È la versione
latina della Bibbia compiuta in gran parte da s. Girolamo, denominata da Erasmo
di Rotterdam e G. Lefèbvre d’Etaples, a motivo della sua grande diffusione, “volgata”,
“usuale”, “comune”, termine applicato prima alla versione greca dei LXX.
Nel IV sec.
(cf. s. Agostino, De doctrina christiana II, 11, 16; PL 34, 43; ed i
molteplici rilievi di s. Girolamo), regnava una grande varietà di lezioni in
manoscritti latini; con notevoli differenze rispetto ai testi originari. Per
questo il papa Damaso invitò s. Girolamo ad un’accurata revisione del testo
biblico; essa, iniziata nel 383-384 a Roma, ampliata e perfezionata di propria
iniziativa, terminò solo nel 405-406 a Betlemme.
Il Nuovo
Testamento non fu tradotto da s. Girolamo, ma solo riveduto durante gli
anni 383-85 nei punti principali in un testo latino preesistente, con l’intento
di eliminare i difetti dovuti ad amanuensi disattenti o ad arbitrarie
correzioni di sedicenti specialisti con particolare riguardo all’originale
greco; cf. la lettera, con cui Girolamo dedicava al Papa la revisione dei quattro
Vangeli (PL 29, 557-62), per i quali dovette tener sott’occhio un manoscritto
greco della famiglia del codice B (Vaticano).
Il Vecchio
Testamento fu per la massima parte tradotto direttamente dall’ebraico tra
gli anni 391-406. Dei deuterocanonici, egli tradusse solo ludt., e Tob.
dall’aramaico. Gli altri (Bar., Eccli., Sap., I e II Mach., parte
di Esth.) riproducono ancora il testo dell’antica latina. Del Salterio Girolamo compì
due revisioni (una a Roma nel 384 con i medesimi criteri adottati per il Nuovo
Testamento ed una in Betlemme verso il 389 sul testo esaplare) ed una traduzione
diretta dall’ebraico. Data la grande diffusione del libro e la ripugnanza
generale per una novità assoluta, nella V. fu incorporato non il testo tradotto
dall’originale, ma la seconda revisione chiamata Salterio gallicano sia perché
diffusosi dapprima in Gallia sia per distinguerla dalla prima in uso a Roma
(Salterio romano).
Nella revisione
del Nuovo Testamento Girolamo intese soltanto correggere gli errori più
palesi, badando anche ad una certa eleganza della lingua, quasi del tutto
trascurata nelle versioni precedenti. Per la traduzione del Vecchio Testamento,
si può dire che è tra le migliori di tutte le antiche versioni, nel suo
complesso; per la fedeltà all’ottimo originale ebraico (molto affine al testo
masoretico) che ebbe a sua disposizione. Talvolta volle rendere più perspicui
testi messianici o creduti tali (cf. Is. 11, 10; 12, 3; 16, 1; 51, 5);
non scostarsi troppo dalla lezione dei Settanta; e dare un colorito più latino
al periodare semplice e paratattico dei Semiti. Non mancano (cf. Gen. 49,
10; Ier. 31, 15.22 ecc.) casi nei quali Girolamo fraintese il testo; ma
essi sono molto meno di quanti se ne aspetterebbero. Le varie imperfezioni, molto
esagerate da vari autori acattolici nel passato, non possono sminuire
l’ammirazione per l’impresa assai più ardua allora che non adesso, dato il
grande progresso della filologia e della critica.
In varie
lettere (già nella 27 a Marcella, scritta forse nel 384) ed in quasi tutte le
prefazioni, premesse ai diversi libri man mano che li pubblicava, Girolamo si
difende — spesso con la violenza abituale — dalle mille critiche contro la sua
opera, dettate dal malanimo, oppure da una naturale reazione di spiriti che
vedevano alterata l’antica latina o sminuita la versione dei Settanta, ritenuta
da alcuni per ispirata. Lo stesso s. Agostino, solo lentamente si mostrò più
comprensivo, anzi lodò apertamente l’iniziativa (cf. De doctrina christiana IV,
15; PL 34, 96), pur rimanendo sempre fedele all’antica versione.
A motivo di
questa opposizione la diffusione dell’opera fu lenta e contrastata. Il suo
trionfo su le antiche traduzioni fu dovuto innanzi tutto a s. Gregorio Magno, a
Cassiodoro, a s. Isidoro di Siviglia e a S.
Beda il Venerabile. Intanto la trasmissione delle varie versioni occasionò
contaminazioni reciproche; lezioni di quella geronimiana penetrarono
nell’antica latina e viceversa.
Tale fallo,
insieme al naturale alternarsi di un libro, ricopiato un’infinità di volte,
determinò il costituirsi di “tipi” di testo particolari, che ora si sogliono
chiamare “italiano”, “spagnolo”, “insulare” od “irlandese” dai vari gruppi di
manoscritti, che li rappresentano.
Il migliore, a
causa del suo limitatissimo numero di interpolazioni, è il gruppo italiano, che
proviene dalla revisione di Cassiodoro (sec. VI) e dalla recensione compiuta da
Alcuino per iniziativa di Carlo Magno. I codici spagnoli si distinguono
per l’ordine particolare (= al canone ebraico) seguito nella disposizione dei
libri, mentre per il testo risentono l’influsso della revisione di Teodulfo,
vescovo di Orleans (X 821). Meno perspicue sono le caratteristiche dei
manoscritti insulari od irlandesi, che rappresentano un testo
molto diffuso anche in Francia e con evidente influsso della recensione di
Alcuino.
Nel sec. XIII, data
la grandissima importanza della sua Università, a Parigi si formò un tipo di
testo diffusissimo, che si suole chiamare Bibbia parisiensis, fondato su
la recensione alcuiniana, ma che risultò in pratica una vera miscela di lezioni
provenienti da varie correnti: tanto da esigere i famosi “correctoria (v.)
biblica”.
Il Concilio di Trento (IV sess., 8 apr.
1546) «considerando che sarebbe fonte di grande utilità nella Chiesa di Dio se
risultasse quale fra le varie versioni latine in circolazione sia da ritenersi
per “autentica”, stabilisce e dichiara che nelle pubbliche letture, nelle
dispute, nelle predicazioni e nelle esposizioni si abbia per autentica., senza
che alcuno con qualsiasi pretesto osi o presuma rigettarla, questa stessa
versione antica e diffusa ( = vulgata), che è stata approvata nella Chiesa col
suo uso plurisecolare» (EB, 46).
Il decreto è
soltanto “disciplinare”, non ha valore “dommatico”.
Il decreto
prescinde dai testi originali, dalle altre versioni antiche per precisare che
la V. era l’unica versione autentica rispetto alle molte nuove
traduzioni latine (ne sono state contate ben 160 solo per gli anni 1450-1522!);
e per l’uso “pubblico”, nella Chiesa. Il termine autentica va preso in
senso giuridico: indica un documento degno di fede, che fa testo: la V.
poteva essere adoperata con ogni sicurezza per la dimostrazione delle verità
dogmatiche e morali. Il Concilio ne indica la prova nell’uso plurisecolare
fattone dalla Chiesa, che è indefettibile nelle questioni di fede e di morale.
Trattandosi di
una versione, basta una “conformità” sostanziale col testo originale. I Padri
conciliari erano talmente consci di talune imperfezioni della V. da
raccomandarne caldamente un’edizione corretta. Le recenti Encicliche (cf. la Divino
Afflante Spiritu) inculcano ormai per le dimostrazioni teologiche il
ricorso al testo originale.
Essendo stato
il libro più ricopiato, straordinario è il numero dei manoscritti della V.: tenendo
conto anche dei lezionari liturgici e dei frammenti, ascendono a circa 30.000!
Molti però sono di data recente e riproducono il diffusissimo testo parigino di
nessun valore crilico. Qui basta segnalare i principali rappresentanti.
Fra i
manoscritti “italiani” eccelle per bontà di testo e per la sua veneranda
antichità l’Amiatino (A), cosiddetto dal Monte Amiata ove fu
lungamente conservato nella biblioteca dei Cistercensi. Ora si trova nella
Laurenziana di Firenze. Il testo deriva da quello curato da Cassiodoro nel
monastero di Vivario, ma fu copiato verso il 700 in Inghilterra in un monastero
presso Jarnow da un manoscritto, che l’abate Ceolfrido od il suo predecessore
portò a Roma. Il Codice fu inviato da Ceolfrido come dono a s. Pietro; ma, essendo
morto durante il viaggio il suo latore, andò a finire sul monte Amiata. La
Commissione istituita da Pio IV ne curò la collezione ed è stato spesso oggetto
di studio, particolarmente da parte di Tischendorf. Giustamente è uno dei
codici più quotati dai Monaci Benedettini, che solo in casi speciali gli
assegnano un valore secondario nella loro edizione.
Il codice Fuldensis
(F) si deve all’iniziativa di Vittore vescovo di Capua (541); fu
portato a Fulda, ove ancora si conserva, da s. Bonifacio. Contiene il Nuovo
Testamento con i vangeli unificati a modo di Diatessaron. Il Paulinus
(P) risale al sec. IX ed è uno dei manoscritti più eleganti
della biblioteca di s. Paolo a Roma. Si ritiene ottimo rappresentante della
recensione di Alcuino. Del medesimo tipo è il codice Vallicellianus (V)
del sec. IX, conservato nella biblioteca Vallicelliana di Roma.
Una famiglia
particolare è costituita dai manoscritti Mediolanensis (M), Foroiuliensis
(J). in gran parte a Cividale del Friuli, mentre alcuni fogli stanno a
Praga ed a Venezia, Anconitanus e Sangallensis, scritti tutti nel
sec. VI-VII nell’alta Italia. Fra i codici “spagnoli” occupa il primo posto il Cavensis
© del sec. VIII-IX, conservato
nella Badia di Cava dei Tirreni. In esso si notano non poche lezioni derivate
da versioni pregeronimiane. Il Turonensis (G) del sec. VI-VII, ora nella
Biblioteca Nazionale di Parigi, contiene quasi tutto il Pentateuco (Gen.-Num.).
Gli editori Benedettini gli hanno attribuito un grande valore,
considerandolo l’archetipo dei codici spagnoli. Fra i codici “insulari” o
“irlandesi” si notano: il Dublinensis (D), detto anche Armachanus o
Book of Armagh, dell’812, contenente il Nuovo Testamento, ed il Kenanensis
(Q) o Book of Kells del sec. VII-VIII, che, al pari dell’Egertonensis
(E) del sec. IX, riporta i quattro Vangeli. Rappresentante tipico
della famiglia per l’Eptateuco (contiene solo tali libri) è considerato dai
Benedettini l’Ottobonianus (O) del sec. VII-VIII. Esso, proveniente probabilmente da Bobbio, reca non poche
lezioni singolari oppure della vetus latina.
La V. fu il
primo libro stampato dallo stesso Gutenberg, con a base il testo parigino,
forse nel 1452 a Magonza e le edizioni, senza alcuna pretesa critica all’inizio,
si moltiplicarono rapidamente (se ne contano un centinaio fra il 1452 ed il
1500).
In seguito,
specialmente per opera di Alberto Castellano (Venezia 1511), si incominciò a
segnalare nel margine lezioni varianti, desunte da commentari patristici, da
altri manoscritti, dalla vetus latina ecc. Nella Poliglotta Complutense
(o di Alcalà) si utilizzano manoscritti molto più antichi; così nella Bibbia
detta Hittorpiana dal nome del libraio che ne fu il promotore (Colonia
1530) e nelle tre edizioni di Roberto Stefano (Parigi 1528; 1532; 1540). Più
tardi si procedette a vere correzioni, e a mutazioni con stampati con
caratteri diversi (Osiander; Norimberga 1522), o semplicemente sostituendo il
nuovo testo a quello della V. (Isidoro Clario, Venezia 1542).
Consci di tanta
incertezza e confusione, i Padri del Concilio di Trento espressero il voto che
si preparasse un’edizione il più corretta possibile (quam emendatissime)
della V. e lasciarono il compito dell’iniziativa al Pontefice. Allo scopo,
lavorò una triplice Commissione di Cardinali: la prima eletta da Pio IV (1561)
iniziò la collezione di importanti manoscritti; la seconda creata da Pio V
(1569) ampliò la consultazione dei manoscritti ed esaminò con cura i testi
originali; la terza nominata da Sisto V (1586), con l’opera delle precedenti e
basandosi sul testo pubblicato a Lovanio nel 1583, preparò in breve un testo,
che lasciava ben poco a desiderare: è il famoso Codex Carafianus (del
card. Carafa, preside). Il Papa, però, non l’approvò; con l’aiuto di Francesco
Toleto e di Angelo Rocca, respinse molti degli emendamenti proposti e
ritornando spesso al testo di Lovanio, pieno di evidenti interpolazioni,
pubblicò la famosa edizione del 1590, cui premise la Bolla Aeternus Ille (1
marzo 1590: la cosiddetta edizione Sistina).
Gli esperti
componenti la Commissione ed altri dotti, risentiti per un simile procedere
affrettato e ben poco scientifico, dopo la morte del Papa (27 ag. 1590),
reclamarono che essa fosse proibita. Per consiglio del Bellarmino si evitò
tale condanna aperta. Nel 1591, perciò, Gregorio XIV istituisce una quarta
Commissione (7 cardinali e 11 consultori), indirizzando le norme pratiche, che
miravano ad un ritorno al Codex Carafianus. La commissione in breve
tempo consegnò il testo al Papa, la cui morte repentina (15 ottobre) causò una
nuova interruzione dei lavori, prolungata dal brevissimo pontificato di
Innocenzo IX. Nel 1592 Clemente VIII incaricava dell’opera Francesco Toleto
che, con l’aiuto di Angelo Rocca e di
altri, preparò una nuova edizione, esteriormente identica a quella di Sisto V.
Si espunsero non poche interpolazioni, pur ritenendone un bel numero, e si
procedette a cambiamenti secondari nel minor numero possibile. L’edizione uscì
il 9 nov. 1592 col solo nome di Sisto V (Sixti quinti Pont. Max. iussu recognita atque edita) e
subito si procedette al ritiro delle copie dell’edizione del 1590, che vennero
distrutte. Soltanto nel 1604 a Lione si aggiunse il nome di Clemente VIII; donde la denominazione ufficiale di sisto-clementina.
Di tale lavoro
così contrastato, nonostante gli innegabili meriti, che non poteva pretendere
di essere perfetto, i dotti, poi, non mancarono di suggerire emendamenti
sostanziali in forza di una più evoluta critica testuale.
T. Heyse e C.
Tischendorf corredarono il testo sisto-clementino con le varianti del codice
Amiatino (Lipsia 1873). Molto più importante l’edizione critica del Nuovo Testamento
da parte di G. Wordsworth e E. White. Il primo fascicolo uscì nel 1889;
l’ultimo del 1949 contiene le lettere cattoliche. Manca ancora (1952) l’Apocalisse;
ma già nel 1911 White ne curò un’edizione manuale completa.
Nel 1907 Pio X
affidò all’Ordine Benedettino il compito di preparare un’edizione critica di
tutta la V. con lo scopo di presentare il testo, per quanto è possibile, simile
all’autografo di s. Girolamo ed al testo più antico in circolazione per i libri
non tradotti da questo biblista. Sebbene non tutti i principi fissati dagli
illustri editori abbiano riscosso un’approvazione incondizionata, l’opera è
stata accolta con grandissima stima, anche nel campo acattolico. Finora (1954)
sono usciti solo undici volumi, che comprendono i libri Gen.-Ps.
J. M. Vostè’, De latina versione quae dicitur «Vulgata», Roma 1928;
J. O. Smit, De Vulgat, Boermond en
Maaseik 1948.
http://www.paginecattoliche.it/Volgata.htm