraico) fu definitivamente ribaltata, lasciando chiaramente intendere come, nel disegno di salvezza, Dio preferiva lasciar morire il Figlio piuttosto che sacrificare l'umanità.

Sulla sofferenza e sul valore del dolore sono poi esistite ed esistono tuttora numerose, profonde ed interessanti analisi filosofiche, religiose, politiche e morali. Una certa accettazione dei mali del mondo ha contribuito e contribuisce sicuramente all’equilibrio psico-fisico degli individui, favorendo un sereno ed ordinato sviluppo della vita sociale (1 Pietro 2,18-25). Un'eccessiva esaltazione della sofferenza e dell’umano patire può però condurre ad atteggiamenti discutibili sia a livello personale che a livello comunitario, generando, sul piano teorico, gravi errori di valutazione, giudizi temerari e letture distorte della realtà e, sul piano esistenziale, pericolose forme di autocompiacimento, di passività, di fatalismo, di ripiegamento su se stessi e di blocco dell'azione. Di fatto, ciò che si cela dietro ad alcune discutibili forme di misticismo sembra spesso legato più a forme di perversione logica e morale che ad un reale disegno provvidenziale e salvifico. Se non si esaminano poi con attenzione la storia dei vari popoli e dei singoli individui, si rischia di attribuire colpe e peccati a coloro che sono stati colpiti da sfortune e disgrazie, considerando puri e giusti soprattutto coloro che gli eventi e la sorte hanno aiutato e favorito.


Tutta la Sacra Scrittura annuncia parole di vita ed indica nella conversione e nel ravvedimento la via principale per la salvezza. Sta infatti scritto "Com'è vero ch'io vivo, dice il Signore, l'Eterno, io non mi compiaccio della morte dell'empio, ma che l'empio si converta dalla sua via e viva; convertitevi, convertitevi dalle vostre vie malvagie! E perché morreste voi, o casa d'Israele? (Ezechiele 33,11) ed anche "Voi dite: Non è retto il modo di agire del Signore. Ascolta dunque, popolo d'Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? Se il giusto si allontana dalla giustizia per commettere l'iniquità e a causa di questa muore, egli muore appunto per l'iniquità che ha commessa. E se l'ingiusto desiste dall'ingiustizia che ha commessa e agisce con giustizia e rettitudine, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà." (Ezechiele 18,25-28).


Il dolore e la sofferenza sono però spesso presenti nel mondo senza un rapporto diretto con i peccati delle persone e possono derivare della fragilità (genetica, economica, psicologica, fisica e morale) del genere umano, da errori e tare dei nostri antenati, da eventi naturali (Romani 8,22) o dalla malvagità e dall'odio di persone a noi totalmente estranee. Quando Cristo vide un uomo cieco dalla nascita, i suoi discepoli gli chiesero se avesse peccato lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco. A tale domanda Gesù rispose che nessuno aveva peccato, ma era così perché si manifestassero in lui le opere di Dio (Giovanni 9,1-3). La correzione divina può comunque essere fonte di dolore e di sofferenza. Sta infatti scritto "La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte" (2 Corinzi 7,10) e anche "Dio ci corregge per il nostro bene, allo scopo di renderci partecipi della sua santità. Certo, ogni correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati" (Ebrei 12,10-11). Esiste poi sicuramente, già su questa terra, un dolore generato dalla punizione divina, come nel caso dello sterminio dei primogeniti d'Egitto ai tempi di Mosé (Esodo 12,29). Il ricorso a tale dolore rappresenta però l'ultimo ed estremo tentativo di salvare l'empio ed è sempre conseguenza di gravi peccati e di un indurimento ostinato sulle vie del male. L’autore di un libro della Sacra Scrittura  invitava i lettori a non turbarsi per le disgrazie avvenute ai giudei durante le persecuzioni ellenistiche, considerando piuttosto che i castighi non vennero per la distruzione ma per la correzione del popolo di Dio (2 Maccabei 6,12-17) e che il soccorso divino, manifestatosi poco tempo prima in modo perfino miracoloso, venne poi improvvisamente a mancare per i gravi peccati commessi dal popolo d'Israele (2 Maccabei 5,18-19).

Di fatto, molte sofferenze ed alcune persecuzioni furono risparmiate ai cristiani per la fede, la carità, la costanza, la pietà, l'umiltà e la volontà di autocorrezione (1 Corinzi 11,30-32). Durante la terribile persecuzione di Domiziano (90-96 d. C.) alla chiesa di Filadelfia fu detto: "Conosco le tue opere. Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere. Per quanto tu abbia poca forza, pure hai osservato la mia parola e non hai rinnegato il mio nome. Ebbene, ti faccio dono di alcuni della sinagoga di satana, di quelli che si dicono Giudei, ma mentiscono perché non lo sono: li farò venire perché si prostrino ai tuoi piedi e sappiano che io ti ho amato. Poiché hai osservato con costanza la mia parola, anch'io ti preserverò nell'ora della tentazione che sta per venire sul mondo intero, per mettere alla prova gli abitanti della terra" (Apocalisse 3,8-10). Molte persecuzioni anti cristiane furono, invece, permesse per correggere la malvagità della Chiesa e dei suoi Pastori. Nella sua Storia Ecclesiastica, Eusebio di Cesarea così descrive la grande persecuzione di Diocleziano (303-311): "Comportandoci come se non fossimo stati avvertiti, come dei senza Dio, non ci curammo di rendere la divinità propizia e benevola; e ritenendo che le nostre azioni sarebbero state dimenticate o che sarebbero rimaste impunite, accumulammo malvagità su malvagità. Quelli che si dicevano nostri pastori, trascurando i precetti della pietà, si infiammarono in reciproche contese e non fecero altro che aumentare le liti, le minacce, l'invidia, l'odio e l'animosità degli uni contro gli altri, perché con tutto se stessi - a guisa di tiranni - bramavano il potere" (Eusebio, Storia Ecclesiastica, VIII, 1).


Per i pastori della Chiesa, per nulla trascurabile è anche il rischio di curare alla leggera le piaghe del popolo di Dio, dicendo "Pace, pace, mentre pace non c'è" (Geremia 6,14 e Geremia 8,11), salvo poi sbandierare ed esaltare il valore salvifico della sofferenza, come toccasana universale per la purificazione da colpe, che avrebbero potuto essere tranquillamente prevenute, corrette o evitate. Invece di individuare e combattere molte cause dell'umano patire (immoralità sessuale, abuso di cibi, bevande e sostanze, ira e violenza, avarizia ed avidità, sete di potere, ignavia ed accidia, imperizia e negligenza, stoltezza e follia, smodato amore per il rischio, incapacità di curare malattie ed alterazioni genetiche, spese enormi per gli armamenti e limitato impegno finanziario sul fronte della ricerca medica e scientifica...) si ricorre spesso ad affermazioni gratuite, caratterizzate da scarsa umanità, pervase da toni mistici ed inquinate da venature pseudo-profetiche. Si parla così di "sofferenza redentrice", di "dolore come segno di predilezione divina", di "offerta delle proprie sofferenze a Dio", di "valore catartico ed espiatorio dell'umano soffrire" e di "inevitabile rassegnazione". Non mancano poi casi in cui l'annuncio evangelico è mescolato ad una continua esaltazione del dolore e della sofferenza, proponendo ai credenti l'immagine di un Dio alquanto indifferente alle sorti umane e per nulla sazio delle sofferenze di Cristo, dei martiri, dei poveri, dei disgraziati e degli infelici. Non stupisce che, in un contesto tanto ambiguo, cresca tra molti atei e tra non pochi credenti una formidabile avversione nei confronti della croce, avversione che è spesso unita ad un viscerale disgusto nei confronti di Dio e dei suoi inspiegabili silenzi. Nella migliore delle ipotesi, alla speranza fiduciosa in un Dio che si prende cura dell'uomo già sulla terra dei viventi (Salmo 27,13; Salmo 33,18-19; Salmo 34,15-16; Salmo 37,3-4; Salmo 55,22; 1 Pietro 5,6-7), che ascolta sempre le preghiere degli umili e dei giusti (Salmo 65,2; Salmo 145,18; Proverbi 2,7; Proverbi 15,29; Siracide 35,17; Isaia 59,1-2;Giovanni 9,31; Giovanni 16,23; 1 Pietro 3,12; Giacomo 4,6; 1 Giovanni 5,14), che non permette che i giusti soccombano nella prova (1 Corinzi 10,13; 2 Pietro 2,9) e che è disposto a donare all'uomo ogni bene in Cristo (Romani 8,31-39; 1 Corinzi 2,9), subentrano gravi negatività, caratterizzate da un atteggiamento di continuo sospetto, di crescente sfiducia nella Provvidenza, di passiva rassegnazione e di discutibile fatalismo. In molti casi, i deboli perdono poi la speranza, la carità e la fede e finiscono per abbandonare ogni desiderio di costruire, lottare e lavorare per il Regno, visto e considerato che il Regno sembra realizzarsi solo nell'eternità dei defunti o alla fine dei secoli, mentre la Chiesa terrena ne costituisce un'immagine troppo fragile e transitoria. Qualsiasi persona ragionevole è portata a credere che la salvezza dell'umanità possa venire dall'amore di Dio, dall'amore del prossimo e dall'amore verso noi stessi. Sofferenza e croce non sembrano pertanto obiettivi da raggiungere ma piuttosto vincoli, talora evitabili e talvolta inevitabili, per rimanere fedeli al Vangelo del Regno. Dimenticare che la sofferenza è solo un prezzo da pagare per rimanere fedeli alla legge dell'amore, è un vero e proprio capovolgimento dei più alti principi morali del cristianesimo, capovolgimento che rischia di rendere odiosa tutta la rivelazione, sostituendo la roboante gloria della sofferenza all'impegno discreto e misericordioso della carità. [1] [2]  [3] [4]


Alcune argomentazioni massimaliste e radicali, spesso portate avanti anche da uomini pii e devoti, sono però difficilmente spiegabili alla luce dell’amore di Dio, dell’economia della salvezza e dell’umana ragione e sembrano risentire soprattutto dalla speculazione filosofica e di una lettura poco attenta ai casi singoli, ai reali eventi storici ed al senso più profondo del messaggio cristiano. Con umiltà e prudenza tentiamo comunque di riflettere.....

 

1.        Un primo concetto, spesso accettato in modo acritico, è che Dio, pur potendo operare diversamente, volle salvare il mondo attraverso la sofferenza e la croce. La ragione di ciò sarebbe un mistero, mistero che, comunque, andrebbe accettato, meditato e contemplato. Di fatto, Gesù Cristo accettò liberamente la croce (Matteo 26,53 e Giovanni 10,17-18), per attirare tutti a se (Giovanni 3,14; Giovanni 12,32; Giovanni 19,37) e per riconciliare al Padre l’umanità peccatrice (Romani 5,6-11; 2 Corinzi 5,14-21; Efesini 1,10; Efesini 2,16; Filippesi 2,8; Colossesi 1,20; Colossesi 2,14; Ebrei 12,2; 1 Pietro 2,21-24). Tutta la Sacra Scrittura insegna però che “Dio vuole misericordia e non sacrificio, conoscenza e non olocausti” (Osea 6,6 e Matteo 9,13). Per lunghi secoli, il buon Dio tentò di salvare l’umanità in modo amorevole, paterno ed incruento, ma la ferocia e la follia dell’uomo resero vani tali tentativi. Sicuramente il peccato originale fu un’offesa infinita recata all’infinito amore di Dio. L’umanità peccò di furto, di superbia e di grave incredulità nei confronti del creatore. Adamo ed Eva prestarono fede alle menzogne del tentatore, lasciandosi convincere del fatto che Dio non fosse un padre infinitamente buono e amorevole ma un despota crudele, egoista e geloso del suo potere. In pratica, i nostri progenitori accettarono di condividere le infamie a cui, nel segreto, il demonio aveva sempre creduto. Nessuna offerta riparatrice e nessun sacrificio avrebbero potuto ristabilire la fiducia originale tra la terra ed il cielo. Il fatto che l'uomo non avrebbe mai potuto riparare con i suoi meriti la gravità del peccato di Adamo non esclude però la possibilità, da parte di Dio, di perdonare, con un atto di misericordia gratuito e unilaterale, un'umanità convertita al Vangelo dalla predicazione terrena di Cristo, seondo una logica di libero arbitrio.Dio amò tanto il mondo da mandare il suo Figlio Unigenito, affinché chiunque avesse creduto in lui non morisse, ma avesse la vita eterna. Dio non mandò il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvasse per mezzo di lui. Gli uomini preferirono però le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. La parabola dei vignaiuoli omicidi (Matteo 21,33-44) mostra chiaramente che la croce fu una scelta obbligata, imposta non dall’amore di Dio verso la sofferenza ma dalla malvagità umana e dall’ostinato rifiuto della Parola di Dio, dell'annuncio dei Profeti e del Messaggio di Cristo. La parabola del banchetto nuziale (Matteo 22,1-14) insegna poi come Dio non abbia inviato suo Figlio nel mondo per per immolarlo sulla croce ma per celebrare le nozze messianiche con il popolo d'Israele, per ristabilire un'alleanza eterna con tutta l'umanità e per inaugurare un regno glorioso su tutto il creato (Daniele 2,44; Daniele 7,27; Daniele 12,1-2). Il rifiuto ostinato del Salvatore cambiò brutalmente il corso della storia, obbligando Gesù a seguire la via del Calvario. Sembra pertanto logico concludere che non è tanto Dio che avrebbe potuto salvare diversamente l’uomo, ma piuttosto l’uomo che avrebbe potuto salvarsi in modo differente, accettando Cristo, il suo Regno ed il suo Vangelo….. In pratica, Gesù Cristo si trovò di fronte ad una scelta forzata, imposta dalla perversa alleanza della malvagità umana (Giovanni 8,37) con i deliri di potere di Satana il Diavolo (Matteo 4,8-9). La croce avrebbe potuto essere evitata solo rinunciando definitivamente all'annuncio del Vangelo o, peggio, stringendo un'alleanza infame con il Principe delle Tenebre. La prima soluzione avrebbe congelato tutte le prospettive di salvezza dell'umanità, mentre la seconda soluzione avrebbe prodotto un messianesimo potente, glorioso e sanguinario. L'obbedienza di Cristo al Padre si manifestò quindi, non tanto nel piacere perverso e masochista di accettare la sofferenza e la morte fini a se stesse, ma piuttosto nel lucido proposito di abbracciare con infinito amore l'unica via ancora aperta e praticabile. A ciò va aggiunto il fatto che, senza la discesa di Cristo agli inferi (1 Pietro 3,19-20), tutta l'umanità morta nei secoli precedenti sarebbe rimasta confinata in eterno nello Sheol, triste luogo di tenebre e di oblio, dove non era neppur possibile lodare Iddio (Salmo 6,6; Salmo 115,17; Isaia 38,18) e dove le catene della morte trattenevano inesorabilmente la discendenza di Adamo. Cristo diventò partecipe della natura umana, per ridurre all'impotenza, mediante la morte, colui che della morte aveva il potere, cioè il diavolo, liberando così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita (Ebrei 2,14-15). Sembra pertanto di poter concludere che le tanto abusate argomentazioni sulla "soffrenza redentrice" siano in qualche modo ambigue, paradossali ed incomplete. Dio non volle redimere il mondo attraverso la sofferenza per perpetuare su questa terra un'eterna valle di lacrime, ma volle salvare il mondo grazie al suo amore infinito, amore che portato all'estreme conseguenze finì addirittura per accettare la morte in croce del suo Figlio Unigenito. Il sacrificio della croce fu poi l'unico modo per sradicare dalla mente dell'uomo il perverso sospetto di trovarsi di fronte ad un Dio egoista, tiranno e geloso del proprio potere. Satana il diavolo aveva infatti convinto Eva ed Adamo che i limiti imposti dall'ordine divino non erano affatto frutto della logica e della ragione ma celavano il profondo timore dell'Essere Supremo di vedere usurpata la propria onnipotenza e la propria divinità da parte dell'ultima delle sue creature (Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» [Genesi 3,4-5]). L'idea di un Dio tiranno si diffuse su tutta l'umanità, che per millenni tentò di guadagnarne il favore, offrendo in sacrificio perfino la vita dei propri figli. La risposta a tale errore fu molto chiara già ad Abramo (con il rifiuto del sacrificio di Isacco) ma divenne perfetta con la morte in croce del Figlio Unigenito Gesù Cristo. L'amore infinito dell'Eterno non solo rifuggiva da un attaccamento geloso alle proprie prerogative supreme ma si fondava sulla condivisione misericordiosa delle propria vita eterna (Giovanni 3,15-16), della propria regalità (2 Timoteo 2,1 e Apocalisse 20,4) e della propria natura divina (2 Pietro 1,4) con tutta l'umanità errante, povera e peccatrice.

 

2.        Un secondo concetto largamente diffuso è che le sofferenze umane andrebbero ad aggiungersi alle sofferenze di Cristo per completarle e per perfezionare così l’opera della salvezza. L’affermazione è basata su un autorevole argomentazione di Paolo, in cui l’Apostolo delle genti sostenne di essere lieto delle sofferenze sopportate per completare nella sua carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa (Colossesi 1,24). Ciò che però viene spesso minimizzato è il fatto che Paolo non fu affatto lieto di ogni tipo di sofferenza, chiese a Dio di liberarlo dalla famosa spina nella carne (2 Corinzi 12,7-9) e si vantò solo di quelle sofferenze che potevano essere realmente utili alla costruzione della Chiesa. Un cristiano dell’antichità affermò che il sangue dei martiri è il seme dei cristiani (Tertulliano, Apologetico, 50). Sicuramente condivisibile è pertanto la tesi che le fatiche e le sofferenze degli apostoli, degli evangelisti, dei martiri, dei confessori della fede e dei perseguitati a causa del Vangelo contribuirono e contribuiscono a fondare la Chiesa (Romani 8,17; 2 Corinzi 1,5-7; Filippesi 1,29-30; Filippesi 2,17; Filippesi 3,10; Colossesi 1,24; 2 Timoteo 2,3; 2 Timoteo 4,5 e 1 Pietro 4,13). Dio permise tali persecuzioni, non lasciando mai soli i perseguitati e ricolmandoli di ogni sorta di consolazione. Sta infatti scritto: Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio. Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione (2 Corinzi 1,3-5). Sensati dubbi sorgono, invece, sulle reali possibilità di attaccare alla croce di Cristo ogni tipo di sofferenza, spesso totalmente svincolata dall'opera apostolica e missionaria e prodotta solo dalla malvagità e dalla follia umana. Molte sofferenze sono state infatti causate dalla stupidità e dall’empietà di persone che ne hanno poi subito le estreme conseguenze, mentre altre sofferenze non hanno per nulla contribuito a costruire la chiesa. Non mancano poi sofferenze -è triste dirlo- inflitte dalla stessa chiesa all’umanità peccatrice (persecuzioni, intolleranza, roghi, crociate, oscurantismo, collaborazione con regimi biechi ed autoritari, …), con effetti devastanti sulla sacralità della croce, sulla fede cristiana e sulla credibilità del Vangelo.

 

3.        Un terzo concetto largamente condiviso è che, per essere veri discepoli di Cristo, occorrerebbe portare pesanti croci. Sicuramente Cristo disse che “Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me” (Matteo 10,37) ma disse anche “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (Matteo 11,28-30). Temperanza e moderazione dovrebbero sempre contraddistinguere i cristiani, evitando la ricerca di una giustizia eccessiva ed innaturale (Ecclesiaste 7,16) e, soprattutto, la voglia di andare al di là di ciò che è scritto (1 Corinzi 4,6). Cristo invitò infatti a "prendere la croce" e non ad "andare in croce", essendo persecuzioni e martirio riservati a Cristo e ad un limitato numero di grandi testimoni della fede. Un illustre cristiano dell’antichità, già nel IV secolo, scriveva: Chi infatti, si propone di correggere i difetti della fragilità umana deve sorreggere e, in qualche modo, soppesare sulle sue spalle la debolezza stessa, non già disfarsene. Il pastore, quello ben noto del Vangelo, non ha abbandonato la pecora stanca, ma se l'è messa in spalla. Salomone dice: "Non essere troppo giusto". La dolcezza ha il compito, appunto, di lenire la giustizia. Con quale animo, infatti, si potrebbe sottoporre alle tue cure chi hai in antipatia ed è convinto che sarà non già oggetto di pietà, bensì di disprezzo da parte del suo medico? Gesù ha avuto misericordia di noi non per allontanarci, ma per chiamarci a sé. È venuto mite, umile. Ha detto: "Venite a me, voi tutti che siete affaticati, e io vi ristorerò". Il Signore, dunque, guarisce senza eccezioni, senza riserve. A ragione, ha scelto discepoli che, interpreti del suo volere, raccogliessero e non tenessero lontano il popolo di Dio. Ovviamente, non sono da annoverare tra i discepoli di Cristo coloro i quali pensano che la durezza sia da preferire alla dolcezza, la superbia all'umiltà e che, mentre invocano per sé la divina pietà, la negano agli altri….[Ambrogio, La Penitenza, I, 1]. La croce a cui Cristo faceva probabilmente riferimento è l’impegno, il sacrificio e la necessità di portare frutti nella vita individuale, familiare, sociale e religiosa. A ciò va sicuramente aggiunta l’opera di santificazione realizzata con l’aiuto dello Spirito Santo e basata sulla crocifissione dell’uomo vecchio e delle opere della carne. Sta infatti scritto: “Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge. Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come gia ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c'è legge. Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito. Non cerchiamo la vanagloria, provocandoci e invidiandoci gli uni gli altri (Galati 5,16-26).

 

4.        Un quarto concetto, accettato passivamente soprattutto in passato, è che malattie, povertà, carestie, guerre, dolori e sofferenze siano realtà tristi ma comunque inevitabili. Di fatto, la sofferenza dell’uomo, a meno che non sia liberamente scelta (o subita come estrema punizione della sua malvagità), non sembra per nulla predestinata, inevitabile e ineluttabile. Molti cristiani (cattolici e non), in un passato neppur troppo remoto, condannarono ostinatamente legittimi e ragionevoli tentativi di arginare le sofferenze dell'umanità. Basti pensare all'ingiusta opposizione alle vaccinazioni, al parto indolore, all'obiezione di coscienza, alla non violenza, alle trasfusioni di sangue, alla lotta ai tiranni ed alla corruzione, alle riforme economiche e sociali, alla ricerca scientifica, agli studi della medicina ed ai progressi della tecnologia. Nel XX secolo, le conseguenze di tanta insensibilità al dolore dei poveri, dei malati e degli oppressi furono drammatiche, con la fioritura di grandi eresie politiche, economiche, filosofiche e morali e con il crescente rifiuto di ogni insegnamento religioso e di ogni norma etica. Coloro che citano il libro di Giobbe e le sue sofferenze, dimenticano volutamente che, ai tempi di Giobbe, Satana il Diavolo aveva pieno accesso al trono di Dio (Giobbe 1,6-12). Dopo la morte e resurrezione di Cristo, Satana è stato cacciato dal cielo (Apocalisse 12,7-13) e, alla destra di Dio, oggi siede glorioso Gesù, circondato dalla Vergine, dai Martiri, dai Santi e dai Beati…....Parlando di Cristo, la Scrittura giustamente ci ricorda che:

 

·         "Proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova" (Ebrei 2,18);

·         "Non abbiamo un Sommo Sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno" (Ebrei 4,15-16).

·         Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?. Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi. (Romani 8,31-34)

 

5.        Secondo una quinta interpretazione largamente diffusa, Dio permetterebbe il male per rispettare il libero arbitrio dell’uomo. Tale tesi, talora esposta con dovizia di casi, esempi e paradossi, è spesso vera a livello personale ed individuale soprattutto quando si prendono in esame le gravi conseguenze di scelte sbagliate, di comportamenti rischiosi e di condotte immorali, ma presenta inevitabili contraddizioni logiche se si considerano i tristi casi di tante persone che vengono al mondo già profondamente minate nel corpo, nella psiche e nello spirito, senza rapporto con le colpe di alcuno (l'unico legame logico che si può, al massimo, trovare tra il libero arbitrio ed le sciagure di tanti piccoli innocenti è l'inevitabile indebolimento della razza umana dopo il peccato originale e la cacciata da Eden). Il nesso di causalità tra il libero arbitro dell'uomo ed il male nel mondo risulta poi ancora più illogico se, oltre alle vicende individuali, si prendono in esame alcune esperienze sociali e comunitarie: ad un estremo ed esasperato rispetto della libera volontà dei malvagi non sembra, infatti, corrispondere alcun rispetto per la volontà, il destino e l’integrità dei deboli, dei giusti e degli indifesi. Leggendo la Bibbia tale tesi sembra però indifendibile: alla luce di tutte le Scritture pare, invece, logico credere che Dio protegge il debole, il giusto, l’orfano, la vedova e lo straniero (Salmo 146,9; Proverbi 13,6) e che, essendo giusto, governa tutto con giustizia, considerando incompatibile con la sua potenza condannare chi non merita castigo (Sapienza 12,15). Sembra pertanto abbastanza sensato ipotizzare che, soprattutto alla luce della parabola del grano e della zizzania (Matteo 13,24-30), i moltissimi casi di non intervento divino siano spesso legati ad una non chiara divisione tra il bene ed il male, ad una stretta commistione tra i figli del regno ed i figli delle tenebre, ad un legame troppo profondo tra chi si reputa giusto e chi è considerato malvagio. La mano del Signore non è infatti troppo corta per salvare né il suo orecchio troppo duro per non udire: sono invece le nostre iniquità che hanno eretto una barriera tra noi ed il nostro Dio, sono i nostri peccati che gli hanno fatto nascondere la faccia per non darci ascolto (Isaia 58,1-14 e 59,1-3). Non sembra insensato pensare che larga parte dei silenzi divini siano legati non solo ai diffusi peccati di molti cristiani ma anche alle gravi mancanze perpetrate dai pastori consacrati, dalle comunità di credenti e dalle organizzazioni religiose (basti pensare, soprattutto per quanto concerne l'ultimo secolo, ai diffusi fenomeni di collaborazionismo con le dittature più feroci e sanguinarie, ai disperati tentativi di negare e coprire scandali ed immoralità, alle detestabili strategie di dialogo con i tradizionali avversari del cristianesimo, ai continui compromessi con il mondo e con i nemici della fede). Esistono comunque casi in cui i silenzi di Dio rimangono inspiegabili (stragi di innocenti, persecuzioni religiose, genocidi, sciagure naturali, ...). Un’analisi accurata dei fatti storici mostra però come moltissime vittime della violenza e delle persecuzioni spesso non fossero per nulla pure, oneste, giuste ed innocenti. Cessate le persecuzioni, ottenute crescenti libertà e salite al potere, le vittime (e, in moltissimi casi, pure i loro figli innocenti), si sono spesso trasformate in lupi feroci, in carnefici corrotti ed in persecutori accaniti. Se si legge la Scrittura, la strage degli innocenti da parte di Erode (Matteo 2,16-18) appare come un mistero doloroso, ingiusto ed inspiegabile. Noi non conosciamo il motivo per cui Dio permise alle forze del male di scagliarsi con tale ferocia contro tante vite giovani ed innocenti. Siamo però sicuri del fatto che un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e lo informò dei disegni di Erode. Sappiamo poi che sicuramente gli innocenti morti in quella occasione entrarono nella pace dei giusti, mentre altrettanto non si può dire di quanti, scampati al massacro, contribuirono alla crocifissione di Cristo, rendendo vani tutti i tentativi di salvezza, messi in atto dal governatore Ponzio Pilato (Matteo 27,11-24). Non sappiamo perché nei primi tre secoli dell'Era Volgare il volere divino abbia permesso feroci persecuzioni contro i cristiani da parte del potere romano. Sappiamo però con certezza che i martiri della fede oggi regnano con Cristo nell'alto dei cieli. Non siamo invece altrettanto certi della beatitudine presente e futura di tutti qui cristiani che perseguitarono con ferocia i propri fratelli, utilizzando la spada, la tortura, il potere ed i roghi. Non ci è dato neppure di conoscere il motivo per cui Dio permise il genocidio del popolo ebraico durante la II guerra mondiale. Sappiamo però che i figli di Israele, morti durante la persecuzione nazista, entrarono sicuramente nel seno di Abramo. Lo stesso non può, invece, essere detto per tutti coloro che, scampati miracolosamente ai massacri, si abbandonarono ad ogni genere d'iniquità, perseguitando con ferocia i figli dell'Islam e le popolazioni palestinesi. .....

 

6.        Una sesta lettura del mistero dell’umana sofferenza assicura che anche Gesù Cristo provò una gravissima sofferenza morale, sentendosi abbandonato dal Padre nel momento della croce. Larga parte di questa convinzione, che vorrebbe spiegare i silenzi di Dio alla luce della passione e della resurrezione, si basa sulla drammatica invocazione “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Matteo 27,46; Marco 15,34), invocazione che potrebbe far pensare ad un vero e proprio momento di sconforto e di disperazione. Nella vita terrena l’atteggiamento di Gesù Cristo fu però sempre pieno di fede e la morte in croce venne liberamente scelta, senza che risulti evidente alcun abbandono da parte del Padre Celeste. Di fatto, Cristo un giorno disse: "Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio" (Giovanni 10,17-18). All'uomo che colpì il servo del sommo sacerdote, staccandogli un orecchio, Gesù però ricordò chiaramente la libertà della sua scelta e la costante disponibilità del Padre ad intervenire a suo favore, dicendo: "Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli?" (Matteo 26,53). Perfino nel momento della morte, Nostro Signore ebbe modo di dire: “Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Luca 23,34) e “Padre nelle tue mani rimetto il mio spirito” (Luca 23,46). In realtà, Cristo citò volutamente un salmo profetico dedicato alle sofferenze ed alle persecuzioni di un giusto (Salmo 22). In tale salmo, il giusto perseguitato denuncia coloro che si fanno beffe di lui (Salmo 22,7), invocando un intervento divino tanto spettacolare quanto blasfemo (Salmo 22,8). Il giusto ricorda fiducioso che l’Eterno è stato suo Dio fin dal seno materno (Salmo 22,10), che è stato circondato da grandi tori e da leoni feroci (Salmo 22,12-13), che il suo cuore si strugge e si scioglie come cera (Salmo 22,14), che le sue forze si stanno esaurendo e che la sua lingua si attacca al palato (Salmo 22,15), che l’hanno circondato cani e malfattori (Salmo 22,16), che gli hanno forato mani e piedi e che può contare tutte le sue ossa (Salmo 22, 16-17). I suoi carnefici si sono spartite le sue vesti e stanno tirando le sorti sulla sua tunica (Salmo 22,18). La scrittura citata prosegue con la fiducia in un intervento di Dio, che non ha mai disprezzato la sofferenza degli afflitti e che non ha mai nascosto la sua faccia ai giusti (Salmo 22, 24). Sereno e pieno di fede, il giusto sofferente promette di annunciare il nome divino in mezzo all’assemblea dei fratelli (Salmo 22,22) e profetizza che “gli umili mangeranno e saranno saziati; quei che cercano l'Eterno lo loderanno; il loro cuore vivrà in perpetuo” (Salmo 22,26) e che “tutte le estremità della terra si ricorderanno dell'Eterno e si convertiranno a lui; e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel suo cospetto” (Salmo 22, 27). Di fatto, Cristo benché avesse invocato il Padre di liberarlo dalle sofferenze della croce, accettò la sua passione liberamente e spontaneamente (Matteo 22,42). Egli infatti affermò chiaramente “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Giovanni 2,19) e anche “Io depongo la mia vita, per ripigliarla poi. Nessuno me la toglie, ma la depongo da me. Io ho potestà di deporla e ho potestà di ripigliarla”(Giovanni 10,17-18). Alla luce della fede, il diffuso tentativo di presentare un Cristo totalmente umanizzato, simile al sofferente nel momento dello sconforto e della disperazione e fratello di tutti coloro che sentono venir meno il favore divino non sembra, quindi, molto convincente.

 

7.        Una settima opinione largamente diffusa sostiene che larga parte delle speranze bibliche legate alla protezione divina accordata ai giusti e agli umili sarebbero oggi superate da una più lungimirante fiducia in un sistema di remunerazioni ultraterrene, totalmente svincolate dagli angusti calcoli e dalle meschine valutazioni del pensiero biblico vetero-testamentario. La tesi contiene sicuramente un fondamento logico ed equo e rende possibile accettare sia lo scandalo della croce che la ferocia delle persecuzioni anticristiane. Nel caso di malattie, sofferenze ed ingiustizie manifeste, conforta poi il credente, aprendo il suo cuore alla speranza di un premio futuro e di una giustizia trascendente. La possibilità che il buon Dio possa scegliere di non intervenire nei confronti del male per riservare ai giusti una retribuzione più alta non sembra però interpretabile nel senso di un generale e radicale differimento della manifestazione dei giudizi divini, soprattutto in nome di una discutibile tolleranza nei confronti delle forze negative dell’universo. E' invece più probabile che si tratti di casi eccezionali, spesso motivati da tempi e circostanze sconosciute ai comuni mortali, ma che finiscono per confermare la regola del favore divino già nel tempo presente. Dio si prende infatti tanta cura della quotidianità dell’uomo da trarre da essa tutti gli elementi per valutarne i destini eterni…..

 

8.        Secondo un'ottava opinione largamente diffusa, Dio permetterebbe il male per poi trarre dal male un bene maggiore. Tale idea è spesso difesa citando le parole rivolte da Giuseppe ai suoi fratelli "Se voi avevate pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso" (Genesi 50,20). Ora sicuramente è possibile a Dio trarre del bene perfino dal male, ma le sventure di Giuseppe furono determinate e permesse soprattutto da un atteggiamento ben poco caritatevole e piuttosto tracotante nei confronti dei fratelli: Giuseppe, oltre a riferire sistematicamente al padre Giacobbe pettegolezzi sul loro conto, si vantò di alcuni sogni colmi di desiderio di dominio, accrescendo in modo esponenziale il loro odio e la loro gelosia (Genesi37,2-8). Non si trattò di un misterioso disegno divino provvidenzialle ma piuttosto di un crescendo di comportamenti detestabili o, almeno, gravemente imprudenti, che generarono direttamente le sventure del grande patriarca, sventure dalle quali l'Eterno, nella sua immensa bontà e potenza, riuscì, alla fine, a trarre del bene.

 

 

Concludiamo queste pagine, proponendo a tutti gli uomini di buona volontà alcune semplici riflessioni, senza la pretesa di voler dire nulla di originale.

 

 

a.        Molte sofferenze sono spesso presenti nel mondo senza un rapporto diretto con il peccato. Sta infatti scritto "L'anima che pecca è quella che morrà, il figliuolo non porterà l'iniquità del padre, e il padre non porterà l'iniquità del figliuolo; la giustizia del giusto sarà sul giusto, l'empietà dell'empio sarà sull'empio (Ezechiele 18,20). Moltissimi dolori sono pertanto legati alla fragilità (psicologica, fisica, economica, genetica e morale) del genere umano, senza che si possano accertare colpe, trasgressioni e responsabilità immediate e dirette. Accettare tali sofferenze con rassegnazione può certamente contribuire alla costruzione della Chiesa e all'ordinato sviluppo della società civile. Ci sembra, comunque, sensato pensare che all’edificazione del Regno di Dio contribuiscano anche e soprattutto le lotte contro il male, gli sforzi per lenire il dolore degli innocenti e la solidarietà nei confronti di chi soffre. Esaltare la sofferenza in nome della croce rischia spesso di favorire atteggiamenti negativi di passiva rassegnazione, di comodo ripiegamento su se stessi, di mistico compiacimento e di abbandono dell’impegno e della lotta a favore della pace, della giustizia e del progresso materiale e morale.

 

b.       Nei secoli passati, nei confronti della preghiera l’atteggiamento di molti credenti non è stato, purtroppo, sempre equilibrato. Di fatto, tuttora, convivono, anche all’interno della cristianità, posizioni magiche e fideistiche (che vedono nella preghiera la via maestra per forzare la mano a Dio, per ottenere continui miracoli e per sovvertire il mondo e la realtà) con atteggiamenti razionalisti ed intimisti (secondo cui la Divinità non ascolterebbe quasi mai le suppliche degli uomini, raramente difenderebbe gli oppressi, si interesserebbe limitatamente alla realtà ed alle sofferenze degli uomini, limitandosi a dispensare quantità, peraltro limitate, di forza, coraggio, saggezza e Spirito Santo ai suoi fedeli). Purtroppo i due atteggiamenti estremi sono spesso legati anche a concezioni radicali della missione salvifica della Chiesa. Da un lato, alcuni vorrebbero una Chiesa politicizzata, gloriosa e trionfante già qui sulla terra, poco disposta a soffrire ma molto propensa a far soffrire peccatori, infedeli ed eretici, mentre dall’altro lato molti desidererebbero una Chiesa esaltatrice della rinuncia, del dolore, della sofferenza, della persecuzione e della “croce a tutti i costi”.

 

c.        In Cristo, croce e resurrezione, sofferenza e gloria, umiliazione ed esaltazione sono indissolubilmente legate. Anche per il cristiano sono pertanto possibili gioie e sofferenze, sconfitte e vittorie, martirii e trionfi. Sicuramente utopistica è l’opinione che il cristianesimo metta i credenti al riparo dalle prove della vita (Salmo 34,20), ma certamente blasfema è la convinzione che Dio non ascolti le preghiere degli umili e dei giusti, non si prenda cura di noi  e non sappia aiutarci nel momento della prova. Sta infatti scritto che:

 

·         Chi s'accosta a Dio deve credere che egli esiste e che egli ricompensa coloro che lo cercano” (Ebrei 11,6);

 

·          Dio è amore” (1 Giovanni 4,8) e "Il Signore è ricco di misericordia e di compassione (Giacomo 5,11; Salmo 86,15: Salmo 103,8) ;

 

·         Dio ascolta la preghiera dei giusti ma è lontano dalle invocazioni degli empi” (Proverbi 15,29; Salmo 34,15-16; Giovanni 9,31; 1 Pietro 3,10-12);

 

·         "Dio resiste ai superbi ma fa grazia agli umili" (Giacomo 4,6; Proverbi 3,34);

 

·         Il Signore sa liberare i pii dalla prova e serbare gli empi per il castigo nel giorno del giudizio” (2 Pietro 2,9);

 

·          Dio è fedele e non permetterà che siamo tentati oltre le nostre forze, ma con la tentazione ci darà anche la via d'uscita e la forza per sopportarla” (1 Corinzi 10,13);

 

·         "Nessuno, quando cade in tentazione, dica di essere tentato da Dio, perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce (Giacomo 1,13-14).

 

·         Dio si prende cura di noi” (1 Pietro 5,7), “non rifiuterà di fare del bene a quelli che camminano rettamente” (Salmo 84,11-12) e "riserva ai giusti la sua protezione, è scudo a coloro che agiscono con rettitudine, vegliando sui sentieri della giustizia e custodendo le vie dei suoi amici" (Proverbi 2,7-8).

 

·         Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù” (Filippesi 4,6)

 

·         Ma la salvezza dei giusti procede dall'Eterno; egli è la loro fortezza nel tempo della distretta; l'Eterno li aiuta e li libera: li libera dagli empi e li salva, perché si sono rifugiati in lui (Salmo 37,40)..... getta sull'Eterno il tuo peso, ed egli ti sosterrà; egli non permetterà mai che il giusto sia smosso (Salmo 55,22).... chi induce i giusti a battere una mala via cadrà egli stesso nella fossa che ha scavata; ma gli uomini integri erediteranno il bene (Proverbi 28,10).... poiché lo scettro dell'empietà non sempre rimarrà sulla eredità dei giusti, onde i giusti non mettan mano all'iniquità (Salmo 125,3)”.

 

·         Manifesta al Signore la tua via, confida in lui: compirà la sua opera (Salmo 37,5)....offri a Dio un sacrificio di lode e sciogli all'Altissimo i tuoi voti; invocami nel giorno della sventura: io ti salverò e tu mi darai gloria (Salmi 50,14)....confida nel Signore con tutto il cuore e non appoggiarti sulla tua intelligenza; in tutti i tuoi passi pensa a lui ed egli appianerà i tuoi sentieri (Proverbi 3,6). ... affida al Signore la tua attività e i tuoi progetti riusciranno (Proverbi 16,3)".

 

d.       La verità più profonda ed equilibrata contenuta nella croce e nella partecipazione del cristiano alle sofferenze di Cristo sembra pertanto risiedere, più che in posizioni estreme e poco equilibrate, nell’umile quotidianità (Matteo 10,38), cioè nell’impegno operoso, nel sacrificio, nella progressiva crocifissione delle opere morte della carne (Galati 5,18-21) e nella contemporanea graduale crescita dell’uomo nuovo (Efesini 4-5) e dei suoi frutti nello Spirito Santo (Galati 5,22-29) per la costruzione della Santa Chiesa (Colossesi 1,24). Alla luce di queste semplici riflessioni, il tanto celebrato mistero della sofferenza, potrebbe perdere larga parte di quel carattere mistico, casuale e stocastico oggi tanto spesso invocato e sbandierato: la missione della Chiesa e dei credenti potrebbe pertanto essere non tanto quella di indicare colpevoli ed innocenti, misteri ed enigmi, dubbi ed interrogativi ma piuttosto quella di riflettere e di far riflettere sulla possibilità che molti mali che oggi affliggono l’umanità non siano solo frutto della fragilità, della follia e della malvagità umana ma anche e soprattutto dell’incapacità di crescere nella fede e di portare frutti di salvezza. Non è forse un caso che, nel Vangelo di Luca, la parabola del fico sterile (Luca 13, 6-9) segua immediatamente gli inviti alla conversione, dopo gli inspiegabili massacri di Pilato e l’incomprensibile caduta della torre di Siloe su un gran numero di giudei innocenti (Luca 13,1-5).

Del resto, anche l'ipotesi che la protezione divina per i giusti sia sospesa (o almeno allentata) nei momenti in cui questi risultino coinvolti in vari peccati (2 Maccabei 5,18) è sicuramente degna di qualche attenzione. Una riflessione non superficiale sul mistero della sofferenza non può prescindere dall'analisi congiunta di variabili oggettive, di fattori soggettivi e di comportamenti etici. Tra le prime è sicuramente il caso di prendere in esame l'evoluzione naturale delle forze naturali (che da millenni provocano terremoti, maree, eruzioni vulcaniche, alluvioni, frane, valanghe, escursioni termiche, epidemie, carestie e disastri di ogni genere), mentre tra i fattori soggettivi sembra opportuno considerare tutti i comportamenti negativi (dolosi e colposi) messi in atto dall'uomo (e in grado di causare miseria, guerre, sfruttamento, distruzioni ecologiche, fragilità nel patrimonio edilizio, malattie, indebolimento delle difese immunitarie, esposizione ad agenti patogeni o psicologicamente stressanti). Se poi molti comportamenti disdicevoli non sembrano essere fortemente correlati a conseguenze negative immediate, è comunque possibile che il persistente allontanamento da uno stato di grazia ordinario riduca drasticamente le possibilità di intervento straordinario da parte della Provvidenza Divina.

 

 



[1] La croce, già segno del più terribile fra i supplizi, è per il cristiano l'albero della vita, il trono e l'altare della nuova alleanza. Dal Cristo, nuovo Adamo addormentato sulla croce, è scaturita tutta la Chiesa. La croce è pertanto il segno della signoria di Cristo su coloro che nel battesimo sono resi simili a lui nella morte e nella gloria. Nella tradizione dei Padri la croce è il segno del figlio dell'uomo che comparirà alla fine dei tempi. La festa dell'esaltazione della Santa Croce (paragonata in Oriente alla Santa Pasqua), è legata alla dedicazione delle basiliche costruite dall'imperatore Costantino sul Golgota e sul Santo Sepolcro (la festa in onore della Croce venne infatti celebrata la prima volta nel 335, in occasione del Venerdì Santo e della Pasqua della Risurrezione). Col termine di "esaltazione", che traduce il termine greco “hypsòsis”, la festa passò anche in Occidente e, a partire dal secolo VII, essa commemorò il recupero della preziosa reliquia (trafugata nel 614 d. C. dal re persiano Cosroe Parviz, durante la conquista di Gerusalemme) da parte dell'imperatore bizantino Eraclio nell'anno 628 dell'era volgare. Della Croce, si persero però definitivamente le tracce nel 1187, quando i musulmani la strapparono al vescovo di San Giovanni d'Acri, che l'aveva portata, come un magicotalismano, nella battaglia di Hattin. La Santa Croce, profanata dalla superstizione e dalla ferocia delle orde crociate, scomparve così dalla storia, come secoli prima era successo dell’arca dell’alleanza (Geremia 3,16) e del serpente di bronzo (2 Re 18,4).

 

[2] Secondo la cristianità, la glorificazione di Cristo passa attraverso il supplizio della croce e l'antitesi sofferenza-glorificazione diventa fondamentale nella storia della redenzione. Cristo, incarnato nella sua realtà concreta umano-divina, si sottomette volontariamente all'umiliante condizione di schiavo e l'infamante supplizio viene tramutato in gloria imperitura. Così la croce diventa il simbolo e il compendio della religione cristiana. All’annuncio del Regno di Dio gli apostoli combinano sempre presentazione di "Cristo crocifisso". Il cristiano, accettando questa verità, "è crocifisso con Cristo", cioè deve portare quotidianamente la propria croce, sopportando rinunce, fatiche, mortificazioni, ingiurie e sofferenze, come Cristo, gravato dal peso del "patibulum". Le sofferenze che riproducono nel corpo mistico della Chiesa lo stato di morte di Cristo, sono pertanto un contributo alla redenzione degli uomini ed assicurano la partecipazione alla gloria del Risorto.

 

[3]Tra i cristiani, nei confronti della croce, esistono posizioni molto diverse: a) i testimoni di Geova guardano con orrore alla croce, vista come strumento di morte, considerano la croce di ambiguo valore cultuale e simbolico e dubitano della sua forma tradizionale (Cristo sarebbe morto su un legno che potrebbe avere tanto forma di croce che forma di palo); b) i protestanti evitano di tributare forme di culto al crocifisso, pur riconoscendo il valore simbolico della croce, che peraltro preferiscono utilizzare vuota, sottolineando così la risurrezione di Nostro Signore e la sua vittoria sulla morte; c) gli ortodossi venerano la Santa Croce ed il Crocifisso come una Santa Icona. Il segno della Croce è un gesto che il cristiano ortodosso compie nella sua preghiera e in ogni momento della giornata per ricordare Dio. Il gesto è una confessione e, nello stesso tempo, una preghiera. Con il segno della Croce si confessa che la morte è stata sconfitta dalla morte e dalla risurrezione di Cristo. La Croce non è dunque un segno di morte e di finitezza ma di vita perché unisce veramente i credenti con la sorgente della vita stessa. Il segno della Croce è anche una preghiera con la quale si chiede la partecipazione a quella vita trasfigurata anticipata dalla Resurrezione di Cristo, vita che non conosce termine. Nella Chiesa Ortodossa il segno della Croce si fa tenendo tre dita della mano destra unite e le altre due libere. Questo gesto è la confessione dell'unità e trinità di Dio e delle due nature (umana e divina) unite in Cristo senza essere confuse tra loro (Dogma del Concilio di Calcedonia). La mano così disposta tocca la fronte (Nel nome del Padre), l'ombelico (del Figlio), la spalla destra (e del Santo) e la spalla sinistra (Spirito); d) i cattolici riconoscono come gli ortodossi la liceità della devozione alle icone e distinguono sia tra adorazione (al Padre, al Figlio ed allo Spirito Santo) e venerazione (alla Vergine Maria, ai Santi e agli Angeli) che tra "devozione diretta" (da tributare alle persone divine, alla Vergine, ai Santi ed agli Angeli) e "culto relativo" (da tributare alle Sante Scritture, alle Sante Icone ed alle reliquie). La devozione ad un’icona di Maria sarebbe pertanto una “venerazione relativa”, mentre la devozione al crocifisso sarebbe un’”adorazione relativa”, in quanto rivolta alla seconda persona della Trinità. Quanto alla croce vuota senza il crocifisso il "culto relativo" sarebbe ammissibile solo sotto l’ipotesi che si tratti di un’icona semplificata del Cristo Crocifisso. I cattolici (come del resto gli ortodossi) hanno comunque sempre preferito l’icona del Cristo Crocifisso alla croce vuota, proclamando con chiarezza che: “Adoremus Te Christe et benedicimus Tibi quia per Sancta crucem tuam redemisti mundum”.

 

[4] Non intendiamo qui affrontare la complessa questione sulla forma della croce di Cristo (commissa, immissa, decussata, a forma di palo, a forma di palo verticale integrato da palo orizzontale o patibulum, .....), né tanto meno ci interessa sviscerare il significato filologico di alcuni termini greci (come stauros, xylon, skolops, ...). Per un’analisi critica di tali problemi rinviamo ad altri siti dotti, ricchi di ipotesi, di riflessioni, di materiali e di riferimenti. Nell’arte e nella letteratura cristiana, si fa comunque spesso riferimento alla croce a doppio braccio, come sembrano confermare le testimonianze di alcuni cristiani dell’antichità. Barnaba verso il 98 d. C. disse che la croce da cui sarebbe venuta la salvezza somigliava alla lettera tau dell’alfabeto greco [Barnaba, Epistola di Barnaba, IX, 8]. Giustino martire, verso l’anno 140 d.C. scrisse: “Nello scontro tra gli ebrei e gli amalechiti (Esodo 17:11) lo stesso Mosé pregava Dio con le due braccia spalancate. Cur e Aronne le sostenevano tutto il giorno, perché non le abbassasse. Se infatti offriva qualche cosa di questo segno imitante la croce il popolo vinceva” [Giustino, Dialogo con Trifone, XC, 4] e anche “Il fatto poi che fosse ordinato che quell'agnello dovesse essere completamente arrostito era simbolo della passione di croce che Cristo doveva patire. Infatti l'agnello che viene arrostito si cuoce in una posizione simile alla forma della croce, poiché uno spiedo diritto viene conficcato dalle parti inferiori alla testa, e uno messo di traverso sul dorso e vi si attaccano le zampe dell'agnello». [Giustino, Dialogo con Trifone, XL, 3]. Ireneo di Lione, vissuto tra il 140 ed il 200, scrisse: “La stessa forma della croce ha cinque punte o estremità: due nella lunghezza, due nella larghezza, e una nel mezzo (il sedile, aculeus) sulla quale riposa chi viene confitto” [Ireneo, Contro le Eresie, II, 24, 4] e anche: “È per opera del Verbo di Dio che tutte le cose quaggiù sono state disposte e strutturate; per questo la crocifissione del Figlio di Dio si è compiuta anche lungo tutte quattro queste dimensioni, quando egli ha tracciato sull'universo il segno della sua croce. Infatti, col suo farsi visibile, ha dovuto rendere visibile la partecipazione di questo nostro universo alla sua crocifissione, per mostrare, con la sua forma visibile, l'azione che egli esercita sull'universo visibile: che egli cioè illumina l'altezza, cioè tutto quanto è nel cielo, che contiene la profondità, cioè quanto esiste nelle viscere della terra, che estende la sua lunghezza da oriente a occidente, che governa come nocchiero la regione di Arturo e la larghezza del Mezzogiorno, chiamando d'ogni parte coloro che sono dispersi, alla conoscenza del Padre”. [Ireneo di Lione, Dimostrazione della predicazione apostolica, XXXIV]. Tertulliano, vissuto tra il 160 ed il 230, parlando della preghiera, disse: “Pregano anche gli angeli, prega ogni creatura ... Anche gli uccelli quando si destano, si levano verso il cielo, e, al posto delle mani, aprono le ali in forma di croce e cinguettano qualcosa che può sembrare una preghiera”[Tertulliano, La Preghiera, XXIX, 4].