IL TETRAGRAMMA








IL TETRAGRAMMA E LA TRADIZIONE CRISTIANA



TETRAGRAMMA E CRISTIANI

 

 

 

 

La cristianità fece costante riferimento alla Bibbia dei Settanta fino al IV secolo dopo Cristo, cioè fino a quando San Girolamo, su incarico di papa Damaso, non curò la Vulgata, traduzione latina delle Sacre Scritture dal testo originale ebraico. La scomparsa del tetragramma dalla tradizione cristiana è dovuta al fatto che solo uno raro numero di copie della traduzione dei Settanta lo conteneva.

 

Per secoli i cristiani credettero pertanto, in perfetta buona fede, che il nome proprio di Dio fosse "Signore" proprio perché quasi tutte le copie della versione greca dei Settanta lo avevano tradotto con Kyrios.

 

Del resto, il testo greco della Settanta era facilmente comprensibile in tutto l'impero romano, mentre il Targum[1], che sicuramente riportava il tetragramma, era scritto in aramaico e risultava praticamente inaccessibile a larga parte dei cristiani.

 

A ciò va aggiunto il fatto che la Settanta offriva molte più sfumature del testo ebraico e quasi sempre rendeva più chiare ed evidenti le profezie del Vecchio Testamento. Un esempio classico è quello della traduzione di עלמה (almah) in Isaia 7,14 “la vergine concepirà e darà al mondo un figlio che si chiamerà Emmanuele”. In ebraico la traduzione corretta di almah è “giovane donna” ma la versione dei Settanta tradusse l'ebraico almah con la parola greca παρθενος (partenos), cioè con “vergine”, aprendo così  involontariamente le porte alla profezia della nascita verginale di Gesù  (Matteo 1,23). Nel Salmo 16,10 un’esegesi profetica sulla resurrezione di Cristo fu poi possibile ai Padri della Chiesa grazie, soprattutto, alla Settanta che tradusse il termine ebraico שחת (sepolcro) con διαφθοραν (corruzione). La traduzione classica divenne così “tu non abbandonerai l'anima mia in potere della morte, né permetterai che il tuo santo subisca la corruzione”, influenzando profondamente anche il discorso di Pietro nel giorno di Pentecoste (Atti 2,27-31).[2].

 

Il mondo ebraico reagì duramente alla lettura cristiana delle profezie e sconfessò la traduzione dei Settanta, che solo due secoli prima aveva, peraltro, mostrato di gradire. Nella riunione di Iamnia (90 dopo Cristo) gli ebrei fissarono il canone ufficiale della Bibbia, bocciando come apocrifi alcuni libri scritti in lingua greca[3] e contenuti nella versione dei Settanta. Vennero quindi preparate nuove traduzioni greche ed ebbero così origine le versioni di Aquila[4], di Simmaco[5] e di Teodozione[6]. Queste versioni, pur molto precise ed accurate, nascevano però con chiari intenti polemici e risultavano spesso realizzate da veri e propri apostati.

 

L'Esapla di Origene (240 d.C. circa), costruita anche per favorire il dialogo con i rabbini ebrei, conteneva su sei colonne ben sei versioni del Vecchio Testamento: il testo ebraico, la trascrizione del testo ebraico in caratteri greci, le versioni di Aquila, di Simmaco, dei Settanta e di Teodozione. Le prime 2 colonne riportavano probabilmente il tetragramma in ebraico (יהךה), le due successive in caratteri paleoebraici e nelle restanti due colonne il nome di Dio era traslitterato in caratteri greci (πιπι).

 

Che i cristiani avessero perduto il tetragramma già nei primi secoli appare evidente dall'attendibile testimonianza di Giustino Martire (100-168), profondamente convinto del fatto che Dio fosse privo di un nome proprio, essendo "Dio", "Creatore", "Signore" e "Padrone" solo denominazioni derivate dai suoi benefici e dalle sue opere (Giustino, Apologia II, 6,1). Nel IV° secolo Girolamo, pur avendo avuto notizia del tetragramma da antiche copie del Vecchio Testamento[7], non ne approvò la forma greca e, nella Vulgata, lo tradusse con "Domine". Di fatto, in ebraico, יהךה vuol probabilmente dire Colui che è [8], mentre nella lingua greca la forma traslitterata πιπι (PIPI), oltre ad essere ridicola, risultava totalmente priva di senso.

La Chiesa Cattolica per lungo tempo riconobbe quindi come versione ufficiale solo la Vulgata per il terrore di manipolazioni del testo sacro da parte degli ebrei, degli eretici, degli ortodossi e dei musulmani (ormai padroni incontrastati dei patriarcati di Gerusalemme, Antiochia, Alessandria e Costantinopoli). L'accettazione della Vulgata come unico testo approvato dalla chiesa cattolica fece si che neppure il grande Dante Alighieri (1265-1321) fosse a conoscenza dell'esistenza del tetragramma. Nella Divina Commedia (Paradiso, XXVI, 134-136) egli però ricorda come Dio fosse conosciuto nei tempi antichi con i nomi di I (probabile trascrizione occidentale abbreviata di Jah) e di El (forma contratta di Elohim).[9].

 

Il testo masoretico, infine, fu incomprensibile a larga parte del popolo cristiano e godette di minor prestigio rispetto alla versione dei Settanta anche perché vide la luce solo verso l'inizio del XI° secolo dopo Cristo, quando i rapporti con gli ebrei erano ormai compromessi. I masoreti introdussero le vocali e la punteggiatura nel testo sacro. Del nome di Dio si era però ormai persa la pronuncia. Essi  scrissero le vocali di אדני (Adonay) sopra il tetragramma perché i rabbini tendevano a sostituire il nome proprio di Dio con Adonay: da questo nacque la diffusa convinzione che la pronuncia corretta del nome di Dio fosse Jehovah.

 

 



[1] Il Targum è la traduzione della Bibbia in lingua aramaica, per l'uso liturgico della sinagoga. Dopo il ritorno da Babilonia, la popolazione non capiva più l'ebraico e ci fu bisogno di tradurre il testo sacro nella lingua parlata, l'aramaico.

 

[2] Non tutta la Settanta si prestava  però a sostenere il  messianesimo individuale e la lettura cristiana delle profezie. Acutamente San Girolamo osservò come in moltissimi punti il testo ebraico fosse decisamente più affidabile del testo greco (e della Vetus Latina ricavata dalla Settanta): la Bibbia Vulgata risultò così una vera e propria versione riveduta sul testo ebraico. Degni di rilievo sono, ad esempio, i casi di Isaia 9,5 dove il testo ebraico porta “Dio potente” ed il testo greco “Angelo del gran consiglio”, di Isaia 42,1 dove il testo ebraico ha “mio servitore e mio eletto” ed il testo greco “mio servitore Giacobbe e mio eletto Israele”, di Daniele 2,22 dove l’ebraico ha “la luce è con Dio” ed il testo greco “il riposo è con Dio”, di Osea 11,11 dove il testo ebraico porta “dall’Egitto ho chiamato mio figlio” ed il testo greco “dall’Egitto ho chiamato i miei figli” e di Proverbi 8,22 dove il testo ebraico ha “Dio mi generò” ed il testo greco “Dio mi creò”.

 

[3] Si tratta dei seguenti libri: Tobia, Giuditta, Odi, Salmi di Salomone, Sapienza, Siracide, Baruch, Lettera di Geremia, Esdra I,  Maccabei I, II, III, IV, Supplementi al libro di Daniele, Versione greca del libro di Ester. Tutti questi libri sono stati rigettati come apocrifi anche dai protestanti. I cattolici e gli ortodossi hanno invece considerato apocrifi solo le Odi, i Salmi di Salomone, i libri III e IV Maccabei ed Esdra I: gli altri libri sono considerati ispirati ed inseriti nella Bibbia come deuterocanonici.

 

[4] Aquila è conosciuto per essere stato un grande matematico, un valente architetto ed un profondo conoscitore delle Sacre Scritture. Di origini pagane, studiando l'Antico ed il Nuovo Testamento, si convertì giovane al cristianesimo ma, in età matura, abbandonò la fede per abbracciare l'ebraismo. Secondo Epifanio di Salamina (315-403) l'apostasia di Aquila sarebbe conseguente alla forte simpatia verso le arti magiche e l'astrologia (condannate dai cristiani ma segretamente coltivate dalla cabala ebraica), mentre secondo altri la scelta di Aquila sarebbe stata determinata dalla difficoltà di inquadrare la figura di Gesù Cristo nel monoteismo ebraico. Originario del Ponto, visse tra il I° ed il  II° secolo e si occupò di grandi progetti. L'imperatore romano Adriano gli commissionò un interessante studio per la ricostruzione del tempio di Gerusalemme ma, per quanto è oggi dato di sapere, il lavoro non fu mai tradotto in pratica. Egli portò invece a termine, verso il 130 dopo Cristo, un'autorevole traduzione della Bibbia, di cui abbiamo notizie sia dai padri della chiesa che dalla tradizione ebraica. Aquila tradusse il Vecchio Testamento in greco e contrappose alla libertà ed alla creatività della Versione dei Settanta una fedeltà assoluta e talora un po' pedante al testo originale. La traduzione di Aquila, basata sul canone giudaico di Iamnia (90 dopo Cristo), fu comunque accolta positivamente dagli ambienti ebraici e venne spesso menzionata nel Talmud. Origene (185-254), Eusebio d'Emesa (295-360) e Gerolamo (347-420), pur criticando la versione di Aquila perché molto letterale e servile, ne apprezzarono l'esattezza scrupolosa. Ireneo (140-200) ed Eusebio di Cesarea (265-340) sottolinearono invece lo spirito critico di tale opera, notando come Aquila avesse sostituito la parola (χριστος) kristos con il sinonimo greco (ήλειμμένος) eleimmenos in vari punti chiave del Vecchio Testamento (Salmo 2,2; Salmo 44,8; Isaia 61,1), spesso citati dai cristiani per dimostrare che Gesù è il Cristo di Dio. La versione di Aquila è poi spesso ricordata perché conserva il tetragramma. L'imperatore Giustiniano I (482-565) proibì la diffusione dei libri del Talmud perché ritenuti irriverenti nei confronti dei cristiani ma autorizzò la lettura della Bibbia di Aquila nelle sinagoghe. Le versioni greche di Aquila, Simmaco e Teodozione diventarono così per vari secoli i testi ufficiali dell'ebraismo, in chiara polemica con la versione dei Settanta, ormai recepita dalla chiesa come il più autorevole testo greco delle Sacre Scritture. Oggi della versione di Aquila sono purtroppo rimasti solo pochi frammenti, soprattutto dopo la stabilizzazione del testo ebraico da parte dei masoreti (Codice del Cairo, Codice di Aleppo, Codice di Leningrado), avvenuta verso l'anno mille.

 

[5] Secondo Eusebio e Gerolamo, Simmaco sarebbe stato un ebionita vissuto verso la fine del II° secolo dell'era cristiana. Epifanio ricorda, invece, Simmaco come un samaritano convertito al giudaismo. La Bibbia di Simmaco, purtroppo oggi scomparsa, fu da Gerolamo stimata per la chiarezza, la qualità letteraria e la capacità di rendere intelleggibili le espressioni ebraiche più oscure.

 

[6] Secondo Ireneo, Teodozione sarebbe stato un proselito giudeo di Efeso, mentre secondo Gerolamo si tratterebbe di un ebionita vissuto nel I° secolo. Secondo Epifanio, invece, Teodozione sarebbe un apostata cristiano convertito (come Aquila) all'ebraismo dopo aver abbandonato la dottrina di Marcione. La Bibbia di Teodozione apporta solo lievi modifiche alla versione dei Settanta. Egli evita di tradurre in greco molti termini ebraici (come ad esempio il tetragramma), che vengono così traslitterati. Dell'opera di Teodozione è tuttora conservato integralmente il libro del profeta Daniele.

 

[7] S. Girolamo, Le Lettere, Roma, 1961, vol.1, pp.237-238.

 

[8] Il nome di Dio deriva probabilmente da una forma ebraica arcaica del verbo essere e potrebbe voler dire: "Colui che è", "Colui che esiste", "Colui che fa esistere", "Colui che mostrerà di esistere", "Colui che mostra di essere", "Colui che mostrerà di esistere", "L'Esistente", "L'Essere".  Alcuni (Targum di Jonathan e Targum di Gerusalemme) sono convinti che YHWH sia una forma causativa (hiphil) del verbo essere (hayah): la traduzione di Esodo 3,14 sarebbe “Colui che porta all’esistenza”, “Colui che realizza la promessa”, “Colui che fa essere”, “Il Creatore”, “Colui che si manifesterà”. Secondo altri YHWH sarebbe una forma di participio imperfetto (qal): la traduzione di Esodo 3,14 sarebbe “Io sono quello che sono”  (Vulgata), “Io sono colui che è” (Settanta), “Io sarò quello che sarò” (Aquila e Teodozione), “L’Eterno” (Versione Arabica).

 

[9] Di fatto, il testo latino della Volgata, pur datato e con i suoi limiti,  non era per nulla disprezzabile, trattandosi di una versione ottenuta da Girolamo utilizzando i testi originali greci ed ebraici. Dopo un iniziale dura condanna verso le traduzioni della Bibbia nelle varie lingue nazionali  (innescata soprattutto dal timore del  protestantesimo), il papa Benedetto XV autorizzò le versioni in lingua volgare: l'arcivescovo di Firenze Antonio Martini curò, nel 1781, una versione dalla Vulgata in lingua italiana che ebbe grande diffusione fino al XX secolo.

     Tutto il protestantesimo continuò però ad accusare la Chiesa cattolica di attaccamento superstizioso e bigotto alla Vulgata e di immotivato rifiuto delle traduzioni dai testi originali. Dalla seconda metà del 1500 le chiese riformate, in chiara polemica con la chiesa cattolica, fecero costante riferimento al cosiddetto Textus Receptus, ricostruito da Erasmo e da Robert Estienne. Le famose versioni italiana del Diodati ed inglese di King James sono state infatti ottenute proprio partendo da tale testo. Il Textus Receptus era però tutt'altro che perfetto e di qui  nascevano i timori  e le chiusure della chiesa cattolica: il testo greco che rappresentava la tradizione testuale della chiesa bizantina era stato infatti ricostruito utilizzando alcuni manoscritti poco affidabili (due provenienti da una biblioteca monastica di Basilea ed uno risalente al XII secolo); inoltre in molti punti Erasmo si era affidato alla Vulgata latina ritraducendo in greco il testo.

     Solo dopo la scoperta e la pubblicazione del Codice Sinaitico da parte di Tishendorf (1862) gli studiosi cattolici e protestanti hanno tentato di  ricostruire il testo greco originale, abbandonando pregiudizi, sospetti e superstizioni. Il Codice Sinaitico (oggi conservato al British Museum di Londra) ed il Codice Vaticano (ospitato dalla grande biblioteca vaticana a Roma) risultano infatti concordi, liberi da corruzione ed altamente affidabili. Per il Nuovo Testamento la ricostruzione del testo greco originale è stata quindi portata avanti da Westcott e Hort verso la fine del XIX secolo, mentre nel XX secolo si sono distinte le varie versioni  curate da Nestle e Aland (recentemente rivedute con l'aiuto di C. M. Martini e B. M. Metzger).