IL REGNO DI DIO










PIETRO FU A ROMA O A BABILONIA?


ESISTEVA ANCORA BABILONIA AI TEMPI DI PIETRO?


PIETRO A ROMA: QUALI TESTIMONI?


 

 

 

   

 

Una tradizione, assai antica, ha creduto che Pietro sia andato a Roma, dove avrebbe subito il martirio sotto la persecuzione di Nerone. Per secoli questa fu la fede della Chiesa. Solo nel XIV secolo, Marsilio da Padova avanzò dubbi sul fatto che Pietro fosse stato vescovo di Roma. In seguito, larga parte del protestantesimo tentò di mettere in dubbio anche la venuta di Pietro a Roma con evidenti finalità polemiche verso la chiesa cattolica ed il vescovo di Roma. [1]

 

Sebbene il Nuovo Testamento non parli chiaramente del martirio romano di Pietro, nel saluto finale della sua prima epistola Pietro dice: "La chiesa che è in Babilonia, eletta come voi, vi saluta" (1 Pietro 5, 13). Poiché l'antica Babilonia giaceva distrutta da molti secoli e in Mesopotamia  non esisteva una comunità cristiana ma solo di una colonia giudaica, Babilonia deve essere per forza il nome simbolico di Roma, nome peraltro assai amato nell'apocalittica giudaica e cristiana (Apocalisse 17-18-19).  

 

 

 

TESTIMONIANZE AUTOREVOLI A FAVORE DI ROMA

 

Clemente Romano (ca. 96 d.C.) per primo parla della morte di Pietro e di Paolo, dicendo: "Per l'invidia e gelosia  furono perseguitate le più grandi e più giuste colonne le quali combatterono sino alla morte. Poniamoci dinanzi agli occhi i buoni apostoli. Pietro che per l'ingiusta invidia soffrì non uno, ma numerosi tormenti, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. Fu per effetto di gelosia e discordia che Paolo mostrò come si consegua il premio della pazienza …." (Clemente, 1 Corinzi V, 2-5)

 

Ignazio, vescovo di Antiochia, verso il 110 d.C. durante il suo viaggio verso Roma per subirvi il martirio, pur non ricordando il martirio dell'apostolo, scrive alla chiesa ivi esistente di non voler impartire loro "degli ordini come Pietro e Paolo" poiché essi "erano liberi, mentre io sono schiavo" (Ignazio, Ai Romani 4, 3). Siccome Pietro non scrisse alcuna lettera ai Romani, si deve dedurre che egli avesse loro impartito dei comandi di presenza.

 

Papia di Gerapoli, verso il 130 d.C. afferma che Pietro scrisse da Roma la sua lettera (Papia in Eusebio, Storia Ecclesiastica II, 15, 2), usando il termine figurato di Babilonia per indicare Roma.

 

Origene (185-254) è il primo a ricordarci che Pietro fu crocifisso a Roma con il capo all'ingiù. Egli infatti scrive: "Si pensa che Pietro predicasse ai Giudei della dispersione per tutto il Ponto, la Galazia, la Bitinia, la Cappadocia e l'Asia e che infine venisse a Roma dove fu affisso alla croce con il capo all'ingiù, così infatti aveva pregato di essere posto in croce". (Origene in Eusebio, Storia Ecclesiastica III, 1, 2).

 

Dionigi, vescovo di Corinto, verso il 170 d.C., in una lettera parzialmente conservata da Eusebio, attribuisce a Pietro e Paolo la fondazione della chiesa di Corinto e la loro predicazione simultanea in Italia dove assieme subirono il martirio. "Con la vostra ammonizione voi (Romani) avete congiunto Roma e Corinto in due fondazioni che dobbiamo a Pietro e Paolo. Poiché ambedue, venuti nella nostra Corinto hanno piantato e istruito noi, allo stesso modo poi, andati in Italia, insieme vi insegnarono e resero testimonianza (con la loro morte) al medesimo tempo" (Dionigi in Eusebio, Storia Ecclesiastica II, 25).

 

Clemente Alessandrino (150-215) ricorda che, "quando Pietro ebbe predicato pubblicamente la Parola a Roma e dichiarato il Vangelo nello Spirito, molti degli ascoltatori chiesero a Marco, che lo aveva seguito da lungo tempo e ricordava i suoi detti, di metterli per iscritto" (Eusebio, Storia Ecclesiastica VI, 14).

 

Tertulliano (160-240) ripete che Pietro fu crocifisso a Roma durante la persecuzione neroniana, dopo aver ordinato Clemente, il futuro vescovo romano (Scorpiace XV; Sulla prescrizione degli eretici XXXII); lo stesso Tertulliano ricorda anche il martirio comune di Pietro e Paolo a Roma, sottolineando come Pietro avesse sofferto lo stesso martirio di Gesù e come Paolo fosse stato ucciso come Giovanni Battista (Sulla prescrizione degli eretici XXXVI). Degna di nota è anche la testimonianza di Tertulliano, secondo la quale Giovanni battezzò con le acque del Giordano e Pietro con le acque del Tevere (Il Battesimo, IV)

 

Ireneo, vescovo di Lione (140-202), ricorda che "Matteo... compone il suo Vangelo mentre Pietro e Paolo predicavano e fondavano la chiesa …" e parla "… della chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo …. con questa chiesa, in ragione della sua origine più eccellente, deve essere necessariamente d'accordo ogni chiesa, cioè i fedeli che vengono da ogni parte ….la chiesa nella quale per tutti gli uomini sempre è stata conservata la tradizione che viene dagli apostoli …" (Contro le eresie III, 1-3)

 

Eusebio di Cesarea (260-337) ricorda come, sotto il regno di Claudio, la Provvidenza condusse Pietro a Roma per porre fine al potere di Simon Mago (Eusebio, Storia Ecclesiastica, II, 14). Egli inoltre ricorda come, a Roma, sotto l'impero di Nerone, Paolo venne decapitato e Pietro crocifisso (Eusebio, Storia Ecclesiastica, II, 25; Eusebio, Storia Ecclesiastica, III, 1).

 

Girolamo (347-420) scrive che "Simon Pietro venne a Roma per debellare Simon Mago …occupò a Roma la cattedra episcopale per 25 anni, fino all'ultimo anno di Nerone …..fu crocifisso con il capo all'ingiù e i piedi rivolti verso l'alto, dichiarandosi indegno di venir crocifisso come il suo Signore" (Gli uomini illustri I).

 

 

 

BABILONIA IN MESOPOTAMIA

 

Nel 331 a.C. Alessandro Magno entrò a Babilonia, ne rimase affascinato, eseguì imponenti lavori di ammodernamento e proclamò la città capitale del suo nuovo impero. Morto Alessandro, l'impero venne diviso in quattro parti dopo la battaglia di Ipso (301): la Tracia e l'Asia Minore andarono a Lisimaco, la Macedonia e la Grecia a Cassandro, l'Egitto a Tolomeo, la Mesopotamia e la Persia a Seleuco.

 

Seleuco I (304-280) ed Antioco I (280-261) fecero costruire la nuova città di Seleucia (sul fiume Tigri), con l'intento di soppiantare la vecchia Babilonia (sull'Eufrate). Nel 275 a.C. fu quindi emanato un editto in base al quale tutti i babilonesi avrebbero dovuto lasciare Babilonia per recarsi a Seleucia: le mura e le fortezze di Babilonia furono smantellate e la sua vita economica e politica venne ridotta ai minimi termini. Babilonia continuò però a vivere perché non fu abbandonata da tutti.

 

Verso il 120 a.C. i seleucidi entrarono in guerra con i Parti, popolo situato ad oriente della Persia: la città fu abbandonata, i resti di quella che era stata una grande città furono rasi al suolo da satrapo Euemero (o Evemero)  e la rovina di Babilonia fu completa.  

 

Secondo Flavio Giuseppe e Filone  (Flavio Giuseppe , Antichità Giudaiche XV, 2, 2 ; Filone , Legatio ad Caium, 182) presso le antiche rovine vivevano ancora all’inizio del I secolo dell’era volgare alcuni giudei. All'inizio dell'Era Volgare, secondo lo storico e geografo Strabone, la grande città era comunque ormai diventata un "gran deserto" (Strabone, Geografia XVI, 1, 5). Sempre secondo Flavio Giuseppe, le rovine di Babilonia sarebbero state abbandonate nella seconda metà del sec. I dagli stessi giudei che si trasferirono a Seleucia (Antichità Giudaiche XVIII, 3, 8).  

 

In pratica presso le rovine di Babilonia c'era una piccola comunità giudaica ma dell’esistenza di chiese cristiane non abbiamo alcuna testimonianza storica attendibile. Nel 116 d.C. Traiano svernò a Babilonia, ma secondo gli storici del tempo la città era ormai diventata un cumulo di macerie.

 

 

 

BABILONIA IN EGITTO

 

Che Pietro si riferisse sicuramente di Roma emerge dalla considerazione che, ai tempi di Pietro cioè nel I secolo, esistevano ben due città di Babilonia: una in Mesopotamia e l’altra in Egitto. Un saluto da Roma non avrebbe creato equivoci, mentre un saluto da Babilonia -intesa letteralmente- non poteva che creare confusione presso i destinatari dell’epistola.

 

Secondo Strabone (Geografia XVII, 30) e Flavio Giuseppe (Antichità Giudaiche, II, 15) Babilonia d’Egitto era posta sopra un canale che congiungeva il Nilo con il Mar Rosso, possedeva una guarnigione militare ed era abitata da numerosissimi giudei.

 

Poiché nella  lettera di Pietro ci sono i saluti di Marco "Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia; e anche Marco, mio figlio". (1 Pietro 5,13) e visto che esistono testimonianze di Marco quale primo vescovo di Alessandria di Egitto (Filone, La vita contemplativa, 17, 3 e Eusebio, Storia Ecclesiastica, II, 16), molti cristiani copti credono ancora oggi che la prima lettera di Pietro sia partita dall’Egitto.

 

Anche qui non abbiamo alcuna testimonianza storica attendibile dell’esistenza di comunità cristiane verso la metà del I secolo.

 

 

 

QUALCHE RIFLESSIONE CONCLUSIVA

 

Qualunque cosa si possa pensare di quanto detto, è indubbio che una certa onestà intellettuale non dovrebbe rigettare a priori nessuna delle tesi più popolari sulla biografia di Pietro. Chi è convinto che Pietro abbia mandato i saluti da “Babilonia in Mesopotamia”, non dovrebbe pertanto escludere la possibilità che lo stesso Pietro si sia recato a Roma, prima o dopo la venuta a Babilonia. Chi è, invece, convinto che Pietro sia morto martire a Roma non dovrebbe escludere la possibilità che lo stesso Pietro si sia recato in missione a Babilonia o nella regione babilonese, anche se non riusciamo a provare che esistesse colà una comunità cristiana. Va infine onestamente riconosciuto che la venuta di Pietro a Roma non costituisce una giustificazione né a favore dell’istituzione storica del papato né tantomeno del potere temporale della Chiesa in Occidente.

 



[1] Il protestantesimo mise in dubbio la presenza di Pietro a Roma, mentre la critica razionalista e liberale considerò non autentica la II lettera di Pietro. Oggi anche molti studiosi cattolici sono convinti del fatto che si tratti di un’epistola “pseudoepigrafa”, cioè scritta da qualche autore anonimo del II-III secolo dopo Cristo. Molti argomenti sono stati portati a favore di tale tesi, enfatizzando soprattutto le differenze di stile con la prima lettera di Pietro ed i dubbi avanzati da alcuni Padri della Chiesa. L’autore della lettera si definisce Simon Pietro (2 Pietro 1,1), sostiene d’essere stato testimone oculare della trasfigurazione (2 Pietro 1,16-1,18), si rivolge ai lettori come se stesse per prender congedo dal mondo (2 Pietro 1,12-1,15) e dichiara d’aver già scritto un’epistola (2 Pietro 3,1).

Sebbene oggi molti studiosi trovino normale ed accettabile il fenomeno della pseudoepigrafia, la chiesa dei primi secoli ha sempre rigettato con forza libri ed epistole di autori sconosciuti, considerando contrario alla verità ogni artificio letterario tendende ad attribuire un testo ad un personaggio famoso, spesso solo nel tentativo di conferire all’opera fama, approvazione ed attendibilità. Nella storia del giudaismo (prima) e del cristianesimo (dopo), molti sconosciuti tentarono d’introdurre insegnamenti fantasiosi, eretici o devianti, scrivendo opere in nome dei santi, dei profeti e degli apostoli. È questo il caso di opere famose messe fuori dal canone dei libri sacri, come il libro di Enoch, il IV libro di Esdra, l’Assunzione di Mosé, il Testamento dei 12 Patriarchi, la lettera di Aristea, il Protovangelo di Giacomo, il Vangelo di Tommaso, la Lettera di Barnaba, il Vangelo di Pietro, gli Atti di Pietro e l'Apocalisse di Pietro. Tale pratica fu chiaramente denunciata e condannata da Paolo già nei primi decenni dell’Era Volgare nella seconda lettera ai Tessalonicesi (2 Tessalonicesi 2,2 e 3,17), soprattutto quando l’Apostolo invitò i lettori a non prestar fede ad alcuni documenti fatti passare come sua opera per confondere le comunità primitive sull’imminenza della fine del mondo.

Per quanto riguarda la canonicità della seconda lettera di Pietro qualche dubbio fu effettivamente riportato da Origene e da Eusebio che però non ne rifiutarono l'autorità ma si limitarono a considerarla controversa (Origene, Omelie su Giosué, VII, 1; Origene, Commento a Giovanni, in Storia Ecclesiastica di Eusebio, VI, 25, 8; Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, III, 25, 1-7). La paternità di Pietro, per tale epistola, fu però chiaramente difesa da Gerolamo (Lettera a Paolino, LIII, 9), Agostino (La Dottrina Cristiana, II, 13), Atanasio (Lettere Festali, XXXIX), Gregorio Nazianzeno (Composizioni Poetiche, I, 12), Epifanio di Salamina (Contro tutte le Eresie, LXXVI) e Rufino (Commento al Simbolo Apostolico). Dagli antichi Concilii di Laodicea (363), Ippona (393) e Cartagine (397-419), la II lettera di Pietro entrò quindi definitivamente nel canone ufficiale del Nuovo Testamento. La II lettera di Pietro è quindi presente nel papiro P72 Bodmer (III secolo), nelle Versioni Bohairica e Sahidica (III secolo) e nei Codici Sinaitico (IV secolo), Vaticano (IV secolo), Alessandrino (V secolo) e Claromontano (VI secolo). Le differenze di stile della II lettera di Pietro rispetto alla I lettera di Pietro risultano poi facilmente spiegabili  ipotizzando la collaborazione alla stesura di scribi diversi, considerando i differenti argomenti trattati e tenendo conto dei probabili progressi nella conoscenza del greco da parte dell’autore (popolano, scarsamente istruito e di lingua madre aramaica).

Riferimenti molto antichi alla II lettera di Pietro si trovano in Ireneo (vissuto tra il 130 ed il 200 d.C.), in Giustino Martire (vissuto tra il 100 d.C.-ed il 165 d.C.) ed in Clemente Romano (autore di un’epistola ai Corinzi verso il 96 d. C.). Ireneo (Contro le Eresie, V, 23,2) cita in lingua greca il Salmo 90,4 secondo 2 Pietro 3,8 e non secondo la Bibbia dei Settanta. Giustino Martire (Dialogo con Trifone, 82,1) riporta poi quasi letteralmente un versetto sui falsi profeti ebraici e cristiani contenuto solo in 2 Pietro 2,1. La I lettera ai Corinzi di Clemente Romano contiene quindi riferimenti precisi alla II lettera di Pietro. Basti pensare all’espressione “magnifica gloria” (της μεγαλοπρεπους δοξης) contenuta in 1Clemente 9,2 e in 2 Pietro 1,17, alla definizione del vangelo come “via della verità” (Οδω της αληθειας) presente sia in 1Clemente 35,5 che in 2 Pietro 2,2. Non mancano poi riferimenti precisi ad alcune espressioni beffarde dei falsi maestri sull’eternità dell’universo, sull’immutabilità del creato e sulla mancanza di fede nelle promesse divine, come risulta chiaramente confrontando 1Clemente 23,3 e 2 Pietro 3,4.