IL TETRAGRAMMA








IL TETRAGRAMMA NEL NUOVO TESTAMENTO



Nel XX° secolo i progressi della scienza biblica e la crescente apertura della Chiesa Cattolica alle esigenze della ricer

 

Nel XX° secolo i progressi della scienza biblica e la crescente apertura della Chiesa Cattolica alle esigenze della ricerca e dell'esegesi hanno portato ad un fiorire di nuove traduzioni dai testi originali e all'inevitabile riscoperta del nome di Dio. Alla riscoperta del nome divino hanno indubbiamente contribuito pure le polemiche portate avanti dalla Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova. Sulla base di alcuni indizi la Torre di Guardia [1] ha anche ipotizzato la presenza del tetragramma nel Nuovo Testamento, soprattutto nella primitiva redazione aramaica del Vangelo di Matteo. Il valore scientifico di tale ipotesi (peraltro in parte condivisa anche da alcuni attendibili studiosi [2]) è stato però ridotto sensibilmente dalle pesanti accuse, rivolte a tutta la cristianità antica, di aver dolosamente eliminato il nome di Dio da tutti i manoscritti, da tutti i papiri e da tutti i codici delle scritture greche e cristiane.

 

Invero tali accuse non sono nuove e pare che risalgano addirittura ai masoreti della scuola di Ben Asher ed al filosofo ebreo Mosé Maimonide (1135-1204). Si tratta di alcune ipotesi, deduzioni ed induzioni che hanno permesso di costruire, nell'arco dei secoli, un vero e proprio teorema. I ragionamenti sono avvincenti e ben collegati, tanto che sembra che perfino Isacco Newton[3] abbia prestato fede a tali illazioni.

 

La fragilità dei postulati di base è però facilmente riconoscibile, soprattutto se si considera che:

 

·         il tetragramma  non compare in neppure una delle oltre 5000 copie del Nuovo Testamento;

·         il tetragramma non compare neppure una volta nei codici più antichi (Chester Betty) ed autorevoli (Sinaitico, Alessandrino, Vaticano);

·         in base alle dichiarazioni di Girolamo, di Origene ed altri, si sa solo che fino al IV secolo dopo Cristo il tetragramma era ancora presente in uno sporadico numero di copie della versione greca dei Settanta dell'Antico Testamento;

·         non si dispone di una sola testimonianza di autori, padri apostolici [4], padri della chiesa e scrittori cristiani attestante la presenza del tetragramma in qualche copia del Nuovo Testamento;

·         l’eventualità, peraltro finora non dimostrata, della presenza del tetragramma nella versione aramaica del Vangelo di Matteo, limitatamente alle citazioni tratte dal Vecchio Testamento, non prova:

o        né che il nome di Dio fosse presente nelle altre scritture greche e cristiane,

o        né che sia stato volutamente sradicato (con un lavoro tanto ciclopico quanto improbabile) da tutti i manoscritti, da tutti i papiri e da tutti i codici del Nuovo Testamento,

o        né che siano realmente esistite schiere di scribi cristiani infedeli, diabolicamente decisi a cancellare ogni traccia del nome divino;

·         la pratica di occultare il nome di Dio sembra appartenere più all’ebraismo che alla cultura cristiana. A tal proposito si pensi:

o        alla costante sostituzione del nome proprio di Dio con אדני (Adonay);

o        all'annientamento di tutte le copie della scrittura non conformi al testo ufficiale da parte dei masoreti dopo l’anno mille;

o        alla distruzione delle scritture cristiane da parte degli ebrei narrata nel Talmud[5];

o        alla eliminazione dei nomi di Dio dagli scritti cristiani[6];

·         l'eliminazione dei nomi divini dagli scritti cristiani riportata dal Talmud non prova la presenza del Santo Nome nel Nuovo Testamento. Il Talmud parla infatti  di "nomi della divinità"[7] e non di "tetragrammi" come qualcuno ha sostenuto [8].  

 

È pertanto ragionevole pensare che in quasi tutte le versioni greche della Bibbia dei Settanta, da cui gli scrittori del Nuovo Testamento hanno tratto le citazioni della legge e dei profeti, il tetragramma non fosse presente. Del resto, se si ammettesse anche solo per assurdo l'ipotesi di una massiccia falsificazione del testo biblico da parte dei copisti cristiani [9], tutto il Nuovo Testamento diventerebbe inattendibile e si potrebbe concludere che né la Chiesa né Dio hanno esercitato alcuna forma di protezione per salvaguardare l’integrità delle Sacre Scritture.

                       

 

 

UN TEOREMA FONDATO SU INDIZI RAGIONEVOLI: IL VANGELO ARAMAICO DI MATTEO

 

Sulla primitiva redazione aramaica del Vangelo di Matteo esistono testimonianze autorevoli. Secondo Origene "Matteo pubblicò il suo scritto in lingua ebraica per i credenti venuti dal giudaismo" (Eusebio, Storia Ecclesiastica, VI, 25). Ireneo poi afferma che "Matteo, fra gli ebrei nella loro lingua, compose un Vangelo scritto, mentre Pietro e Paolo evangelizzavano Roma e fondavano la chiesa" (Ireneo, Contro le eresie, III). Papia di Gerapoli sostiene che "Matteo ordinò i detti del Signore in lingua ebraica" (Eusebio, Storia Ecclesiastica, III, 24).  Secondo Eusebio di Cesarea, Matteo, dopo aver predicato la buona novella agli ebrei, compose nella lingua patria il proprio Vangelo, prima di andare a predicare presso altri popoli (Eusebio, Storia Ecclesiastica, III, 24). Eusebio di Cesarea riporta anche la testimonianza del filosofo  stoico Panteno che, convertitosi con grande entusiasmo al cristianesimo, decise di recarsi in India a predicare il Vangelo. Scoprì che il Vangelo di Matteo lo aveva preceduto, grazie all'opera dell'apostolo  Bartolomeo che aveva lasciato là l'opera di Matteo scritta in ebraico (Eusebio, Storia Ecclesiastica, V, 10). Degna di nota è anche la testimonianza di Girolamo, secondo il quale "Matteo, detto anche Levi, da pubblicano fattosi apostolo, fu il primo in Giudea a scrivere il Vangelo di Cristo nella lingua degli ebrei per quelli che si erano convertiti provenendo dal giudaismo …..lo stesso originale si trova tuttora nella biblioteca di Cesarea ….I nazarei che fanno uso di quel libro …. permisero anche a me di ricopiarlo" (Girolamo, Gli uomini illustri, III). La moderna critica testuale ha comunque avanzato non pochi dubbi sull'esistenza di un vangelo di Matteo in lingua aramaica: secondo molti Girolamo non ebbe modo di consultare il vero originale ma il cosiddetto "Vangelo apocrifo degli ebrei", documento custodito dalla setta giudaico-cristiana degli ebioniti.

 

Epifanio di Salamina distinse però chiaramente tra gli ebioniti apostati e filo-giudaici ed i nazareni cattolici (Contro tutte le eresie, XXIX-XXX), sottolineando come i nazarei accettassero tutti i libri del Nuovo Testamento e fossero legati ad un Vangelo di Matteo in lingua ebraica, molto fedele, completo ed accurato, mentre il cosiddetto Vangelo secondo gli Ebrei degli ebioniti altro non fosse che una versione greca, mutilata e falsificata, del Vangelo secondo Matteo (Epifanio, Panarion, XXIX-XXX). Giustino martire parlò poi sia di una setta giudaico-cristiana, osservante la legge di Mosé ma ancora ortodossa e tollerante nei confronti dei gentili, sia di una setta deviante fedelissima alla legge di Mosé ma caduta nell'apostasia e nell'intolleranza verso i gentili  (Dialogo con Trifone, XLVI-XLVIII).  La stessa tesi di Giustino è confermata da Origene che ricorda come tra gli ebioniti esistessero profonde differenze: alcuni riconoscevano la nascita verginale di Cristo e la sua resurrezione, mentre altri vedevano in Cristo solo un comune mortale (Contro Celso, V, 61).

 

Eusebio di Cesarea ricordò poi come alcuni ebioniti vedevano in Cristo solo il figlio di Maria, mentre altri riconoscevano che il Signore nacque da una Vergine e dallo Spirito Santo ma non riconoscevano la preesistenza del Verbo e della Sapienza di Dio (Storia Ecclesiastica, III, 27). Della comunità degli ebioniti parlarono diffusamente soprattutto Ireneo (Contro le eresie, I, 26), Eusebio (Storia Ecclesiastica III, 27), Origene (Contro Celso, II, 1) e Tertulliano (La prescrizione degli eretici, III, 5 e La Carne di Cristo, XIV), ricordando come tale setta fosse molto ligia alle usanze ed alle leggi giudaiche, osservasse il riposo sabbatico, praticasse la circoncisione e riconoscesse come ispirato solo il Vangelo di Matteo, rigettando in blocco tutti gli insegnamenti e le lettere di Paolo, considerato nemico del giudaismo ed apostata dalla fede dei padri. Secondo Ireneo la comunità degli ebioniti rifiutava anche la nascita verginale di Cristo, non considerando Gesù figlio di Dio ma figlio di Giuseppe (Contro le eresie, III, 21). Molto duro è infine il giudizio di Gerolamo sugli ebioniti. Egli infatti scrive che “Essi professano la nuova dottrina senza rinunciare a quella antica…fingono di essere cristiani…sono detti nazareni o minim….credono come noi in Cristo Figlio di Dio, nato dalla Vergine Maria, morto sotto Ponzio Pilato e resuscitato ….ma mentre vogliono essere giudei e cristiani allo stesso tempo….non sono né giudei né cristiani (Gerolamo, Lettera, LXXV, 13).

 

 

 

UN TEOREMA COSTRUITO SU FRAGILI PRESUNZIONI: LA FALSIFICAZIONE DELLA SETTANTA

 

Una prima presunzione (la presenza del tetragramma in tutti i manoscritti greci della Bibbia dei Settanta dal III secolo ante Cristo al I secolo dopo Cristo) viene valorizzata come fatto noto (anche se basata su appena una decina di papiri e di testimonianze). Da ciò scaturisce una seconda presunzione: poiché il tetragramma non è più presente dal II secolo in poi nei grandi codici (Chester Betty, Bodmer, Sinaitico, Vaticano, Alessandrino) si presume che siano stati gli scribi cristiani a farlo saltare, complice il fatto che dopo il sinodo di Jamnia (90 dopo Cristo) gli ebrei rigettarono la versione dei Settanta.

 

Il ragionamento è sicuramente logico e sensato ma, da un punto di vista logico-formale, è una vera e propria "praesumptio de praesumpto", cioè un modo di costruire un teorema su indizi scarsi e fragilmente strutturati. [10] Chi vuole portare avanti un'accusa così grave come quella della massiccia falsificazione dei testi da parte degli scribi cristiani ha l'onere della prova, deve cioè portare prove credibili a favore della propria ipotesi. Di fatto, esistono invece prove schiaccianti a favore di Kurios nei manoscritti e nei codici dal II-IV secolo in poi (Chester Betty, Bodmer; Vaticano, Sinaitico, Alessandrino) ed indizi ragionevoli dell’uso di Kurios in  alcuni papiri  della Settanta.

 

La pratica di occultare il nome di Dio sembra poi appartenere più all’ebraismo che alla cultura cristiana. A tal proposito non esistono solo vaghe presunzioni ma indizi gravi, precisi e concordanti. Si pensi, ad esempio:

 

·        alla ragionevole riservatezza dovuta al fatto che la versione dei Settanta era rivolta agli ebrei residenti fuori della terra di Israele (soprattutto nella colonia di Alessandria d'Egitto e nella regione della Mesopotamia) ed essendo scritta in greco poteva essere letta anche dai pagani;

·        al discutibile tentativo dei giudei dispersi in Egitto ed in Mesopotamia di proporre ai gentili una religione monoteista, cosmopolita ed universale, totalmente svincolata dal Dio nazionale degli ebrei, dagli aspetti più sacri e segreti dello jahvismo e dai caratteri più radicali, politici e fondamentalisti della tradizione sacerdotale (Isaia 19,16-25);

·        al fatto che molti copisti dell’Antico Testamento spesso non comprendevano il senso del tetragramma;

·        al fatto che la pronuncia del tetragramma era spesso ignota e pertanto intraducibile in greco, dato che i rabbini tendevano a leggere אדני (Adonay) tutte le volte che trovavano YHWH;

·        al fatto che il nome di Dio diventava incomprensibile, illeggibile ed oscuro se si manteneva il tetragramma ebraico nelle versioni greche;

·        al fatto che, traslitterando in greco il tetragramma con πιπι (come fecero PFouad 266b e Teodozione), il nome di Dio perdeva ogni significato logico;

·        ad un atteggiamento reverenziale verso il Santo Nome;

·        alla non remota possibilità di equivocare la pronuncia del nome di Dio (Jahvé) con quello del padre degli dei pagani (Giove), favorendo l’ellenizzazione del popolo ebraico ed aumentando il rischio di un pericoloso sincretismo religioso;

·        ad un timore superstizioso, derivante dal divieto di nominare il Nome di Dio invano (Esodo 20,7);

·        al fatto che spesso la Settanta tradusse il verbo ebraico נקב (naqab) che vuol dire bestemmiare con il verbo greco ονομαζω (onomazo) che vuol dire nominare (Levitico 24,16);

·        all'uso magico del nome di Dio fatto dai maghi giudei e rinvenuto nei cosiddetti “papiri magici” (Origene, Contro Celso, I, 24; Clemente Alessandrino, Stromata, V, 6);

·        al ragionevole timore di evocare, utilizzando una pronuncia errata, qualche angelo decaduto;

·        alla costante sostituzione del nome proprio di Dio con אדני (Adonay) attuata dalla tradizione orale giudaica;

·        alla distruzione delle scritture cristiane contenenti nomi divini da parte degli ebrei narrata nel Talmud (Talmud, Moed, Schabbath,  cap.116);

·        all'annientamento di tutte le copie della scrittura non conformi al testo ufficiale da parte dei masoreti dopo l’anno mille.

 

 

 

LA SCOMPARSA DEL TETRAGRAMMA DAL NUOVO TESTAMENTO

 

Ogni persona ragionevole non può fare a meno di chiedersi le ragioni della presenza del tetragramma nelle scritture ebraiche e le cause dell’assenza del tetragramma nelle scritture greche e cristiane. Escludendo l’ipotesi poco convincente di una massiccia falsificazione della Settanta da parte degli scribi cristiani, sembra ragionevole pensare che ai tempi di Gesù Cristo, il nome di Dio fosse scomparso dalla bibbia greca ormai da secoli.

 

Qualche antica copia della Settanta tentò invero di mantenere il tetragramma, mentre limitati tentativi di reintroduzione del tetragramma si verificarono tra il III secolo a.C ed il I secolo d.C. grazie ad alcune revisioni giudaizzanti. Le testimonianze testuali disponibili c'inducono a ritenere che i primi traduttori dell'AT in greco si trovarono di fronte a varie scelte possibili, quando si trattò di trascrivere il “santo nome”. Alcuni scelsero di riprodurre il "nome" con caratteri dell'alfabeto ebraico quadrato (P. Fuad 266, del I secolo a.C., in Deut. 18,5); altri resero il tetragramma con caratteri paleoebraici (Salmo 91,2 nella Versione di Aquila e Salmo 69,13.30-31 in quella di Simmaco, del II secolo d.C.); alcuni scelsero di abbreviare il Tetragramma con l'uso di due jod con un trattino in mezzo (P. Ossirinco 1007 di Genesi, del III secolo d.C.). In altri casi  il tetragramma fu tradotto con le lettere greche IAO (Levitico 3,12 e 4,27 del P. 4QLXXLevb, del II secolo a.C.), mentre moltissimi sostituirono il tetragramma col termine Kyrios (P. Chester Beatty, P. Bodmer, Sinaitico, Alessandrino, Vaticano).

 

Se nella Bibbia dei Settanta il tetragramma era praticamente scomparso, è logico ed inevitabile pensare che il “santo nome” fosse assente anche nelle scritture greche e cristiane e negli scritti dei padri apostolici (che, non conoscendo l’ebraico, usavano esclusivamente la bibbia greca). Di fatto, la scomparsa del tetragramma, come la scomparsa dell’arca dell’alleanza (Geremia 3,16), fu permessa da Dio in vista della Nuova Alleanza (2 Corinzi 3,1-18; Efesini 1,7) e dell’adozione filiale del Nuovo Israele (Galati 3,26; Galati 4,4-7; Galati 6,16; Efesini 1,15; 1 Giovanni 3,1). Ai tempi di Mosé, Dio voleva infatti essere chiamato con un nome solenne e misterioso, mentre oggi preferisce essere invocato con il semplice titolo di Padre (Romani 8,15).

 

 

 



[1] La Torre di Guardia è l'organo informativo del Corpo Direttivo della Congregazione dei Testimoni di Geova.

 

[2] Sulla possibilità della presenza del tetragramma in alcune antiche copie delle Scritture Greche Cristiane, limitatamente alle citazioni tratte dal Vecchio Testamento, si veda il lavoro scientifico di G. Howard, The Tetragram and the New Testament, in Journal of Biblical Literature, Vol. 96,  marzo 1977, pp. 63-83. L’autore molto prudentemente si limitò a formulare ipotesi, domande ed interrogativi. Secondo Howard un’eventuale rimozione del tetragramma dal Nuovo Testamento non avrebbe comunque inciso più di tanto sull’affermazione della divinità di Cristo ma potrebbe spiegare alcune ambiguità legate alla confusione dell’uso di θεος con κυριος in vari papiri e manoscritti (come in Romani 10,16-17; Romani 14,10-11; 1 Corinzi 2,16; 1 Pietro 3,14-15; 1 Corinzi 10,9, Giuda 5). Howard ipotizzò che gli ebrei avessero mantenuto l’uso del tetragramma nelle copie pre-cristiane della Settanta usando lettere aramaiche, caratteri paleo-ebraici e traslitterazioni in greco. L’uso del tetragramma sarebbe continuato anche nel I secolo dell’era cristiana, in chiara polemica con la cristianità, come mostrano le versioni di Aquila, Teodozione e Simmaco. Per quanto riguarda i cristiani è possibile che i giudei cristiani abbiano conservato il tetragramma nelle loro copie della Settanta e negli scritti del Nuovo Testamento, almeno per quanto riguarda le citazioni prese dalla legge, dai salmi e dai profeti. Solo verso la fine del I secolo la chiesa dei gentili, formata soprattutto da pagani convertiti al cristianesimo e ormai incapace di comprendere il senso del Santo Nome, potrebbe aver sostituito il tetragramma con θεος e con κυριος (utilizzando anche i cosiddetti nomina sacra θς e κς). Del  tetragramma sarebbe stata così conservata memoria solo in alcune sette giudaico-cristiane, come quella degli ebioniti.

 

[3] Secondo Newton, i cristiani avrebbero rimosso il tetragramma dalla Versione dei Settanta per cancellare il nome di Ieova e per meglio diffondere la dottrina della trinità. L'Anticristo andrebbe identificato con la prima bestia dell'Apocalisse, cioè con il culto idolatrico della Roma imperiale. Dopo la ferita mortale subita dal paganesimo sarebbe però operante una seconda bestia, bestia che Newton identificò con la cristianità corrotta. I due testimoni vestiti di sacco, uccisi dalla bestia dell’Apocalisse altro non sarebbero che il Nuovo ed il Vecchio Testamento soppiantati dalla filosofia, dalla teologia e dal pensiero pagano. Il mistero ed i nomi blasfemi scritti sulla fronte della grande meretrice sarebbero le dottrine trinitarie, dottrine con le quali, nella chiesa, sarebbe stato reintrodotto il politeismo. La grande apostasia continuerebbe fino alla fine dei tempi, mentre la donna fuggita nel deserto altro non sarebbe che la vera chiesa (unitaria ed ariana) esiliata e perseguitata dalla cristianità, dopo il Concilio di Nicea (325 d.C.). Ciò che Newton evitò però di dire è che, a partire dal IV secolo, furono soprattutto gli ariani a perseguitare i cattolici. Basti a tal proposito pensare alla politica vessatoria tenuta dall’imperatore Costanzo II (337-361) nei confronti della chiesa cattolica, alle persecuzioni subite dai cattolici in Italia ed in Germania da parte dei goti e dei longobardi ariani, alla politica filoariana tenuta dall’imperatore Valente (363-378) ed alle crudeltà perpetrate contro la cristianità nel V secolo dai vandali ariani in Spagna e nel Nord Africa. Gli scritti esoterici di I. Newton sono stati solo recentemente pubblicati, dopo aver incontrato orrore ed indifferenza presso le comunità religiose cristiane. Scoperti da S. Horsley verso la fine del XVIII secolo rimasero nell’ombra per lungo tempo. Suscitarono scandalo presso l’Università di Cambridge ed il British Museum che rifiutarono di acquisirli. Non trovarono quindi ospitalità neppure presso le prestigiose Università di Harvard, Yale e Princeton in quanto sospetti di empietà ed eresia. Solo nel 1969 furono ereditati ed accolti dall’Università di Gerusalemme. In Italia è possibile leggere alcuni frammenti di tali scritti in I. Newton, Trattato sull’Apocalisse, Boringhieri, Torino, 1994. Per un'analisi critica delle posizioni esoteriche del grande scienziato inglese, si veda anche: G. Costa, Keynes, L'uomo Newton, Bologna, 1978, pp. 241-252.

 

[4]  Alcuni scritti cristiani del I-II secolo dopo Cristo, come A Diogeneto, la Didaché, la lettera di Clemente Romano ai Corinzi, l’epistola di Barnaba, il pastore d’Erma, i frammenti di Papia di Gerapoli, le lettere di Ignazio di Antiochia, gli scritti di Policarpo di Smirne non contengono il tetragramma né per le citazioni tratte dalle Scritture Greche-Cristiane né per i versetti richiamati dell’Antico Testamento.

 

[5] Il Talmud chiama i libri dei cristiani Minim Aven Gilaion, cioè libri eretici iniqui. Tutti gli studiosi del Talmud sono d'accordo sul fatto che i libri dei cristiani dovrebbero essere distrutti. Vedasi Talmud, Moed, Schabbath,  cap.116.

 

[6] Sebbene tutti gli studiosi del Talmud siano d'accordo sul fatto che i libri dei cristiani dovrebbero essere distrutti, essi non sono d'accordo su ciò che si dovrebbe fare del nome di Dio che appare in essi. Sempre nello Schabbath sta infatti scritto: "… i nostri stessi libri ed i libri degli eretici non dovranno essere salvati dalle fiamme se dovessero prendere fuoco in giorno di sabato. Il rabbino Jose, comunque, dice: 'Nei giorni di festa i nomi della divinità dovranno essere strappati dai libri dei cristiani e nascosti; ciò che rimane dovrà essere dato alle fiamme.' Ma il rabbino Tarphon dice: '…se quei libri dovessero mai cadere nelle mie mani, io li brucerei assieme con i nomi della divinità che contengono…'" Vedasi Talmud, Moed, Schabbath,  cap.116.

 

[7] Dio è infatti conosciuto con moltissimi nomi sia nell'Antico Testamento (YHWH, YHWH Elohim, YH, Elohim, El, El Shaddaj, Elijon, Eloah, Adon, Adonay, Ab, Mare) che nel Nuovo Testamento (Dio=Theos, Signore=Kurios, Signore=Despotes, Potenza=Dinameos, Benedetto=Eulogetou, Onnipotente=Dunatos, Altissimo= Upsistou, Iah=Yahvé).

 

[8] Vedasi, ad esempio, Matteo Pierro, JHWH: il Tetragramma nel Nuovo Testamento,  in  “Rivista Biblica”, anno XLV, n. 2, aprile-giugno 1997, pp. 183-186.  L’articolo di Matteo Pierro (che è un testimone di Geova) fu attaccato con parecchio sdegno e non poca intolleranza da molti cattolici ed evangelici, soprattutto perché accolto da un’autorevole rivista biblica. Una replica serena, abbastanza equilibrata e priva di pregiudizi si può comunque leggere in Carmelo Savasta, Il Nome Divino nel Nuovo Testamento, in “Rivista Biblica”, anno XLVI, n. 1, gennaio-marzo, 1998, pp. 89-92.

 

 [9] Sostenere che il Tetragramma sia stato cancellato da tutti i manoscritti, da tutti i papiri e da tutti i codici antichi è meno sensato di sostenere a tutti i costi l'ipotesi dell'eliminazione del comma giovanneo da parte di Luciano di Antiochia, maestro di Ario. Il comma giovanneo è infatti presente nella Vetus Latina (II-III secolo), nel De Catholicae Ecclesiae Unitate di Cipriano (250 d. C.) e nel Liber Apologeticus di Priscilliano (fine IV secolo). Citazioni letterali del comma si trovano poi in Eugenio di Cartagine (484), in Fulgenzio di Ruspe (527), in Cassiodoro (583), in Isidoro di Siviglia (636) e in Giacomo di Edessa (700). Il comma giovanneo compare quindi in ben nove manoscritti successivi all'anno mille (61, 88, ω110, 221, 429, 629, 636, 918, 2318) ed è letteralmente citato nel IV Concilio Lateranense (1215). Nel Medioevo la cristianità inserì infine il comma giovanneo nella Poliglotta Complutense (1514), nella Vulgata Clementina (1592) e nelle varie versioni del Textus Receptus (1516-1551). Esiste, comunque, un diffuso consenso sul fatto che il comma giovanneo (1 Giovanni 5,7) sia una nota esplicativa contenuta in alcuni manoscritti ed inglobata nel testo da qualche scriba sbadato, creativo o temerario. Il versetto manca infatti in tutti i codici più autorevoli (Sinaitico, Vaticano, Alessandrino), in tutte le copie più antiche della Vulgata latina (Codex Fuldensis e Codex Amiantinus), in tutte le versioni più famose (Siriache, Copte, Armena, Georgiana, Etiopica, Araba, Slava, Gotica) ed in quasi tutte le citazioni dei Padri della Chiesa. Il comma giovanneo non è poi citato da nessuno dei primi quattro Concilii (Efeso 325, Costantinopoli 381, Efeso 431, Calcedonia 451), neppure nelle polemiche contro Ario. A tal proposito vedasi, ad esempio, B. Metzger, A Textual Commentary on the Greek  New Testament, II° ed.,  pp 647-49.

 

[10] Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o i giudici traggono da un fatto noto per risalire a un fatto ignoto. Le presunzioni semplici sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale può ammettere solo presunzioni gravi, precise e concordanti. Gli elementi presuntivi devono però considerarsi inutilizzabili per derivare da essi altre presunzioni. Nel diritto e nella logica esiste infatti il divieto della cosiddetta praesumptio de praesumpto, non potendosi valorizzare una presunzione come fatto noto, per derivare da essa un’altra presunzione. Se il tetragramma sia stato presente nella LXX, nel Vangelo ebraico di Matteo e nelle prime copie del Nuovo Testamento nessuno lo sa e, alla luce dei dati oggi disponibili, nessuno lo può affermare con certezza, pur trattandosi di un'ipotesi non trascurabile. Quando però da tale ipotesi si passa a formulare accuse reali e personali, la cautela dovrebbe esser d'obbligo. Anche ammettendo per un attimo che i copisti cristiani abbiano davvero eliminato il tetragramma dalle ultime copie della LXX e dalle prime copie dei Vangeli, non sembra né onesto né ragionevole accusare tali copisti di aver voluto coscientemente alterare gli insegnamenti delle Sacre Scritture. La necessità di diffondere presso i pagani la buona notizia del Regno di Dio può aver spinto i primi cristiani a presentare un Dio universale, cosmopolita e plametario, poco compromesso con i nomi, le tradizioni, i riti, le credenze, il fanatismo ed il nazionalismo ebraico. Non sembra pertanto corretto ipotizzare che una scelta missionaria di questo tipo (sicuramente criticabile dal punto di vista testuale e letterario) sia stata sicuramente segnata da intenzioni apostate e da obietiivi truffaldini. A meno di non voler immaginare manovre di portata secolare, non si può onestamente presumere che almeno due secoli prima di Nicea, la cristianità volesse già consciamente prevenire il pensiero ariano o sbarazzarsi di possibili critiche alla divinità di Cristo. A riprova di ciò sta il fatto che, almeno fino a Nicea, moltissimi cristiani (e padri della Chiesa) accettavano la subordinazione di Cristo al Padre senza essere per questo considerati eretici. A ciò va aggiunto che il Santo Nome non crea problema ai trinitari che lo considerano quasi sempre una specie di nome patronimico, quasi un cognome, applicabile legittimamente sia al Padre che al Figlio. La condanna della cristianità primitiva richiede pertanto: 1) prove certe o almeno indizi schiaccianti (cioè presunzioni gravi, precise e concordanti) di fatti avvenuti incontestabilmente; 2) moventi evidenti orientati a manipolazioni teologiche; 3) piena consapevolezza delle conseguenze storiche di alcune eventuali scelte evangelizzatrici.