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Assemblea dei Fondatori di "Socialismo è libertà" che si è svolta il 14 marzo 2003 a Roma |
All’inizio
di questa avventura molti di noi si sono posti la domanda: oggi il Paese, la
grande schiera dei socialisti italiani, dispersi e smarriti, sente davvero il
bisogno di affrontare le fatiche, i rischi e le insidie per costruire un luogo
dove riportare i socialisti per un incontro fecondo, per farli discutere della
loro storia e della società, per riunificarli intorno ad alcune idee-forza,
per riaprire le dismesse e malridotte officine e i laboratori del pensiero e
della ricca elaborazione riformista al servizio dell’Italia e della
Sinistra?
Abbiamo avuto la forza di rispondere di sì, dopo aver superato una
giustificabile angoscia ed un senso di paura. Questi ostacoli non saranno,
forse, mai definitivamente abbattuti perché è corretto prevedere che un
ennesimo fallimento potrebbe frustrare le aspettative e le rinascenti attese
dei molti che sperano di poter costruire una Sinistra, forte e riformista,
orgogliosa perché figlia della tradizione socialista, vincente perché libera
ed ostile ad ogni settaria diversità.
Abbiamo avuto la forza di rispondere sì perché vogliamo liberarci del peso
dell’autocompiacimento (aver avuto ragione dalla storia ) e
dell’autocommiserazione (essere stati vittime di ingiustizie).
La politica è per gli uomini il terreno di scontro più duro e più spietato.
Si dice che su questo campo ha ragione chi vince, e sa allargare e consolidare
il consenso, e che le ingiustizie fanno parte del grande capitolo dei rischi
prevedibili e calcolabili.
Abbiamo avuto la forza di rispondere sì, perché vogliamo uscire dalla
retorica del vittimismo, dalle passionalità eccessive ed inconcludenti, dalle
sfide rancorose. La nostra condizione attuale ha parte delle sue radici anche
nel nostro passato: esplorare e scandagliare la nostra storia politica
richiede un grande sforzo di obiettività.
Il Partito Socialista non poteva sfuggire alla legge che condiziona i grandi
partiti moderni del momento: la loro grandezza è nella forza delle idee che
trasformano la realtà; è nella solidità delle comunità che conquistano
lembi di civiltà, è nella virtù degli uomini che sanno segnare il loro
tempo. Il partito moderno non può dipendere solo dalla buona stella dei suoi
condottieri.
Carisma ed istituzione devono essere in equilibrio se si vuole tenere sotto
controllo il giusto rapporto tra ideale e reale. Dobbiamo avvicinarci a questo
delicato incrocio sapendo che il nostro compito è quello di rendere il dovuto
onore alla storia del socialismo italiano.
Nessuno deve pensare che la propria storia è la storia del socialismo
All’interno di questa storia vi è anche la vicenda umana dei singoli, ma
nessuno deve pensare che la propria storia è la storia del socialismo. In
questo quadro sarà possibile far valere l’amore per la verità, l’onestà
di giudizio, la volontà di giustizia.
La sinistra residua italiana in questi dieci anni si è esercitata intorno ad
una ardua domanda: è possibile fare a meno dei socialisti per governare la
nuova modernizzazione del Paese?
E’ fallito il tentativo di riconversione in chiave socialdemocratica della
tradizione comunista.
E’ fallito l’innesto di alcune schegge socialiste nel vecchio tronco della
quercia.
E’ fallita l’avventura dell’Ulivo quale frullatore dei riformismi
(socialista, comunista, cattolico).
Dalla disperazione dei socialisti sono nati nefasti rituali di degradazione,
forzate rinunce, inevitabili abbandoni. Tutto ciò ha generato nelle residue
forze organizzate socialiste uno spirito di presenza-resistenza. E’ stata,
così, scritta una pagina viva, anche se minore, di una storia decennale di
orgoglio, di generosità, di furbizie, di ingenuità, di velleitarismo e
qualche volta di innaturale avventurismo.
Il panorama che offre la sinistra è desolante. La sinistra oggi è debole non
tanto a causa delle divisioni, della mancanza di un pensiero strategico, della
inconsistenza di un gruppo dirigente. Non è solo questo a causare
l’incredibile leggerezza della Sinistra! La causa della debolezza va
ricercata nella percezione nella maggioranza del Paese che nella Sinistra e
nel centro-sinistra le forze che si richiamano al riformismo sono state
confinate ai margini, sono state battute nello scontro politico che le ha
contrapposte ai massimalismi.
Quanto contano i riformisti?
Dobbiamo
dirlo, i riformisti nella Sinistra e nell’Ulivo non contano nulla.
Alcuni giorni or sono, Intini, risvegliatosi dal sonno di una nirvanica
felicità, ha scoperto nell’Ulivo le “tre derive estremiste” - politica
estera, politica del lavoro, politica della giustizia - ed ha lanciato un
grido di dolore (sprezzantemente respinto al mittente da un tale Chiti) : “L’Ulivo,
da un anno incapace di porre paletti verso i tre convergenti estremismi,
sembra aver preso le sue decisioni. Ha sostanzialmente scelto Verdi,
Comunisti, dipietristi e girotondisti, ha emarginato i socialisti e i
cattolici moderati, mentre i riformisti dei Ds e della Margherita sono rimasti
intrappolati e minoritari nel cosiddetto Ulivo 2. E’ ormai molto
difficile, quasi impossibile, almeno per il momento, invertire la tendenza”.
Come uscire dalle paludi del massimalismo, dall’irrazionalismo velleitario,
dal fondamentalismo giustizialista e da un neopacifismo per metà
profetico-religioso e per l’altra metà mercantile-chiracchiano?
Di una stagione nella quale le ragioni e le dimensioni su una prospettiva
limpidamente liberal-democratica e socialista che per la Sinistra hanno
rappresentato solo una breve parentesi, rimangono soltanto macerie: anche
l’edificio più solido, quello rappresentato dall’unità sindacale, la cui
architettura ha retto un intero ventennio di buona governabilità e prodotto
alti dividendi di benessere diffuso, è stato abbattuto dai colpi micidiali
inferti dal pansindacalismo isolazionista di Cofferati.
Come uscire dal grigiore di questa fase politica, se non riproponendo, se non
ricostruendo quella potente vitalità che è stato il pensiero socialista, con
la sua capacità elaboratrice, la carica innovativa fatta di tradizione senza
conservazione e di modernità senza improvvisazione ?
Perché oggi ci ritroviamo
E siano
arrivati, cari compagni, al punto. Alle ragioni del ritrovarci qui oggi.
Sarebbe riduttivo e non conducente pensare che ci ricongiungiamo per ragionare
del passato, della tragedia socialista, dei terribili anni ’90. Sarebbe
ingenuo credere che da quelle macerie, dalle convulse testimonianze, e da
alcuni meritevoli e dignitosi comportamenti individuali, possa rinascere il
vecchio P.S.I.
Abbiamo un obiettivo da raggiungere: provare a far funzionare
quell’acceleratore di idee e di storia che è costituito dal giacimento
ideale e programmatico costituito dal socialismo riformista e autonomista.
Certo che non partiamo da zero, ma dieci anni di vuoto di elaborazione
politica e di assenza come forza organizzata del socialismo pesano su tutti
noi.
Viviamo in una Italia diversa: gli equilibri fra i poteri tradizionali sono
stati rotti. Il mutamento ha interessato punti nodali del sistema che è stato
sconvolto senza che intervenisse una nuova organica regolamentazione.
L’assenza di un’ordinata evoluzione del sistema ha prodotto vuoti e
fratture, pietosamente coperti dalle disgraziate risorse dell’emergenza, dal
vincolo estero e dalle sempre più ridicole uscite bipartisan.
La giornata di oggi non è, e non vuole essere una delle tante giornate della
memoria e dell’orgoglio.
Deve essere la ripresa di un cammino, iniziato da tempo da una moltitudine di
compagni, che deve portare, con metodo e con pazienza, all’aggregazione
delle forze della tradizione e nuove, ma deve avere come centro la
discussione, l’elaborazione, la battaglia delle idee, l’organizzazione
sistematica di centri di iniziativa politica e ideale diffusa sul territorio.
Il nostro obiettivo
Lo
ripetiamo, vogliamo darci un obiettivo possibile e convincente. Vogliamo
scatenare all’interno della Sinistra uno scontro politico che ha per posta
la centralità della cultura politica del riformismo.
Siamo venuti qui non per accatastare pezzi di una sinistra che si dice
plurale perché sa che è irriducibile ad ogni unità.
Siamo venuti qui per separare la sinistra riformista di governo da quel
cumulo di luoghi comuni, di false prospettive, che furono largamente
utilizzati dal Pci per esercitare una forte egemonia in tutta la sinistra
italiana.
Fu Giorgio Amendola in passato a rompere l’incantesimo della superiorità
comunista con tre articoli su Rinascita (ottobre-dicembre ’64) dal
suggestivo titolo: “ I conti che non tornano, Ipotesi nella riunificazione e
Battaglie unitarie per il socialismo”. Ma il suo coraggio si spense presto
ed Amendola confidò a Nenni che, dopo la morte di Togliatti, il partito aveva
bisogno più che mai di disciplina, e che il dibattito sul superamento delle
divisioni tra socialisti e comunisti doveva essere contenuto nei termini
accademici. E Pietro Nenni così annotò nei suoi diari: “Amendola ha potuto
solo scatenare due opposizioni, quella scolastica di neo-leninisti e quella
tradizionalista (ed in sostanza staliniana) dei vecchi”.
Il paradosso ancora incomprensibile, che regola la vita della sinistra
italiana, è la cattiva stella del riformismo. Ogni volta che si aprono spazi
riformisti nella società, nella sinistra si accentuano le fratture e le
divisioni. Si potrebbe così concludere: non può esservi riformismo
istituzionale e politico nella società senza un serio e continuo processo
revisionistico nella sinistra.
La nostra storia
Questa storia
noi l’abbiamo vissuta. Noi siamo i padri ed i figli della primavera del
1976. Allora, si trattava di rompere l’accerchiamento dei due maggiori
partiti; la Dc ed il Pci!
La Democrazia Cristiana, garante della continuità e dell’autorità
statuale, baluardo della fedeltà atlantica in versione vaticana, i comunisti
eredi della tradizione radical-rivoluzionaria delle masse italiane e forti per
aver grandemente contribuito alla rivolta antifascista.
Entrambi i partiti hanno guidato l’Italia nel dopoguerra, con le loro
culture organicistiche, la forza d’urto delle rispettive ideologie, degli
apparati, con gli interessi contrapposti ma convergenti su un punto: essere il
cemento costitutivo su cui l’intero sistema nazionale andava a piantare le
radici, la struttura culturale ed economica di riferimento.
Nemmeno il centro-sinistra degli anni ’60 riuscì a corrodere questo
fondamento. Nemmeno i fermenti dell’Italia del miracolo economico
consolidato, delle vitalità espresse dalle generazioni che non aveva vissuto
la guerra e che si affacciavano sui primi scenari della mondializzazione,
nemmeno le domande primordiali ed elitarie di riforme liberali espresse,
insieme, dai ceti politici e dalle figure sociali intermedie, nemmeno la crisi
dello stalinismo riuscì a rompere l’accerchiamento delle forze e delle
spinte riformistiche.
Verso la svolta degli anni Settanta
Nel campo
cattolico gli investitori del nuovo corso, a poco a poco, si convinsero che
l’accomodamento con l’opposizione comunista sarebbe costato assai meno, in
termini di rischio e di potere, del rilancio in grande stile della sfida
riformistica e di una accelerazione del centro-sinistra in chiave non
comunista.
Nel Pci, il primo centro sinistra stimolò profonde riflessioni, sulle
potenziali capacità di concorrenza dei socialisti italiani e sulle enormi
possibilità consentite dalla presenza dei socialisti al governo, sul fronte
delle rivendicazioni sociali e operaie.
Esse venivano sollecitate e poi capitalizzate a favore di una opposizione di
sinistra chiusa nel recinto di una ideologia totalizzante e subordinata al
campo comunista internazionale.
Si creò in quegli anni un campo magnetico di straordinaria forza ma dalle
caratteristiche contraddittorie. Da un lato gli stimoli alla modernizzazione
erano forti, socialmente trasversali, comprendevano non solo le masse operaie
e contadine ma investivano fortemente i ceti medi; dall’altro vi erano forze
che cercavano una quadratura politicamente avanzata dei nuovi rapporti
sociali, disegnando scenari politici nuovi, partendo dall’incontro dei
riformismi possibili, di matrice cattolica e laico-socialista.
Ma dietro questo quadro e al di sopra di questo, il Pci muoveva la propria
strategia per incorporare le spinte sociali e le impazienze giovanili, per
espellere quelle più incompatibili e incomprensibili con la linea del
partito, e per incorniciarle all’interno di uno schema che vedeva il partito
(così come era, per metà rivoluzionario e per metà moderato) come unico
centro di rappresentanza dei ceti progressivi (senza nemici a sinistra e con
docili e bravi compagni a destra).
Il 1976 trova i socialisti schiacciati in questa situazione: da una parte
vengono meno le spinte riformatrici della Dc, sfiancata dallo scontro sociale
e dalle ostilità alle battaglie civili, e dall’altra parte si afferma la
volontà del Pci, di normalizzare il corso politico attraverso un accordo che
riproponga l’asse salvifico dell’incontro tra comunisti e cattolici.
Al Pci era riuscita l’operazione di far votare per i propri colori i
sessantottini e di rimettere sotto controllo parte del movimento sindacale
post-autunno caldo, ma il terrorismo e l’incubo di una riapparizione
dell’album di famiglia fece avanzare le confuse e pericolose teorie del
superamento della democrazia liberale.
La natura del Pci
La lunga marcia attraverso le istituzioni praticata dal Pci
e conservata come intuizione metodica e preziosa dal gruppo dirigente storico,
non ha risposto solo ad esigenze di potere, di allargamento del consenso
all’interno di strutture statuali e ruoli professionali di fondamentale
importanza per l’esercizio del “governo dell’opposizione”. E’ stata
la trasposizione nella pratica politica della vocazione alla statualità,
dell’essere cioè il Pci un Partito-Stato, un Partito (si badi bene) che non
incorpora le parti vitali dello Stato esclusivamente al fine della
sopravvivenza come forza politica egemone, ma incorporandoli istituisce con
essi una dialettica il cui esisto non è affatto scontato.
E da questa dialettica il partito ricava la legittimità all’esercizio del
potere.
E’ esemplare il rapporto del Pci con la magistratura. Il collegamento è
stato intenso e ha coinvolto energie culturali e materiali (Il Centro per la
Riforma dello Stato soprattutto, riviste specializzate, convegni, commissioni
di partito) di cui si dovrà ricostruire la storia non per curiosità
contabile ma per dimostrare l’intensità e la produttività
dell’investimento.
Ed è stato un rapporto privilegiato non tanto per veicolare all’interno di
questa istituzione e della moltitudine degli operatori del diritto una linea
politica, o allargare le basi di massa del Partito in strati professionali
decisivi, ma per organizzare e costruire, assieme con questi e mai contro, una
visione dello Stato e della democrazia senza la quale la forza del
Partito-Stato, l’egemonia culturale del Pci sarebbero state nulle.
Vi sono stati momenti della vita del Paese, la fase a ridosso del Sessantotto
sino agli anni ’70 ma anche oltre, in cui la cultura giuridica dominante è
stata impegnata a ridefinire il ruolo politico del magistrato, a ricostruire
la figura del magistrato come soggetto politico, non in quanto portatore di
interessi corporativi ma in quanto portatore di interessi generali, dal
momento che il ruolo dell’operatore del diritto è il più idoneo a
reinterpretare dinamicamente le trasformazioni sociali e la volontà
progressista dei ceti più dinamici e dei movimenti impegnati in una intensa
conflittualità sociale.
Quando si parla di ruolo politico del magistrato non si vuole intendere il
semplice processo di politicizzazione, l’invadenza del politico in un
settore particolare delle istituzioni, si intende piuttosto il magistrato come
attore politico in quanto è proprio il suo specialismo di interprete del
diritto e amministratore di giustizia, è proprio l’uso degli strumenti
giuridici a farne un interprete speciale dei bisogni della società.
La politicità del magistrato dunque coincide, è intrinseca al ruolo
interpretativo e creativo della legislazione. La magistratura deve essere
consapevole che l’esercizio semplice della mera funzione giurisdizionale la
ridurrebbe a una dimensione puramente amministrativa, di funzionario dello
Stato.
Pietro Ingrao in un intervento al Congresso di Magistratura Democratica del
1981 disse significativamente: “ (…) mi interessa Magistratura
Democratica, come prova non solo di un allargarsi dei soggetti della politica,
ma soprattutto delle forme che può prendere oggi il rapporto tra politicità
generale e competenze, fra battaglia politica generale e sapere specifico”.
Emblematici di quella fase e di quel livello di discussione sono in primo
luogo la riscrittura del diritto del lavoro (metodo poi trasferito ad altri
settori del diritto) che incorpora la conflittualità politica e sindacale a
partire dal ’68; e poi il complesso delle attività di contrasto, in termini
processuali e legislativi, al terrorismo e alla criminalità organizzata.
Se con il Diritto del lavoro è avvenuta correttamente una trasposizione
giuridica dei nuovi rapporti di forza tra sindacato e padronato, la lotta al
terrorismo e alla mafia ha determinato una condizione particolare: dover
gestire l’equilibrio tra uso della forza, difesa dello Stato democratico e
la necessità di respingere le tentazioni autoritarie.
Nel mentre la magistratura più politicizzata (ne stiamo parlando sempre in
termini non riduttivi) ritagliava per sé un ruolo di garanzia e di
protagonismo politico e sociale, definendo i contorni della propria missione e
di una visione dello Stato democratico in termini di democrazia progressiva,
il Pci con questi settori dialogava, integrava e cooptava, respingeva le
posizioni più autonome, insomma intesseva una trama intensa e costante.
Diamo la parola ancora ad Ingrao:
“Magistratura Democratica è un’organizzazione originale, non semplice
da catalogare. E’ uno di quegli esseri complicati che si presentano oggi
nella vita politica. Un soggetto politico-culturale: un’organizzazione
quindi impegnata in una battaglia di trasformazione politica e sociale, e
contemporaneamente nella costruzione di una specifica cultura giuridica.
Organizzazione quindi, a forte ‘politicità’ generale, in cui conta però
molto lo specifico, la cultura, il sapere concreto con cui si esercita e si
organizza un potere e un ruolo. Tutto ciò fa di Magistratura Democratica un
animale complesso”.
E’ del tutto evidente che i presunti attacchi alla indipendenza della
magistratura furono interpretati dal Pci e da Magistratura Democratica come un
tentativo di impedire la collocazione sociale, la centralità sociale del
magistrato. Non tanto la militanza in questo o quel partito poteva
impensierire, quanto l’indebolimento della figura di mediazione e di
interpretazione sociale e politica. La vera posta in gioco era la politicità
a tutto tondo.
Il Pci nei ‘corpi intermedi’
All’interno della cultura comunista hanno avuto forte
peso posizioni (come quelle di Pietro Ingrao) in cui sono stati valorizzati e
sollecitati tutti i momenti in cui la politica fuoriusciva dalle sue sedi
classiche (i partiti, i sindacati) e si organizzava nei corpi intermedi della
società: i Consigli di fabbrica, di quartiere, di base, le forme di
autogoverno, l’autonomia del magistrato. Spazi intermedi non solo di
organizzazione, ma anche di produzione di cultura politica che avrebbe dovuto
sostituire il vecchio sistema dei partiti.
Il velleitarismo di quelle posizioni (nell’81 Ingrao parlava di
“costruzione di un blocco attorno alla egemonia della classe operaia”,
quando il Psi era esplicitamente collocato su un terreno di modernizzazione
dei rapporti sociali e politici), l’astrattezza di quelle idee, combinate
con il cinismo di chi ha colto la debolezza delle forze politiche in una fase
delicata di crisi della Prima repubblica e che ha utilizzato (direttamente o
indirettamente) il protagonismo politico di alcuni magistrati (presentati come
alter ego dei Partiti), ha portato alla situazione che conosciamo.
La giustizia
In conclusione le vicende di Tangentopoli non sono il
frutto di accordi scellerati di un momento, del complotto pensato
nell’oscurità da parte di furbi e giacobini. Lo svuotamento e la
distruzione dei partiti viene da lontano. Fa parte di un patrimonio culturale
che è stato molto forte e invasivo, che ancora in parte perdura, e contro cui
noi socialisti dobbiamo continuare un’adeguata iniziativa di riflessione.
Nelle istituzioni si sono affermate culture diverse che superano e modificano
la natura della democrazia parlamentare. Non dico che sia un bene o un male,
ma non si può fare finta che non sia avvenuto.
Sui temi della giustizia mi interessa poco la discussione sulla separazione
delle carriere, invece mi appassiona sapere se, quando parliamo
dell’indipendenza della magistratura, ci riferiamo all’indipendenza dei
magistrati a indagare e a giudicare (cosa giusta) o all’affermarsi di un
nuovo potere politico democratico.
La crisi dei partiti ha favorito e favorisce questo processo di trasformazione
dei poteri neutri e di garanzia in soggetti politici senza legittimazione
democratica.
L’egemonia culturale del Pci ha inciso profondamente nell’assetto
istituzionale del paese.
E’ su questi temi che il chiarimento a sinistra deve essere netto e
duraturo.
Il Psi, le opportunità e gli errori
L’alba degli anni ’80 ha luce nei grandi mutamenti
internazionali: la irreversibilità della crisi del campo comunista non è
utilizzata dal socialismo dal volto umano e democratico, ma è sfruttato dalla
destra del mercato che punta al superamento del compromesso socialdemocratico
dello stato sociale. Il sistema politico italiano subisce il vitalismo
socialista, ma non lo sostiene. Il mal sottile del compromesso, dello stare
insieme, dell’assistere tutti, dal cassintegrato al Signor Agnelli, sfibra
l’Italia.
Negli anni ottanta nei socialisti vi fu una sottovalutazione della dirompente
proposta politica della Grande Riforma. Tra governabilità e Seconda
Repubblica, si scelse la governabilità. Craxi onestamente lo disse al
Congresso di Bari citando La Malfa: egli non poteva e non voleva osare perché
era figlio del sistema. Ma il sistema non poteva non cadere perché
l’organicismo della Dc e del Pci, sul quale si fondava l’equilibrio
politico, era già in crisi negli anni ’70.
Noi non sapemmo cogliere la spinta innovativa che Cossiga aveva dato al Paese
con il messaggio alla Camera nel ‘90. Da quel momento gli errori sono stati
inevitabili, perché erano nati da quella cecità.
Negli anni ’90, nel Paese, la classe dirigente di terza generazione
post-bellica sostiene il suo esame di guida. E’ una generazione nata stanca:
allora tutto scorreva facile: gli studi, l’ascesa sociale, le carriere si
snodavano con scarsa fatica e diffusa cooptazione. Fu così che nei partiti il
gruppo dirigente diventò casta per poi trasformarsi in ceto e la militanza fu
di devoti e di non credenti.
I partiti accettarono la loro liquidazione e furono sostituiti da tecnici
istituzionali, già brillanti dottori del sistema, e dai
professionisti-imprenditori: conoscitori esperti dei giacimenti pubblici da
privatizzare.
L’alba della seconda repubblica diede subito il passo alla notte della
transizione.
La transizione che non finisce mai ha travolto la diafana seconda repubblica,
fondata sulla crisi della politica.
Ma oggi torna insistente la domanda della politica. Come è possibile tornare
alla politica senza fare ricorso alle grandi correnti culturali che hanno
irrorato il pensiero maturo delle tradizionali forze politiche?
Nelle attuali espressioni politiche sopravvivono lembi residui del passato in
una poltiglia di improvvisazioni, di irrazionalità, di rivoluzionarismo
irriflessivo e di una docilità alle mode culturali ora di destra e ora di
sinistra, rese più gradevoli dal profetismo religioso.
L’Italia disarmata
In questi dieci anni l’eclissi socialista ha disarmato
l’Italia. L’Italia balbetta dinanzi al ventaglio dei problemi nati dalla
crisi internazionale e non offre risposte convincenti sui temi infuocati:
l’assalto all’Occidente, il rapporto tra globalizzazione e
democratizzazione, il consolidarsi di un nuovo diritto internazionale basato
sulla guerra preventiva e lo “ ius democraticum”; il sovrapporsi del
vecchio dualismo (ricchezza e povertà) al nuovo (democrazia e totalitarismo);
la natura pericolosa del multipolarismo antiamericano.
In questo vuoto della politica italiana si coltivano le piante di nuovi e
diversi poteri: le burocrazie politiche e sociali e la tecnocrazia economica,
finanziaria ed accademica.
La latitanza della sinistra e l’opacità della destra ci annunciano uno
scenario non rassicurante: la corporativizzazione della società che porta
alla crisi dello stato sociale, e la corporativizzazione delle istituzioni che
prelude alla crisi dello stato democratico.
La crisi del blocco elettorale e sociale della Casa delle Libertà è un
passaggio obbligato per liberare le immense forze vitali che il ventre del
paese custodisce. Ma ciò non sarà possibile se non si verificherà un
chiarimento profondo e impietoso a sinistra.
La distinzione tra sinistra di governo e sinistra antisistema non può essere
visibile solo nel chiuso della tavola rotonda, deve apparire chiaro nei
partiti e tra i partiti di sinistra, nei sindacati, nella distinzione tra
ruolo dei partiti e vita dei movimenti.
Sappiamo bene che lo schema tradizionale del vecchio partito non c’è più e
che andiamo verso una pluralità di esperienze territoriali e verso il
giardino dei cento fiori delle idee. Ma dobbiamo trovare con pazienza e con
costanza i punti di aggregazione successivi: la casa comune dei socialisti
è la precondizione per la casa comune della Sinistra Riformista.
L’Associazione ‘ Socialismo è Libertà’ è fatta da uomini liberi
per una comunità libera.
L’Associazione
L’appartenenza dei singoli compagni a formazioni
politiche e sindacali diverse non rappresenta una difficoltà per
l’Associazione, può solo costituire un problema per i singoli associati:
spetta a loro valutare il limite entro il quale è possibile rendere
compatibili le proprie ragioni ideali con i comportamenti pratici richiesti
dai partiti e dai sindacati.
Noi chiediamo un solo impegno che è morale più che organizzativo: ricercare
sempre la coerenza tra le nostre idee ed il nostro agire.
Svilupperemo presto un programma di lavoro per essere presenti nella battaglia
delle idee e per far rivivere sul territorio le antiche passioni.
Vorrei chiudere, come mi suggeriscono i giovani che si sono impegnati in
questa nostra avventura, con le parole dei cantautori che sanno parlare alla
sana gioventù:
“Oltre i muri che vedi andando avanti, fra i discorsi invidiosi e
arroganti,
le cose che senti nel cuore non rinnegarle mai
sono fragili ma possiamo difenderle se voleranno in alto i nostri pensieri
più limpidi”.
“Non ci sono percorsi più brevi da cercare, c’è la strada in cui
credi e il coraggio di andare”.