Josephine Hart. Il danno. Trama. In un mondo levigato, all'interno del quale ogni persona, affetto, relazione ha un ruolo stabilito e apparentemente immutabile, si sviluppa una straordinaria passione, che sconvolge rapporti creduti definitivi e mette in pericolo l'esistenza stessa di una famiglia. Ipnotico nello stile e incalzante nel ritmo, il danno ci mostra la difficoltà di conciliare il proprio mondo interno con la realtà e la potenza di un'ossessione erotica ed emotiva. L'Autrice. Nata e cresciuta in Irlanda, Josephine Hart si è poi trasferita a Londra, dove, dopo aver lavorato per un certo periodo in ambito editoriale, si è dedicata alla produzione di spettacoli teatrali, attività che continua a svolgere. Il danno è il suo primo romanzo e attualmente sta lavorando al secondo. Molti mesi prima della pubblicazione in lingua originale, Il danno è stato venduto a undici case editrici straniere per una cifra complessiva di 550.000 dollari e Louis Malle, che l'ha letto in una notte, ha deciso la mattina dopo di farne un film. C'è un paesaggio interiore, una geografia dell'anima; ne cerchiamo gli elementi per tutta la vita. Chi è tanto fortunato da incontrarlo, scivola come l'acqua sopra un sasso, fino ai suoi fluidi contorni, ed è a casa. Alcuni lo trovano nel luogo di nascita; altri possono andarsene, bruciati, da una città di mare, e scoprirsi ristorati nel deserto. Ci sono quelli nati in campagne collinose che si sentono veramente a loro agio solo nell'intensa e indaffarata solitudine della città. Per qualcuno è la ricerca dell'impronta di un altro; un figlio o una madre, un nonno o un fratello, un innamorato, un marito, una moglie o un nemico. Possiamo vivere la nostra vita nella gioia o nell'infelicità, baciati dal successo o insoddisfatti, amati o no, senza mai sentirci raggelare dalla sorpresa di un riconoscimento, senza patire mai lo strazio del ferro ritorto che si sfila dalla nostra anima, e trovare finalmente il nostro posto. Sono stato al capezzale dei morenti, che guardavano perplessi il dolore dei familiari mentre lasciavano un mondo dove non si erano mai sentiti a casa propria. Ho visto uomini piangere più sconsolatamente alla morte del fratello, la cui esistenza si era un tempo intrecciata alla loro, che alla morte del figlio. Ho visto diventare madri spose che solo una volta, tanto tempo fa, erano raggianti sul ginocchio dello zio. E ho fatto molta strada, in vita mia, procacciandomi compagni amati e sconosciuti; una moglie, un figlio e una figlia. Sono vissuto con loro, estraneo affettuoso in ambienti di una bellezza che non appaga. Abile dissimulatore, ho smussato in silenzio e con dolcezza gli spigoli del mio carattere. Ho nascosto l'imbarazzo e la pena con cui tendevo al disegno prescelto; e mi sono sforzato di essere ciò che coloro che amavo si aspettavano da me: un buon marito, un buon padre e un buon figliolo. Fossi morto a cinquant'anni sarei stato un dottore, e un uomo politico affermato, anche se non sulla bocca di tutti. Uno che aveva fatto la sua parte, e che era stato molto amato dalla moglie afflitta, Ingrid, e dai figli, Martyn e Sally. Alle mie esequie sarebbero intervenuti in massa coloro che nella vita avevano fatto più strada di me, e che per questo avrebbero onorato la mia memoria con la loro presenza. E coloro che erano convinti di aver amato l'uomo privato, che con le loro lacrime avrebbero deposto a favore della sua esistenza. Sarebbe stato il funerale di un uomo sopra la media, favorito dalla sorte più della maggior parte della gente. Un uomo che, all'età relativamente giovane di cinquant'anni, aveva finito il suo viaggio. Un viaggio che lo avrebbe portato di sicuro, se fosse continuato, a più grandi imprese e onori. Ma non sono morto nel mio cinquantesimo anno. E ora poche persone, tra quelle che mi conoscono, ritengono che questa non sia stata una tragedia. Dicono che l'infanzia è formativa, che quelle prime influenze sono la chiave di tutto. E' così facile raggiungere la pace dello spirito? Solo l'esito inevitabile di un'infanzia felice. Cosa rende felice un'infanzia? L'armonia tra i genitori? La salute? La sicurezza? Un'infanzia felice non potrebbe essere la peggiore preparazione alla vita che ci sia? Come portare un agnello al mattatoio. La mia infanzia, la mia adolescenza e i primi anni della mia età virile furono dominati da mio padre. La volontà, in tutta la sua forza: ecco la sua sostanziale professione di fede. La volontà. La più grande qualità dell'uomo. Poco usata dalla maggioranza. La soluzione di tutti i problemi della vita. Quante volte avevo udito quelle parole. La combinazione tra l'incrollabile fiducia nel potere di decidere della sua vita e il fisico alto e massiccio in cui albergava questa volontà faceva di lui un uomo veramente eccezionale. Si chiamava Tom. A tutt'oggi, molti anni dopo la sua morte, associo la forza di carattere a tutti i Tom che mi capita di incontrare. Dalla piccola ditta di generi alimentari che gli aveva lasciato suo padre, costruì una catena di negozi al minuto che fecero di lui un uomo ricco. Ma sarebbe riuscito in qualunque carriera avesse voluto seguire. Avrebbe applicato la sua forza di volontà al conseguimento dell'obiettivo, e inevitabilmente lo avrebbe raggiunto. Applicò questa forza di volontà ai suoi affari, a sua moglie e a suo figlio. Il suo primo obiettivo con mia madre era stato quello di conquistarla. Poi, di assicurarsi che la vita alla quale lei aspirava, qualunque fosse, non interferisse con gli altri obiettivi della sua. La corteggiò con assoluta dedizione e la sposò meno di sei mesi dopo averla conosciuta. La natura dell'attrazione che esisteva tra di loro è ancora un mistero, per me. Non mi sembra che mia madre sia stata una bellezza. L'ho sentita descrivere, una volta, come una ragazza vivace. Forse era questo ad averlo attratto. Comunque, nel mio ricordo della sua delicata presenza non c'è traccia di vivacità. So che dipingeva, da ragazza. Alcuni dei suoi acquerelli decoravano le pareti della casa della mia infanzia. Ma smise. All'improvviso. Non ho mai saputo perché. La natura del legame che li univa, perché un legame indubbiamente c'era, continua a sfuggirmi. Sono un figlio unico. Dopo la mia nascita i miei genitori cominciarono a dormire in camere diverse. Forse la mia nascita fu all'origine di un trauma. Qualunque ne fosse il motivo, c'era la stanza di mio padre, e c'era la stanza di mia madre, ed erano due stanze separate. Come viveva, quel giovanotto, la sua vita sessuale? Non ho udito storie scandalose, non mi è giunta all'orecchio nessuna insinuazione. Forse quelle camere separate non avevano lo scopo di mettere al bando l'attività sessuale, ma di ridurla, come misura anticoncezionale. La mia vita da bambino, e da ragazzo, sembra immersa in una nebbia, permeata dalla forza costante della presenza di mio padre. "Decidi quello che vuoi fare e fallo" diceva mio padre: degli esami, del podismo (l'unica specialità dell'atletica nella quale dessi prova di bravura), e persino delle lezioni di piano che prendevo, con suo grande imbarazzo. "Decidi quello che vuoi fare e fallo." Ma... E' l'incertezza, o il piacere dell'insuccesso? E' la volontà degli altri, soggetta alla propria? Forse era una cosa alla quale mio padre non aveva mai pensato. Non per durezza o per crudeltà, ma perché era sinceramente convinto di saperla più lunga degli altri. E' che, facendo il suo, si sarebbe fatto anche l'interesse altrui. "Allora hai deciso di fare il medico" disse mio padre, quando a diciott'anni decisi di studiare medicina. "sì." "Bene! Dacci dentro. E' una facoltà difficile. Ce la metterai tutta?" "Sì." "Non mi sono mai augurato di prenderti con me. Ho sempre detto: "Decidi quello che vuoi fare e fallo." "sì." Anche mentre facevo a modo mio, avevo l'impressione di rispondere a uno dei suoi scopi. E' così, con le forti personalità. Mentre facciamo di tutto per allontanarci da loro, abbiamo sempre l'impressione che l'acqua in cui nuotiamo non sia nostra. "Ma è magnifico" disse mia madre. "Sei sicuro che è quello che vuoi?" "Sì." Nessuno dei due mi domandò perché. Se lo avessero fatto, forse non sarei stato in grado di rispondere. Era una vaga impressione che si faceva più forte. Se l'avessero ostacolata, forse avrei trovato delle ragioni ben precise, e mi sarei appassionato alla mia scelta. Forse questo tipo di passione nasce solo quando la volontà incontra degli ostacoli. A diciott'anni andai a Cambridge e vi iniziai i miei studi di medicina. Anche se studiavo la miriade di malanni del corpo e i modi altrettanto numerosi per lenirli, questo non mi avvicinò di più ai miei simili. Non sembrava che m'interessassero, o che mi stessero particolarmente a cuore, non più che se avessi studiato economia. In me, e nel mio impegno, c'era qualcosa che mancava. Ottenni comunque l'abilitazione e decisi di fare il medico generico. "Perché non lo specialista?" disse mio padre. "Potresti entrare in un ospedale." "No." "Non ti vedo come medico generico." "Ah sì?" "Be'! Mi rendo conto che hai deciso." Entrai in un ambulatorio di St John's Wood. Mi comprai un appartamento. La mia vita cominciava a prender forma. Il libero arbitrio mi aveva portato fin lì, non le pressioni dei genitori, non le terribili lotte accademiche. Avevo deciso quello che volevo fare e l'avevo fatto. Il passo successivo era evidente. "Ingrid è una bellissima ragazza" disse mio padre. "E che forza di carattere! C'è una grande volontà in quella ragazza" continuò, con aria di approvazione. "Hai deciso di sposarti, dunque?" "Sì." "Bene. Bene. Il matrimonio fa bene..." s'interruppe, "... all'anima." Tutte le mie ambizioni si erano realizzate. La scelta era stata sempre mia. Era una vita beata. Era una bella vita. Ma di chi era quella vita? Mia moglie è una donna molto bella. Per questo, ho la testimonianza dei miei occhi, e la reazione di quanti la incontrano. E' una bellezza, la sua, di piacevoli proporzioni, una felice armonia di occhi, capelli e carnagione. E' una donna completa. Era completa prima che la incontrassi. Fu alla sua visione della vita che diedi il contributo della mia esistenza. E ne fui lieto. Aveva vent'anni quando la conobbi, nel modo più convenzionale e corretto, a casa di amici. Non c'era nulla, in lei, che stridesse o mi facesse soffrire. Possedeva in notevole misura la potente seduzione della serenità. Ingrid accettò la mia iniziale ammirazione, e il mio amore successivo, come un dono assai gradito, ma meritato. Io, che avevo avuto paura dell'amore, paura di una certa intemperanza che esso potesse scatenare in me, mi sentii placato. Mi era concesso di amare. Credevo in cambio di essere amato. Con lei non svelai alcun mistero. Era in tutto e per tutto come avevo immaginato che fosse. Il suo corpo era caldo, e bellissimo. Se non prendeva mai l'iniziativa, in compenso non mi respingeva mai. Il matrimonio non è quel gioco d'azzardo che diciamo. Abbiamo un certo controllo sul suo corso. La nostra scelta del coniuge è quasi sempre intelligente, oltre che romantica. Chi si comporta temerariamente, infatti, in un'impresa il cui esito desta tanto timore? Il mio matrimonio con Ingrid seguì un corso che non sorprese nessuno dei due. Affettuoso come avremmo potuto immaginare, prudente come sembrava esigere la nostra natura. No. Il vero gioco d'azzardo sono i figli. Dal momento in cui vengono al mondo, aumenta la nostra debolezza. Invece di essere qualcosa di nostro, da plasmare e modellare mettendo a frutto il meglio della nostra esperienza e della nostra volontà, essi sono se stessi. Dalla nascita sono il centro della nostra vita, e il rischioso limitare dell'esistenza. La loro salute, frutto, nella migliore delle ipotesi, della fortuna e del caso, viene spesso da noi considerata il risultato della buona educazione e delle nostre premure. I loro malanni, quando sono gravi, distruggono la nostra felicità. Quando guariscono, viviamo per anni nella consapevolezza di ciò che la loro morte potrebbe significare per noi. La natura arbitraria della nostra passione per i figli, che rivelano così poco di se stessi durante la loro breve permanenza con noi è, per molti, la grande avventura della vita. Ma, mentre abbiamo la possibilità di scegliere l'oggetto del nostro amore romantico, non scegliamo il bambino che sarà nostro figlio o nostra figlia. Nessuna sconvolgente rivelazione sulla natura della vita sembrò accompagnare l'ingresso di Martyn nel mondo. Era lì, quasi come se ce lo fossimo sempre immaginato, figlio amato e perfetto. Sally nacque due anni dopo. La mia famiglia era completa. Fra i trenta e i quarant'anni guardavo con gratitudine i miei figli, con affetto e con un certo smarrimento. Questo era dunque il centro della vita, il suo nocciolo? Una donna, due bambini, una casa. Il terreno era solido sotto i miei piedi. Mi sentivo al sicuro. Avevamo la letizia e la felicità di coloro che non hanno mai conosciuto né il loro contrario, né terribili ansietà. La nostra tanto ammirata serenità familiare unita a una fortuna per la quale segretamente ci congratulavamo con noi stessi, come se qualche nostro alto principio morale avesse trovato una pratica conferma. Forse avevamo imparato che la vita poteva essere organizzata a proprio vantaggio; che richiedeva solo intelligenza e determinazione; un sistema, una formula, un trucco. Forse ci sono, nella vita, ritmi benevoli e maligni. Noi i nostri li avevamo accordati al suono della bellezza. La mia vita di allora era come un piacevole panorama. Gli alberi erano verdi, i prati rigogliosi, il lago tranquillo. A volte guardavo mia moglie dormire e sapevo che, se l'avessi svegliata, non avrei avuto niente da dirle. Quali potevano essere le domande cui volevo che rispondesse? Le mie risposte erano tutte lì, lungo il corridoio, nella stanza di Martyn o in quella di Sally. Come potevo avere ancora delle domande? Che diritto avevo di fare domande? Il tempo galoppava attraverso la mia vita, come un vincitore. Riuscivo a malapena a non farmi strappare le redini di mano. Quando ci affliggiamo per quelli che muoiono giovani, quelli che sono stati derubati del tempo, piangiamo le gioie perdute. Piangiamo occasioni e piaceri che noi stessi non abbiamo mai conosciuto. Ci sentiamo sicuri che in un modo o nell'altro quel corpo giovane avrebbe conosciuto il dolce struggimento che per tutta la vita noi abbiamo cercato invano. Crediamo che l'anima inesperta, chiusa dentro la sua giovane prigione, avrebbe potuto involarsi verso la libertà e conoscere la gioia che noi stiamo ancora cercando. Diciamo che la vita è dolce, che grandi sono le sue soddisfazioni. Tutto questo diciamo nel passare come sonnambuli attraverso i giorni e le notti che formano la nostra vita. Lasciamo che il tempo ci investa come una cascata, credendolo infinito. Eppure ogni giorno che ci tocca, e ogni uomo sulla terra, è unico; irredimibile; finito. E comincia un altro lunedì. Ah, ma quei perduti lunedì del nostro giovane amico defunto! Come sarebbero stati più belli! Passano gli anni. Passano i decenni. E non abbiamo vissuto. Ma... E le nascite alle quali ero stato presente? C'è qualcosa che potrebbe segnare più utilmente il tempo di un uomo? E le morti alle quali avevo assistito? Esperto alleviatore di dolori, ero spesso l'ultima persona che vedevano i moribondi. Erano buoni i miei occhi? Mostravo paura? Credo di essere stato utile, qui. E tutte le piccole tragedie? I timori e l'angoscia che mi trovavo a dover affrontare? Questo, senza dubbio, fu tempo speso bene. Ma a che scopo precipitava allora la cascata del tempo, solo per perdersi nell'inondazione? Perché facevo il dottore? Perché prestavo soccorso? A qual fine encomiabile lo prestavo, premurosamente ma senz'amore? Chi è fortunato dovrebbe nascondersi. Dovrebbe essere grato. Dovrebbe sperare che i giorni dell'ira non visitino la sua casa. Dovrebbe correre a proteggere tutto ciò che è suo, a compatire il vicino quando l'orrore colpisce. Ma silenziosamente, e da lontano. Il padre di Ingrid era un deputato conservatore. Apparteneva a un'agiata famiglia borghese ed era diventato, grazie a una serie di accorti investimenti, un uomo ricco. Anche se mio padre aveva più denaro di quanto avrebbe creduto la maggior parte della gente, Edward Thompson era il più ricco dei due. Era convinto che il principale istinto dell'umanità sia l'ingordigia. Che il partito che vinceva le elezioni era quello che prometteva di attuare il piano economico più vantaggioso per la maggioranza, non per il paese. "Ecco dove i laburisti fanno il loro grosso sbaglio, ragazzo mio. Sanno benissimo che in realtà tutto si gioca sull'economia. Ma confondono il problema con un miglior trattamento economico per tutti. Nessuno lo vuole. Costa troppo, e comunque non interessa. La maggioranza: arricchiscili e voteranno per te. E' semplicissimo." Ingrid sorrideva, o replicava cortesemente, spiritosamente. Ma la verità era che forse aveva ragione lui. Lo rieleggevano a ogni elezione, con la sua maggioranza sempre intatta. Io facevo più fatica a trattarlo gentilmente, ma per molti anni tenni per me tutte le mie domande. Con il passare del tempo, diventai meno paziente. Cominciai a discutere con lui più spesso e più vivacemente. Con mio stupore, ne fu felice. Insorgeva a ogni critica, con il volto raggiante di gioia. Era un polemista assai più abile di quanto avessi mai immaginato. Scoppiava in risate trionfali ogni volta che mi aveva messo con le spalle al muro. La mia posizione era intrinsecamente debole, direi. Detestavo il socialismo, e quelle che mi sembravano le semplicistiche soluzioni della sinistra. Aborrivo la mancanza di libertà che la sinistra rappresentava sempre più. Accettavo la filosofia essenziale del partito conservatore. Trovavo, tuttavia, assai poco allettante la sua assoluta dedizione al conseguimento del benessere materiale del singolo. Ero un conservatore critico, provocatorio, scontento. Ma in fondo ero sempre un conservatore. La medicina non è il miglior allenamento per chi vuol farsi una mentalità politica. Questo mi fu penosamente chiaro in molte delle nostre discussioni, anche se con l'esercizio migliorai. "Perché non ti presenti alle elezioni? C'è posto nel partito per un tipo come te." Avrebbe potuto essere un invito a cena al suo club, tanta fu la noncuranza con la quale mio suocero, una sera, sganciò sulla conversazione questa bomba. "Sì, sì! Tu fai il medico. Rappresenti la compassione, l'integrità, chi vorrebbe che noialtri ingordi facessimo una vita più onesta. Mi piace l'idea. E' buona per il partito. E' buona per te. Potresti fare strada, sai? Oh sì. All'inizio non ci credevo, è naturale. Mi sembravi piuttosto incapace di difendere i tuoi punti di vista, se posso permettermi di dirlo. Ma sei venuto su bene. E' tutto lì, c'è sempre stato, sotto la crosta, sai. L'ho già visto, il tipo mite che sboccia tutt'a un tratto. Poi ci sono i grandi oratori di vent'anni che a quaranta non hanno niente da dire. Oh sì, ne ho viste di tutti i colori. Ventotto anni che sono deputato, ventotto anni. Ne ho viste di tutti i colori." Ingrid sorrideva, con aria complice pensai in un secondo tempo. Ma io ero lusingato. Credevo presuntuosamente che sarei riuscito a mitigare la forma di conservatorismo di Edward Thompson, solo un po', e che avrei potuto dare il mio contributo. I miei dubbi residui svanirono quella notte. L'idea mi piaceva. Ero orgoglioso di me. Dopo tutti quegli anni in cui avevo badato attentamente a ogni mossa che facevo per non essere dominato da mio padre, mi scoprivo ora in procinto d'iniziare una vita completamente nuova, perché mio suocero con le sue lusinghe mi aveva convinto a fare questo passo. Quella sera io e Ingrid restammo là a discutere più accanitamente che in qualunque altro momento del nostro matrimonio. Lei era eccitatissima. Mi resi conto che doveva aver sempre idolatrato suo padre. Ora era elettrizzata dall'idea che io avrei seguito le sue orme. Concordammo che sarei sceso in lizza per un seggio sicuro, appena rimasto vacante vicino a dove abitavamo noi. Lì la mia influenza come medico sarebbe stata massima. Anche se il mio avversario era un uomo d'affari del posto, intelligente e più anziano di me, i funzionari del partito volevano chiaramente un esponente delle professioni "assistenziali." La scelta del candidato conservatore cadde rapidamente su di me. Alle elezioni straordinarie dovettero avere l'impressione di aver preso la decisione giusta, perché fui eletto con una maggioranza nettamente superiore a quella delle elezioni precedenti. Ingrid tornò a ritirarsi in se stessa, soddisfatta. Si ristabilì il normale meccanismo dei nostri rapporti. Lei era contenta. Ritornò la tranquillità che aveva sempre caratterizzato la nostra vita quotidiana. Mi sono chiesto spesso, molti anni dopo, quanto avessero discusso tra loro Ingrid e suo padre prima di quella cena fatale. Mi avevano trovato così facile da manipolare? O con loro, come con chiunque altro, la mia guardia era così bassa perché mi consideravo ignoto a tutti e al riparo da qualsiasi allettamento? Ero il sogno di un pubblicitario. Avevo quarantacinque anni, una moglie bella e intelligente, un figlio a Oxford e una figlia in una scuola privata. Mio padre era stato un notissimo uomo d'affari. Mio suocero era un importante uomo politico che aveva dato al partito ciò che al partito era dovuto. Ero ragionevolmente bello. Non abbastanza perché la mia ipotetica bellezza mi precedesse, come una reputazione immeritata, ma abbastanza per riuscire simpatico alla televisione, la nuova arena dei gladiatori. Là, quelli che si battono fino alla morte politica non salutano Cesare ma la gente che stanno per tradire. Questo da alle masse un'illusione di potere utile a occultare il fatto che, per cruento che sembri quello scontro all'ultimo sangue, l'uomo politico è sempre il vincitore. In una democrazia c'è sempre qualche uomo politico, in qualche posto, che vince. Volevo essere il politico vincente. La mia armatura era robusta. Fui eletto e passai a ranghi più elevati con la disinvoltura che aveva caratterizzato tutte le mie imprese. Credevo nella mia causa con la stessa forza con cui avevo creduto nella medicina. Ma nessuna di queste due imprese mi era costata il minimo sforzo. Il tempo, per un uomo che non lo ha mai sentito passare veramente, non è un grande sacrificio; non lo è la fatica che produce risultati soddisfacenti; né l'energia in un uomo ancora giovane e in perfetta salute. In politica mi ispirai agli stessi antichi valori che avevo messo in pratica nella mia indaffarata professione: onestà, una sorta di pungente integrità, un assoluto disinteresse per il potere personale, uniti all'insopportabile arroganza di chi sa che, se decidesse di giocare, vincerebbe. Sfuggivo tutti i principali assunti sui quali si basa la vita parlamentare. La fedeltà al partito come strumento per fare carriera, lo scambio di favori, il riconoscimento e la riluttante accettazione dei leader emergenti: i padroni dell'avvenire, ai quali bisognava dimostrare la propria gratitudine e rendere omaggio. Tutto questo mi sembrava ripugnante. Mostrarsi privo di ambizioni tra gli ambiziosi è il sistema migliore, tuttavia, per suscitare odio o paura. Essere della partita, ma non giocare con l'intenzione di vincere, significa schierarsi col nemico. Era improbabile, ma non impossibile, che potessi arrivare fino in cima. Quella che mi mancava era l'incisività. Forse non l'avevo. O forse era solo nascosta. Per i miei colleghi diventai un enigma: un uomo motivato, in apparenza, ma senza un motivo. Le mie ovvie capacità erano ancora da verificare, ma i miei colleghi e io ci rendevamo conto che, se si fosse presentata l'occasione, il successo ne sarebbe forse scaturito. Ma perché l'occasione avrebbe dovuto presentarsi a me? A differenza di molti altri, non la desideravo ardentemente. Non avevo trovato la chiave di me stesso in nessuna area di servizio, medica o politica. Eseguivo gli interventi sul mio collegio elettorale con la stessa totale partecipazione con cui avevo assistito i miei pazienti. Ma era l'assoluto dell'intelletto. Nessuno sforzo pareva troppo grande per consigliare su questa faccenda, o per agire su un'altra. La mia accuratezza e la mia competenza alimentarono il rispetto, e una sorta di fiducia. Facevo bene il mio lavoro. Su questo non c'era dubbio. Dicevo la mia su materie che mi sembravano bisognose di commenti. Dicevo quel che pensavo. Pensavo quel che dicevo. Le conseguenze politiche non m'interessavano, non eccessivamente, per lo meno. D'altro canto, gli argomenti sui quali facevo la voce grossa non erano essenziali per la disciplina di partito. Le mie idee apparivano allettanti a gruppi consistenti della sinistra conservatrice. Non mi trovai mai a dover affrontare un grave dilemma morale. Nulla di ciò che pensavo o dicevo era estremistico, o mi metteva in una posizione pericolosa. Tutte le opzioni, tranne quelle dell'estrema destra, mi erano sempre aperte. Se avessi programmato, per me stesso, una vita politica ideale, non avrebbe potuto funzionare meglio di così. Ben presto mi fu assegnato il posto di assistente del ministro della sanità, per il quale ero ovviamente tagliato. Il mio viso interessato e la mia voce educata che articolava accettabili cliché di stampo vagamente progressista apparvero alla televisione. O guardavo con aria severa dai giornali e da riviste, dicendo le cose in cui avevo sempre creduto, con quello che dava l'impressione di essere un tono sincero e genuino. Dalla televisione e dai giornali appresi la pubblica geografia della mia anima. Non era né umiliante né piacevole, solo un altro perfetto pezzo di bravura. Persino io riconoscevo che, se avessi continuato per qualche tempo con questa esecuzione, avrei potuto emettere, con il passare degli anni, una luce ancora più brillante. Un sondaggio, pubblicato da un giornale della domenica, mi inseriva in un elenco di possibili futuri primi ministri. Ingrid ne fu elettrizzata, i miei figli imbarazzati. Recitavo le parti che mi venivano richieste, come il professionista di una buona compagnia di prosa inglese. Affidabile, competente, fiero del mio lavoro, ma così lontano dalla magia di un Olivier o di un Gielgud da non sembrare affatto un attore. La passione che trasforma la vita, e l'arte, non sembrava appartenermi. Ma in tutti i suoi elementi essenziali, la mia vita era una buona rappresentazione. Mio figlio era un bel giovanotto. Se in me c'era una certa pesantezza, le sottili proporzioni di Ingrid la temperavano in Martyn. Aveva, insieme, statura e solidità. C'era anche l'eccessivo pallore di mia moglie. E i miei capelli e i miei occhi neri sembravano fare da contrappunto alla quasi femminea delicatezza della sua carnagione. Era un colorito che si notava, il suo, inconsueto in Inghilterra, e tutto il contrario di quello di sua sorella. Sally era uno di quei miracoli che sembrano rari e sono invece abbastanza comuni, un'autentica rosa d'Inghilterra. E inquietante, la bellezza, nei nostri figli. Racchiude in sé un eccesso che getta un punto interrogativo sui genitori. Quasi tutti i padri vorrebbero che le figlie fossero attraenti, i figli virili. Ma la vera bellezza sconcerta. Come il genio, l'auguriamo agli altri. La bellezza e l'eleganza di Martyn mi mettevano in imbarazzo. I suoi flirt erano così manifestamente casuali che mi sbalordiva constatare come le sue amichette non vedessero in lui alcun pericolo. La successione di ragazze delle quali Ingrid e io facevamo la conoscenza ai pranzi della domenica o ai ricevimenti occasionali sembrava senza fine. Mi rendevo conto che mio figlio era sessualmente promiscuo. Poco si curava, senza dubbio, dei molti amorevoli sguardi scoccati nella sua direzione. Tutto questo divertiva mia moglie. Era assai meno divertente per me. Il suo atteggiamento verso la vita, quando finì l'università, mi sgomentò. La medicina non lo interessava. La politica non lo attraeva. Voleva fare il giornalista: la posizione dello spettatore nella vita, mi sembrava. Era molto ambizioso e deciso a far carriera,ma la sua ambizione era tutta concentrata su se stesso. Non si faceva illusioni, e non voleva che ce ne facessimo noi. Trovò lavoro in un giornale del posto, dove, spassosamente e forse con suo rammarico, fu nominato corrispondente politico. Quando compì ventitré anni, entrò come praticante in un giornale di Fleet Street. Lasciò l'appartamentino che gli avevamo arredato sopra il garage e andò a vivere per conto suo. Ingrid era contenta del suo successo e della sua determinazione. Era un contrasto molto lusinghiero con i figli dei nostri amici, che sembravano insicuri di tutto. Per me, tuttavia, Martyn rimaneva un enigma. Certe volte lo guardavo e dovevo ricordare a me stesso che era mio figlio. Lui mi rispondeva con un'occhiata interrogativa, e sor,rideva. Sapevo che con Martyn la mia interpretazione era appena sufficiente. Con Sally me la cavavo un po' meglio. Era una ragazza seria e amabile. Aveva un certo talento per la pittura che sviluppò al massimo, trovando lavoro come impiegata nell'ufficio grafico di una casa editrice. Ecco dunque un matrimonio, schizzato con chiarezza. Ero un marito fedele, se non appassionato, e mi comportavo con affetto e senso di responsabilità verso i miei figli. Li avevo fatti arrivare sani e salvi fino all'età adulta. Le mie ambizioni, in campi importanti e rispettati, erano state soddisfatte. Avevo abbastanza soldi, da redditi e da proprietà private, per poter essere libero da qualsiasi problema finanziario. C'era un uomo più fortunato di me? Avevo osservato le regole. Ero stato ricompensato. Idee chiare, un pizzico di fortuna, e a cinquant'anni ero un uomo arrivato. Ho guardato, certe volte, vecchie foto dei volti sorridenti delle vittime, e vi ho cercato disperatamente qualche segno che indicasse che sapevano. Senza dubbio dovevano sapere che entro qualche ora o qualche giorno la loro vita sarebbe finita in quell'incidente automobilistico, in quel disastro aereo o in una tragedia familiare. Ma non riesco a trovare alcun segno. Nulla. Mi guardano serenamente, terribile ammonimento per tutti noi. "No, non sapevo. Proprio come te... Non c'era alcun segno." "Io che sono morto a trent'anni... Anch'io avevo già deciso cos'avrei fatto a quaranta." "Io che sono morto a venti avevo sognato, come te, le rose che un giorno avrebbero cinto il cottage. Potrebbe capitare a te. Perché no? Perché a me? Perché a te? Perché no?" So dunque che in tutte le fotografie che mi furono scattate allora la faccia che sosterrà il tuo sguardo sarà sicura di sé, un po' fredda, ma sostanzialmente ignara. E la faccia di un uomo che non comprendo più. Conosco il ponte che mi collega a lui. Ma l'altro capo è sparito. Sparito come un pezzo di terra invaso dal mare. Ci saranno dei segni sulla spiaggia, con la bassa marea, ma questo è tutto. "Sembra più vecchia di te. Non molto. Ma quanti anni ha?" "Ha trentatré anni." "Be', otto anni più di te, Martyn." "E con questo?" "Niente. Solo il fatto.che ha otto anni più di te." "Di chi state parlando?" domandai. Eravamo in cucina. "Anna Barton, l'ultima ragazza di Martyn." "Oh. E nuova, no?" "Oh, Dio. Mi fai sentire come se fossi una specie di Casanova. "Be', non lo sei?" "No." La voce di Martyn era triste. "O, se una volta lo ero, è finita. Be', comunque, non ne ho mai conosciuta una che contasse." "Questa sì?" "Chi? " "Questa Anna Burton." "Barton. Anna Barton. La conosco da qualche mese appena. Be', è più importante delle altre." "Anche più intelligente" disse Sally. "Oh, Sally, tu sapresti riconoscerla, una ragazza intelligente, vero? Senza dubbio ti somiglierebbe molto." "Ci sono tanti tipi diversi d'intelligenza, Martyn. La mia è artistica. La tua è per le parole. Tutto qui. Ma non sapresti disegnare un gatto nemmeno se ne andasse della tua vita." La Sally che arrossiva o piangeva per gli attacchi di Martyn era scomparsa da un pezzo. Non era in rapporti molto stretti con suo fratello, e non dipendeva affatto da lui. Il nome di Anna Barton sparì subito dalla conversazione postprandiale di quella domenica. Né Martyn né Sally accennarono più a lei. "Allora questa Anna non ti piace?" chiesi a Ingrid mentre ci preparavamo ad andare a letto. Lei fece una lunga pausa e poi disse: "No. No, non mi piace." "Perché? Non solo, certamente, perché ha otto anni più di Martyn." "In parte. No, mi mette a disagio." "Oh, be', probabilmente non è nulla. Conoscendo Martyn, sarà un altro dei suoi flirt" dissi. "No, è qualcosa di più, ne sono sicura." "Sì? E com'è che non l'ho mai incontrata?" "E' venuta qui due o tre volte il mese scorso, quanto tu eri a Cambridge. Poi un'altra volta a cena quando eri a Edimburgo." "Carina?" "E' un tipo strano. Carina? Non proprio. Dimostra gli anni che ha. Poche ragazze, oggigiorno, dimostrano la loro vera età." "Tu certamente no" dissi a Ingrid. Ero stufo di parlare di Anna Barton e capivo che quell'argomento l'affliggeva. "Grazie." Mi sorrise. E Ingrid non aveva certamente l'aria di una donna alle soglie della cinquantina. La bellezza, bionda e snella, rimaneva, solo un po' appesantita dagli anni. Gli occhi erano meno vivi, ma Ingrid era una bella donna, senza dubbio. Una donna che bella sarebbe rimasta per molto tempo ancora. Conservava l'aria incrollabile di sempre. Bionda, tranquilla, bellissima. Mia moglie, la figlia di Edward, la madre di Martyn e Sally. Durante tutti questi anni la sua vita e la mia avevano marciato lungo rette parallele. Non c'erano stati né scontri, né segnali trascurati. Eravamo una coppia di persone civili, che con serenità si avvicinavano ai loro anni più tardi. "Anna Barton, questo è Roger Hughes." "Piacere." Fu come se le presentazioni che si stavano facendo alle mie spalle avvenissero in una stanza silenziosa. Ero invece nella calca della festa natalizia di un editore di giornali. Ogni anno, nella Mayfair Gallery di sua moglie, radunava il suo mondo intorno a sé in un abbraccio accattivante e pericoloso. Tutti poi venivano sciolti dall'abbraccio e precipitavano in caduta libera per il resto dell'anno, come se tutte le tribolazioni che il suo giornale avrebbe cagionato agli invitati prima del Natale successivo fossero state già perdonate. Perché non mi voltai? Perché, per semplice curiosità, o per gentilezza, o per educazione, non avvicinai quella ragazza? Perché quel "Piacere" mi sembrò tanto significativo? La sua cerimoniosità mi pareva voluta. La sua voce era molto profonda, chiara e priva di cordialità. "Anna, voglio farti vedere una cosa." "Ciao, Dominick." Un'altra voce reclamò la sua presenza e lei parve, in silenzio, allontanarsi. Ero a disagio. Mi sentivo un pesce fuor d'acqua. Mi stavo preparando a congedarmi, quando a un tratto si piazzò davanti a me e disse: "Lei è il padre di Martyn. Io sono Anna Barton, e ho sentito che dovevo presentarmi." La donna che mi stava di fronte era alta, pallida, con neri capelli ondulati tagliati corti e pettinati all'indietro. Indossava un tailleur nero e non sorrideva affatto. "Salve, sono molto felice di conoscerla. Pare che io fossi da un'altra parte, tutte le volte che è venuta a casa nostra." "Ci sono venuta solo tre volte. E lei è un uomo molto occupato." Avrebbe potuto sembrare troppo brusco, ma non fu così. "Da quanto tempo conosce Martyn?" "Non molto." "Oh. Capisco." "Siamo..." esitò, "... amici da tre o quattro mesi. Lo conoscevo un po' anche prima, per ragioni di lavoro. Io lavoro per lo stesso giornale." "Oh sì. Mi pareva di conoscere il suo nome, la prima volta che l'ho sentito." Restammo in silenzio, e io distolsi lo sguardo dal suo viso. Quando tornai a guardarla, due occhi grigi fissavano i miei e trattenevano loro e me, immobili. Dopo molto tempo disse: "Che strano." "Sì" dissi. "Be', ora vado." "Arrivederci" dissi. Mi voltò le spalle e si allontanò. La sua alta figura vestita di nero sembrò ritagliarsi uno spazio nella sala affollata e sparire. Una strana calma m'invase. Mandai un sospiro, profondo, come se a un tratto avessi cambiato pelle. Mi sentivo vecchio e soddisfatto. L'impressione di aver incontrato qualcuno che conoscevo mi era passata attraverso il corpo come una scossa elettrica. Per un attimo, un attimo solo, avevo incontrato uno come me, un altro della mia specie. Ci eravamo riconosciuti. Ero grato di quell'incontro, ma non volevo pensarci più. Mi ero sentito a casa mia. Per un attimo, ma più a lungo della maggior parte della gente. Era sufficiente, sufficiente per la mia vita. Naturalmente, non era sufficiente. Ma in quelle prime ore ero soltanto grato che si fosse presentato quel momento. Ero come un viaggiatore sperduto in un paese straniero che ode a un tratto non soltanto la sua lingua natia, ma il dialetto che parlava da bambino. Non si chiede se la voce è quella di un nemico o di un amico, si precipita solo verso il suono che gli ricorda la sua casa. La mia anima si era gettata su Anna Barton. E io credevo che in una questione così privata tra me stesso e Dio mi sarebbe stato possibile lasciarla correre avanti, senza timore di danni al cuore o alla mente, al corpo o alla mia vita. E' in questo sostanziale malinteso che inciampano molte esistenze. Nell'idea completamente sbagliata che tutto sia sotto controllo. Che si possa scegliere di andare o stare, senza soffrire. Dopo tutto, avevo solo perso la mia anima privatamente, a un party, dove gli altri non potevano vedere. Il giorno dopo mi telefonò. "Domenica prossima vengo a pranzo. Volevo che lo sapesse." "Grazie." "Arrivederci." La comunicazione s'interruppe. Sabato mi prese una forma di pazzia. Mi ero convinto che sarei morto prima di domenica. La morte mi avrebbe privato della domenica. La domenica era ormai tutto quello che volevo. Perché domenica mi sarei seduto nella stessa stanza con Anna Barton. Domenica mattina, in quella che mi sembrava la prigione del mio studio, attesi, immobile, lo sbattere delle portiere della macchina, il suono del cancello di ferro sulle pietre del selciato e gli echi della campana, che prima mi avrebbero avvertito, poi convocato alla sua presenza in casa mia. Udii i miei passi sul marmo dell'ingresso mentre l'attraversavo per andare in soggiorno e sopra le risate, e lo scatto metallico della maniglia, mentre aprivo l'uscio per raggiungere la mia famiglia, e Anna. Li avevo fatti aspettare e, mentre Martyn, cingendole le spalle con un braccio, diceva: "Papà, questa è Anna" Ingrid ci spinse frettolosamente tutti in sala da pranzo. Nessuno parve notare che il ritmo del mio respiro era cambiato. Ci mettemmo tutti a tavola: Ingrid, Sally, Anna e io, e Martyn. Ma naturalmente, in realtà, Ingrid e io eravamo a tavola con Sally. E Martyn - un Martyn diverso, esitante, incontestabilmente innamorato, era a tavola con Anna. Anna si comportò verso di me come avrebbe fatto qualunque fanciulla intelligente al primo incontro con il padre del suo ragazzo. Boyfriend? Dovevano essere amanti. Certo che lo erano. Erano amanti. Insieme da mesi. Amanti, è naturale. Nessuno di noi due parlò del nostro incontro. Anna evitò il minimo accenno al fatto che un simile incontro avesse mai potuto aver luogo. La sua discrezione, così rassicurante in quei primi minuti, diventò quasi subito una fonte di angoscia. Che razza di donna è un'attrice così consumata? pensavo. Come poteva essere tanto brava? Il suo corpo fasciato di nero quel giorno sembrava più lungo, un po' sinistro; spaventoso addirittura, mentre usciva dalla sala da pranzo per andare a prendere il caffè nel soggiorno. Questa è la prima fase con te, pensavo, la prima barriera. Bada a me, bada, sono un tuo pari. "Stavamo pensando di andare a Parigi per il weekend" disse Martyn. "Chi?" "Anna e io, naturalmente." "E' la mia città preferita." Anna guardò Ingrid con un sorriso. "Oh, io non mi ci diverto mai veramente come vorrei. A Parigi ci va sempre di traverso qualche cosa" rispose Ingrid. Era vero. Ogni volta che ci eravamo stati, o ci avevano rubato le valigie, o avevamo avuto un piccolo incidente stradale, o Ingrid si era ammalata. Mia moglie si era disamorata di Parigi. Era un ideale che non si era realizzato mai del tutto. Seguii con calma questa conversazione. Sorrisi mentre Ingrid diceva: "Che bell'idea" a Martyn. La superficie rimaneva calma, ma il terreno cominciava a essermi meno fermo sotto i piedi. Stava venendo in luce una pecca tenuta nascosta per molto tempo. Un tremito mi scosse, brevissimo e quasi impercettibile, che quasi non meritava di essere notato. Ma così intenso fu il dolore che mi attraversò, che compresi di avere già subito un danno vero e proprio. Non avrei saputo dire quale danno, o se mi sarei ripreso, o quanto tempo ci sarebbe voluto. Basti sapere che ero meno l'uomo che ero stato e più me stesso... un nuovo e strano me stesso. Ero già diventato un bugiardo con i membri della mia famiglia. Una donna che conoscevo solo da qualche giorno, con la quale avevo scambiato solo qualche frase, mi guardava tradire mia moglie e mio figlio. E sapevamo entrambi che l'altro sapeva. Sembrava un legame tra noi. Una verità nascosta, una bugia non è altro che questo. O per azione o per omissione, non facciamo mai altro che oscurare. La verità sta nel sottobosco, in attesa di essere scoperta. Ma nulla si scoprì quella domenica. La piccola bugia, che era il primo tradimento, parve sprofondare sempre più nelle risate, nel vino e nelle ore del giorno che passava. "Be', cosa te ne pare?" mi chiese Ingrid quando se ne furono andati. "Di Anna?" "Chi altro?" "E' strana." "Sì, capisci, ora, perché sono in pensiero? Martyn non è all'altezza. Non è solo che è più vecchia... C'è qualche altra cosa. Non riesco a mettere il dito sulla piaga, ma non è la donna per lui. Non che lui possa vederlo, si capisce. Ne è infatuato, evidentemente. Il sesso, immagino." Mi sentii gelare. "Oh." "Andiamo, certo che dorme con lui. Mio Dio, Martyn ha avuto più donne di..." "Di me." "Voglio sperarlo" disse Ingrid mentre veniva ad abbracciarmi. Ma la conversazione mi aveva distrutto. La baciai dolcemente e andai nello studio. Rimasi là a guardare fuori dalla finestra, nella luce della sera. Anna era adesso nella mia casa. Svolazzava tra una stanza e l'altra, tra Ingrid e Martyn e me. Eppure non era successo niente, proprio niente. Tranne, naturalmente, la sua presenza rivelata in questo mondo. Era l'esperienza di una frazione di secondo che cambia tutto; lo scontro automobilistico; la lettera che non dovevamo aprire; il nodulo nel petto o nell'inguine; il lampo accecante. Sul mio ordinato palcoscenico le luci erano accese, e forse finalmente io aspettavo tra le quinte. "Martyn viene di nuovo a pranzo domenica. Credo che abbia qualcosa da dirci." "Cosa?" "Spero non sia che vuol sposare Anna, ma temo che lo sia." "Sposarla?" "Sì. C'era qualcosa nella sua voce. Oh, non so. Forse sbaglio." "Non può sposarla." Perché quelli che abbiamo amato per metà della nostra vita non capiscono quando si rischia la rovina? Come possono semplicemente non capire? "Buon Dio, sembri uno di quei padri vittoriani. E' maggiorenne. Può fare ciò che vuole. Quella ragazza non mi piace. Ma conosco Martyn. Se la vuole, l'avrà. Ha la determinazione di tuo padre." Notai che non aveva detto la mia. "Be', dovremo tutti aspettare fino a domenica" sospirò. La conversazione era finita. I miei pensieri si diedero battaglia. Ero ferito, mi difendevo, e tornavo ad attaccarmi. In silenzio, mentre fingevo di leggere, la battaglia continuava a infuriare. Soffocavo di rabbia e di paura. Paura che non sarei mai più riuscito a controllarmi. Che ero ormai sradicato. Ed ero sotto un attacco di tale forza che anche se ci fosse stata una vaga possibilità di sopravvivere, avrei subito danni irreparabili, un indebolimento permanente. Non avevo parlato. Non avevo toccato. Non avevo posseduto. Ma l'avevo riconosciuta. E in lei avevo riconosciuto me stesso. Dovevo uscire di casa e camminare. Il forzato silenzio della stanza era un tormento. Il dolore poteva essere sopportato solo con un continuo, incessante movimento. Toccai brevemente la fronte di Ingrid e uscii di casa. Come puoi non capire? Non senti, non fiuti, non assapori il disastro che è in agguato in un angolo della casa? Che è in agguato in fondo al giardino. Ero esausto, quando ritornai. Dormii come un pesante animale, incerto se saprà mai risollevarsi. "Pronto, sono Anna." In silenzio, aspettai. Sapendo che ora nella mia vita c'era una fine e un principio. Non sapendo dove il principio sarebbe finito. "Dove sei? Va' a casa tua. Tra un'ora sarò lì" dissi. Presi l'indirizzo e abbassai il ricevitore. A Londra ci sono delle segrete enclaves di case color crema, circondate da un'aura di discrezione. Nel nero denso e oleoso della porta osservai il profilo del mio corpo mentre suonavo il campanello, in attesa di entrare nella casa di Anna, piccola, bassa e per me misteriosa. Non facemmo rumore quando passammo sul tappeto color miele dell'ingresso. Entrammo nel soggiorno e ci stendemmo sul pavimento. Lei spalancò le braccia e tirò su le gambe. Io mi stesi su di lei. Piegai la testa sulla sua spalla. Pensavo a Cristo, ancora inchiodato alla croce, che era stato deposto per terra. Poi, afferrandola per i capelli con una mano, entrai dentro di lei. E là giacemmo. Senza parlare, senza fare un movimento, fino a quando alzai la testa e la baciai. E alla fine l'antichissimo rituale s'impossessò di noi, e io morsi, strinsi e lacerai, ripetutamente, mentre i nostri corpi si alzavano e si abbassavano, si alzavano e sprofondavano nel deserto. Più tardi ci sarebbe stato tempo per la pena e il piacere che la passione presta all'amore. Tempo per gli angoli e le linee del corpo che spingono il primitivo, sbalordito, a fare un balzo indietro. al colmo della felicità, davanti alla pelle incivilita, e a tirare a sé la donna. Ci sarebbe stato tempo per parole oscene e pericolose. Ci sarebbe stato tempo per eccitare con risate crudeli, e per legare membra con nastri colorati in una morbosa ed elettrizzante sottomissione. Ci sarebbe stato il tempo di spegnere gli occhi con i fiori, e di chiudere le orecchie con la morbidezza della seta. E anche il tempo, in quel mondo cupo e silenzioso, per il grido dell'uomo solo, che aveva temuto un esilio eterno. Anche se non ci fossimo incontrati mai più, la mia vita sarebbe passata in contemplazione dello scheletro che affiorava sotto la mia pelle. Era come se le ossa di un uomo spuntassero dal muso del lupo mannaro. Fulgido di umanità, incedeva attraverso la sua vita notturna verso il primo giorno. Ci lavammo separatamente. Uscii da solo, senza parlare. Feci a piedi tutta la strada fino a casa. Guardai Ingrid a bocca aperta quando venne a salutarmi e borbottai qualcosa sul bisogno che avevo di riposarmi per qualche ora. Mi svestii e mi distesi sul letto, e mi addormentai di colpo. Dormii fino al mattino, dodici ore, una specie di morte, probabilmente. "Manzo o agnello?" domandò Ingrid. "Cosa?" "Manzo o agnello? Per il pranzo di domenica, Martyn e Anna." "Oh. Come vuoi tu." "Agnello, allora. Bene, questa è fatta." A pranzo Anna era vestita di bianco. La faceva sembrare più grossa. L'innocenza suggerita da quel semplice abito bianco disturbava l'altra mia visione di lei. Infrangeva il mio ricordo del suo tenebroso potere. Era l'altra Anna; quella che aveva con Ingrid prudenti relazioni, guadagnandosi almeno il suo forzato rispetto; che guardava Martyn apertamente; che con calma mi parlava di cibi, di fiori e del tempo; parlava così bene che nessuno avrebbe potuto indovinare la verità. Se Ingrid si era aspettata un annuncio, non venne. Se ne andarono alle quattro, declinando l'invito al tè. "Martyn sembrava teso, direi." Ingrid aveva cominciato la rituale autopsia. "Davvero? Non me ne sono accorto." "No? Be', sì. La guarda con un'aria un po' implorante. Nessun dubbio su chi è l'amante e chi l'amata, in questo caso. Lei mi è sembrata un po' meno strana. Più aperta, più cordiale. Potrebbe essere dipeso dal vestito bianco, immagino. Il bianco è sempre disarmante." Brava Ingrid, pensai, e tu riesci sempre a sorprendermi. "Forse andrà a finire in una bolla di sapone. Oh Dio, lo spero tanto. Non potrei sopportare, veramente, l'idea di una nuora come Anna. E tu?" Non risposi subito. L'idea mi sembrava troppo assurda. Un concetto estraneo che esulava dal novero delle possibilità. Ma la domanda esigeva una risposta. "No, credo di no" dissi. E la conversazione finì lì. Bagnai il viso di Anna, che era umido e infiammato, e strizzando la spugna le lasciai scorrere l'acqua tra i capelli. Per ore avevamo combattuto una battaglia sulle barricate dei nostri corpi. Finita la battaglia, mi distesi accanto a lei. "Anna, ti prego... dimmi qualcosa... chi sei?" Ci fu un lungo silenzio. "Sono ciò che tu desideri" disse. "No. Non è quello che volevo dire." "No? Ma è questo che sono, per te. Per gli altri sono una cosa diversa." "Per gli altri? Una cosa diversa?" "Martyn. Mia madre, mio padre." Una lunga pausa. "La mia famiglia. Amici del mio passato, del mio presente. E' così per tutti. Anche per te." "Martyn sa qualcosa di più? Ha conosciuto i tuoi genitori, la tua famiglia?" "No. Una volta mi ha interrogato. Gli ho detto di amarmi come se mi conoscesse. E se non poteva, be', in tal caso..." "Chi sei?" "Me lo devi proprio chiedere? Oh, be', è semplice. Mia madre si chiama Elizabeth Hunter. E' la seconda moglie di Wilbur Hunter, lo scrittore. Vive felicemente con Wilbur sulla costa occidentale dell'America. Non la vedo da due anni. Questo non mi addolora né, credo, angoscia lei. Ogni tanto ci scriviamo. Telefono per Natale, Pasqua e i compleanni. Mio padre era un diplomatico. Da bambina ho viaggiato moltissimo. Sono andata a scuola nel Sussex, ho passato le vacanze dappertutto. Non sono rimasta sconvolta quando i miei genitori hanno divorziato. Mio padre, anche se evidentemente addolorato al tempo della relazione di mia madre con Wilbur, si è ripreso abbastanza per sposare una vedova di trentacinque anni con due figli. Poi hanno avuto una bambina, Amelia. Ogni tanto vado a trovarli nel Devon." "Eri figlia unica?" "No." Attesi. "Avevo un fratello, Aston. Si è suicidato tagliandosi i polsi e la gola nel bagno del nostro appartamento, a Roma. Non c'è alcuna possibilità di equivoco. Non fu un grido d'aiuto. Allora nessuno comprese il perché. Te lo dirò io. Aveva per me un amore non corrisposto e ne soffriva. Ho cercato di consolarlo con il mio corpo..." Fece una pausa, poi continuò interrompendosi spesso. "La sua pena... La nostra confusione... Si è tolto la vita. Comprensibilmente. Ecco la mia storia, in parole semplici. Ti prego di non chiedermela più. Te l'ho detta per darti un avvertimento. Ho subito un danno. Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere." Restammo a lungo in silenzio. "Perché hai detto che "comprensibilmente" Aston si è tolto la vita?" "Perché a me riesce comprensibile. Lo so. Non è un tesoro da custodire gelosamente. Solo una storia che non desidero raccontare, di un ragazzo che non hai mai conosciuto." "E questo ti rende pericolosa?" "Tutte le persone danneggiate sono pericolose. E' la sopravvivenza che le rende tali." "Perché?" "Perché non hanno pietà. Sanno che gli altri possono sopravvivere, come loro." "Ma tu mi hai avvertito." "sì." "Non è stato un atto di pietà?" "No. Tu sei già andato così in là che ormai tutti gli avvertimenti sono inutili. Mi sentirò meglio per avertelo detto. Anche se il momento è sbagliato." "E Martyn?" "Martyn non ha bisogno di avvertimenti." "Perché no?" "Perché Martyn non fa domande. Gli basto io. Mi lascia i miei segreti." "E se scoprisse la verità?" "Quale verità?" "Tu e io." "Quella verità? Ce ne sono delle altre." "Mi sembra che tu attribuisca a Martyn doti di autosufficienza e di maturità che io non avevo notato." "No. Tu non le avevi notate." "E se ti sbagliassi sul suo conto?" "Sarebbe una tragedia." Del suo corpo non ho molto da dire. Era semplice ed essenziale. Non potevo sopportarne la mancanza. Il piacere era incidentale. Mi gettavo su di lei, come sulla terra. Costringevo tutte le sue parti ad alimentare il mio bisogno e la vedevo farsi tanto più grande e tanto più potente quanto più si affrettava a soddisfarlo. Affamato, la tenevo a distanza afferrandola per i capelli o per il petto, roso dalla collera che provavo all'idea di poter avere ciò che volevo. E intorno a ogni mio incontro con lei girava questo nastro di certezza: che la mia vita era già finita. Era finita nell'istante in cui l'avevo vista per la prima volta. Era tempo rubato alla vita. Come un acido esso si spandeva in tutti gli anni che mi stavano alle spalle, bruciando e distruggendo. Avevo aperto la porta di una cripta segreta. I suoi tesori erano immensi. Il suo prezzo sarebbe stato terribile. Sapevo che tutte le difese che con tanta cura avevo predisposto, moglie, figli, casa, professione, erano baluardi costruiti sulla sabbia. Senza conoscere altre strade avevo fatto il mio viaggio attraverso gli anni, cercando e tenendomi attaccato ai simboli della normalità. Avevo sempre saputo dell'esistenza di questa stanza segreta? Era il mio, sostanzialmente, un peccato di falsità? O più probabilmente di codardia? Ma il bugiardo conosce la verità. Il codardo conosce la sua paura e scappa via. E se non avessi incontrato Anna? Ah, che provvidenza per coloro che subivano una tale rovina per causa mia! Ma Anna l'avevo incontrata. E non era stato possibile fare diversamente, e avevo aperto la porta, ed ero entrato nella mia cripta segreta. Volevo il mio paradiso in terra, ora che avevo udito la canzone che ti fa vibrare da capo a piedi; e conosciuto il furore che fa piroettare i ballerini davanti agli occhi scandalizzati degli spettatori; ero caduto sempre più in basso e mi ero librato sempre più in alto, all'interno di una singola realtà: l'abbacinante esplosione da cui era uscito il mio vero io. Quali menzogne sono impossibili? Quale fiducia è tanto preziosa? Quale responsabilità è così grande da negare la possibilità di esistere a quest'unica chance in tutta l'eternità? Disgraziatamente per me, e per tutti quelli che mi conoscevano, la risposta era... nessuna. Essere fatti vivere da un'altra persona, come io lo fui da Anna, porta a strani, impensati bisogni. Respirare divenne più difficile, senza di lei. Letteralmente, mi sentivo nascere. E poiché la nascita è sempre violenta, non cercai mai, né mai trovai, dolcezza. I limiti esterni della nostra vita si raggiungono con la violenza. Il dolore si tramuta in estasi. Uno sguardo diventa una minaccia. Una sfida annidata dietro l'occhio o la bocca, che solo Anna e io potevamo capire, ci spingeva sempre più avanti, inebriati dal potere che avevamo di creare il nostro splendido universo. Non si lamentava mai. Sopportava con pazienza la lenta tortura della mia adorazione. A volte, le membra piegate ad angoli impossibili, come sul cavalletto della mia immaginazione, stoicamente reggeva il mio peso. Creatore infinito, materno, dall'occhio tenebroso, della cosa che la feriva. "Può darsi che venerdì io debba andare a Bruxelles." Ingrid e io stavamo bevendo qualcosa in salotto prima di cena. "Oh, no! Perché? Speravo che potessimo andare ad Hartley a trovare papà. Avevo proprio voglia di passare un tranquillo weekend in campagna. Pensavo che avresti potuto venir su, almeno la domenica." Ingrid sembrava dispiaciuta. "Mi spiace, mi spiace davvero. Ci sarei venuto volentieri. Ma c'è una riunione importantissima alla quale non posso mancare. E, già che ci sono, George Broughton ha organizzato due pranzi. E una cena. Con le nostre controparti olandesi. Vacci tu, ad Hartley. Vi divertite sempre tanto insieme, tu ed Edward. Non conosco un padre e una figlia che siano più vicini." Ingrid rise. Era vero. Lei ed Edward stavano straordinariamente bene insieme. Spesso io mi sentivo un estraneo. E Hartley era bellissima. Edward l'aveva comprata all'inizio della sua carriera e vi aveva portato a vivere la sua giovane sposa. "Chiederò a Sally se può venire." "Buona idea." "Forse potrà portare questo suo nuovo amico. Non so se è una cosa seria. Lui è un tipo piuttosto simpatico. Il figlio di Nick Robinson." "Come lo ha conosciuto?" "E' vicedirettore di produzione della società televisiva." Sally aveva appena lasciato l'editoria per lavorare in televisione. "Be', Nick, è una persona perbene. Invita Sally e il suo amico. Vi divertirete." "Martyn va a Parigi, naturalmente, con Anna. Dio, questa faccenda sta diventando sempre più seria." Le voltavo le spalle. "Dove stanno?" "Oh, in un posto che conosce Anna. Caro come il fuoco e di gran moda, direi. L'Hotel. Q, credo si chiami così." Sorseggiai il mio whisky. Tutto così facile. Anna aveva rifiutato di dirmelo. Con Martyn non parlavo da una settimana. "Anna ha soldi, sai." Il tono di Ingrid era di disapprovazione. "Sì?" "E tanti. Ereditati dal nonno, mi risulta. Ecco perché si può permettere quell'appartamento nella scuderia ristrutturata, e una macchina che costa un occhio della testa." "Be', Martyn non è propriamente in bolletta. E ha il fondo in amministrazione fiduciaria costituito da mio padre e da Edward." "Sì, lo so. Ma Anna è una di quelle ragazze che sarebbero state più ricche senza soldi." "Che diavolo stai dicendo?" "I soldi fanno qualcosa alle donne.." "Davvero? Cosa? E non dimenticare che tu avevi un mucchio di soldi quando ci siamo sposati." "Ah, ma io non sono Anna. Checché ne dica la gente al giorno d'oggi, il matrimonio richiede che la donna mostri almeno una certa dipendenza. A volte sono i soldi lo strumento di questa dipendenza. In una donna intelligente, l'indipendenza economica è mascherata, magari nascosta del tutto." Ebbe il garbo di mettersi a ridere. "Seriamente, quella ragazza ha un carattere focoso. "Non so perché continuiamo a parlare di lei come di una ragazza. E' una donna che ha passato la trentina." "Sì. E si vede. E' molto raffinata, molto sicura di sé. Ma ha ancora qualcosa della ragazza, qualcosa d'infantile." "Ne sembri affascinata" dissi. Ingrid mi guardò. "Tu no? Non ti affascina? Entra tutt'a un tratto nella vita di Martyn. Sopra i trenta, nubile, per quel che ne sappiamo, ricca, raffinata, e ha un'avventura con Martyn. Dopo una relazione di appena tre o quattro mesi, Martyn pensa al matrimonio. Martyn! Martyn il dongiovanni!" "L'hai già detto. Io non vedo alcuna traccia. Sono certo che questa relazione sarà come tutte le altre. Una domenica lo vedremo arrivare all'ora di pranzo con un'altra bionda. Ora che ci penso, prima di Anna erano tutte bionde." La mia voce era distorta dalla rabbia e dalla paura. Per quanti sforzi facessi di stare tranquillamente seduto, dovetti spostarmi verso la finestra. "Sei cieco. Per essere un uomo intelligente." "Grazie." "Ogni tanto persino brillante." "Oh, signora, grazie ancora." Ingrid rise. "Tu non vedi mai quello che hai davanti agli occhi. I giorni spensierati di Martyn con le bionde sono finiti. Con tutta la sua esperienza, è rimasto incantato da questa ragazza. Ha tutte le intenzioni di sposarla. Ne sono sicurissima. Quanto alle intenzioni di lei, be', sono un mistero, come tutte le altre cose che la riguardano." "Io credo che ti sbagli. Se Martyn è innamorato, è sempre molto giovane per sposarsi." "Per amor del cielo, ha venticinque anni." "Be', è giovanissimo." "Noi eravamo più giovani quando ci siamo sposati." "Benissimo, allora. Dunque Martyn non è troppo giovane. solo che Anna non fa per lui. Ne sono certo." "Be', ne siamo certi tutt'e due. Non è una bella situazione, eh? A noi non è simpatica, e Martyn è innamorato di lei." Mi rivolse un'occhiata interrogativa. "Naturalmente, immagino che non ti sia simpatica. Ma, ora che ci penso, non hai mai veramente espresso un'opinione... un'opinione seria... eh?" La guardai negli occhi. "Credo di non aver pensato molto a lei. Mi rincresce." "Sarà meglio che cominci a pensarci, caro mio. O prima di rendertene conto, e forse prima che tu abbia deciso cosa pensare di lei, sarà tua nuora." Mi stava scrutando attentamente. Mi sforzai di sorridere. Si vedeva forse qualcosa della lotta che infuriava dentro di me? Ma il mio viso non poteva aver tradito gran che. "Pensaci" disse lei. "Credo che dovresti parlare con Martyn quanto prima... da uomo a uomo. Pensa a cosa dirgli." "Sì, lo farò." "Magari tra l'una e l'altra delle tue riunioni di Bruxelles. E' più facile trovare delle soluzioni, lontano dagli ambienti familiari." La conversazione era finita. "Partirò per Hartley giovedì pomeriggio, se per te va bene. Sally può prendere il treno venerdì sera." "Sì. Io parto venerdì mattina presto." "Andiamo a cena, allora. Basta con questi discorsi sui figli e sui loro amori. Pensiamo piuttosto alle vacanze estive." La disperazione che mi costrinse a lasciare Bruxelles, e a prendere il treno della notte per Parigi, era generata dal terrore di non vederla più. Dovevo vederla. Per poter continuare a vivere, sapevo che dovevo vederla. Eppure, non avevo organizzato tutto io? Io avevo indotto Ingrid, con l'inganno, a darmi il nome del loro albergo. Ero veramente consumato da forze al di là del mio controllo? O puntavo, con la mia complicità, verso una necessaria, agognata distruzione? Le ruote del treno, macinando ritmicamente i chilometri da Bruxelles verso l'oblio, avevano l'implacabilità di una grande macchina del fato. Parigi sembrava avere l'aspetto mattutino di un villaggio che si prepara per una festa. Ogni persona sapeva recitare la sua parte, e dove cominciare. Mi sedetti in un caffè, e ordinai caffè e croissant. Poi, come tracciando una mappa nella mia testa, girai per le strade adiacenti a l'Hotel. Guardavo e aspettavo, prendevo attenta nota dell'ora. Giurai a me stesso che non avrei telefonato fino alle nove. Ricordavo che Anna aveva detto che avrebbe organizzato tutto lei. Perciò decisi di rischiare. "Madame Barton, s'il-vous-plait." "Un momento. Ne quittez pas." La centralinista mi passò la linea. "Pronto? Va' in fondo alla strada. Svolta in rue Jacques Callot, è una traversa di rue de Seine." "Qui, bien. Merci." Deposi il ricevitore. Era stato così semplice. Tremavo di gioia e di desiderio. In testa mi echeggiava una poesiola udita durante l'infanzia: "Tutto pieno di stupore e di uno sfrenato desiderio." Mentre uscivo dalla cabina telefonica, la mia faccia da maniaco spaventò un passante. Cercai di ricomporre i miei lineamenti. Mi portai una mano alla mascella, e ricordai che non mi ero fatto la barba, che non mi ero lavato. Qual era stata la causa di quello stupore e di quello sfrenato desiderio? Mi sentivo veramente sfrenato. E' il desiderio, oh, il desiderio! Mi appoggiai a un muro, e cercai in fondo a una traversa un nascondiglio al cui riparo stringerla tra le braccia. Dovevo stringerla tra le braccia. Alle nove e mezzo vidi la sua testa balenare per un attimo, tra le facce ridenti di un gruppo familiare. Scese dal marciapiede, li sorpassò e mi corse incontro. La trascinai in fondo al vicolo e la spinsi verso il muro. Mi gettai su di lei. Avevo le braccia aperte e le gambe spalancate, perché tutto il mio corpo potesse strofinarsi il più possibile contro il suo. La mia bocca e la mia faccia morsero e graffiarono le sue labbra, la sua pelle, le sue palpebre. Con la lingua le lambii l'attaccatura dei capelli. Tolsi una mano dal muro e, tenendola per i capelli, ansimai: "Devi essere mia." Si tirò su la gonna, sotto era nuda, e in un secondo ero dentro di lei. "Lo so, lo so" mormorò. In pochi minuti era tutto finito. Mi staccai da lei. Qualcuno girò l'angolo e passò dall'altro lato del vicoletto. Ero stato fortunato, ancora una volta. Stretti l'uno addosso all'altro, Anna e io avevamo l'aspetto di due innamorati avvinti in un abbraccio. A Parigi, quel giorno, ero perdonato. Si aggiustò il vestito, lisciando la sottana spiegazzata. Poi dalla borsetta prese le mutande e con un brusco sorriso, da bambina, se le infilò.. Alzai gli occhi a lei e gridai: "Oh, Anna, Anna. Ho dovuto farlo, ho dovuto." "Lo so" tornò a sussurrare lei. "Lo so." Piangevo. Mi accorsi che non riuscivo a ricordare di avere mai pianto, da adulto. Semplicemente, non era mai accaduto. "Ora devo tornare indietro" mi disse. "Sì. Sì, certo. Come hai fatto a uscire? Cos'hai detto?" "Te l'ho già spiegato un'altra volta. Martyn non mi fa domande. Ho detto che volevo fare una passeggiatina. Da sola." Sorrise. "Che potere hai!" "Immagino di sì. Ma voi siete venuti da me, tutt'e due. Non vi ho cercati io." "No? Non ci hai nemmeno fermati." "Potrei fermarti, in questo?" "No." "Devo andare." "Credevo che tu avessi detto che non ti ha mai fatto domande." "Sì. E' una specie di patto. Forse addirittura un concordato. Cerco di non abusarne. Addio." "Anna. Cosa fate, oggi? Dove andate?" "Ora devo andare. Veramente. Martyn e io torneremo lunedì sera. Non devi restare a Parigi. So quello che farai... Ci seguirai. Va' a casa. Ti prego." "Lo farò. Ma voglio saperlo." "Perché?" "Potrò pensare a te, e al posto dove sei." "E alla persona con la quale sono." "Non ancora. A questo non ho ancora pensato. E' solo che oltre a te non vedo niente." "Sai, io credo che tu non abbia mai visto niente. Mai." Girò sui tacchi e si allontanò. Non si voltò indietro. Mi afflosciai sul marciapiede come un vagabondo ubriaco. Rimasi là accucciato con la testa tra le mani. In fondo al vicolo vedevo l'altra Parigi, che aveva ormai perduto la sua dolcezza mattutina, passarmi silenziosamente sotto il naso. Il nostro equilibrio mentale dipende essenzialmente dalla nostra ristrettezza di vedute: la capacità di selezionare gli elementi decisivi per la sopravvivenza, mentre si ignorano le grandi verità. Così vive l'individuo la sua vita quotidiana, senza prestare l'attenzione dovuta al fatto che non ha alcuna garanzia del domani. Egli cela a se stesso la consapevolezza che la sua vita è un'esperienza unica, che si concluderà nella tomba; che a ogni secondo cominciano e finiscono vite uniche come la sua. Questa cecità consente la trasmissione di un certo modello di vita, e tra quelli che lo mettono in dubbio pochi sopravvivono. A ragione. Tutte le leggi della vita e della società apparirebbero irrilevanti, se ogni uomo si concentrasse quotidianamente sulla realtà della propria morte. E così, nel grande momento della mia vita, la mia vista non andava oltre Anna. Quella che era stata, come diceva lei, una vita di singolare cecità rendeva ora necessaria la spietata cancellazione dalla mia vista di Martyn, Ingrid e Sally. Essi non sembravano che ombre. La realtà di Martyn era stata schiacciata con la massima brutalità. Mio figlio era la figura di una tela sulla quale ne era stata dipinta un'altra. Tengo sempre pronta una borsa da viaggio, con una camicia, un paio di mutande, un paio di calzini, una cravatta di ricambio e un necessaire. La mia carriera, che ha richiesto spesso improvvise partenze notturne, ha reso la mia "borsa d'emergenza" una necessità. Dimentico di essa durante il viaggio, e nei minuti passati con Anna, ora la tirai su dalla cunetta. In una toilette rattoppai il mio aspetto esteriore. Mentre mi guardavo nello specchio, quella faccia non rasata e quegli occhi infossati mi parvero adatti a me. Ecco uno che riconosco, pensai. Provai una grande gioia. Mentre mi radevo, sentivo la mia maschera meno stretta sulla pelle. Ero certo che un giorno, presto, sarebbe venuta via del tutto. Ma non ancora. Chiamai l'Hotel. "Madame Barton, s'il-vous-plait, je pense que c'est chambre..." "Ah, chambre dix. Madame Barton n'est pas là. Elle est partie." "Pour la journée?" "Non, elle a quitté l'hotel." Era come pensavo. Doveva essere partita immediatamente. Anna, donna d'azione! Sorrisi. Mi recai in una libreria e attesi esattamente per un'ora. Chiamai l'albergo. "Qui; L'Hotel réception..." "Lei parla inglese?" "Sì, certo." "Vorrei prenotare una stanza. Ne avete?" "Per quanto tempo?" "Vedo che devo fermarmi imprevedibilmente a Parigi per una notte." "Sì, abbiamo una stanza." "Bene. Ho dei ricordi sentimentali del vostro albergo. La camera dieci è libera, per caso?" "Sì, è libera." "Magnifico, verrò dopo pranzo." Diedi il mio nome, spiegai come avrei pagato e riattaccai. Volontà, volontà. Ricordavo il vecchio motto di mio padre. Ero trionfante. Pensai al viaggio notturno, e a com'ero riuscito a vedere Anna. Mi ero buttato in un'impresa pericolosa. Avevo vinto. Avevo la volontà. Avevo la fortuna. Ricordai il principale requisito che Napoleone cercava nei suoi generali: la fortuna. Ero un uomo fortunato. A un tratto mi venne una fame da lupo. L'appetito e la sensualità mi avevano sommerso. Prenotai da Laurent e, dopo essere stato accompagnato a un tavolo tranquillo affacciato sul giardino, ordinai il pranzo. "Mille-fcuille de saumon, seguito da... poulet fa con maison." Ordinai una bottiglia di Mersault. Mangiai con una specie di rapimento. Il vino aveva l'aspetto e il sapore dell'oro liquido. La pasta sembrava esplodermi dolcemente nella bocca, mentre il salmone erompeva dalle sue screpolature. Era come se stessi mangiando per la prima volta. Ero contento di essere solo. Avevo bisogno di tempo, e di una certa distanza da Anna, per potermi smarrire nei ricordi del mattino. Fettine di pollo color miele, in una salsa ambrata; un'insalata di verdura sbiancata che brillava; formaggio color panna; il rosso cupo del porto; colori così intensi, e sfumature così sottili. Scivolavo dolcemente nel mondo dei sensi. Un corpo capace di distendersi completamente per imprigionare, liberare, dominare o divorare la sua preda, poteva ora anche mangiare le vivande come le vivande andrebbero mangiate. Ero ebbro di piacere quando m'introdussi nella stanza che Anna e Martyn così rapidamente avevano liberato quel mattino. Ero stato accompagnato su per la strana curva delle scale, dove piani circolari e stanze segrete salivano fino a una splendida cupola. Non avevo alcuna conoscenza sentimentale de L'Hotel. Ne avevo sentito parlare, naturalmente. Ma la stanza mi sorprese. Aveva una pesante aria di sensualità. La scelta di Anna era caduta su una stanza per amanti. Tende di broccato blu e oro, una chaise-longue di velluto rosso, bruni specchi dorati, un bagno circolare, piccolo, senza finestre. Anna aveva scelto quell'albergo per Martyn e per sé. Chiusi la porta e tirai il catenaccio. Rabbia e passione mi sopraffecero. Mi coricai sul loro letto. Tornato alla sua pristina perfezione, non ammetteva altri occupanti che me. La chaise-longue mi ossessionava. Forse lì, pensavo. Il letto non le piace. No. No, è a te che il letto non piace. Tu non la conosci. Ha risposto alle tue necessità, ecco tutto. Stupido, quando hai veramente parlato con lei? Mi spogliai, buttando gli indumenti sulle seggiole e sul pavimento. Furente, mi distesi sul velluto color vino della chaise-longue e lentamente, metodicamente e con scarso piacere ne lordai con schizzi di seme la sanguigna bellezza. Poi, mentre quello strano giorno di trionfo e di sconfitta si approssimava alla fine, Parigi la magnifica emerse dalle ombre della sera. Potente e implacabile, la sua maestà sembrava sottolineare la mia debolezza e la mia fragilità. A quattro zampe come un grosso animale, lasciai il mio mondo di velluto e caddi sul letto. In una fantastica cascata di colori, il verde dell'abito di Anna, il lampo nero di quando si era infilata le mutande, l'oro liquido del vino e i pallori soleggiati del mille-fcuille di salmone, il violento rosso sangue della chaise-longue e la tenebrosa oscurità delle tende di broccato blu, il giorno se ne andava. E con esso se ne andava l'uomo che ero stato. Sembrava che sparisse, mentre io sprofondavo sempre più in questo caleidoscopio di colori, nella notte parigina, come un'ombra nera, o un fantasma. Chiusi gli occhi. Un terrore infantile m'invase. In sogno, quando Si cade, Si muore. Se si tocca terra. Al centralino de L'Hotel occorse un po' di tempo per darmi la comunicazione con Hartley. "Ciao, Edward. Come va?" "A meraviglia, mio caro ragazzo. E' un tale piacere avere qui Ingrid e Sally. Non ci vengono abbastanza spesso, ad Hartley. Neanche tu, se mi è permesso dirlo." "Lo so, lo so. Mi manca." "Be', sei pieno di lavoro. C'è anche Jonathan, il nuovo ragazzo di Sally. Sai, il figlio di Nick Robinson. L'unico laburista che mi sia simpatico." Immaginavo che questo dipendesse dal fatto che Nick Robinson era uno dei pochi laburisti che avevano studiato in una scuola privata e che avevano un impeccabile pedigree. "Conoscevo sua madre, sai. Non è mai riuscita a capire come il figlio di Jesse Robinson potesse diventare un deputato laburista. Ah, be'. Vuoi parlare con Ingrid, immagino." "Sì. Se è lì." "E' in giardino. Aspetta un momento." "Pronto, caro? Com'è Bruxelles?" "Insopportabile. Veramente ho dovuto fare un salto a Parigi per un meeting mattutino. Ritorno in aereo stasera." "Sei riuscito a vedere Martyn e Anna?" "No." Feci una pausa. "Pensavo di telefonare per invitarli a mangiare un boccone in fretta e furia, ma non c'è tempo. Non li disturberò." "Forse è meglio" disse Ingrid. "I weekend a Parigi sono per gli idilli, immagino. I padri non sono i commensali più graditi dai giovani innamorati." "No. Credo di no." "Che peccato. Sarei proprio contenta di vedere Martyn innamorato. Se solo non lo fosse di Anna. Comunque, basta così." "Ti diverti? Il tempo è bello?" "Bellissimo. Ogni volta che torno ad Hartley, mi sembra di amarla sempre più. Oggi ho pensato moltissimo alla mamma. Passeggiare con Sally mi ha ricordato tanto le mie passeggiate con lei. Non siamo mai state proprio così vicine, immagino. Ma ieri ho sentito la sua mancanza, fortemente. Vorrei che tu fossi qui." "Anch'io." "Davvero?" "Sì. Sì, certo." "Jonathan è un giovanotto piuttosto simpatico." "Così dice Edward." "Buon viaggio, caro. Vuoi che torni prima?" "No. Assolutamente no. Goditi i tuoi pochi giorni ad Hartley. Ti telefono domani." "Arrivederci caro." "Arrivederci." E' così spaventosamente facile, pensai. Dirle che ero a Parigi era rischioso, mi sarebbe stato facile nasconderlo. La nuova e strana forma che stavo assumendo s'induriva ogni giorno di più. L'affabile bugiardo, l'amante violento, il traditore, non avrebbero permesso un viaggio di ritorno. La mia strada era chiara. Sapevo di essermi lanciato a capofitto verso la distruzione. Ma ero certo di poter controllare e programmare ogni passo lungo quella strada, con un misto di gioia contenuta e fredda disonestà che cominciavo a trovare inebriante. Non provavo per nessuno un briciolo di pietà. Quella era l'essenza del mio potere. Feci il bagno e mi cambiai. Spazzai via dalla chaise-longue uno sfaldato mosaico di seme. Pagato il conto, partii per il Charles de Gaulle. Mi chiedevo cos'avrei detto se mi fossi imbattuto in Anna e Martyn. Anna avrebbe dissimulato, su questo potevo contare. Sarei riuscito a fare una recita perfetta? Mi avrebbe disprezzato se avessi fatto fiasco? Il mio pegno d'amore è una ghirlanda di bugie, pensai. Mi ha incoronato di bugie dal giorno che ci siamo conosciuti. Ma al centro della mia corona, come un diamante, poggia l'unica verità che conti per me: Anna. La fortuna non mi abbandonò, sgombrandomi la strada. Con una tranquillità quasi imbarazzante, lasciai Parigi in un trionfo di degradazione morale. "C'è suo figlio al telefono, signore. "Me lo passi." "Ciao, papà. Scusa se ti disturbo in ufficio." "Martyn, come stai?" "Benone. Siamo appena tornati da Parigi." "Vi siete divertiti?" "Be', sì. Anna è stata poco bene, così siamo tornati in anticipo." "Poco bene?" "Sì. Crampi allo stomaco, un forte mal di testa. E' andata a farsi visitare dal suo vecchio dottore. Poi siamo partiti." "Ora come sta?" "Oh, è guarita perfettamente. Grazie per l'interessamento. Apprezzo molto che tu sia sempre così... sollecito... nei suoi riguardi. Anna, alla mamma, non è proprio simpatica." "Oh, sono certo che non è vero. Anna è una ragazza interessante." "Credo sia proprio questo che non piace alla mamma. Vorrebbe che io mi mettessi con un'altra versione di Sally, immagino. Sai, ventidue anni, molto inglese, eccetera eccetera..." "Non molto lusinghiero per tua sorella, tutto questo." "Oh, papà, io voglio molto bene a Sally. Sai benissimo cosa intendo dire." "Sì. Sì, lo so." "So che sei molto occupato, papà, ma volevo dirti solo che mi hanno offerto un posto al Sunday..." Fece il nome di uno dei giornali più importanti del paese. "Sono vicecaposervizio agli interni." "Bravissimo. Congratulazioni." "Vorrei invitarvi a cena, te e la mamma. Per festeggiare. Va bene giovedì?" Esitai. "Sì, forse. Può darsi che debba andarmene prestino per tornare alla Camera." "Benissimo. Allora giovedì da Luigi. Ho invitato anche Sally. E il suo nuovo spasimante. Come vedi, i sentimenti fraterni sono ancora forti!" Rise, e riattaccò. "Alistair Stratton in linea, signore." "Fallo aspettare un momento, Jane, ti spiace?" Avevo bisogno di riprendermi. Non solo dalla brusca sorpresa di quella telefonata di Martyn, ma dalla conversazione stessa, che mi aveva turbato. Non ero l'unico che stesse cambiando. Martyn stava venendo fuori, sempre più gagliardamente, come uomo. "Passami Alistair" sospirai. Poi il giorno mi chiuse tra le sue robuste sbarre di telefonate e incontri, lettere da leggere, lettere da scrivere, decisioni da prendere, promesse da non mantenere. E sotto la sua struttura serpeggiava una crescente sensazione di allarme, e un'improvvisa, tormentosa paura di Martyn. Eravamo una comitiva che faceva colpo, quando entrammo nel ristorante. Edward si era unito a noi. Nel suo completo blu, aveva l'aria di un uomo il quale sa che la sua presenza da tono a qualsiasi ricevimento. Ingrid era in sottili sfumature di grigio, misurata, elegante; certa di essere, come sempre, perfettamente vestita. Sally essudava una sorta di modestia "ben piantata" che avrebbe sempre vanificato gli sforzi di sua madre di cambiare la sua grazia da rosa inglese in qualcosa di più soignée. L'inclinazione di una figlia per Laura Ashley manda a monte efficacemente i tentativi che può fare qualsiasi madre per incoraggiarne la raffinatezza. Ero stato un assiduo spettatore delle battaglie dell'adolescenza. Vedevo con piacere che Sally, diventata donna, sartorialmente parlando non aveva cambiato bandiera. Il suo amico era un ragazzo biondo dall'aria sportiva. Indossava un vestito che rispettava la convenzione di intonare la giacca ai pantaloni, pur riuscendo in qualche modo a farsi beffe della tradizione, con un disegno zigzagante in bianco e nero. Studiai ognuno dei presenti lentamente, accuratamente, per non concentrare l'attenzione su Anna e Martyn. Era possibile stare vicino ad Anna e non guardarla. Era finanche possibile ricevere da lei un fuggevole bacio sulla guancia e non vederla. Martyn assegnò i posti a tavola. Io ero alla destra di Anna. "Stasera niente coppie" scherzò Martyn. Alla mia destra c'era Sally, accanto a Martyn e Ingrid, poi venivano il ragazzo di Sally ed Edward. Lanciai un'occhiata di traverso ad Anna, che sembrava indossare qualcosa di blu scuro. Questo qualcosa dava ai suoi capelli una tinta ancora più scura. Mi venne in mente il verso di una vecchia canzone: "Una ragazza bruna vestita di blu." Ordinammo. Gli invitati esaminarono attentamente e silenziosamente i prezzi prima di prendere le loro decisioni. "Be', questa è fatta" disse Edward. "Che piacere essere stato invitato, Martyn. E congratulazioni per il tuo nuovo lavoro." Alzammo tutti il bicchiere a Martyn. "Anna, anche tu sei una giornalista." "Sì." "Tu e Martyn vi siete conosciuti sul lavoro?" "Sì, ci siamo conosciuti così." "Che bello" disse Edward, guardandola freddamente. Aveva negli occhi un'espressione che diceva: "Non fare troppo la furba con me, ragazzina" "Ti piace il tuo lavoro?" "Sì, mi piace." "Perché?" "E' adatto a me" disse Anna. "In che modo?" "Questa mi sembra l'inquisizione, nonno. "Mi spiace molto. Sono stato villano?" "No" disse Martyn. "Anna è un'eccellente giornalista." "Mi sembra chiaro che lo sei anche tu"disse Edward. "Pensi di farlo per tutta la vita, questo tuo lavoro?" "Sì. Mi piace il mondo dei giornali. E eccitante, la fretta, le scadenze, vedere i miei pezzi sul giornale." "Sperare che la gente li legga" buttò lì Sally. "Sta' tranquilla, la gente li legge. So benissimo dove sto andando." Mentre parlava, guardò Anna. Dovetti voltarmi in fretta. Per un attimo avevo visto la passione nei suoi occhi. "Papà, Martyn è sempre stato sicuro che il giornalismo era quello che voleva." "Sì. Ma poi la gente può cambiare direzione molto tardi, no?" Edward mi guardò. "La politica, vuoi dire?" disse Martyn. "Dio, no, non voglio diventare un uomo politico. Non ci sarei tagliato, nonno. Questo lo lascio a voi due." "Oh, non è vero che non ci saresti tagliato. Parli bene, hai una bella presenza, sì, e sei molto intelligente." "E anche molto, molto indifferente" disse Martyn alzando la voce. "Io voglio quella libertà che non potrei trovare nella vita politica, sempre seguendo la linea del partito." "Be', un momento" disse Edward. "E la linea del padrone del tuo giornale, allora?" "Chi fa con precisione la cronaca di un avvenimento di solito non corre alcun rischio. E solo negli editoriali che bisogna tener conto seriamente delle inclinazioni della proprietà" disse Martyn. "Tu che ne pensi, Anna?" domandò all'improvviso il ragazzo di Sally. "Oh, io sono una semplice osservatrice" disse Anna. "Osservo attentamente. Scrivo sinceramente, esattamente quello che ho osservato. Mi da molta soddisfazione." "Il forte di Anna è lo spirito di osservazione" disse Martyn. "Non le sfugge niente... niente. Non conosco nessuno più acuto di lei." Sentivo che Anna aveva chinato la testa. Guardai Ingrid e la vidi socchiudere gli occhi. Un'espressione rassegnata le passò sul viso. I nostri occhi si incontrarono. Si è presa nostro figlio, parevano dire. E molto, pensavo io, molto di più. "E ora, giovanotto, tocca a te subire il terzo grado. Perché il figlio di Nick Robinson lavora per la tivù? Cosa sta combinando questa generazione di schiavi dei media? Abbiamo parlato dei giornali e dei vantaggi della posizione dell'osservatore. Sentiamo come si applica questo discorso alla televisione. Qual è la sua attrattiva, per te?" "Il potere, in definitiva, spero." "Il potere! Bene, bene. Ecco una cosa che posso capire. E come t'impadronirai del potere, giovanotto?" "L'informazione... può cambiare il mondo. Io non credo che i politici... cioè..." Stava inoltrandosi in un campo minato di oltraggi potenziali. "Be', non credo che possano cambiare veramente il modo di pensare della gente sulla vita, e il mondo. Mentre la televisione può farlo, e lo fa. In realtà quello che voglio fare, col tempo... voglio fare, in realtà, dei telefilm... su problemi sociali che..." "Una volta questo era il regno dell'artista. Cambiare le vite e le anime per mezzo dell'arte." Tutti mi guardarono, eccetto Anna che, lo sentivo, non aveva mosso la testa. "Santo cielo" disse Sally. "Che gente seria siamo. Arte, politica, i media. Non doveva essere una festicciola in onore di Martyn? " Edward rise. "Mi sono così divertito a mettervi tutti alla prova, voi giovani. Vorrei che veniste tutti ad Hartley per il weekend del venti... per il mio compleanno. Solo i parenti, e i futuri parenti." Edward sorrise ad Anna e a Jonathan. "Che bellezza. Tu puoi venire, caro, no?" chiese Ingrid. "Forse. Devo controllare." "Anna? " "Credo di sì. Sì, grazie." Sally e Jonathan accettarono. Il pensiero di un weekend con Anna e Martyn ad Hartley schiudeva un mondo di terrore e di possibilità, e di gioia. Il pasto si consumò lentamente, tra una divagazione e l'altra, fino all'irritante dolcezza del commiato. Ero sopravvissuto per quasi tre ore senza lasciarmi sfuggire una parola, senza tradirmi, e senza tradire Anna. Forse il diavolo stava alle mie spalle, per consegnarmi felicemente al male. "Stasera mi sono sentita orgogliosa. Soddisfatta. Ho sentito il potere che da essere madre. "Guardate le mie opere, o potenti" sospirò Ingrid. Eravamo in macchina. La serata si era conclusa felicemente, con Martyn che insisteva virilmente per pagare il conto, e suo padre e suo nonno che ammirevolmente acconsentivano. "Ti sei sentito il paterfamilias?" "Uhm." "E' molto soddisfacente, no?" "Molto." "Siamo gente tranquilla, tu e io. Stiamo bene insieme. Stasera mi sento molto felice. Tu mi rendi molto felice. Te lo dico abbastanza spesso? Forse no. Ma spero che tu lo sappia. Non vedo molti matrimoni felici, in giro. Ti sono molto grata per il mio... e per te." Sorrisi. "E' passato un bel po' di tempo. Tu e io" dissi. "Sì. Due figli adorabili, un matrimonio riuscito. E' quasi troppo bello per essere vero. Ma è vero. E così concretamente vero. Mi piace quello che sento stasera, la sostanza della cosa. Mi sembra quasi di poter allungare una mano per toccarla. La felicità. Il tipo giusto di felicità." "C'è un tipo giusto?" "Sì Sì, credo di sì. Io l'ho sempre pensata così. Ho sempre saputo quello che volevo. Un marito, dei figli, tranquillità e progresso. Sono molto orgogliosa della tua carriera, sai. Molto, molto orgogliosa. Io non sono ambiziosa per me stessa... Ho sempre avuto soldi... Ma faccio la mia parte, no? Il collegio elettorale e le opere pie, i ricevimenti." Rise. "Interpreto bene il mio ruolo, il mio ruolo pubblico?" "Benissimo. L'hai sempre fatto." "Dunque, eccoci qua. E' un momento felice, molto felice, della nostra vita. Sento che il futuro, il tuo futuro, il nostro, potrebbe essere molto interessante. Quando ero ad Hartley, mio padre mi ha parlato dell'alta considerazione che tu godi. Dice che ti vedono come "'astro nascente" Anche se a dirlo sono io, tu sei un uomo piuttosto perfetto, no? Formidabile alla televisione. Perbene, intelligentissimo, con una moglie meravigliosa" - ridacchiò, "e due figli assolutamente incantevoli. Perfetto. Tutto perfetto. Salvo Anna. E' una ragazza molto, molto strana, non ti pare?" Ingrid era improvvisamente sul chi vive. "Perché?" "A me piacciono le persone tranquille, non sopporto gli estroversi e i cordialoni... Come quella Rebecca che Martyn ha avuto per un po'. Ma la tranquillità di Anna è più misteriosa. Quasi sinistra. Insomma, cosa sappiamo di lei? Ha conosciuto Martyn sul lavoro. Ha trentatré anni ed è ricchissima. E' ridicolo. Per esempio, cos'ha fatto in tutti questi anni, prima di incontrare Martyn?" "Non so." Mi concentrai sullo specchietto. Non potevo fare passi falsi. Niente errori tipo "come lo sai?" in questo potenziale interrogatorio. "Vedi! Non sappiamo niente. Questa ragazza può benissimo diventare nostra nuora, e non sappiamo niente di lei." Respirai profondamente. Piano adesso, mi dissi, piano. "Martyn ha avuto tante ragazze, Ingrid. Anna è solo un'altra. Forse un po' più seria. Ma sposarsi? No, non ci credo." "Be', ti sbagli completamente, temo. Martyn ha parlato del suo fondo l'altro giorno, mentre organizzava la cena. Erediterà il suo capitale quando si sposa. Ricordati, la promozione a un giornale a diffusione nazionale gli da alta fiducia in se stesso. Non vedi che quel ragazzo sta facendo seriamente i suoi piani per il futuro? Dio sa se si può impedire a un uomo innamorato di ottenere quello che vuole. Se Anna lo vuole, diventerà sua moglie. Lui la vuole, naturalmente, con la certezza più assoluta. Io credo che come genitori noi dovremmo almeno cercare di arrivare a conoscerla meglio. E dovremmo scoprire qualcosa di più del suo passato. Hai già interrogato Martyn? Io ci ho provato. E' difficilissimo. Dice che sa tutto quello che deve sapere. Comunque, gli ho strappato qualche informazione sui genitori. Lui dice che sono rispettabilissimi. Il padre è nel servizio diplomatico. I genitori hanno divorziato e la madre si è risposata. Con uno scrittore americano, se ho capito bene. Anche il padre ha un'altra famiglia." "Non mi sembra così terribile, eh?" "No, ma c'è dell'altro, ne sono certa. Per esempio, Anna è già stata sposata?" "Straordinario. Non ci avevo mai pensato." "Be', non mi sembra che sia stata proprio al centro dei tuoi pensieri, dico bene?" "Già. Proprio così." Respiravo lentamente, risolutamente. "Gli uomini! Be', pensaci. Ha trentatré anni, è possibilissimo. Anzi, mi sorprenderebbe che non lo fosse stata. Magari ha dei figli. Oggigiorno, non si sa mai. Pensa a Beatrice, i suoi figli stavano in Italia con il padre." "Sono sicuro che di figli non ce ne sono." In me aveva parlato il dottore. "Cosa? Non sai nulla di lei, ma sei sicuro che non ha figli." "Oh, non so, è solo un'impressione. Molto forte, però. Su, andiamo a casa a berci un bicchierino prima di andare a letto." Quando entrammo in camera nostra mi buttò le braccia al collo. "Scusa. Non dovevo permettere che Anna rovinasse una bella serata. Ti ho parlato dell'aria imponente che avevi questa sera?" Mi baciò. "Ti amo" sussurrò. "Caro, andiamo a letto. Vedo che hai quell'espressione negli occhi... e mi piace." Andammo a letto, dunque. Un marito i cui occhi potevano ingannare la donna che era sua moglie da quasi trent'anni, e una moglie che dopo quasi trent'anni poteva farsi ingannare così. I nostri collaudati movimenti erano piacevoli come il ricordo di una vecchia canzone di tanto tempo fa. Ma non avevo ancora finito di abbandonarmi a quegli ultimi fremiti, che possono essere tutto e nulla, quando compresi che quella era soltanto un'ultima sconfitta per Ingrid in una battaglia che non sapeva di avere ingaggiato. Ed era un trionfo per Anna, che non aveva neppure combattuto. Non posso e non voglio farlo più. Questo fu il mio ultimo pensiero mentre Ingrid scivolava con aria sognante nel sonno tra le mie braccia. "Pronto, papà?" Era Martyn, al telefono. "Martyn? Grazie per la serata di ieri e ancora tante congratulazioni." "Oh, grazie. Ti ho trovato molto silenzioso. Lavori troppo? So che sei a capo di una di quelle commissioni: immagino siate prossimi al momento di formulare le vostre proposte." "Come lo sai?" Rise. "Non posso rivelare le mie fonti." "Mi sa tanto che dovrò stare più attento, d'ora in poi. Anche un sorriso potrebbe tradirmi." "Assolutamente. Prima giornalista, poi figlio!" Rise. "Oh, sì, spiattellerei tutti i tuoi segreti se avessi l'occasione di fare uno scoop." "Ah! Grazie dell'avvertimento!" Stavo entrando nello spirito della cosa. "Papà, volevo chiederti qualcosa del mio fondo." "Sì?" "Posso parlarne con Charles Longdon? E con David, che è l'altro amministratore, no?" Alludeva a un cugino di Ingrid. "Sì. Perché vuoi parlare con loro?s Ci fu una lunga pausa. "Io... Oh, non so. Progetti, sai. Sarebbe ora che io esaminassi la mia situazione finanziaria. Per filo e per segno. Non ti pare?" "Be', sai che il fondo non Può essere toccato finché non ti sposi?" Parlavo lentamente, guardando fuori dalla finestra senza vedere niente. "Sì, lo so. Mi piacerebbe parlarne ugualmente con loro. Volevo solo che ne foste informati, tu ed Edward. Non volevo far niente a vostra insaputa." "No. No, naturalmente. Non c'è problema. Va' pure a parlare con loro." La telefonata era finita. Non una parola di Anna. Martyn avrebbe preso le sue decisioni. Non ci sarebbero state consultazioni con nessuno. Proprio come doveva essere. E i suoi piani erano chiarissimi. Voleva chiedere ad Anna di sposarlo. Lei avrebbe rifiutato, naturalmente. E allora? Come avrebbe reagito Martyn? E io e Anna? Che sarebbe stato di noi? Non parlavamo mai del futuro. Non parlavamo mai nemmeno del presente. "Anna?" "Entra." "Hai fatto fatica a liberarti?" "No. Vuoi bere qualcosa?" "Gradirei un bicchiere di vino rosso." Eravamo nella casa di Anna. Si sedette davanti a me. Depose il bicchiere, lentamente e con ponderazione, su un tavolino laterale. "Tu vuoi avviare una conversazione che io non credo di voler sostenere. Forse, dunque, sarebbe meglio finire il nostro vino e separarci, per oggi." "No." Qualcosa, nella mia voce, forse le disse che dovevo essere ascoltato, perché rispose: "Va bene." "Devo sapere che tu sarai nella mia vita per sempre. Devo saperlo." "Perché?" "Perché devo sapere che ti posso guardare, ascoltare, che posso respirare il tuo respiro, essere dentro di te. Devo saperlo. Non posso tornare a essere... quasi morto. Non mi è possibile. Ed ero proprio così. Non può esistere un "dopo Anna" nella mia vita." "Questo, perché non riesci a immaginarlo. Può esistere, invece. E' solo che sarà una vita dopo..." "Non la voglio. Non succederà." Mi alzai dalla poltrona e mi piantai davanti a lei. Forse c'era qualcosa di minaccioso nei miei movimenti. Tra noi due c'era un silenzio teso. Mi allontanai. "Credo che Martyn ti chiederà di sposarlo." "Ah sì?" "Sarà molto triste per lui. Ma porterà a uno sbocco di questa terribile situazione." "Cos'è che sarà triste per Martyn?" Una marmorea freddezza, la freddezza di un profondo choc, mi invase. Le sue parole sembravano gelare a mezz'aria. Come in un sogno la sentii dire: "Martyn mi piace. Stiamo molto bene insieme. Con lui posso farmi una vita reale. Può darsi benissimo che gli dica di sì. Martyn è troppo intelligente per essere arrivato a questo punto, senza almeno la possibilità che io accetti." Ci sono delle parole che non avremmo mai immaginato di pronunciare. "Stai considerando di sposare Martyn?" "Considerando. Sì." "Sposeresti mio figlio?" Ci sono delle risposte che non avremmo mai immaginato di sentire. "Perché no? Ti ho avvertito, all'inizio. Ti ho detto di fare attenzione." "Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere." "Sì. Ti ricordi. Tu da me potrai avere per sempre ciò che vuoi. Ciò che vuoi tu lo voglio anch'io. Potremo continuare per tutta la vita, insieme. La vita si può organizzare così. Se io sposassi Martyn, pensa come sarebbe facile. Potremmo vederci sempre. Potrei avvinghiarmi a te come l'edera intorno a un albero. Ho riconosciuto il mio dominatore. Nel momento in cui ti ho visto, mi sono arresa." La sua voce quasi cantava queste parole mentre lei si muoveva nella stanza. "Però voglio anche Martyn. Voglio condividere la sua vita. Martyn è la mia normalità. Saremo una giovane coppia come tante altre. E' giusto, è normale." Pronunciò la parola "normale" come se fosse una benedizione. "E' quello che voglio. Voglio sposare Martyn. Sii felice per me. Non avrai meno di ciò che hai avuto finora. Avrai di più. Sì. Di più, sempre di più. Ascoltami. Io non voglio sposarti. Oh, lo so che non ci hai nemmeno pensato. Ma lo farai, lo farai. Comincerai a tormentarti per Ingrid. Comincerai a fare progetti. Ascoltami. Martyn non ti perdonerebbe mai. Lo avresti perduto per sempre. Sally subirebbe un danno irreparabile. E io sarei al centro di un terribile scandalo. E tu, tu saresti distrutto. E per cosa? Perché noi si possa avere una vita domestica insieme. Sarebbe una sciocchezza. Non siamo fatti per questo. No, siamo fatti per ciò che abbiamo già. La costante soddisfazione del nostro bisogno reciproco." "Forse tu sei pazza, Anna. Forse è per questo che parli così. Oh, Dio..." "Sono perfettamente equilibrata." "Quando hai progettato tutto questo?" "Non l'ho "progettato" come la metti tu, a mente fredda. Da cosa è nata cosa. Ho conosciuto Martyn, la nostra relazione ha avuto inizio. E' diventata più importante di quanto avremmo potuto immaginare, tutt'e due. E poi tu hai girato un angolo segreto della tua vita, e io ero là. Non ho avuto alcun controllo su questi due fatti. Non sapevo che avrei incontrato Martyn. Non sapevo che avrei incontrato te. Ma so sempre riconoscere le forze che plasmeranno la mia vita. Lascio che facciano il loro lavoro. A volte investono la mia vita come un uragano. A volte mi spostano semplicemente la terra sotto i piedi, cosicché mi ritrovo in un luogo diverso, e qualcosa o qualcuno è stato inghiottito. Ritrovo l'equilibrio, durante il terremoto. Mi sdraio, e lascio che l'uragano passi sopra di me. Non combatto mai. Dopo mi guardo intorno e dico: "Ah, dunque mi resta almeno questo. Ed è scampata anche quella persona cara." Sulla tavola di pietra del mio cuore incido silenziosamente il nome che se n'è andato per sempre. E' una cosa straziante. Poi riprendo la mia strada. Ora tu e Martyn, e a maggior ragione Ingrid e Sally, siete nell'occhio di un ciclone che non ho creato io. Quali sono i miei poteri, e quali le mie responsabilità?" "Ma hai parlato di resa, di essere dominata." "E' la mia resa che fa di te un dominatore. Devi accettarlo. Se ti opponi, o cerchi di cambiare i pezzi sulla scacchiera, o di tracciare uno scenario più accettabile per te, sarai perduto. Ora inginocchiati davanti a me, e io sarò la tua schiava." E così feci, nella stanza in cui per la prima volta mi ero steso su di lei. E' importante sapere in che modo cercai di prenderla? Da quale ingresso? E se con la lingua, con la mano o con il pene? Era coricata o stava in piedi? Dava le spalle a me o alla parete? Aveva le mani libere o legate? Mi vedeva in faccia o no? Le storie di estasi sono storie infinite d'insuccessi. Perché arriva sempre la separazione. E ricomincia il viaggio verso l'essenziale, fuggevole unità. Poi me ne andai, dominatore senza potere. Anna giaceva sul tavolo in una posa stranamente goffa, muta, luccicante e immobile. Non ho il senso del luogo. Solo una volta, ne L'Hotel di Parigi, le forme e i colori che rendono una stanza piacevole da vedere penetrarono nella mia coscienza. Quel pomeriggio, tuttavia, mentre chiudevo la porta, quella stanza parve imprimersi nella mia mente. Un cupo vortice di verzura rigogliosa spiccava contro le pareti beige. Il velluto toccava dolcemente le vetrate che davano su un minuscolo giardino cintato. Il pavimento di legno rifletteva beige più scuri, e dei marroni chiari che splendevano negli spazi non occupati dai mobili. Poltrone e divani erano coperti di un antico broccato che faceva pensare a tutte le sfumature dell'autunno, e a nessun colore. Le sedie con la spalliera diritta, che erano cadute per terra mentre lottavamo per raggiungere la fredda ombra scolpita del tavolo sul quale ora Anna giaceva, erano munite d'imbottiture che avevano la stessa sfumatura del velluto verde delle tende. Dalle pareti grandi facce angolose, mezze in ombra, di un uomo, di una donna e di un bambino, si guardavano e guardavano noi, con una malevolenza che il pittore non poteva averci voluto mettere. Due librerie, contenenti solo libri rilegati e qualche prima edizione, stavano ai lati di un caminetto di pietra, spoglio di ornamenti. Posso guardare questa stanza per sempre, pensai. L'avrò sempre con me. Finché campo. Se quella sera mi aveste visto alla televisione, in rappresentanza del ministro, mentre rispondevo alle domande con la mia collaudata mistura di intelligenza e amabilità, non avreste immaginato che il mio occhio interno era fisso su quel quadro. Come se racchiudesse il segreto della mia vita. Mio signore, a volte ci serve una mappa del passato. Ci aiuta a capire il presente e a progettare il futuro. Mentre uscivi mi hai guardato, me e ogni cosa, come se la vedessi per l'ultima volta. Dopo aver fatto il bagno e rimesso in ordine la stanza, ho deciso di stare in casa e di scriverti, per dirti perché sono certa che quella che sto facendo è la cosa giusta. Voglio dissipare questo mistero. Parlo poco di me perché la cosa non interessa praticamente a nessuno. Il mio passato è importante forse solo per te, e per Martyn. Scusa. Ma in questa lettera devo parlare anche di lui. Sono ormai certa che ci sposeremo. Tu hai bisogno di questa spiegazione più di lui. Martyn, come ho detto già una volta, è assolutamente impavido nei sentimenti che ha per me. Accetta, naturalmente senza sapere perché, che una parte di me gli rimanga per sempre inaccessibile. Digerisce scomparse, separazioni e silenzi come tu non sei capace di fare. Lo conosci così poco. Credimi, è un uomo straordinario. Entrambi potreste capire la mia piccola storia. Solo tu hai bisogno di sentirla. Da bambina ho viaggiato moltissimo. La necessità di cominciare ogni volta in scuole nuove, con nuovi amici e lingue sconosciute, stringe fortemente i legami familiari. La famiglia diventa l'unica costante. La nostra era una famiglia unita. Mia madre amava sicuramente mio padre, in quei primi tempi. Aston e io eravamo, reciprocamente, la cosa più cara che avessimo. Ci dicevamo tutto. Condividevamo i nostri problemi. Diventammo un duo invincibile contro ogni avversità infantile. Non puoi immaginare cosa significhi, una simile intimità. Quando comincia così presto vedi il mondo, sempre e in ogni modo, attraverso la lente di due anime gemelle. Quando eravamo molto piccoli, avevamo la stessa camera da letto. Ci addormentavamo l'uno nel respiro dell'altra, e con le ultime parole dell'altro nelle orecchie. La mattina ci guardavamo e guardavamo il nuovo giorno, insieme. Che fossimo in Egitto, in Argentina, o finalmente in Europa, la cosa non aveva la minima importanza. Il mondo eravamo Aston e io. Aston era molto più bravo di me, accademicamente parlando. Oh, me la cavavo benissimo anch'io. Ma lui era un fenomeno. Mio padre, sia detto a suo onore, si era opposto all'idea di mandarlo in collegio quando Aston aveva sette anni. Quando fummo sulle soglie dell'adolescenza, tuttavia, decise che era indispensabile che andassimo entrambi in collegio in Inghilterra. Il mio era un buonissimo collegio nel Sussex. In principio soffrii molto senza Aston. Ma poi mi adattai. Aston, invece, sembrò cambiare. Era sempre tranquillo, ma si seppellì vieppiù negli studi. Pareva che non avesse amici. Le lettere che mi scriveva erano piene di malinconia. Dissi a mio padre che ero in pensiero per lui. Il collegio, quando mio padre parlò con loro, l'attribuì a un difficile periodo di adattamento. Le nostre prime vacanze (a metà del quadrimestre non eravamo riusciti a vederci) cominciarono stranamente. Io corsi incontro ad Aston, con le braccia e le gambe pronte a stringerlo e abbracciarlo. Lui mi mise una mano sulla faccia e mi spinse via, dicendo: "Ho sentito troppo la tua mancanza. Non voglio guardarti. Non voglio toccarti. E' troppo. Ti guarderò domani." E andò in camera sua. Mio padre era via. La mamma attribuì alla sovreccitazione la mancata partecipazione di mio fratello alla cena di quella sera. La sua porta era chiusa, quando andai di sopra. Lo sentii gridare a mia madre, quando lei bussò: "Va bene. Va tutto bene, davvero. Voglio solo andare a letto presto e passare una notte tranquilla. Domattina sarò in perfetta forma." E così parve, la mattina dopo. Parlammo, giocammo e ridemmo come una volta. Ma più tardi, in camera mia, mi parlò della paura che aveva, la terribile paura che io fossi l'unica persona che avrebbe amato mai. Rimasi sbalordita, e anche un po' spaventata, dall'intensità con cui lo disse. Quando finirono le vacanze e noi tornammo a scuola, dapprincipio non rispose alle lettere che gli spedivo. Poi ricevetti una nota che diceva: "E' più facile se tu non scrivi." Non lo dissi a nessuno. Che potevo dire? Mio fratello sente... troppo la mia mancanza? Anch'io sentivo la sua mancanza, ma non troppo. Era questione di gradi, capisci? Chi può giudicare queste cose? Certo non una ragazzina. Continuai a scrivergli. Non rispondeva. Per Pasqua mi rese le mie lettere ancora chiuse, e disse: "Per favore, è più facile, è davvero più facile se non scrivi. Mi manchi sempre più. Non vedo come posso condurre una vita separata dalla tua. Ma devo. Non ho speranze di un'altra vita, no? Vedo che stai cambiando. I miei compagni, a scuola, parlano sempre di ragazze, ragazze come te. Un giorno uno di essi ti porterà via da me. Via del tutto." "Ma, Aston, un giorno tu e io avremo amici e amiche. Diventeremo grandi e ci sposeremo. Avremo figli nostri." Lui mi guardò, sbalordito. "Tu non hai idea di cosa sto parlando, vero? Io voglio stare sempre con te. Quando sono lontano da te, riesco a sopravvivere solo chiudendo la mia mente a tutti i pensieri che ti riguardano. Lavoro come un pazzo. Hai sentito cos'ha detto papà della mia pagella, sono il primo della classe praticamente in tutto. Sarò per sempre il primo della classe." Non gli scrissi per tutto l'anno seguente. L'ultima settimana mi spedì una cartolina che diceva solo: "Grazie." Quell'estate ci sembrò di essere tornati quelli di una volta. Invano mia madre cercava di organizzare festicciole. Figli di amici venivano a passare un po' di tempo da noi. Ma Aston e io eravamo felici solo in compagnia l'uno dell'altro. Sembravamo più bambini che due giovani adolescenti. Lui mi sbalordiva con la sua conoscenza degli eroi mitologici e delle divinità greche. Io lo impressionavo con la mia bravura al piano. In settembre, quando cominciai il mio nuovo anno, ripresi a scrivergli. Rispose immediatamente. "Credo che al mondo non esista nulla di più terribile dell'Amore. Da te ho bisogno del silenzio. Altrimenti non ci resisto, qui. Aston." Non scrissi più. Quando parlavo con mia madre per telefono, e le chiedevo di Aston, diceva: "Andrà tutto bene. E' solo l'adolescenza, tesoro. Ricordo bene la mia." Quel Natale, il mio corpo aveva quasi preso una forma che da allora, in verità, non è molto cambiata. Mi sentivo molto diversa dall'estate prima, più pesante, più forte. Mi stavo sviluppando molto più in fretta di Aston. Lui era più alto. Ma il suo viso, quantunque più magro e più angoloso, appariva ancora sostanzialmente inalterato. Le prime parole che mi rivolse furono: "Oh, Anna, Anna, come sei cambiata!" Aveva le lacrime agli occhi. Mosse verso di me lentamente, goffamente, come se fosse stato ferito in un modo terribile. Cominciavo a sentirmi a disagio, con lui. Incerta su quale fosse il comportamento più appropriato. La prima settimana sembrò passare in occhiate furtive, e risate nervose, e languenti conversazioni che non portavano mai da nessuna parte. Mia madre voleva organizzare una festa di Natale per "i giovani." Aston si oppose violentemente all'idea. "E' un cliché, quello delle feste da ballo. Non si possono forzare le amicizie. Lasciaci in pace." Ma mia madre era decisa. "Voi due state diventando degli autentici reclusi. Non è sano. Avete bisogno di amici. Questo è un bel momento nella vostra vita. Anna non fa che respingere inviti a ricevimenti, è ridicolo. Quanto a te, Aston, sei così poco socievole con tutti che non ne riceverai mai uno. E' ora di finirla. Io qui organizzo una festa per Natale. E tutto." Gli inviti furono diramati a tutti i ragazzi dell'età giusta che conosceva nella nostra cerchia. Non un numero enorme, ma abbastanza. Aston fu impossibile. Non volle vestirsi correttamente. Con gli invitati fu appena cortese. Io avevo, ricordo, un meraviglioso abito rosa. Scoprii che il ballo e tutti i complimenti, le occhiate e i goffi approcci dei ragazzi più intraprendenti, mi piacevano. Aston non faceva che assentarsi. Non faceva che sparire e poi ricomparire con un'aria tormentata sulla faccia. Quando la festa finì, venne in camera mia. Piangeva. "So che tutto sta per cambiare per sempre. Tu stai cambiando, Anna. Abbiamo avuto la nostra ultima estate. Non credo di avere più molta simpatia per questo mondo." Entrò nel mio letto, e giacemmo castamente fianco a fianco. Ma i ragazzi appena entrati nell'adolescenza non possono giacere casti a lungo, vicino a un corpo femminile. Improvvisamente scoprii che era eretto. Un piccolo movimento, una carezza fuggitiva, e mi trovai il suo seme sullo stomaco. Pianse. Le sue lacrime mi scorrevano sui seni. Mi sembrava di aver ricevuto una strana benedizione. Seme e lacrime. Per me sarebbero sempre stati i simboli della notte. L'indomani ci tenemmo a distanza. Sembrava meglio così. Quella sera avevo un appuntamento. Uno dei ragazzi della festa di Natale mi aveva invitato a una cena seguita da un ballo. La vanità e la nuova sicurezza fecero si che mi vestissi con cura, con un abito bianco molto scollato. Aston mi aprì la porta, con un beffardo inchino pieno di disprezzo e di rabbia. Quando tornai, rimasi nella macchina del ragazzo davanti alla nostra casa. Inaspettatamente, mi baciò. Poi cercò goffamente di toccarmi i seni. La cosa non mi allarmò eccessivamente. Anzi, la mia sensazione principale fu di piacere. Mentre mi voltavo per uscire, vidi Aston. Ci guardava da una finestra del piano di sopra. Non ho mai dimenticato l'espressione sul suo viso, eppure anche dopo tutti questi anni non trovo le parole per descriverla. Forse ci sono delle espressioni umane che solo un artista può afferrare. Mi seguì in camera da letto. "La prossima volta andrà più in là" disse. "Quella dopo, ancora più in là. Finché una sera ti scoperà. Ecco la perfetta descrizione di quello che ti succederà." "Oh, Aston, tesoro, ti prego, no, ti prego." Stavo piangendo, adesso. Mi sembravano due parole così terribili, "ti scoperà". E Aston mi era apparso quasi brutto, mentre le diceva. Uscì dalla stanza. Io chiusi la porta a chiave. Non so perché l'ho fatto. Ma era del tutto intenzionale. Poco dopo lo sentii girare la maniglia della porta. Mi sussurrò qualcosa, e le parole erano soffocate, come se lui stesse singhiozzando. "Anna, Anna, mi dispiace tanto, mi dispiace tanto, Anna. Ti sei chiusa dentro per tenermi lontano. Non resisto. Oh, peggiorerà. Lo so. Sì. Deve peggiorare. Sono condannato. Per me non c'è speranza." Non gli aprii la porta. Rimasi là distesa cercando di calmarmi, di capire cosa stava succedendo. Poi mi addormentai. Mi svegliò un suono orribile. Non era proprio un grido. Era come se una disperata invocazione d'aiuto fosse stata soffocata, e poi lasciata continuare. Era un suono animalesco. Mi buttai giù dal letto e corsi all'uscio. La mia stanza era di fronte a quella di Aston, e come in un sogno vidi mio padre che cercava di allontanare mia madre dal bagno di Aston. Tanto stava lottando con il suo fardello, mentre cercava di spostarsi verso la porta della camera da letto, che sembrava attraversare la camera di Aston con la lentezza di una lumaca. "Non andare là dentro, Anna! Non fare un altro passo." Ma io gli passai davanti e corsi alla porta del bagno. Aston giaceva nella vasca traboccante. I suoi polsi erano tagliati, e il collo squarciato, e l'acqua insanguinata mi schizzava sui piedi. Sembrava un pallido bambolotto, che non era morto, ma che non era mai stato vivo. Tirai uno sgabello di fianco alla vasca e mi sedetti là cullandogli la testa tra le braccia. Mio padre ritornò con il dottore. Mio padre ci guardò, e mormorò: "Impossibile, è impossibile che quello che vedo sia vero. Impossibile. Possibile." Il dottore tolse le mie mani dalla testa di Aston. "Su, Anna, vieni via. Vieni con me, vieni giù, da brava. Resta con tua madre. Sta arrivando mia moglie, e il capitano Darcy e l'assistente di tuo padre presto saranno qui. Ti darò un sedativo che ti calmerà." Ben presto mi sembrò che un esercito di persone, silenziose, tranquille, competenti, stessero facendo le valigie muovendosi qua e là per la casa, nella notte. Era come se avessero imparato una tecnica per combattere il terrore. Quella tecnica consisteva di abnegazione, disciplina e silenzio. Mia madre e io fummo fatte uscire in fretta e portate nella casa del mio giovane amico. Lo incontrammo sulla soglia, sconvolto e sbigottito. La ragazza, dal cui abito bianco aveva cercato, solo qualche ora prima, di far sgusciare il tesoro inesplorato dei suoi seni, ora tremava davanti a lui, con un vecchio impermeabile buttato sulla camicia da notte insanguinata. Poi l'armata silenziosa riprese il controllo della situazione e ci guidò dentro la casa. "Porta Anna nella camera di Henrietta, Peter" Qualcuno gli porse una valigia. Mia madre stava per avere un'altra crisi isterica. L'attenzione di tutti si concentrò su di lei. Peter mi accompagnò di sopra e nella stanza di Henrietta. La stanza era rosa, con merletti rosa dappertutto, e delle bambole vestite di rosa erano disposte ordinatamente sul letto. In un angolo c'era un'enorme giraffa rosa. Davanti a me c'era uno specchio alto e stretto. Andai alla porta e girai la chiave nella toppa. Nello specchio, vidi la mia figura riattraversare in fretta quella stanza tenendo il ragazzo per mano. Mi voltai a guardarlo e sentii la mia voce sussurrare: "Scopami." Aveva appena diciotto anni, allora; ma con tutta la premura e la tenerezza e l'affetto di cui era capace fece quello che gli avevo chiesto. "Ora voglio fare un bagno. Ti spiace aspettarmi fuori dalla porta?" Non disse di no. Feci il bagno, lasciandomi ripetutamente scivolare sott'acqua, sapendo con assoluta, trionfale certezza che sarei vissuta. Nella stanza rosa di Henrietta indossai i jeans e la camicia che qualcuno mi aveva messo nella valigia, e poi scesi le scale per entrare nella mia nuova vita. Che cosa c'è da dire dei funerali? Si somigliano tutti e ciascuno di essi è unico. Sono l'ultima separazione, l'ultimo abbandono. Chi di noi, infatti, seguirebbe volentieri il corpo nella bara, sottoterra o nel fuoco o nell'acqua? Generalmente si ama la vita più dell'amore più sacro. In questa consapevolezza sta il principio della nostra crudeltà e della nostra sopravvivenza. Aston aveva amato me più della vita stessa. Quella era stata la sua rovina. Con gli anni, si susseguirono altri avvenimenti. Alcuni te li ho già raccontati. I miei genitori divorziarono. Io andai in America, all'università. Poi ritornai in Inghilterra e diventai giornalista. Se tutto questo ti è stato presentato con una voce piana e distaccata, è perché è impossibile raggiungere la verità di un'esistenza. Quella che ti mando è la cronaca di una giornalista. Qualche foto la completerà. Per narrarti la mia storia c'è voluta soltanto una notte. Per viverla ci sono voluti trentatré anni. La sua quotidianità si cancella a poco a poco. Per la vita di Aston due o tre pagine appena! Nella tua, quante pagine per me? La storia esteriore della vita di un uomo può essere trasformata da qualunque giornalista in un articolo o due. E anche dopo anni di ricerche da parte di un biografo, la si può estendere solo fino alla misura di un libro che si può leggere in due o tre settimane. E così questa è la mia storia, in poche pagine. La mappa del viaggio che mi ha portato da te. Non per spiegarmi. Questo è superfluo. Ma come uno mostrerebbe al proprio amore una fotografia, dicendo: "Ecco com'ero allora," e sorridendo della creatura di un'infanzia che non esiste più. La mia "fotografia" strappa lacrime, anziché sorrisi, ma in ogni caso la creatura non esiste più. Spunta l'alba. Sono stanca. Che aria fredda e cupa hanno i caratteri sulla pagina bianca... Anna Me la consegnarono in ufficio la mattina dopo. Recava la scritta "riservata personale" e per questo strappò alla mia segretaria qualche occhiata furtiva. Anna aveva ragione. Era una mappa. C'era tutto. Un dono di cui avrei fatto tesoro. L'avevo riconosciuta dal primo momento in cui l'avevo vista. Andai a fare una breve passeggiata, toccando la lettera che avevo in tasca mentre ne ripassavo mentalmente il contenuto. Meschini pensieri mi assalirono. Forse quel terribile racconto doveva servire come scusa per potermi proporre la sua combinazione: le nozze con Martyn e una vita vissuta intensamente anche con me. Anna parlava di progetti. Perché non esaminavo qualche possibile progetto anche per me? Divorziare da Ingrid. Sposare Anna. Martyn è giovane. L'avrebbe superato. E Ingrid? La nostra unione non era mai stata contraddistinta da una passione travolgente e mia moglie aveva grandi riserve di energia. Aveva una vastissima rete di amicizie. Sarebbe sopravvissuta. Anche Sally poteva reggere bene. Dopo tutto, quella che contemplavo era una crudeltà delle più banali. L'unico aspetto insolito era rappresentato dalla relazione di Martyn con Anna. La mia carriera sarebbe stata danneggiata, questo è vero. Ma potevo superare la tempesta. Non ero così ambizioso da porre al primo posto la carriera, se dovevo scegliere tra la vita pubblica e la vita con Anna. Ma Anna aveva detto che non mi voleva sposare. Oh, ma lo farà, lo farà, mi dissi. Visioni di noi due come marito e moglie colazioni insieme, cene con amici, vacanze, m'invasero la mente. Provai un senso di nausea. Quelle visioni avevano un che di orribilmente assurdo. Non avrebbe funzionato. Eravamo fatti per altre cose. Per bisogni che dovevano essere soddisfatti li per lì, desideri che ti assalivano all'improvviso, di giorno o di notte, uno strano linguaggio del corpo. Una voce interiore gridava: "Anna non ti sposerà." E aveva ragione. Il suo piano era puro e perfetto. Nessuno avrebbe sofferto. Le cose, in superficie, potevano rimanere esattamente com'erano. Ingrid e io, Sally, Martyn e Anna, ciascuno avviato per la sua strada. Dopo tutto, io avevo vissuto una vita che per me non era mai stata reale. Potevo senza dubbio continuare a recitare, ora che finalmente avevo una vita vera. Quella che mi aveva dato Anna. "Dovrebbe averne una sessantina. Sessantacinque, più o meno. Il patrigno di Anna è in città per tre giorni, a un convegno di scrittori. Martyn propone d'invitarlo a cena. Devo dire che l'idea mi piace molto. Avremmo fissato per giovedì. Ho chiesto in ufficio. Mi hanno detto che andava bene." "Se lo dicono loro..." "Hai mai letto qualcuno dei suoi libri?" "Sì, due anzi." "Oh, che marito intellettuale." "Sì, davvero." Vivevo in un paese dove leggere due libri di uno dei più noti scrittori americani contemporanei mi collocava tra gli intellettuali. "Be', com'è, come scrittore? E' molto famoso." "Parla dell'alienazione. Dell'alienazione della borghesia cittadina. L'America del ventesimo secolo, divorziata dalle sue radici, con tutti i suoi vecchi valori che scompaiono sotto il duplice fardello dell'avidità e della paura." "Dio! Non mi sembra troppo emozionante." "Per essere giusti, questo è un riassunto piuttosto clinico. E' uno scrittore brillante. I suoi personaggi femminili sono particolarmente riusciti. Lo amano persino le femministe." "Da quanto tempo è sposato alla madre di Anna?" chiese Ingrid. "Non ne ho idea." "Quanti anni ha?" "Non lo so." "Be', questo incontro potrebbe aiutarmi a mettere Anna in una luce diversa. Non vedo l'ora che venga giovedì. Cercherò di leggere uno dei suoi libri. Credi che siano nel tuo studio?" "E' possibile. Vado a vedere." Li trovai senza fatica. "Eccoli qua" dissi a Ingrid, che mi aveva seguito. "I figli della gloria e Tempi scambiati." "Qual è il più facile? No... il più breve?" "Prova I figli della gloria." "Non lo finirò per giovedì, ma almeno potrò farmene un'idea, non credi?" "Certo, Ingrid. Ha uno stile molto personale che permea tutti i suoi libri. Ora devo andare. Stai benissimo con quel vestito beige. Très chic." "Mercì; chérì. Au revoir." Ora che il mio vero io viveva e camminava e respirava come la creatura di Anna, oh, fortunata creatura, c'erano dei giorni in cui traevo dal mio ruolo di marito di Ingrid, più diletto di quanto avessi mai provato prima. Non sentivo alcun rimorso. Con Ingrid, tutto sarebbe andato bene. Quel mattino nutrivo la straordinaria illusione che sapesse, e che avesse compreso. Così spensieratamente mi sorrise, mentre uscivo, che mi sentii quasi stordito dal sollievo e dalla gioia. Wilbur Hunter aveva molta comunicativa. Wilbur Hunter era consapevole di avere molta comunicativa. L'osservai mentre guardava Ingrid con una solennità mista a un profondo interesse. Mentre accettava un whisky, disse: "Sapete, non vedo Anna da molto tempo. Non mi aveva mai invitato a conoscere i suoi amici. Questa è dunque un'occasione molto speciale." "Quanto tempo è passato dalla sua ultima visita a Londra?" "Oh, cinque, sei anni." "E' cambiata?" "Non glielo permetto. Londra è congelata nel mio cuore come il posto dove ho incontrato la madre di Anna, dodici anni fa. Mi rifiuto di notare cambiamenti, sia a Londra che in lei." "Com'è galante" disse Ingrid. "Contrariamente alla mia immagine, in fondo io sono un romantico. Lei è un romantico?" La sua domanda era chiaramente rivolta a me. Mi sembrava di vedere qualcosa di strano nel suo sguardo. "Oh, sì" disse Ingrid. "In un modo molto sottile, credo che sia un gran romantico." "Anna non è romantica. Vero, Anna?" "Già." "Lo hai notato anche tu, Martyn? O magari non sei d'accordo." "Come dicevi prima, Wilbur, il romantico si rifiuta di notare i cambiamenti nelle persone che ama, o nelle città che serbano per lui ricordi amorosi. Il vero significato di "romantico" potrebbe, in realtà, essere "bugiardo." Non saresti d'accordo?" "E Anna" disse Wilbur, "è una ragazza assai sincera." "Sì" disse Martyn. "Assolutamente sincera. Io lo trovo molto commovente, e più eccitante che romantico." "Davvero" disse Ingrid, sentendo che la conversazione aveva preso una piega alla quale non era abituata. "E' un cliché, naturalmente" disse Wilbur, "ma io trovo che esistono tante versioni della verità. Versioni che possono essere perfettamente accettabili, dato che per la maggior parte del tempo nessuno conosce tutta la verità, no?" "Mi sembra una posizione un po' cinica." Stavo cercando di alleggerire un po' l'atmosfera. "Il romanticismo, come l'idealismo, può essere l'estremo rifugio del cinico. Martyn rise. Wilbur si rivolse a lui. "Tu non ti sei tradito, Martyn. Sei tu il cinico mascherato da romantico, l'ipocrita con la maschera della verità?" "Io sono come Anna. Sono sincero. Comunque, sono pronto ad accettare dagli altri la loro versione della realtà. Io credo che sia una libertà fondamentale, veramente, creare la propria realtà con tutte le verità disponibili." "Vedo già che tu e Anna siete bene assortiti. Anna mi dice che t'interessa scrivere romanzi, Martyn." "Sì. Ma sono tanti i giornalisti che lo dicono." "Ma tu parli seriamente" disse Anna. Martyn assunse un'aria imbarazzata. "Non me l'avevi mai detto, Martyn." Nella mia voce c'era un'umiliante nota di petulanza. Mi sforzai di cambiare tono. "Volevo dire, è molto interessante." "Be', papà, è la mia vita segreta." Scoppiò in una risata. "Io non ho figli" disse Wilbur. "Forse è per questo che li studio sempre nei miei scritti. E cosa ti ossessiona, Martyn? Lo scrittore è sempre ossessionato da qualcosa." "Sono ossessionato dal tema che abbiamo appena discusso. La verità. Sono ossessionato da questo interrogativo: se la verità esiste in assoluto. Può un bugiardo fornire la descrizione più accurata della realtà di un altro? Ecco perché amo il giornalismo. E' un addestramento ideale per ciò che voglio esplorare come scrittore." La voce di Martyn continuò, ma non ero capace di assorbire le sue parole. Istupidito dall'ammirazione e dalla gelosia, mi rendevo conto che mio figlio, ammantato nella propria realtà di bellezza e intelligenza, era diventato finalmente e pericolosamente il mio rivale. "Mi spiace interrompere, ma la cena è pronta. Andiamo" disse Ingrid. Aveva ricevuto il segnale convenuto da Alice, "il nostro tesoro" come la chiamava mia moglie. "Sapete, sono davvero felice di conoscervi tutti. E' stata una grande gioia per la madre di Anna sapere di questo invito." Wilbur sorrise a tutti mentre si sedeva. "Quando hai visto tua madre per l'ultima volta, Anna?" Ingrid guardò Anna. "Quasi due anni fa." "E' un periodo di tempo molto lungo" disse tranquillamente Ingrid. "Non tutte le famiglie sono uguali." Martyn era accorso in sua difesa. "Il rapporto madre-figlia è particolarmente difficile, penso" disse Wilbur. "Nel Figlio della gloria lei ne parla con grande sensibilità." Ingrid mi scoccò un'occhiata trionfale. "Grazie, Ingrid." "Anna vede suo padre più regolarmente. Lui vive in Inghilterra." Ingrid tornò a guardare Anna. "Sì, vedo più spesso papà. E' più facile. Ho visto mia madre regolarmente quando andavo al college in America. Wilbur è sempre stato molto buono." "Chi non lo sarebbe, con te?" Martyn rivolse ad Anna un'occhiata carica di affetto. A un tratto le prese la mano e la baciò. Una voce nella mia testa urlava degli ordini. Sta' zitto, sta' zitto. Non dire niente. Non fare niente. Se non riesci a digerire questo, cosa diavolo riuscirai a digerire? Il dolore se ne andrà. Se ne andrà in pochi istanti. Questo è niente. Queste sono stupidaggini. Avevo una gran voglia di gridargli: "Non toccarla! Non toccarla!" Non toccare la mano della mia schiava! Schiava! Vieni subito da me! Qui! Davanti a tutti! Lascia che ti adori! Schiava! Lascia che io m'inginocchi davanti a te! Guardalo. Guardalo, continuò l'odiata voce interiore, pensa a tutte le donne che ci sono nel suo passato. Questo non è un giovanotto innamorato dell'affascinante sconosciuta. E' pane per i suoi denti, pane per i denti di chiunque. E' pane per i tuoi denti. E' pane per i tuoi denti intorno a questa tavola apparecchiata, stupido arrogante. E' pane per i tuoi denti a letto. Affronta questo, adesso. A letto, a letto con Anna. Quando e con quale frequenza? Pensaci. Guardali, ora. Non resisti. Non ce la fai. Non hai mai dovuto sopportare nulla, in vita tua. Come diavolo ti sei messo in testa di poter mantenere il tuo equilibrio mentale in questa situazione? O me o Martyn. Devo, devo averla. Non posso respirare, non posso respirare. "Caro! Che c'è? La mano! Hai schiacciato il bicchiere con la mano! Martyn, corri in cucina, prendi uno straccio e la cassetta del Pronto soccorso." Contemplai la mia mano sanguinante e le schegge di vetro che cadevano sulla tovaglia. "Oh, davvero, è solo un taglietto. Vede, Wilbur, la violenza della cena in famiglia tra gli inglesi?" Wilbur scoppiò in una risata. Provai un senso di profonda gratitudine nei suoi riguardi. Aveva abilmente, forse deliberatamente, svuotato quella scena della sua drammaticità. Ingrid diede, ancora una volta, prova del suo sangue freddo. Calma, sicura, mi bendò con mani esperte il pollice e l'indice ferito. Le schegge di vetro furono fatte sparire rapidamente da Alice. Un bianco tovagliolo coprì in un lampo la macchia rossa sulla tavola. Come il sudario che buttano addosso ai cadaveri. "Continuate. Il padre imbranato si è già ripreso. Tutto va bene. Torniamo alla realtà. O almeno alla versione che ce ne fornisce Martyn." Forse era il tono della mia voce, o la calma dopo la tempesta del bicchiere da vino rotto, ma quelle parole furono accolte da un silenzio generale. Guardai Ingrid, che aveva un pallido sorriso sulle labbra, e Anna, che aveva un'aria triste, e poi Wilbur, che ora sembrava imbarazzato. Alla fine mi rivolsi a Martyn, che rispose al mio sguardo con un'espressione gentile e preoccupata. Sentivo una forza che mi costringeva quasi a urlare: "Martyn, figlio mio, figlio mio!" Ma naturalmente non si udì alcun grido, perché nessun grido fu lanciato. Poi ripresero le operazioni di salvataggio dirette dalla padrona di casa. Non potei far a meno di rivolgere a Ingrid un muto applauso. Ben fatto, Ingrid. Che tocco leggero hai! La leggerezza è tutto. Sono ubriaco? Certamente no. Vino versato e vino bevuto non sono la stessa cosa. Lasciammo la sala da pranzo per disperderci nei vari angoli del soggiorno. Mi sedetti il più lontano possibile da tutti. Wilbur si era seduto accanto a Martyn. Anna, che in pubblico, ancora una volta, non aveva svelato nulla di sé, sedeva tranquillamente accanto a Ingrid sul sofà. Erano uno studio di contrasti. Ingrid, con i biondi capelli pettinati e lucenti, indossava una camicetta di seta color rubino e una sottana di velluto grigio. Anna, con ciocche di capelli corti e neri che sembravano dipinte sulla fronte, indossava un vestito nero, di lana, con un'ampia scollatura. "Ingrid... Wilbur... Sono mortificatissimo. C'è una seduta alla Camera, stasera. Devo andare, sono quasi le undici." "Riesci a guidare, con quella mano?" "Certo. Non è niente." "E devo andare anch'io." Wilbur si alzò in piedi. "Caro, puoi dare un passaggio a Wilbur, vero?" "No, no, non ne parliamo nemmeno" interruppe Wilbur. "Ti accompagnamo noi. Un altro caffè, Wilbur?" disse Martyn. Per un attimo rimasi indeciso. "Wilbur, venga con me. E' sulla strada. Lei sta al Westbury, no?" "sì." Salimmo in macchina. Partii. "Anna non l'ha mai fatto prima, sa?" disse Wilbur. "Credo che forse sia finalmente felice. Oh, ogni tanto abbiamo conosciuto degli uomini, ma mai le loro famiglie. Certo, la madre di Peter ed Elizabeth sono molto intime." "Peter?" "Oh, credo fosse cominciato come un amoretto tra ragazzi." Mi venne in mente il ragazzo nella camera da letto rosa la notte in cui Aston morì. "Hanno avuto una storia intermittente. E' durata anni, ma non era l'uomo per lei. Lui voleva sposarsi... Lei no. Si sono lasciati. Lui, dopo, si è sposato quasi subito... Disastrosamente, mi hanno detto. Devo arguire da questa cena che Anna e Martyn fanno sul serio?" "E' possibile." Ci fu un silenzio imbarazzato. Poi Wilbur parlò. "Lei ha un problema, amico mio." "In che senso? Cosa intende dire?" "Gli uomini che schiacciano bicchieri tra le mani, mentre divorano ragazze con gli occhi, riportano qualcosa di più di ferite superficiali. Rimanga in silenzio, amico mio, rimanga in silenzio." Granito, e luci, e una turbolenza di persone mi sfrecciarono davanti agli occhi. Troppo tardi per fare silenzio. Troppo tardi. "Anna ha fatto soffrire molta gente. Non ha nessuna colpa, secondo me. Ma è una specie di catalizzatore di disastri. Con Martyn può essere diverso. Si direbbe che lui la lasci libera. Questo è vitale, per Anna. Cercare di trattenerla, e si ribellerà. E' impossibile spezzare Anna. E' già spezzata, vede? Deve sentirsi libera. Così, tornerà sempre a casa. Naturalmente, questo è il consiglio che dovrei dare allo sposo, e non a suo padre. Ma sembra che Martyn non ne abbia bisogno. Così lei, amico mio, dovrebbe badare a ciò che dico. E' chiaramente troppo tardi per l'unico consiglio che la potrebbe salvare. Stare lontano da Anna." "Il suo albergo, credo." Fermai la macchina. "Grazie. Io sono una tomba, signore. Ho più segreti di quanti lei ne possa immaginare. Quasi certamente ci incontreremo ancora. Dal mio contegno lei dubiterà che tra noi si sia mai svolta questa conversazione. Buonanotte, e buona fortuna." E sparì. Vidi di sfuggita la mia faccia nello specchietto retrovisore. Pensai improvvisamente alla mia accorta vita di un tempo. Stavo pagando il prezzo della bontà? Di una vita degnamente vissuta? Della bontà senza sentimento? Dell'amore senza passione? Dei figli non desiderati? Di una carriera non particolarmente ambita? Il peccato era il prezzo. Il peccato. Avevo io, una volta nella vita, il coraggio di peccare? La mia faccia nello specchio non mi diceva nulla. La stessa faccia che poco tempo prima aveva detto tutto a Wilbur. Concluse le votazioni, lasciai la Camera alle due e mezzo. Passai davanti alla casa di Anna. La macchina di Martyn non c'era. Dovevo entrare di nuovo in quella stanza. Dovevo rianimare quel dipinto. Dovevo vedere le membra disposte come ricordavo. Dovevo contemplare il suo corpo su quel tavolo. Dovevo rientrare in quel mondo. Immediatamente. Il buio della strada, con le sue intermittenti isole di luce prodotte dai lampioni, e il mistero addormentato di quella casetta silenziosa, congiuravano per dare un nuovo sapore al mio desiderio. Il sapore della paura. La paura che Anna potesse non trovarsi là. La paura che ora fosse con Martyn, in quella casa. La paura rinfocolava il desiderio. Ero quasi boccheggiante, allorché suonai il campanello. Luci, passi, e fu davanti a me. La sfiorai per entrare nell'ingresso. Alzai lo sguardo al piano di sopra. "Martyn non è qui?" "Ho rischiato. Non c'era la macchina." Indossava una vestaglia di seta scura che aveva un taglio maschile. Mentre la seguivo verso la stanza, l'immagine di un ragazzo che mi precedeva, con i riccioli neri e due spalle robuste, mi fece rabbrividire. Era un ricordo di Martyn adolescente, che camminava lungo il corridoio in una scura vestaglia di cachemire, dopo il mio ritorno, a notte fonda, da una seduta di tanti anni prima. Anna si voltò indietro, e l'immagine svanì mentre la vestaglia le si schiudeva sui seni. Mi condusse fino al tavolo. Usai la cintura di seta, e la sciolta seta nera che c'era sotto, in un tableau di gesti e restrizioni deliberate, che in diverse occasioni, privavano la mia schiava della vista e della parola. Invisibile, potevo adorarla. Senza la possibilità del suo espresso consenso potevo formulare le eterne richieste dell'ossessione erotica. Quando tutto fu finito, gettai la vestaglia sulle membra che avevo disposto con tanta cura, come i pittori, secoli fa, coprivano la nudità delle figure nella Cappella Sistina. Sotto la seta, occultati i suoi poteri, Anna giacque in silenzio guardandomi passeggiare per la stanza. Terribili pensieri, e non meno terribili paure, avevano ripreso a consumarmi. "Chi è Peter?" "Ti ho già parlato di lui." "Lo so. Ma aggiornami, Anna. Aggiornami." "Perché?" "Perché la verità di Peter da ragazzo che ha fatto l'amore con te la notte che morì Aston, e la verità di Peter come uno con il quale sei vissuta e che hai quasi sposato, sono due verità molto diverse." "Ma irrilevanti ai fini della storia che ho raccontato a te." "La storia che ti ho raccontato." "Una storia, per te è tutto qui?" "Come può essere qualcosa di più? Tu non mi conoscevi, allora, né me, né Aston, né Peter. In quell'ignoranza le vite degli altri sono sempre soltanto delle storie. Le immagini che ti ho dato erano come delle illustrazioni. Se domani io sparissi dalla tua vita, questo è tutto ciò che avresti. Figure di una storia, gesti fissati in un'inquadratura." "Be', dammi una nuova immagine di Peter." "Zoppica. Molto. Per un incidente di sci che ha avuto qualche mese fa." "Come lo sai?" "Perché l'ho visto, poco tempo fa." "Credevo che fosse sposato." "Sì." "L'hai visto da solo?" "sì." "Dove?" "A Parigi." Uscii dalla stanza. Trovai il bagno. Avevo un po' di nausea. Poi mi lavai la faccia e, dopo essermi avvolto in un asciugamano, tornai lentamente da Anna. Era scesa dal tavolo. Sedeva, fumando una sigaretta, in una poltrona accanto alla finestra. Il velluto verde cupo delle tende s'intonava con quella che, ora vedevo, era una vestaglia di seta oliva. Il suo viso, e le onde dei suoi capelli neri, sembravano quasi quelli di un cammeo rinascimentale, rovinato dall'anacronismo della sigaretta. "Parlami di Parigi." "Martyn e io abbiamo lasciato L'Hotel. Dopo pranzo sono andata a trovare Peter. Martyn è andato a fare delle compere. Ci siamo rivisti più tardi." Così, mentre io ero, confuso dall'alcol, all'Hotel, cercando di ritrovare la sua presenza nella stanza che aveva abbandonato, lei si era incontrata con Peter. "Dove l'hai visto?" "Nel suo appartamento." "E sua moglie?" "Era a New York. Sono praticamente separati." "Come sapevi che era a New York?" "Me l'aveva telefonato." "Prima di andare a Parigi?" "sì." "Così Martyn è venuto a Parigi con te, credendo di passare un weekend con la donna che ama. E' esatto?" "Sì." "E io sono andato a Parigi perché quel giorno sarei morto se non ti avessi visto. E tu, Anna, tu sei andata a Parigi a trovare Peter." "No. Non è affatto vero. Io volevo andare a Parigi con Martyn. Tu mi hai seguito. Avevi bisogno di me. Sono venuta." "E Peter?" "Peter è sempre lì, sullo sfondo." "Una presenza che aleggia in un angolo." "Se credi." "Perché ci vuole praticamente un'inquisizione per strapparti anche solo un barlume di verità?" "Perché trovo che la gente fa domande quando è pronta per le risposte. Prima, di solito tira a indovinare, o fiuta la verità. Ma non la conosce con certezza. Quando vuole saperla, la chiede. In entrambi i casi, è pericoloso." "Pericoloso? Perché?" "Perché odio gli interrogatori. D'altra parte, io mi sforzo di non mentire. Stanotte tu sei venuto a cercarmi. C'ero e, in un modo o nell'altro, sempre ci sarò. Che altro conta? Se rispondessi a tutte le domande che vuoi farmi, cosa ci guadagneresti? Abbiamo la nostra storia. Lasciala in pace. Lascia in pace tutte le altre persone che fanno parte della mia vita. Come io faccio con te. Io non ti chiedo mai nulla di Ingrid. O delle altre donne: ce ne sono state delle altre?" Scossi il capo. "Questa è una cosa straordinaria, lo sappiamo. Lo abbiamo capito nell'attimo stesso in cui ci siamo conosciuti. In vita nostra, non capiterà mai più. Lasciamola esistere." "Non ce la faccio a vederti con Martyn. Non ce la faccio e basta. E' impossibile. Posso far a meno di pensarci quando non vi vedo insieme. Ma stasera... vedendovi insieme, sono stato assalito da un tale impeto di violenza... Ho sentito che avrei potuto far del male a Martyn." "E invece hai rotto un bicchiere. Non temere, non commetterai nessun atto di violenza. Materialmente, ti dominerai." "Come fai a saperlo?" "Me lo dice la nostra relazione. Con me tu sei al limite estremo di te stesso. Non puoi andare oltre. Cerca di non vedermi con Martyn. Sta' lontano, trova una scusa." Mi buttai in ginocchio davanti a lei. "Anna, lascia Martyn. Finiamola. Io lascerò Ingrid. Col tempo potremo stare insieme pubblicamente, e fino ad allora con discrezione." Scattò in piedi e si scostò da me. "Mai, mai. Non lo farò mai." "Perché? Mio Dio, perché no?" "Perché da te non voglio più di quello che ho già. E quello che noi abbiamo già verrebbe distrutto da te, se fossimo insieme." "No. No, ti sbagli." "Lo vedo dalla tua faccia che sai che ho ragione. Saresti pieno di dubbi e di paure. E avresti ragione, alle volte. Per esempio, io vedrò sempre Peter. Forse vorrei vedere Martyn. Non cambierò il mio modo di vivere. Ho delle promesse da mantenere. Dei debiti da pagare. Nessuno potrà costringermi a cambiare queste cose." "Ma questa libertà io te la concederei. Sì. Imparerei." "Non riusciresti. Saresti in un inferno più profondo di quanto tu possa immaginare. Tutto lo strazio, il tormento per Ingrid, per Martyn, i tuoi rimorsi, e per cosa? Per nulla più di quello che hai ora, o di cui hai bisogno. E col tempo metteresti a repentaglio pure questo." "Martyn ti ha chiesto di sposarlo?" "No. Non ancora." "Ma pensi che lo farà?" "Sì." "Perché lo vuoi sposare?" "Perché Martyn non fa domande. Martyn mi lascia vivere." "E' questa la misura delle tue pretese? Che la gente ti lasci vivere?" "E' una pretesa non da poco. Finora, Martyn è l'unico che abbia potuto soddisfarla." "Be', è chiaro che io non ne sono capace." Presi i miei indumenti e mi vestii in silenzio. Lei si accese un'altra sigaretta e cominciò a parlare. "Quello che esiste tra noi esiste in una sola dimensione. Sforzarsi d'inserirlo in una vita normale ci distruggerebbe entrambi. Tu non mi perderai mai. Finché vivo. Tu non mi perderai mai." "E Martyn?" "Martyn non lo saprà mai. Tocca a noi fare in modo che non lo sappia mai. Certe cose su di me, Martyn tira a indovinarle. Ma la nostra parte, il nostro modo di stare insieme, si fa sempre più forte. Andrà tutto bene, vedrai." "Se tu e Martyn vi sposaste, dove potremmo incontrarci?" "Che domanda pratica per una notte come questa." Rivolse il viso a me in modo tale che nella mezza luce esso parve galleggiare in un mare verde cupo, il verde della tenda e l'oliva luccicante del bavero della vestaglia. Mi sembrava così sicura, così forte. Come una dea alla quale si poteva tranquillamente affidare il proprio destino, certi che le sue decisioni sarebbero state giuste, assennato il suo giudizio. Eravamo complici in un piano d'inganni e tradimenti che comportava la violazione di antichissimi tabù, come pure la più comune crudeltà dell'adulterio. E sapevamo che avremmo continuato fino alla fine. Stavamo per dare al nostro mondo, e a quelli più strettamente legati a noi, una parvenza di ordine. Un ordine che ci avrebbe consentito di mantenere il caos, essenziale, fiammeggiante e strutturato, del nostro desiderio. "Comprerò un appartamentino. Ci incontreremo là. Lascia fare tutto a me. E' più facile, per me. Ora devi andare." Sulla porta, quando ci separammo, mi sorrise. "Lascia che tutto vada... come deve andare." Era quasi l'alba quando mi coricai accanto a Ingrid. "Scusa tanto" mormorai. "John Thurler mi ha bloccato e si è messo a parlare... Sai come fa lui." Emise un gemito di comprensione, e per un secondo aprì anche gli occhi. Poi il respiro di mia moglie riprese il suo ritmo regolare. Rimasi là disteso, al buio, a chiedermi come facevo a respirare. "Ho ricevuto una lettera di Martyn nella quale mi ringrazia con molto garbo per il fondo che ho contribuito a costituire. Conosci i suoi termini. Significa forse che i confetti sono vicini?" Era Edward, al telefono. "E' possibile." "Peccato che Tom sia morto prima che Martyn diventasse un giovanotto. Sarebbe stato fierissimo di lui. Sento molto la sua mancanza, sai. Un uomo meraviglioso, una bravissima persona." "Lo so." Quell'accenno a mio padre evocò improvvisamente i tempi che avevo vissuto come figlio, un figlio ormai dimenticato da un pezzo. I tempi in cui ero stato il figlio di mio padre, oltre che il padre di mio figlio. "Sono stato molto fortunato" disse Edward. "Ho visto Ingrid felicemente sposata per tutti questi anni. Ora esiste la possibilità che Martyn si sposi. Anna però mi lascia qualche dubbio. E' chiaro che Martyn è innamorato di lei... Cercherò dunque di prenderla in simpatia. Sally e Jonathan sembra che stiano bene insieme. Presto potresti trovarteli sposati tutt'e due: che te ne pare?" Mi sforzai di apparire disteso e compiaciuto. Mi produssi persino in un'imitazione della chioccia risatina di Edward. "Come vanno le cose con quella commissione che presiedi?" "Così così." "La discrezione fatta persona, no? Bada a quello che dico, al prossimo rimpasto riceverai una promozione. Sei un po' un terno al lotto anche per me! Ma funziona, il tuo profilo basso ma non troppo. La gente ti trova simpatico. Si fida di te. La fiducia è un piccolo miracolo, di questi tempi. Si direbbe che nessuno si fida più di nessuno. Ah, be', se tutto questo finirà in un fidanzamento tra Martyn e Anna, vorrei che il matrimonio venisse celebrato ad Hartley. Che ne pensi? Lo so che di norma si fa nel posto della famiglia della sposa. Ma i suoi genitori sono divorziati. Sua madre vive in America. Forse sto mettendo il carro davanti ai buoi, era solo un'idea. Di'qualcosa." "E' una bellissima idea, Edward. Ma per ora non sono neppure fidanzati. "Vero, verissimo. La festa di fidanzamento, allora, ad Hartley." Rise. "Non mi do mai per vinto, eh? E' la vecchiaia, sai. Mi attacco alla famiglia sempre più tenacemente. Non voglio mollare. Strana bestia, la vecchiaia. L'ho sempre saputo che sarei diventato vecchio, se fossi stato fortunato. Solo, non mi aspettavo di diventarlo così in fretta. Vedi... La vecchiaia arriva sempre troppo presto. Be', ora ti lascio. Tom e io abbiamo agito correttamente, credo, nei riguardi di Martyn e Sally. Ingrid avrà Hartley, si capisce. Più tante altre cose... Be'..." "Edward. Ti prego. Sei stato magnifico con noi e i nostri figli. Abbiamo ancora tanti anni da passare insieme. Gli anni che ci aspettano." "Speriamo. Scusa se mi sono lasciato un po' prendere dall'emozione. E' l'idea che Martyn si sposa. Prima non lo potevo dire, ma questo naturalmente mi fa sentire di nuovo la perdita della madre di Ingrid. E' sempre una terribile malinconia, sai. Be', ora la finisco per davvero. Bada alla salute." "Anche tu, Edward. Arrivederci." Deposi il ricevitore, e cercai con una certa determinazione di cancellare l'immagine di mio padre che mi si era formata davanti agli occhi. Forse non sei più un figlio, pareva dire, ma, Dio mio, ne hai uno. Cosa stai facendo? Che razza di padre sei? Sei sempre stato un figlio lontano. Sempre lontano da tua madre e da me. E un figlio insensibile diventa un padre insensibile. Forse avevo avuto un padre insensibile. Con gli occhi del ricordo, lo vidi distogliere il viso. Sognai di vederlo schiacciato sotto l'amore incompreso di tutta la sua vita. Eravamo in camera da letto. Non l'avevo mai vista veramente come la nostra camera da letto. Certo non l'avevo mai vista come mia. Era la camera da letto nella quale Ingrid e io passavamo quel tempo del nostro matrimonio: la camera che in quella strana situazione dice la storia vera di un uomo e di una donna. Ma la storia non aveva osservatori all'infuori dei partecipanti. Essi dovevano, nella maggior parte dei casi, mentire a se stessi e tra loro. I segreti della camera da letto giacciono sepolti sotto strati di tempo e di abitudini, figli, lavoro, ricevimenti, malattie, e la miriade di altri riti e di altri eventi con i quali noi alleviamo ogni pena. Ingrid sedeva alla toilette applicandosi uno strato di crema al viso e al collo. Badava attentamente a non toccare le bretelline di satin che le passavano sulle spalle chiare e delicate. "Le bionde hanno la pelle secca": ecco una delle certezze della vita che adornano come uno stemma la mia mente. Anche se non era mai stata assolutamente una donna frivola, quel rito serale e mattutino era importantissimo per lei. Non lo aveva saltato una volta, ch'io sapessi. Il noto spettacolo di quel tamburellare veniva regolarmente accompagnato dalla ripetizione della verità fondamentale: "Lo so che è una gran noia. Ma le bionde hanno la pelle secca." "Wilbur ha telefonato per ringraziarci della cena. E' davvero affascinante, non ti pare?" disse Ingrid. "Scrive meglio di come parla." "Oh, sul serio? Mi sembrava che a cena avesse detto delle cose molto interessanti." "Non so. Io veramente le ho trovate tutte piuttosto banali, gli splendori della verità, eccetera." "Mostra una grande simpatia per Martyn. Credi che Martyn diventerà uno scrittore? Mi sembra veramente straordinario che non ce ne abbia mai parlato. Cioè, non che lo abbiamo mai spinto a fare questo o quello. Sono proprio contenta." "Potrebbe averlo detto solo per fare colpo su Wilbur." "Oh, no. Martyn non è il tipo da preoccuparsi di far colpo su qualcuno. Eccetto Anna, forse. Wilbur dice che sua madre sarà contentissima di apprendere che Anna ha un'aria così serena e felice. Non sono in rapporti molto stretti, come avevamo immaginato. Come siamo fortunati con i nostri figli. Francamente, i nostri dubbi su Anna, la differenza d'età e via dicendo, sono proprio futili, in un certo senso. Voglio dire, e con questo? E' più vecchia e un po' più sofisticata. Martyn avrebbe potuto innamorarsi di una ragazza assai meno adatta a lui. Che ne pensi?" "Sì. Penso che abbiamo avuto fortuna." "Comunque, ho deciso di mettere da parte le mie preoccupazioni e di provare a conoscerla un po' meglio. Finora sono stata un po' fredda, non ti pare?" "Sei sempre stata molto gentile." "Sì, lo so. Ma "molto gentile" non è come dire "molto cordiale" no? Anche se non è facile, per una madre, essere proprio amica della moglie di suo figlio, non ti pare?" "Non sono ancora sposati, sai. Non sono nemmeno fidanzati." "Sì. Ma tu sai che cosa intendo dire. Per gli uomini è difficile. Non hanno la stessa sensazione di perdere qualcosa, quando si sposa un figlio. Magari tu ti senti un po' geloso del ragazzo di Sally, Jonathan?" "Non ci penso mai." "Uhm! Questo è un po' il tuo problema. Tu dai l'impressione, certe volte, di non pensare molto ai tuoi figli... al loro avvenire... alla gente che frequentano." "Non dire sciocchezze." "La tua frase sul ragazzo di Sally è proprio tipica. Se io non la facessi tanto lunga su Anna, forse non penseresti mai nemmeno a lei." Le voltavo le spalle. Chiusi gli occhi. Un'improvvisa vergogna per la bassezza dell'inganno, e per la crudeltà dell'evasione, mi assalì. Non riuscivo né a muovermi né a rispondere. "Caro? Caro, ti senti bene?" Mi voltai, e mi resi conto che Ingrid aveva visto la mia schiena nello specchio. Qualcosa, forse, nelle spalle o nel resto del corpo, aveva raccontato la sua storia. La faccia che vidi nello specchio mentre mi voltavo verso di lei era senza dubbio quella di un uomo profondamente angosciato. Gli occhi le si empirono d'affetto, mentre Ingrid mi veniva incontro. La sua vicinanza, e il mio rimorso, scatenarono una furia dentro di me. Dallo specchio mi fissava la mia immagine, torva e minacciosa. "Cosa c'è? Cosa succede?" esclamò lei. "Niente. Niente. L'età, immagino. Tutt'a un tratto mi sono sentito vecchio." "Oh, caro! Caro, è perché i ragazzi sono ormai alla vigilia del matrimonio, ecco tutto. Non sei vecchio. Sei sempre l'uomo più attraente che conosca." Era vicinissima. Il suo corpo, fasciato di satin, si appoggiava al mio in un abbraccio familiare. Le misi le mani sulle spalle e, mantenendo tra di noi una distanza di pochi centimetri, la baciai sulla fronte. Poi mi ritrassi. Era un ripudio. Lo sapevamo tutt'e due. "C'è qualcosa che non mi hai detto?" Non mi guardava, mentre si passava la crema sulle mani. "No, davvero." "Hai qualche pensiero? La commissione, forse..." "No! Niente. Ingrid, mi spiace. Mi sono solo sentito, all'improvviso, vecchio e stanco. Ora è passata. Andrò giù a leggere un po'. Ho delle carte su cui devo lavorare. Verrò su più tardi." Un lampo d'ira balenò tra noi. Lo ignorai e uscii dalla stanza. Dabbasso, mi versai un whisky. Dovevo trovare la maniera di procedere rapidamente verso il matrimonio al quale eravamo destinati. Un matrimonio basato su un contatto fisico in diminuzione, che non provocasse né commenti né dolori troppo grandi. Il nostro non era mai stato un matrimonio traboccante di passione. Doveva essere possibile, senza dubbio, accelerare il processo, già ben avviato, verso il celibato. Dovevo fare in modo che accadesse. La vicinanza fisica di Ingrid mi stava diventando insopportabile. La nostalgia di Anna mi torceva le viscere. Era come se Ingrid avesse cercato di invadere lo spazio occupato dallo spettro dell'assente Anna. Quell'aria satura di elettricità mi aveva fatto star male. Grandi saranno le tue sofferenze, ammoniva una voce interiore. Lo sai. Non è vero? Sì, dottore. Medico, cura te stesso! Ricordando il vecchio adagio, sorrisi a denti stretti. Forse ciò che mi occorreva era il castigo? Avendo deciso per un ulteriore sacrificio della felicità di Ingrid, mi misi al lavoro sulle mie carte. La colazione, il mattino seguente, fu monosillabica e fredda. Con mia vergogna, l'interesse che Ingrid aveva per me trionfava costantemente sul suo desiderio di punirmi. Non persi la calma. Ero ansioso di mantenere tra noi due una distanza che permettesse l'emersione di un nuovo progetto realizzabile. Una cosa accuratamente calcolata, questo meticoloso indebolimento delle fondamenta di un matrimonio. "Voglio organizzare per il venti la festa di compleanno di papà. Ho pensato che sarebbe bello se potessimo arrivare tutti in tempo per la cena e restare a pranzo la domenica. Parlerò con Ceci. Posso stilare subito il menu. Sally e io possiamo aiutare Ceci a preparare tutto. Poi c'è Anna, naturalmente, potrà dare una mano anche lei." Questo addomesticamento di Anna mi sembrava l'elemento di un complotto organizzato da Ingrid. Non vedeva com'era assurda Anna in una cucina? Per un attimo immaginai le quattro donne: Ceci, Ingrid e Sally, tutte indaffarate e competenti e sul terreno di casa; e Anna, che tesseva il suo mistero e i suoi poteri intorno alla cucina. Anna, che tutto imbeveva di un'aura femminile, un'aura infinitamente più potente del fascino della dolcezza e della sollecitudine. Le altre erano figure ritagliate nel cartone, e Anna sola era vera, e sfolgorante, e pericolosa. "Può darsi che io debba arrivare in ritardo. Controllerò, ma il pranzo di domenica dovrebbe andare bene." "Splendido. Sono certa che papà ne sarà entusiasta. Dei regali possiamo parlare dopo." Consultò l'orologio. Ingrid era ansiosa di essere la prima a congedarmi. Una vendetta per la notte prima. "Devo andare." Le mossi incontro per darle il solito bacio sulla guancia. Ma lei si limitò a sorridere brevemente, e mentre voltava un po' la testa le mie labbra le sfiorarono i capelli. Forse era un altro sottile cambiamento nel rituale, passare dalla pelle ai capelli sulla strada sempre più lunga che ci allontanava l'uno dal corpo dell'altro. In macchina ricordai che proprio ad Hartley avevo chiesto a Edward il permesso di fare a Ingrid la mia proposta di matrimonio. Quanto tempo era passato. Un "sì" fatale, che aveva portato a Martyn e Sally, e a un anno dopo l'altro di tranquillità e di appagamento, di fortuna e di prosperità. Anche Hartley, nella lotta con Anna, avrebbe dovuto soccombere. Le altre sue associazioni sarebbero mutate per sempre. Anche le sue mura e i suoi giardini, innocenti di lei fino a oggi, e il più amato dominio di Ingrid, dovevano arrendersi. La chiamai. Era presto, era in casa. "Hartley!" "Sì, lo so. E' stato impossibile dire di no." Anna fece una pausa. "Non credo di averne parlato, ma la settimana prossima sarò via, fino a giovedì sera." Restai in silenzio. Non domandare dove. Non essere troppo insistente, mi ammonii. Lei si mise a ridere, come se mi avesse letto nel pensiero, e disse: "Devo andare a Edimburgo per un articolo che sto scrivendo, ecco tutto." "Bene. La mia commissione è nella fase delle proposte. Bisogna preparare i documenti definitivi." "La vita continua, si direbbe." "M,a bisogna curare la superficie." "Bisogna rafforzare i limiti esterni del nostro mondo. Solo allora potrà continuare la nostra vera vita segreta." "Ci conosciamo molto bene." "Sì, davvero." "Arrivederci. Ad Hartley." "Ad Hartley, arrivederci." Hartley non aveva mai esercitato il suo incanto su di me. Era la casa di Edward. Il posto dove Ingrid era nata e aveva passato l'infanzia. Il posto dove, durante le vacanze, cavalcava e pescava con Edward. "Guarda, laggiù Border mi ha disarcionato. Papà credeva che mi fossi ammazzata. Riportai solo una commozione cerebrale. Ecco, quello è il posto dove mi sedevo a fare sogni sull'avvenire. Là, dietro quel rosaio, il mio primo amichetto mi ha baciato!" Avevo ascoltato tutti i suoi sognanti ricordi con una cortesia che avrebbe dovuto preoccuparmi. Un uomo innamorato non ascolta le storie dell'infanzia dell'amata con un simile distacco. E non guarda con un occhio così freddo la casa che le ha dato asilo. Mentre viaggiavo verso Hartley, sabato sera, la vedevo come l'avrebbe vista Anna, arrivandovi per la prima volta. Attraverso un cancello di ferro, un viale lungo e diritto porta alla sua gotica facciata di pietra grigia. Il massiccio portone di quercia, sopra e intorno al quale Edward ha fatto crescere l'edera, ha una rassicurante solidità. Una volta dentro, e con la porta chiusa, le pareti rivestite di legno e i finestroni muniti di graticci impongono il loro placido ritmo. Lo scalone di quercia scolpita sembra dividere con forza la notte dal giorno, in modo tale che sia l'una che l'altro esercitano più compiutamente il proprio fascino. Il salotto è rivolto a sud e da su un giardino all'italiana. Oltre il giardino, le terre di Edward si estendono in lungo e in largo fino all'orizzonte, lusingandolo con la consapevolezza di essere il padrone di tutto ciò che l'occhio è in grado di abbracciare. La sala da pranzo, con la sua credenza di mogano carica di argenteria, è la prova del vecchio adagio inglese: "Il cibo può essere una cosa seria, ma non la più importante." Quantunque abbondanti e gustosi, i pasti non sono il clou di un weekend ad Hartley. La sala da pranzo, massiccia e poco accogliente, vanificherebbe qualsiasi ambizione culinaria. La biblioteca è zeppa di libri che metterebbero in imbarazzo un europeo di buona cultura. Libri sulla caccia, sulle passeggiate in campagna, qualche biografia, generalmente di eroi militari un po' di storia. Né classici, né poesia, né romanzi. Le sue poltrone invitano a sedersi, e sono situate con cura intorno a tavoli carichi di riviste sulla vita in campagna, il vero materiale di lettura della casa. L'unica stanza al pianterreno in cui mi sono mai sentito a mio agio è il salotto. Praticamente non ho mai visitato la cucina. Ceci, la cuoca, governava il suo regno come un Dio. Lo scalone porta a un vasto pianerottolo e a due corridoi. Un corridoio, passando davanti a quattro stanze, arriva fino alla grande porta che da nella camera di Edward. Un corridoio più corto, rivestito di legno, passa tra altre due camere da letto e si ferma davanti alla pesante porta di quercia e alla stanza che in tutti questi anni è sempre stata destinata a Ingrid e a me. Le camere da letto, tutte rivestite di legno e talvolta precedute da due o tre scalini, sono veramente incantevoli. Ciascuna di esse ha un diverso piumino a fiorami con cuscini della stessa stoffa. Sono stati tutti ricamati, tanti anni fa, dalla madre di Ingrid. Col tempo, le stanze hanno preso il nome del fiore o della pianta ricamata sulla trapunta: rosa, iris o giunchiglia. Conoscevo molto bene quella casa, con tutte le sue stanze e i suoi giardini, eppure Hartley non mi era mai entrata nel cuore. Vi andavo in visita, e dopo quasi trent'anni rimanevo un visitatore. Anna sarebbe stata altrettanto impervia alle sue grazie? Fermai la macchina. Il mio sogno a occhi aperti era finito. Ingrid, Sally e Jonathan scesero nel viale per salutarmi. "Edward è al telefono in camera sua. Il viaggio è stato buono?" "Uhm. Molto rapido." "Anna e Martyn arriveranno più tardi. Anna aveva del lavoro da finire. Ho chiesto a Ceci di ritardare la cena fino alle nove e un quarto. Se tutto va bene, per quell'ora saranno arrivati." "Buonasera, signore." Salutai Jonathan con un inchino, e decisi che per il momento non gli avrei dato del tu. Ingrid infilò il braccio sotto il mio mentre seguivamo Sally e Jonathan nell'atrio. "Edward ha messo tutti i giovani nel suo corridoio, lontano dai genitori. Le camere del nostro sono tutte vuote. Molto furbo, non ti pare?" "Molto." "Vieni su a cambiarti." La nostra camera si chiamava Rosa. La trapunta, a fiori rossi, bianchi e rosa, era un efficace promemoria del tempo perduto, e aveva un innocenza accusatrice, quando entrai. Quando scesi, Edward era in salotto. "E' stato davvero bellissimo da parte di tutti voi" disse. "Non so dirvi quanto mi fa piacere. I compleanni, alla mia età, non hanno più un gran significato. Anche se forse val la pena di notarlo, quando si arriva a settantaquattro anni." "Indubbiamente." Aveva un'ottima cera. Aveva sempre avuto il colore della salute, che gli tingeva le guance di rosa. Adesso, da vecchio, gli donava. "Bevi qualcosa?" "Grazie, un whisky, per piacere." "Ingrid mi dice che Anna e Martyn arriveranno un po' in ritardo." "Sì." "E' stato carino venire, da parte sua. Dev'essere un po' noioso, veramente. Anche il ragazzo di Sally, sono un po' commosso che si siano sobbarcati la fatica." "Sciocchezze, Edward. Ti adorano a tutte le età." "Davvero? Ho sempre desiderato non perdere i contatti con i giovani. Ti da un senso di continuità. Che bellezza, avere dei pronipoti. Esiste qualche probabilità, secondo te, prima che io parta per l'ultimo viaggio?" "Edward, io ti auguro di avere dei trisnipoti." "Ah... Sempre diplomatico." Ingrid si affacciò all'uscio. "Sono arrivati. Vado a dirlo a Ceci. Diamogli il tempo di lavarsi e di cambiarsi, e poi tutti a cena. Siamo in perfetto orario." Anna era in pantaloni. Grigi e su misura. Questo abbigliamento casual, da campagna, in qualche modo la trasformava. Finito lo scambio di saluti, andò di sopra. Poco dopo ridiscese con un abito blu scuro che avevo già visto. Sembrava ancora diversa. E a disagio. è tesa, pensai. Non l'avevo mai vista a disagio. La cena fu una cosa molto tranquilla. Eravamo tutti stanchi, dopo il viaggio. Era il momento buono per le reminiscenze. "Anna, tu che ricordi hai della tua casa?" "Pochissimi, in realtà. Viaggiavamo così tanto." "Io non riesco a ricordare una vita senza Hartley" disse Ingrid. "Anche Anna ha i suoi ricordi" disse Martyn prontamente. "Ma sono più variati: impressionistici, quasi. Quelli di Sally, e i miei, sono di Hartley, e di Hampstead." "E' stato difficile quando eri bambina? Sempre traslochi" domandò Sally. "E' stato solo molto diverso, come ha detto Martyn. La mia infanzia, in effetti, è solo una serie di impressioni: di paesi, città, scuole." "E d'incontri e di separazioni." Martyn rivolse ad Anna un sorriso di comprensione, uno di quei sorrisi che dicono: "Ti capisco, non sei più sola." Contemplai l'argenteria sulla credenza, desiderando con tutte le mie forze che la cena fosse finita. Avrei potuto evitare tutto questo, pensavo. Avrei potuto trovare delle scuse, validissime. Ma volevo essere qui. Dovevo essere qui. "Martyn e io siamo stati così fortunati" disse Sally. "Una vita sicura a Londra. Un sacco di vacanze ad Hartley." "Lo stesso paesino in Italia ogni estate" disse Martyn. "La ripetizione dei rituali può essere una specie di balsamo per l'anima. Sono d'accordo con Sally. Abbiamo avuto un'infanzia idilliaca... in molti sensi..." "Non in tutti?" rise Ingrid. "Oh, ogni figlio ingrato ha una lista di cose nelle quali i genitori hanno sbagliato. La mia è piuttosto corta." "Su" disse Edward, "pendiamo tutti dalle tue labbra. Cosa c'è su quella lista? Ti picchiavano in gran segreto?" Edward si fregò le mani, allegramente. "C'era troppo ordine... Un'assenza di caos e di passione." Il suo volto si irrigidì, come se Martyn avesse parlato senza muovere le labbra. La sua voce era piana. E' così che il più delle volte riveliamo il nostro dolore. Lo sforzo di reprimerlo svuota le parole di ogni colore ed espressione. Dai lati opposti del tavolo, ci guardammo. Un padre che aveva perso l'occasione di conoscere suo figlio. Un figlio che credeva di conoscere suo padre. "Be"' disse Jonathan, "se ti mancano il caos e la passione, avresti dovuto vivere in casa nostra. Mio padre era un perfetto gentiluomo. Ma era anche un tremendo donnaiolo, questo non è un mistero per nessuno. Così, tra lui e mia madre scoppiavano delle liti furibonde. Eppure, lei è rimasta con lui. Per me e per mia sorella, immagino. Oggi sembrano molto felici. Ma devo aggiungere che da qualche tempo lui è malato. Le mie parole sembreranno crudeli, ma a lei fa piacere la sua debolezza. Lui si è messo nelle sue mani, come un bravo bambino in quelle di una bambinaia esperta." "Il tempo, come cambia tutti i giovani. I giovani ribelli" sospirò Edward. "Le storie che vi potrei raccontare." "Prima di te, Anna, Martyn era un vero dongiovanni" disse Sally. Anna sorrise. "Così ho sentito dire." "Oh! Da chi?" "Da Martyn." "Ah. Una confessione in piena regola, eh, Martyn!" "Niente affatto" disse Anna. "Non mi ha meravigliato. Martyn è molto attraente." "E' straordinariamente bello" disse Ingrid. "E questo lo dice una mamma orgogliosa. Ora andiamo tutti a nanna, e sogni d'oro. C'è qualcuno che compie gli anni, domani." Ingrid diede un bacio a Edward. Sul pianerottolo, la "buonanotte" e i "dormi bene" tradirono un lieve imbarazzo. Anna era in fondo al corridoio di Edward, in Giacinto. Martyn era in Edera, vicino a lei. "Una volta pensavo che tutto questo fosse un po' troppo affettato e femminile. Poi Edward mi ha spiegato con quanta cura e con quanto amore erano stati ricamati ogni coperta e i relativi cuscini. Ora lo considero un bellissimo tributo alla nonna." Ingrid gli fece una carezza sulla guancia. "Come sei carino, Martyn. Bene, andiamo a dormire. Noi siamo qui in fondo al corridoio." Sorrise a tutti. Era uno di quei sorrisi da congiurati che dicono: Adesso fate voi, ma cercate di non mettere nessuno in imbarazzo. Facendo dietrofront, ci avviammo alla nostra camera da letto. Sentivo un'umiliazione mai provata. Il mio corpo sembrava goffo e pesante. Mentre ce la chiudevamo alle spalle, mi appoggiai alla porta. "Non capisco tutta questa falsa riservatezza" dissi a Ingrid, bruscamente. "Falsa riservatezza! Che strana maniera di esprimersi. Noi siamo di un'altra generazione. E' perfettamente comprensibile che vogliano starsene per conto loro. D'altra parte, io non voglio che Edward si senta in imbarazzo, ecco perché ho deciso per le camere separate. Comunque, non so a che punto siano le cose per Jonathan e Sally. E' un modo come un altro per evitare le tensioni. Anna e Martyn sono un altro paio di maniche." "Si direbbe che negli ultimi tempi tu abbia preso Anna in grande simpatia." "Force majeure, mio caro." Ingrid cominciò a svestirsi. Durante il rito delle creme davanti alla toilette s'interruppe di colpo e disse: "Qualcosa sta succedendo tra noi due. Non capisco che cosa sia. Ma non credere, ti prego, che non me ne sia accorta. Lo so che mi sei stato fedele, lo so che non stai avendo una relazione. Non siamo mai stati molto portati alle conversazioni intime, dunque aspetterò. Ti sembro arrogante? A proposito delle relazioni extraconiugali, cioè. Se lo sembro, ti dirò che non era nelle mie intenzioni. La tua fedeltà è molto importante, per me. Non potrei mai essere una Jane Robinson. Quello che Martyn ha detto della mancanza di caos e di passione... be', è proprio quello che mi piaceva di te. E che mi piace ancora. Tutto funziona in un modo che è quello giusto per noi, in generale. Non ti pare?" "Oh, Ingrid. Mia cara, mi dispiace tanto. Lo so che è un terribile cliché, ma ho un problema e devo affrontarlo da solo. Sei così saggia da avere già deciso di lasciarmelo risolvere a modo mio." I nostri occhi si incontrarono. Riuscimmo a distogliere lo sguardo prima che la verità venisse a galla e potesse essere vista da uno dei due. Un'ellittica intimità, ecco il voto matrimoniale dei buoni compagni. Voti mantenuti dietro le porte chiuse di camere da letto dove la coppia, avvolta nei sudari di uno spento desiderio, trova il piacere al quale ha diritto. A poco a poco si convince, altresì, di non essere stata frodata in questa roulette di impassibile passione. E' una cosa che si tramanda da una generazione all'altra. Il sano vincolo matrimoniale. Giacqui accanto a Ingrid mentre lei si addormentava. Collera e odio ribollivano in me, come serpi sibilanti. Le loro lingue dicevano: valla a prendere. Valla a prendere. Portala via, sussurravano. Costringila a venire con te. Costringila a lasciare Martyn. Stanotte. Molla tutto. Subito. Volevo far qualcosa, ribellarmi e controbattere le loro oscenità. Muto e immobile rimasi invece al fianco della mia bella moglie addormentata. Alle due non resistetti più. Mi alzai. Mentre aprivo la porta vidi Anna ritta davanti a una delle stanze vuote nel nostro corridoio. Era quella che aveva preso il nome dal colore delle olive. Mi chiamò con un cenno e sorrise. Quando entrammo nella stanza, disse: "Ho scelto questa per la sua tranquillità. Mi chiedevo se saresti venuto. Ho potuto vedere la tua pena." Disperato, mi strinsi a lei. Si portò una mano allo stomaco e disse: "No. Ho le mie cose." Poi si inginocchiò davanti a me, con le labbra socchiuse, con la bocca aperta, in attesa. L'adorai. Aveva la testa rovesciata all'indietro e gli occhi chiusi, come nel rito della genuflessione. Sussunto in lei. Consumazione. Una specie. Poi, a occhi aperti, contemplai la lieve mutilazione dei suoi tratti prodotta dalla forzatura della bocca. Svuotato da lei, pensavo alla disperazione del piacere. Ero sempre prigioniero del mio corpo. La stanza veniva rischiarata dalla luna. Nel lasciarmi, Anna disse: "Ho detto di sì, oggi, a Martyn. Ve lo riferirà domani a pranzo. Vuole che sia una festa in famiglia. Per te sarà durissima. Ma ricordati, per piacere, che io sono tutto quello che hai bisogno che io sia. Tu vivi dentro di me." Si passò la mano sulla bocca e disse: "Ricordati: tutto, sempre." Poi sgattaiolò fuori dalla porta. Chinai il capo nell'ombra della stanza. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse messo un grosso peso sulle spalle. Nella penombra, i ricami oliva della coperta e dei cuscini mi riempivano gli occhi. Consapevole della loro bellezza e del senso di pace che ispiravano, mi coricai su di essi. Erano un verde boschetto sotto la luna. A poco a poco sentii che la collera e l'odio mi abbandonavano. Potevo portare il mio fardello. Potevo fare "tutto, sempre." Dopo un certo tempo, non so quanto, tornai a infilarmi nel letto accanto a Ingrid e caddi in un sonno profondo. Al mattino sapevo che non volevo vedere Anna e che avevo bisogno di tempo prima di poter affrontare Martyn. Stava per cominciare una nuova vita. Una vita in cui Anna e Martyn avrebbero formato ufficialmente una coppia. Dovevo imparare a portare il peso di questa realtà. La tensione che sentivo tra le scapole mi diceva che era una croce che avevo deciso di portare. Altri nascondono il dolore nel flusso sanguigno, o nelle viscere, o lo vedono affiorare alla superficie della pelle, come stimmate quotidiane. Un'immagine infantile della mia bambinaia cattolica, una delle sue sacre rappresentazioni della croce trasportata lungo la strada del Golgota, era dopo tutti questi anni diventata l'immagine del mio corpo per la pena dell'anima mia. "Prendo velocemente un tè e un toast in cucina, e vado a fare una passeggiata. Poi lavorerò fino all'ora di pranzo. Ti spiace?" "No di certo. Tutti capiranno" disse Ingrid. "E' solo che qui ad Hartley la colazione può durare fino all'ora di pranzo." In cucina c'era Ceci, che mi guardò con aria di disapprovazione mentre consumavo il toast e il tè stando in piedi vicino alla tavola. Poi, udendo la risata di Sally dalla sala da pranzo, aprii la porta della cucina e me ne andai. Attraversai l'orto cintato. La sua ordinata perfezione mi ricordò che anche la natura più selvaggia può essere domata e costretta a lavorare per noi. Entrai nel campo dove, in altri tempi, avevano pascolato i pony di Ingrid, e poi quelli dei nostri figli. Tutto quello che vedevo, orto, prati, il piccolo ruscello quasi asciutto, parlava di una vita dalla quale mi ero definitivamente separato. Chi era il giovanotto che aveva passeggiato per questi stessi prati quando faceva la corte a Ingrid? Dov'era il padre che aveva fotografato Sally e Martyn mentre trottavano con sgraziata fierezza sui loro cavallini? Riuscii a tornare in camera mia senza dover salutare nessuno. Lavorai alle mie carte e cercai di calmarmi prima del pranzo. "A Edward" fu il mio brindisi, "buon compleanno e tanti lieti ritorni ad Hartley da parte di tutti noi." "A Edward." Alzammo tutti il bicchiere. Anna guardò nervosamente Martyn. Martyn si alzò per parlare. "Nonno... e tutti voi... ho una cosa da dire a tutti quanti. Anna e io abbiamo pensato che sarebbe stato bello, in onore del tuo compleanno... annunciare il nostro fidanzamento! Mamma... papà." Ci guardò, bello, ansioso, supplichevole. Nei suoi occhi c'era anche una vaga espressione di trionfo. "Be', be'..." disse Ingrid, "che bellezza. Congratulazioni, Martyn. Anna, sono tanto felice per tutt'e due." "Martyn, non so dirti cosa questo significhi per me" disse Edward. "E' proprio il giorno del mio compleanno. Commovente, figliolo, davvero commovente." Guardò Ingrid. "Martyn è sempre stato un ragazzo pieno di premure. Hai fatto una buona scelta, mia cara" disse ad Anna. "Non ti secca se lo dico, vero? Perché è davvero speciale, questo mio nipote. Bada... Anche lui è molto fortunato. Una ragazza così in gamba... L'ho pensato fin dal primo momento che ti ho vista." Sally era saltata in piedi e aveva abbracciato suo fratello. "Congratulazioni, voi due. E' una gran bella notizia." Jonathan intervenne con un "Ben fatto, Martyn! Anche se devo dire che me l'aspettavo. Vero, Sally? L'ho sempre detto, che Anna e Martyn erano fatti l'uno per l'altra. Dall'inizio. Con tutta la freddezza che ci mettevate, non mi avete ingannato per un solo momento. Innamorati cotti. Si vedeva lontano un miglio." .Di'qualcosa, adesso. Sei l'unico che non ha ancora aperto bocca. Di'subito qualcosa. Avevo nella testa un'enorme confusione. "Martyn." "Papà." "Cosa può dire un padre in un'occasione simile? E' un giorno strano e meraviglioso. I miei migliori auguri a tutt'e due." Dovevo essermi comportato bene, perché mi rispose con un sorriso e un "Grazie, papà." "Vi sposerete ad Hartley? Dovete..." "Papà! Hanno solo annunciato il loro fidanzamento, per ora. Può darsi che i genitori di Anna abbiano altre idee. Tocca ai genitori della sposa..." "Oh, sì, lo so, lo so. Ma con la madre di Anna che vive in America, pensavo solo che..." "Potremo divertirci a organizzare tutto" disse Ingrid. "Quando contate di sposarvi, veramente? Avete già fissato la data?" "Non proprio" disse Anna. "Il più presto possibile" disse Martyn. "Fra tre mesi, se va bene." "Tre mesi! Non è molto." Ingrid stava già organizzando il matrimonio. "Veramente volevamo solo fare una cosa molto in piccolo in qualche posto. Anna detesta le grandi cerimonie." "Ah, sì?" disse Ingrid, sforzandosi di nascondere il disappunto che le si era insinuato nella voce. "Pensavamo a un tranquillo matrimonio in famiglia..." "In famiglia! Santo cielo. Devi informare i tuoi genitori" disse Ingrid. "E presto dovremo incontrarci con loro." "Se posso fare una telefonata..." Anna guardò Edward. "Certo, certo." "Io volevo seguire la tradizione. Sai, chiedere la mano e tutto il resto. Ma Anna lo trovava superfluo. Così eccoci qua, nonno... a interrompere il tuo compleanno." "Già, proprio così" disse Edward fingendo un'irritazione che era ben lontano dal provare. "E non ho neanche aperto i miei regali. Finiamo tutti il pudding e andiamo in salotto a stappare una bottiglia di champagne e ad aprire i regali. Poi la coppia felice potrà usare il mio studio per fare le sue telefonate." Mentre Anna mi passava davanti, i suoi occhi incontrarono i miei. Notai con piacere che aveva un'aria triste. Bevvi il mio whisky, e vidi come lo champagne raddoppiava l'allegria mentre la festa proseguiva. Il whisky è una bevanda che da forza. Nessuno ha mai bevuto champagne dopo una sconfitta. Dopo questa sconfitta, mi dissi, per te non c'è più scampo. Così come, d'altronde, non c'erano né collera né odio. Solo una specie di rassegnazione, un'accettazione del dolore. Io mi fidavo di Anna. Anna si fidava di me. Se volevamo "tutto, sempre" quello era il sistema migliore. Il suo sistema. Osservare la gioia degli altri, mentre si soffre, è come assistere a qualcosa di simile alla follia quando s'impossessa della gente normale. Tutti i miei anni di sereno distacco non mi avevano preparato alla tremenda solitudine che provai quel giorno. Aggrappato alla speranza di Anna, non potevo far altro che vederla allontanarsi sempre più. Incapace di gridarle: "Aiutami, aiutami, non posso far questo," mi sforzavo di apparire gioviale. Accettai i ringraziamenti di Edward per il nostro dono, Ingrid aveva fatto scattare una foto aerea di Hartley, e ascoltai il susseguirsi di domande e di risposte sulle nozze imminenti di mio figlio. Preso al laccio, sapevo di non dover dare segno alcuno di paura. Se non vi fossi riuscito, avrei provocato proprio la cosa che mi terrorizzava di più: la totale perdita di Anna. Il dolore che sentivo tra le scapole si allargava dentro di me. Il whisky pareva acuire la mia percezione di tutto quello che vedevo. Desideravo intensamente che ne annebbiasse i contorni. Martyn e Anna andarono nello studio di Edward per telefonare ai genitori di lei. Dopo qualche minuto Martyn tornò indietro. "Mamma, credo sarebbe bello se con la madre di Anna parlassi anche tu. Sei sempre così brava in queste cose. Wilbur mi ha pregato di portarti i suoi saluti, papà. Credi che potremmo scambiare due parole, papà?" "Uhm. Naturalmente." Imbarazzati, io e mio figlio attraversammo l'orto dirigendoci verso i campi. "E' strano pensare a tutte quelle estati ad Hartley. Tutte quelle prima di Anna" disse lui. "Faccio fatica a pensare alla mia vita prima di lei. Eppure è solo pochissimo tempo che stiamo insieme. Immagino sia quello che provano tutti quando s'innamorano." "Credo anch'io." "So che tu e la mamma avevate i vostri dubbi. La mamma, soprattutto. Oh, in realtà non ha mai detto niente, ma si sentiva. E la capivo benissimo." "Davvero?" "Sì. Anna è un po' più vecchia di me. Non somiglia alle ragazze che portavo a casa prima." Si mise a ridere. "Be', certo è che ne hai portate a casa, come dici tu, una bella quantità." "Ti ho scandalizzato?" "No. Per niente." "Sei sempre stato un uomo così corretto. Oh, senza essere un ipocrita, assolutamente" si affrettò ad aggiungere, "ma, sai, erano tutte... fantastiche." "Erano tutte molto attraenti. E bionde, come mi faceva notare tua madre." "Già. Avevo proprio un debole per le bionde. E un po' strano, forse, fare con il proprio padre una conversazione come questa, ma oggi mi sento più che mai vicino a te. Mi sono sentito come un principe in quegli anni. Non era promiscuità. Era una specie d'insana sregolatezza." "Che è cessata con Anna." "Sì, Anna è la mia vita, papà. Credo di esserne schiavo. E' una cosa straordinariamente forte. Ho fatto così fatica a stare attento. A comportarmi nel modo giusto, per non perderla. E' una donna molto complicata. All'inizio non credeva che ce l'avrei fatta. Ora ha fiducia." "E da dove nascono queste complicazioni?" "Be', ha avuto un rapporto difficile con il fratello. E' morto, adesso. Poi c'è stato il divorzio dei suoi genitori. E ha anche avuto una lunga relazione con un tizio che non funzionava in nessun modo." "Cos'è successo a suo fratello?" Un padre malvagio pose la domanda. Un buon figliolo rispose: "Un'orribile tragedia. Non ne parla molto." "E chi era il tizio con cui ha avuto questa lunga relazione?" "Si chiamava Peter. Si sono quasi sposati, credo. Poi ha avuto qualche altra storia da poco... Sai..." "Be', c'era da aspettarselo. Ha trentadue, trentatré anni, no?" "Uhm. E' molto sensibile. Detesta sentirsi legata. Ho dovuto stare molto attento. Ho dovuto concederle molta libertà ma anche tener duro." Fece una pausa, imbarazzato. "Non abbiamo mai parlato così prima d'ora, eh?" "No." "Immagino che sia il fidanzamento, soprattutto con una ragazza come Anna, a farmi sentire... più maturo? Ti sembro troppo pomposo?" Mi sorrise. La sua bellezza, la sua statura e la sua felicità si univano in modo da farlo sembrare un giovane dio che marciava a grandi passi verso un dorato avvenire. Io mi sentivo un pesante, stanco servitore, condannato a veder splendere un sole ancor più vivo su questo eletto figliolo. Martyn mi toccò la spalla. "Volevo dire che mi rincresce. Quello che ho detto ieri sera sul caos e la passione era una sciocchezza. Sei stato un padre meraviglioso. Un po' distante, forse, ma questo dipende dal tuo lavoro, e da tutte le esigenze che presenta. In ogni caso, non mi hai mai deluso. E se fossimo stati molto vicini, e tu mi fossi parso troppo interessato da quello che facevo, probabilmente ti avrei detestato. Desidero anche ringraziarti per il fondo. Sono certo che lo hai raccomandato, quando i nonni lo hanno costituito. E' un grande aiuto. Anna e io cominceremo a cercar casa la settimana prossima. Anna ha soldi, lo sai. Ma io voglio mettere su casa con i miei. E' una cosa importante, per me. Così lei venderà la sua casetta e io l'appartamento. Con l'aiuto di una parte del fondo, speriamo di poter comprare una casa ragionevole. A Chelsea, magari. Dio, sono proprio felice. Non avevo la certezza che dicesse di sì. La vita non è meravigliosa?" "Sì, vero?" "Hai provato gli stessi sentimenti quando ti sei fidanzato con la mamma?" "Qualcosa del genere." Mi sentivo male. Dovetti cambiare discorso. "Cosa pensi di Sally e Jonathan?" "Mi sembra che facciano sul serio. Ho conosciuto una persona che lavora per la loro società. Mi ha detto che Sally è molto in gamba. Credo di averla sempre sottovalutata." "E' una cosa che capita spesso, tra fratelli." "Già." Traboccava di felicità. La sua gioia stava trasformando Sally, Jonathan, sua madre e me in figure di gran lunga più simpatiche di quanto le avesse mai trovate. "La mamma è così buona. Lo so che ha avuto più preoccupazioni di tutti. Credevo che con Anna non si sarebbe mai sgelata. Invece è una donna saggia e gentile, e quando ha constatato l'inevitabilità di tutto questo è diventata veramente cordiale. E' una donna meravigliosa, non ti pare?" "Mi pare sì." Consultò l'orologio. "Sarà meglio tornare indietro. Papà, grazie di tutto. Andiamo, il futuro ci aspetta." "Be', l'ha accalappiato. Lo sapevo che sarebbe finita così." "Ingrid! E' Martyn a essere innamorato cotto." "Lo so. Sono secoli che te lo dico. Ma lo voleva anche lei. Lo voleva. E' l'uomo che fa per lei. "Allora sarai felice." "Non esattamente. Ma non mi resta che chinare il capo di fronte all'inevitabile." Sospirò. "Immagino che tutte le madri debbano sentirsi un tantino possessive quando il loro unico figlio decide di sposarsi. Quel che è certo è che non acquisto una figlia. E neanche tu." "Che diavolo vuoi dire?" "Oh, sai... Perdi un figlio, acquisti una figlia. Anna non ha alcuna intenzione di mantenere stretti rapporti con me, o, se è per questo, anche con te. Così, se la relazione di Sally finirà come io credo che finirà, Jonathan sarà come un altro figlio." "Uhm, può darsi." "Il padre di Anna mi è sembrato simpatico. Sua madre, invece, l'ho trovata un po' fredda. Straordinario che Martyn non li abbia conosciuti. D'altra parte, è stato tutto così rapido." "Wilbur l'abbiamo conosciuto." "Già. Le nozze saranno in giugno, mancano appena tre mesi. Il padre di Anna viene a Londra. Ci ha invitato a pranzo per la settimana prossima. La madre, immagino, la conosceremo solo alla vigilia del matrimonio. Devo dire che sono molto curiosa di vedere che tipi sono. Tu no?" "sì." Tutto mi sta sfuggendo di mano, pensavo, mentre andavamo a Londra. Ma, avendo piegato la testa in atto di sottomissione ed essendo diventato una vittima, potevo solo assistere e soffrire, amare e attendere pazientemente i miei momenti con Anna. Dopotutto, riflettevo tristemente, sarà sempre meglio questa vita di quella che facevo prima. Il padre di Anna era uno di quegli inglesi che danno a tutti quelli che li incontrano l'impressione di essere dei gentiluomini. Gli italiani, i francesi, i tedeschi hanno i loro aristocratici, ma l'autentico gentiluomo inglese aderisce a un codice morale che viene sottilmente messo in pratica dietro lo schermo di una perfetta educazione. Charles Anthony Barton era un uomo di tale natura. Si alzò per salutarci quando arrivammo al Claridges per il pranzo. "Mi rincresce moltissimo che mia moglie non sia qui per fare la vostra conoscenza. Nostra figlia non stava tanto bene." Già, la figlia delle seconde nozze. Ci scusammo per l'assenza di Sally. La sua nuova carica direttiva richiedeva pranzi di lavoro. "Accomodatevi. Cosa gradisce bere, Ingrid? Posso chiamarla Ingrid? Champagne, magari?" "Sarebbe graditissimo" disse Ingrid. "Whisky per me, grazie." Arrivarono Anna e Martyn. Lei sfiorò con le labbra la guancia di suo padre. "Papà. Questo è Martyn." Charles Barton si voltò per salutare mio figlio. La sua testa ebbe un sussulto come se qualcuno gli avesse dato un pugno. In un attimo si era ripreso. "Piacere di conoscerti, Martyn." Guardò Anna. "Ce lo hai tenuto ben nascosto, questo giovanotto. Sono molto felice per tutt'e due." Lentamente ci mettemmo a sedere. "Signore. Sono pieno di rimorsi. Avrei dovuto venire da lei a chiederle il permesso di sposare Anna. Ma francamente ero così impegnato nel convincerla a dire di sì che tutto il resto è passato in seconda linea. La prego di perdonarmi." "Che bel discorso! Certo che ti perdono. Non mi sarei mai aspettato una simile richiesta." Aveva ritrovato la padronanza di sé e stava studiando Martyn attentamente. "Anna, vedo che sei una ragazza molto fortunata." "Be', papà, ora dovresti spiegare a Martyn quant'è fortunato lui." "Mi sembra evidente che Martyn lo sa già." Il cameriere aspettava. Ordinammo. Ci fu il solito scambio di convenevoli comune a tutte le riunioni familiari di quel genere. Ma con il passare del tempo mi accorsi che il padre di Anna, per gentile che fosse, non aveva in realtà per sua figlia molta simpatia. Mentre si salutavano con un bacio, dopo pranzo, lui le toccò un braccio per un attimo e le sussurrò qualcosa. Colsi al volo la risposta di Anna: "Non sono d'accordo. Non è così forte..." Poi si accorse che la stavo guardando e, rivolta a Ingrid, disse: "Mio padre trova che Martyn è piuttosto somigliante a mio fratello Aston." "Anna!" Sorpreso, suo padre fece un passo indietro e urtò Martyn, che lo tenne in piedi. Si scambiarono un'occhiata. Martyn disse: "Per lei dev'essere un terribile choc... questa somiglianza... se c'è..." Si interruppe, era in difficoltà. "Avete un figlio generoso." Charles Barton si rivolse a Ingrid. "Perdoni l'intrusione della tristezza in un'occasione così felice. Era una somiglianza molto superficiale. Anna non avrebbe dovuto ripetere ad alta voce il mio commento. Ora ho un appuntamento al quale non posso mancare. Ci rivedremo presto. Arrivederci, Martyn. Sono molto contento e onorato dall'idea di averti come genero. Arrivederci, Anna. Sii felice, mia cara." Ci strinse la mano. Più fragile e più vecchio di quanto ci era apparso soltanto un'ora prima, se ne andò. "Anna, Martyn mi ha detto che Aston è morto quando era molto giovane" disse Ingrid con dolcezza. "Se c'è una somiglianza, per tuo padre, sarà stato un colpo terribile. E' una somiglianza molto grande?" "No, non è molto grande. Forse... per un attimo... c'è una leggera somiglianza. Martyn ha un colorito molto insolito. Lo stesso che aveva Aston." "E lo stesso che hai tu" disse Ingrid. "Sì. Ma non è tanto strano in una donna." "Oserei dire che è abbastanza sorprendente, mia cara" disse Ingrid. Vedevo bene che Ingrid era sconcertata. Martyn il conciliatore tornò a farsi avanti. "Mamma, ora noi andiamo a vedere una casa. Va tutto bene. Cerchiamo di non dimenticarlo. Mia madre è pallida e bionda. Mio padre bruno e di carnagione scura." "Grazie." "Io ho la pelle chiara della mamma e i tuoi capelli neri. Non mi sembra poi tanto straordinario eh?" "No di certo. Il padre di Anna, naturalmente, è stato preso alla sprovvista, tutto qui." "Povera Anna. Vieni, andiamo a caccia. Di una bella casetta piena solo di ricordi felici." Ingrid e io rimanemmo soli. Ordinammo un altro caffè. "Ogni volta che mi sembra che vada tutto bene, quella ragazza fa qualcosa di strano o d'inquietante che mi raggela il cuore. A questo mondo ci sono delle persone, innocenti a modo loro, che recano danno. Anna è una di queste. Farà del male a Martyn, ne sono sicura. Le mie prime reazioni erano giuste. E' sempre così. Oh, perché non sono intervenuta prima?" "Davvero, Ingrid, cos'è che ti agita tanto? Suo padre ha notato una certa somiglianza di Martyn con il fratello di Anna: non è poi così terribile, ti pare?" Lo sforzo di calmare e consolare gli altri è sempre il miglior antidoto contro il proprio panico e la propria costernazione. "Che cosa è successo a quel ragazzo? Sono certa che tu sai tutta la storia. Te l'ha detta Martyn. No?" "No." "E' successa una tragedia, e lei vi è collegata in qualche modo." "Ingrid, nostro figlio sta per sposare una donna bella e intelligente. Suo padre è chiaramente un uomo molto perbene. Il suo patrigno è simpaticissimo. Non abbiamo ancora conosciuto sua madre, ma sono certo che ci piacerà anche lei. Suo fratello è morto quando era appena un ragazzo. Anna è una nuora più complessa e forse meno facile di quanto tu avresti gradito. Ma questo è tutto. Ora basta. Ti stai preoccupando inutilmente." "Forse hai ragione. Questo ha solo confermato tutti i miei pregiudizi contro di lei." "Esatto! Se tu fossi stata aperta con lei fin dall'inizio, questo incidente non avrebbe avuto la minima importanza." "Uhm." Ma sotto le mie parole si nascondeva una sottile paura. Lungo quale strada pericolosa stiamo per incamminarci tutti quanti? Un terrore improvviso per i membri della mia famiglia m'inghiottì. Bugiardo! urlava il poliziotto che avevo nel cuore. Bugiardo! L'unica paura che ti assale e ti torce le viscere è la paura di perderla. Non riesci a conquistarla interamente, e ogni giorno che passa te lo dice con la massima sicurezza. Ma non molli. Perché sai che per te non c'è vita senza di lei. Sorrisi a Ingrid e, con molte rassicurazioni, l'aiutai a imboccare la strada per l'inferno. Poi, passando attraverso l'atrio, vidi la nostra immagine in uno specchio: una donna bionda ed elegante di una certa età e il suo compagno, dall'aria forse vagamente familiare, ben vestito, con un viso forte e buono. Del male che si annidava nella mia anima non c'era nessuna traccia. "Quello di ieri, evidentemente, era un buon giorno per gli innamorati. La casa era proprio come la volevano." "Bene." Ogni giorno ormai mi rivelava con una feroce chiarezza il mio tradimento e le strade disperate che seguiva. Quella cena con Ingrid si svolse in un silenzio meditabondo che, lo sapevo - nascondeva la sua collera. "Oggi ho telefonato a Martyn. Le mie domande non gli sono piaciute. Ma per una volta sono stata una madre invadente. Non lo sono, di solito, ti pare?" "No. Di solito sei molto discreta." "Ha deciso di affittare l'appartamento a un collega di lavoro, e di utilizzare l'affitto per le spese vive. La casa di Anna ricavata dalla scuderia sarà messa subito in vendita. Martyn pensa che si troverà facilmente un acquirente. Per coprire il costo della casa nuova intende usare una parte del fondo. E' vuota da un paio di mesi e abbisogna di un po' di lavoro, evidentemente. Vi potranno traslocare dopo il completamento dei lavori. Vogliono un tranquillo matrimonio in famiglia alla fine del mese prossimo. Tutto molto preciso, molto svelto, quasi clinico. Niente nozze ad Hartley, perciò. Una corsa all'ufficio di stato civile e poi un pranzo in famiglia. Su questo sono irremovibili. La madre di Anna verrà evidentemente una settimana prima delle nozze. Almeno la conosceremo prima della cerimonia vera e propria. Dovremo invitarla a pranzo o a cena o per qualche altra cosa. Speriamo che Sally ci permetta di organizzare un matrimonio più tradizionale. A parte tutte le mie preoccupazioni, mi sento veramente presa in giro." "Sally farà tutto come speri tu. E' proprio un tesoro, una brava ragazza borghese carina e tradizionale." "Grazie a Dio! Martyn è talmente cambiato, non trovi? E' molto diverso. Oh, se penso a quella sfilza interminabile di bionde! La compagnia del pranzo domenicale." "Credo che quelle siano sparite per sempre." "Sì, Anna è il colpo di grazia per quel genere di vita." La frase restò sospesa in aria per un secondo di troppo. "Ho chiesto a Martyn di Aston." "Sì? Cos'ha detto?" "Dice che è una storia molto triste, che Anna gli aveva detto secoli fa che Aston si era suicidato. Era terribilmente giovane, da quello che ho capito. L'altro giorno ho letto un articolo, non è così raro. Oh, Dio, non vorrei sembrare troppo..." "Capisco benissimo. Non manca di precedenti. La pubertà, l'inizio dell'adolescenza... è molto duro per certi ragazzi." "Martyn era arrabbiatissimo con me alla fine della conversazione. Sembrava che volesse chiudermi la bocca con un "Questa è la mia vita, so ben io quello che faccio." Sono stata sostituita da Anna... Ora è lei che ha la precedenza su tutto... Proprio come doveva succedere." Mi rivolse un'occhiata interrogativa. "E anche tra noi, al momento, le cose non vanno tanto bene, non ti pare? Tra noi due." "Forse. Passerà." "Se non ti conoscessi così bene, mi sarei già convinta che hai una relazione." "Davvero? Sono quasi lusingato." "Be', non esserlo. Non lo sopporterei. Francamente, non lo sopporterei." Mi sfidava con gli occhi. "Uomo avvisato..." dissi. Dentro di me quella voce diceva: quella che ho non è una relazione, no, non è una relazione. E' qualcosa che mi consuma, anima e corpo. Tutta la mia esistenza è legata a una cosa sola, il tempo che passo con Anna. La mia vita prima di lei era una plausibile bugia nella quale anche tu, Ingrid, hai avuto la tua parte. Non ci sarà una vita dopo Anna. Non ci sarà una vita dopo di lei. Con uno stanco sorriso di autocommiserazione, andai nello studio a lavorare per un'ora. Volevo dare a Ingrid il tempo di mettersi a letto e di prender sonno, senza altre conversazioni. Si stava creando un nuovo rituale, che nei primi tempi richiedeva un'assoluta disciplina. Il giorno dopo telefonai. "Anna, devo vederti." "Lo so. Stavo per telefonarti." "Da te alle tre e mezzo?" "sì." Aprì la porta, e la seguii fino in camera da letto. Dal cassetto di un comodino prese la foto incorniciata di un ragazzo. Un viso lungo, angoloso, quasi imbronciato ricambiò con aria torva la mia occhiata. C'era una certa somiglianza con Martyn, senza dubbio. Ma superficiale, come aveva detto Anna. "Vedi? Non è niente, non è niente." "Allora perché hai annunciato al mondo intero l'osservazione fatta da tuo padre?" Lei ripose la foto nel cassetto, che poi chiuse con cura. "Ero arrabbiata con lui. Molto arrabbiata. Non avrebbe dovuto dire niente." "Tu hai notato la somiglianza la prima volta che hai visto Martyn?" "Certo. Per un attimo... Certo." "C'entra per qualcosa? Con l'attrazione che provi per Martyn?" "No. No. Con lui voglio fare una normale vita coniugale." "Che strano modo di esprimersi." Sorrise. "Sei il solito ficcanaso. Ma non come una volta. Stai cambiando." "Porto il mio fardello. Anch'io ho scelto la mia vita, e il modo in cui la voglio vivere." Accostò il suo viso al mio e sussurrò: "Tutto. Sempre." Le sue fattezze, deformate dalla prospettiva, e quasi brutte, mi divorarono. Ci rotolammo qua e là nella stanza, contro o sotto legno, vetro e velluto. Quel giorno mi venne un'ossessione, che nella curva della sua spina dorsale si sarebbero trovate delle ossa che mi avrebbero dischiuso una strada segreta per giungere fino a lei. Alla fine rimanemmo immobili, lei col viso schiacciato contro il disegno della tappezzeria di seta, io con lo stomaco premuto sul fondo della sua schiena. Dopo quell'attimo di estasi, il suo volto rientrò nell'antica prospettiva. E tutto ciò che ero, o che sarei mai stato, mi era stato rivelato ancora una volta. Mentre uscivo, mi disse: "Ho un regalo per te." Mi porse una scatolina. "Io mantengo le promesse. Ricordatelo. E dimentica tutto il resto." Me la mise in mano. "Era il mio progetto, poco tempo fa." Aprì la porta e io sgattaiolai fuori. Raggiunsi un piccolo caffè. Avevo bisogno di sedermi in un posto tranquillo, per aprire la scatola. Dentro c'erano due chiavi. Appartamento C 15. Welbeck Way, W1. Fermai un taxi e vi giunsi in pochi minuti. Dietro l'imponente facciata di un palazzo d'epoca si trovava un ingresso di marmo verde scuro, dal quale si potevano raggiungere verande con balaustre scolpite. Una cupoletta di vetro colorato spandeva una strana luce su marmi, legni, e sui muri grigio chiaro. A ogni piano due appartamenti si fronteggiavano dai lati opposti del pozzo delle scale. L'appartamento in sé e per sé era veramente solo uno stanzone, con un bagno e una cucina. La camera era sommariamente arredata, con un grosso tavolo, alcune sedie e, in un angolo, un piccolo letto matrimoniale. Sotto le librerie vuote c'era un basso tavolino di vetro. Sul tavolino c'era un biglietto. Questa stanza conterrà solo noi. Un mondo dentro un mondo. Io verrò a visitarla per conoscere i tuoi desideri. Perché in questo mondo che ho creato io, tu comandi e io sono la tua schiava. Aspetterò nei momenti che indicherai tu. Essendo ubbidiente, sarò sempre presente. Accanto alla lettera c'era un'agenda dall'aspetto antico rilegata in pelle, e una penna d'oca e un antico calamaio. L'agenda si aprì alla data di quel giorno. Piegato sulla pagina c'era un lungo nastro di seta verde, e sotto c'era scritto: "Ed egli prese possesso del suo regno." Sfogliai le pagine bianche che seguivano e trovai un'annotazione fatta sulla data di dieci giorni dopo che diceva: "Anna aspetta dalle dodici alle due." Entrai nella stanza da bagno. Era ben fornita di sapone, spazzolini da denti, pasta dentifricia, fazzoletti di carta, asciugamani. In cucina c'erano due tazze con i relativi piattini, due bicchieri, tè, caffè, whisky. Il frigo conteneva solo acqua minerale. Cercai un po' di colore. La moquette del salotto aveva la tinta del vino scuro. Non c'erano tendine, solo uno scuretto sull'unico finestrone che dava su un quadrato di verde. Abbassandolo, mi trovai in una semioscurità. Apprezzavo molto il mio regno. Ed ero felice. Legai l'agenda con il nastro verde e sotto il nastro misi un biglietto che diceva: "Da aprire il giorno venti, tra le dodici e le due." Uscii. Più tardi, quella sera, Ingrid e io ci separammo, dopo una cena dominata dai discorsi sulle nozze imminenti, per rintanarci nei reciproci santuari: lo studio per me, la stanza da letto per lei. Tastai le chiavi che avevo in tasca, mentre mi sedevo a lavorare, come un povero diavolo potrebbe toccare la gemma che ha appena rubato. Una gemma che avrebbe trasformato la sua vita. I miei giorni erano pieni di riunioni con i membri della mia commissione e le mie notti delle frammentarie informazioni datemi da Ingrid sul matrimonio, sul ricevimento, sulla luna di miele. Oh, con quali attraenti, accattivanti e futili sistemi si legano gli uomini alle donne! Allo scopo di addomesticare l'unico vincolo che conta. E tra le dodici e le due del giorno designato infilai la chiave nella porta del mio regno. Anna, vera e magnifica, giaceva sul pavimento; aveva l'agenda sullo stomaco. Allorché sciolsi il nastro, sorrise. Quando venne il momento di andar via, scrisse qualcosa sull'agenda. Vidi l'ora, dalle quattro alle sei, e la data, che era la vigilia delle nozze. Lei prese un altro nastro, azzurro, questo, e lo avvolse ripetutamente intorno all'agenda. Carezzandomi il viso, disse: "Tutto. Sempre. Ricordatelo." Anna e sua madre, Elizabeth, sedevano fianco a fianco sul sofà nella nostra stanza di soggiorno. Anna era tranquilla e controllata come sempre. Sua madre era piccola, quasi simile a un uccellino. Gli occhi e i capelli neri che aveva passato ad Anna formavano uno sconcertante contrappunto a tutto ciò che di diverso c'era in loro. Un'aria stanca di artificiale vivacità aleggiava intorno a lei. Era certo l'abitudine, pensai, a produrre quel sorriso falsamente raggiante, a suscitare quelle reazioni di una troppo sollecita cordialità. Sì, il suo viaggio era stato stancante. Ma aveva davanti a sé qualcosa di meraviglioso a cui non vedeva l'ora di assistere. Rispose alle mie domande sul volo. Poi si rivolse a Ingrid. "Ingrid, le piace viaggiare?" "No, non tanto." "Wilbur arriva in aereo giovedì." Le aveva detto tutto di Martyn e della sua splendida famiglia. Carezzando la mano di Anna, disse: "Anna non scrive abbastanza spesso... Vero, Anna?" "No." "Contrariamente a quello che si crede, le telefonate sono meno personali. Nelle lettere io rivelo sempre qualcosa di più di me stessa. Ma Anna non rivela mai molto di se stessa in ogni caso. E' sempre stata molto riservata, vero, cara?" Tornò a fare una carezza alla mano di Anna. "Sai, quando tu e Aston" (pronunciò quel nome come se in qualche modo esso le fosse poco familiare) "eravate piccoli, siete sempre stati molto riservati." Rivolta a Martyn, disse: "Tu sai di Aston, vero, Martyn? Gli somigli un pochino. Anna te l'ha detto?" Ora sembrava un'osservazione innocente. Elizabeth scoccò a Martyn un sorriso rapido e nervoso. "Sì, certo. Anna me l'ha detto." La voce di Martyn era piena di gentilezza. "Quando erano piccoli, ero sicura che Aston e Anna avessero fondato una piccola società segreta. Avevano un linguaggio cifrato, degli strani segnali... Tutto per non farsi capire dai genitori." Guardò Anna con un sorriso raggiante. "Eri proprio molto cattiva, no?" "Cattiva!" Martyn rise. "Non riesco a immaginarlo." "Oh, sì. Molto, molto cattiva. Penso volentieri a quei tempi. Anche se mi suggeriscono pensieri assai più tristi." Si vedeva che c'era in lei una vulnerabilità, una dolcezza ancora attraente. Due uomini molto intelligenti l'avevano sposata. La sua vivacità, la sua bellezza, l'elegante corpicino dovevano aver avuto, in passato, il potere di abbagliare. Il suo viso doveva essere passato dalla bellezza della gioventù alla sua sbiadita versione degli anni più tardi senza l'autocoscienza o la saggezza che avrebbe potuto farla bella nella sua maturità. Era, pensai, una donna non molto intelligente che non era mai stata all'altezza dei suoi figli. Concepii una brusca avversione per Aston, e non trovai molto simpatico nemmeno il ritratto dipinto da Elizabeth di Anna da bambina. Forse è quella la grande forza di sua madre, pensai: suscita pietà. Mentre continuava a chiacchierare, scavando allegramente sotto i piedi di sua figlia, era Anna, seduta in silenzio accanto a lei, che delle due sembrava la più malevola. "Ma questo è un momento meraviglioso" continuò. "Sono tanto felice per Anna. Ora ditemi, avete già deciso per la luna di miele?" "Andremo a Parigi per una settimana." Sua madre mostrò un'aria preoccupata. "Sì. Be', Parigi è sempre stata la tua città preferita. Piace anche a te, Martyn?" "Moltissimo. E' un'idea di Anna. Devo dire che non vedo l'ora. Ci siamo stati poco tempo fa. Siamo stati piuttosto scalognati perché Anna non è stata troppo bene. Abbiamo dovuto anticipare il ritorno." "Povera me. E Parigi ha tanti ricordi felici per te, Anna, non è vero?" Guardò Anna, che ora mostrava una cupa collera. "Uhm." "Perché?" chiese Ingrid. "La prima storia d'amore di Anna" disse, dando l'impressione di scegliere attentamente le parole, "fu a Parigi. Lasciammo Roma dopo... la tragedia, e passammo qualche tempo a Parigi. Peter aveva appena iniziato gli studi, anzi vive ancora là. E' sposato, adesso... Povero ragazzo, è stato un fiasco colossale. Sua madre mi dice che veniva spesso a Londra. Ultimamente ha venduto l'appartamentino che aveva qui. Lo avete mai incontrato? Mi sembra molto bello che rimanga l'amicizia quando l'amore finisce. Non è d'accordo?" Si era rivolta a Ingrid. "Mamma... ti prego" la interruppe Anna. "Povera me! Sono stata di nuovo indiscreta? Anna, sembri piuttosto arrabbiata con me." "No, mamma, non sono arrabbiata." "Martyn, avrai certo avuto degli amori prima di incontrare Anna." "Uno o due." "Tutti biondi" disse Sally, che era appena arrivata. "Centinaia di bionde sono sfilate proprio in questa stanza. Il mio caro fratellino era un vero dongiovanni." "Ma quei giorni sono finiti. Glielo garantisco." Martyn sorrise a Elizabeth. "Siamo molto felici." "Lo vedo! Anna, sei una ragazza molto fortunata. Oh, Anna, smettila di avercela con me. Ci teniamo in contatto, io e la madre di Peter. Era un'osservazione del tutto innocente." "Peter cosa fa?" domandai. "Dopo tre generazioni di pubblici funzionari, ha sorpreso tutti ed è diventato uno psichiatra. Ha uno studio molto rinomato a Parigi. Il francese è la sua seconda lingua, e a volte lui dice che la conoscenza di un'altra lingua rivela con più chiarezza la verità." Rise, poi disse: "Sembro Wilbur." "Perché veniva a Londra tanto spesso?" "Per lavoro, immagino. Veramente non lo so. Mi è venuto in mente a causa dell'ultima lettera che ho ricevuto da sua madre. Diceva che tutt'a un tratto aveva venduto il suo appartamentino." Anna si alzò in piedi. Con un tranquillo "Scusatemi" lasciò la stanza. Ci fu un silenzio imbarazzato. "Oh, povera me! Vorrei non avere mai iniziato questa conversazione. Non ha proprio nessuna importanza. La segretezza di Anna non finisce mai di sbalordirmi." "Forse è una difesa" disse Martyn. "Una difesa da che?" "Non riesco a immaginarlo" replicò Martyn. Bravo, Martyn. Ora vedi anche attraverso di lei: questa madre letale che si sta rivelando lentamente. Come stupirsi se Aston e Anna si erano chiusi per proteggersi da lei, nel loro mondo segreto? E dopo la morte di Aston non c'era da meravigliarsi che si fossero tutti separati: incapaci di evitare lo spargimento di sangue o di mondare dalla colpa, di affrontare le proprie responsabilità. Così il silenzio, la separazione e la tristezza erano diventati un sistema di vita. C'erano stati nuovi matrimoni, nuove vite, nuovi amori: per portarli via, via da tutto ciò che era successo prima. Eppure si sentivano ancora tutti in trappola, tutti dal primo all'ultimo, straziati dai tormenti di quel problema insoluto di tanto tempo prima. La serata finì, e tutti se ne andarono meno felici di quando era incominciata. Mentre Martyn avviava il motore, e Anna teneva aperta la portiera per Elizabeth, io accompagnai la madre di Anna lungo il breve sentiero fino al cancello di ferro e all'automobile. "Come si chiama Peter di cognome?" chiesi tranquillamente, misurando con cura la distanza che mi separava da Martyn e Anna. "Ho un amico a Parigi che ha un problema piuttosto grave." "Calderon. Dottor Peter Calderon. E' nella guida. Non dica ad Anna che gliel'ho detto. Andrebbe su tutte le furie. Wilbur una volta gli ha mandato uno scrittore amico suo. E' stato molto utile." Eravamo arrivati alla macchina. Ci salutammo. "A sabato prossimo." Se ne andarono a tutta velocità. "Strana donna. E' tutto il contrario di Anna. No?" chiese Ingrid. "Io l'ho trovata piuttosto simpatica" disse Sally. "E' più aperta e loquace di Anna." "Be', a dir poco" disse Ingrid. "Così adesso li conosciamo tutti. Madre, padre, patrigno... la matrigna non ancora. Ora, immagino, ho una famiglia più grande. Certo non mi fa questa impressione. Probabilmente non me la farà mai. Non con questa famiglia, in ogni caso." Sospirò. "Con Jonathan sarà diverso. I Robinson li conosciamo già. Vediamo profilarsi altre nozze all'orizzonte?" disse Ingrid per stuzzicare Sally. "Be', di sicuro non me l'ha ancora chiesto." "Lo farà, lo farà. E lasciati dire subito che voglio un matrimonio in piena regola seguito da un sontuoso ricevimento ad Hartley. Promettimelo." Ingrid abbracciò Sally che arrossiva. "Lo prometto, mamma, lo prometto." Pensando a matrimoni e a figli, a madri e padri, chiudemmo la giornata. Andammo nelle nostre camere, ciascuno per la sua strada, a dormire. "Il dottor Peter Calderon?" "Qui." "Sono un amico di Anna Barton. Vorrei venirla a trovare. "Perché?" "Credo che sarebbe utile." "A chi?" "A me." "Le ha detto Anna di telefonarmi?" "No." "Che genere di amico è lei?" "Sono il padre di Martyn." Ci fu un breve silenzio. "Ah, sì, Martyn. Anna mi ha parlato della sua decisione di sposarsi." Quelle parole, "decisione di sposarsi" - suonarono goffe e stranamente formali. "Questa, chiaramente, non è una telefonata professionale. Vorrei dire solo che auguro ad Anna e Martyn un matrimonio molto felice. Penso che dovremmo chiudere qui questa conversazione." Fece una pausa. "Io non vado più a Londra. Anna di rado visita Parigi." "Anna è una sua paziente?" "Non sono tenuto a rispondere, ma lo farò. No." "Ma lei la capisce in un modo diverso dalla maggior parte della gente... a causa della sua preparazione." "Non proprio. Io direi che la persona che capisce meglio Anna è l'uomo che sta per sposare. Suo figlio. Mi sembra di capire che Martyn la lascia ai suoi misteri, ai suoi segreti, e forse agli altri suoi amori." "Altri amori?" "Sì, sempre." Ci fu un intervallo di silenzio. "Anna non mi ha mai parlato di lei." "Perché avrebbe dovuto? Sono solo il padre di Martyn." "Evidentemente, lei è un padre molto insolito. Ma ha anche un figlio molto insolito. E questa è una conversazione molto strana." Sospirò. "Anna provoca strane conversazioni." "Perché lei non ha sposato Anna?" "Oh, Dio. Devo rispondere? Non potevo darle ciò di cui aveva bisogno." "Che è...?" "La libertà. La libertà di essere sempre legata a quelli che ama, a tutti quelli che ama. Occorrono grandi riserve di carattere e di intelligenza, e naturalmente un grande amore, per poterle dare questo." "O magari il semplice rifiuto di affrontare la verità su di lei." "Oh, io penso che suo figlio abbia affrontato tranquillamente molte verità su Anna. Anzi, ne sono certo." "Perché?" "Perché Martyn e io ci siamo conosciuti." "Quando?" "Non le dirò altro." "Perché non me lo ha detto subito?" "Chi sa dove può finire una conversazione? Come ora sta facendo la nostra, con un altro mistero, che rivelerà, a chi indaga, un'altra segreta verità. Perché meravigliarsi se mi sento realizzato nella mia professione? E ora addio. Buona fortuna a lei e a suo figlio. La prego di non telefonarmi più." Martyn, mio brillante figliolo, così tu sei arrivato a Peter Calderon prima di me. E con tutta la tua intelligenza, e tutto il tuo amore, cos'hai ottenuto? Non tutto di Anna. Io ho tutto di Anna, quando viene da me. E forse, in verità, non voglio il resto della sua vita e del suo tempo. Perché chiedere di più? Peter ha chiesto di più e ha perduto tutto. L'appartamento in Welbeck Way era stato suo, naturalmente. Ora capivo. Avrebbe dovuto contare. Non contò. Non ho un fisico elegante. Sono troppo massiccio per essere distinto. Vesto con molta cura. Mi presento nel mondo nei miei completi di flanella grigio scuro, con la camicia bianca e una cravatta color vino (le ordino a dozzine), nella guisa dell'uomo elegante. Mi sono sempre vestito così. Anche la roba che metto nel tempo libero tende a una raffinata correttezza che mi è sempre servita a formalizzare la distanza che voglio tenere dagli altri. Non sono né sportivo, né spigliato, né particolarmente disponibile. Il giorno prima del matrimonio, mentre anch'io camminavo verso la mia nuova vita con Anna (perché era così che la vedevo), compresi che il fardello che mi aveva gravato tanto pesantemente sul cuore era ormai diventato sopportabile. Avevo accettato che la mia vita continuasse sul ciglio di un abisso. Nell'appartamento, Anna mi aspettava. Una valigia era posata sul tavolino di vetro come un ornamento. "Ho detto a Martyn che volevo questo pomeriggio e questa notte tutti per me. Arriverò all'ufficio di stato civile dal mio posto segreto. Quando sarai andato via, spero tu possa restare più a lungo del previsto, me ne starò distesa in questa stanza a sognare tutte le mie vite. Sono felice. Solo, non riesco a crederlo. Sono felice. Non sono mai stata felice, mai, da quando ero bambina. Ora invece lo sono. E' una sensazione straordinaria. Tu sei stato felice?" "Non lo so. Forse sì. E' triste, ma davvero non riesco a ricordare." Sospirai. "Sembra una cosa così poco importante." Aprì la valigetta. Ne tolse con cura un vestito color panna e un cappellino, che mise in un armadio vuoto. "Questo è per domani" sorrise. "Questo pomeriggio, e questa sera, è per te." Mentre l'abito scivolava sul pavimento, riconobbi il suo tributo nel modo in cui il cordone di seta scura le passava tra le gambe, e nel modo in cui il suo colore ondeggiante le formava una treccia intorno ai seni. Indicò un livido scuro e mormorò: "Dandosi una ferita volontaria, qui nella coscia." Vedi, anch'io posso dimostrare la mia forza e la mia fedeltà." L'adagiai dolcemente sul pavimento. Lasciando il mio elegante costume sul sofà, ridiventai me stesso. Le parlai di sogni in una lingua che solo lei poteva capire. Dea degli immensi poteri, bisbigliò sì, sì, per tutte le ore della sua prigionia. Nella sua onnipotenza dominava il suo padrone ridotto in schiavitù. Trovai nella valigia un nastro ricamato a mano e glielo avvolsi intorno al capo fino a toglierle la vista. Poi sentii il bisogno del silenzio. Trovai morbide pepite di cotone che portavano a un totale isolamento, e quando furono al loro posto noi ci trovammo in un mondo immerso nel silenzio più assoluto. Mentre giaceva sul pavimento, una pulsazione nello stomaco sembrava far vibrare la sua pelle a un ritmo senza suono. La mia bocca si abbassò in un rapace inseguimento, e cercai con la lingua di afferrarne i palpiti di farfalla. Invano. Impastavo con il pugno il livido blu che lei stessa si era prodotta sulla coscia. Non riuscendo a cancellarlo, costrinsi la sua oscurità a spandersi come una macchia verso il grumo di peli scriminati dal cordone di seta che aveva tra le gambe. Quando la porta si aprì per farlo passare, per un attimo fui l'unico a vedere Martyn. Con dita frenetiche, estirpai il silenzio dalle nostre orecchie. Anna gridò: "Che c'è? Che c'è?" Le strappai il nastro dagli occhi, e in un attimo lo sentimmo entrambi mormorare: "Impossibile. Impossibile. Possibile." Inquadrato nel vano della porta, sembrava che ondeggiasse avanti e indietro sull'angusto pianerottolo. Mi alzai per aiutarlo. Levò le braccia sopra la testa come per parare un colpo terribile. Poi, come un bimbo che rincula passo passo, meccanicamente, davanti a una dimostrazione d'inaudita malvagità, e fissando in pieno viso colui che lo aveva distrutto. precipitò in silenzio oltre la ringhiera per andare incontro alla morte sul marmo del pavimento sottostante. La forza che avevo in corpo mentre lo tenevo tra le braccia, con il collo piegato in due come uno stelo spezzato, era inutile nella sua gagliardia. Dove, dov'è la dolcezza che avrebbe potuto cullarlo? Un seno di donna ci vuole, morbido e tondo, per i cadaveri dei nostri figli, quando ce li stringiamo al cuore nella sfrenata sincerità del nostro dolore. La durezza del mio petto non concedeva al suo viso un posto ove nascondersi. Le mie braccia muscolose dovevano sembrare oscene e minacciose mentre cercavano di raccogliere e plasmare contro di me le varie parti del suo corpo spezzato. Quell'atrio vuoto diventò un pozzo di marmo, nel quale con voci sbigottite la gente lanciava domande speranzose. "Devo chiamare un dottore?" "Posso fare qualcosa?" "Ho chiamato la polizia." "Vuole una coperta? Per lei? Da mettersi addosso?" Solo allora mi resi conto che ero nudo. "E' morto? Oh, è morto?" E poi Anna camminò lentamente verso di noi. Vestita, pettinata e orrendamente calma, disse: "E' finita. E' finito tutto." Toccandomi lievemente sulla spalla e guardando Martyn senza pietà, scivolò quasi verso la porta e disparve nella notte. Altri, ora, erano nel pozzo. Formavano una cerchia silenziosa intorno a noi, l'uomo nudo e il suo bel figlio morto, in maglione e blue jeans. Una donna gettò sopra di me una stola rossa, che cadde sul mio corpo al rumore della porta che sbatteva alle spalle di Anna. Altri rumori, e poi un agente di polizia fendette il gruppo senza dover dire parola. Inginocchiandosi in silenzio accanto a me, disse: "E' morto, temo." "Sì... E' morto sul colpo." Ci scambiammo un'occhiata. "E'... E'?" "sì." "E il giovanotto chi è?" "E' mio figlio, Martyn." Il medico e gli uomini dell'ambulanza si inginocchiarono accanto a me. Un altro poliziotto invitò sottovoce il capannello a spostarsi in fondo all'atrio insieme a lui. Udivo i loro bisbigli come una dolce, malinconica canzone sullo sfondo. Non fu una cosa facile permettere che il corpo di Martyn mi fosse tolto dalle braccia. Ma il dottore era gentile e gli uomini dell'ambulanza discreti ed efficienti. Poi rimanemmo soli, io e il poliziotto, e cominciammo a salire le scale verso l'appartamento. La porta era aperta. Tolti i miei vestiti, ora piegati con cura, non c'era traccia di quanto era accaduto prima dell'irruzione. "Posso vestirmi?" Il poliziotto guardò il mio corpo nudo che si stringeva nella stola rossa e annuì. "Dovremo mettere a verbale una sua dichiarazione, signore... Più tardi. Vorremmo farlo alla stazione di polizia." "Sì, certo. Devo parlare con mia moglie. E' di vitale importanza che io le parli." "Capisco, signore." Si guardò intorno. "Sembra che non ci sia il telefono." "Già." "Di chi è questo appartamento, signore?" "Della fidanzata di mio figlio." "E come si chiama?" "Anna Barton." "E' la signorina che è andata via quando siamo arrivati noi?" Il poliziotto che aveva parlato con la gente del capannello formatosi nell'atrio era venuto a raggiungerci. "Sì." "Non poteva abitare qui da molto. Non c'è niente." "Non abita qui." Attesero. Avevo finito di vestirmi. "Sappiamo che si è trattato di un incidente, signore. Due testimoni hanno visto suo figlio cadere all'indietro giù dalla ringhiera. Confermano che lei non l'ha toccato." "No." "Cosa stava facendo, signore?" "Ero con la signorina Barton." "La fidanzata di suo figlio?" "sì." "Signore. Questa domanda devo fargliela. Lei era nudo..." "Io e la signorina Barton stavamo facendo..." Mi interruppi. Non era una parola che avessi usato prima. "Abbiamo capito, signore." "Suo figlio era rimasto all'oscuro della cosa fino a oggi?" "Naturalmente." "Come ha fatto a sapere che lei era qui?" "Non lo so. Non posso dirle altro, non lo so." "E dov'è ora la signorina Barton?" "Non lo so. E' appena uscita. E' appena passata davanti a noi." "Sarà in stato di choc. Sarebbe meglio che la rintracciassimo." "Non so dove possa essere andata. Forse è tornata a casa sua." "A casa di chi, signore?" "Nella casa di Anna e di Martyn. Avevano appena comprato una casa. Erano fidanzati." "E quando contavano di sposarsi, signore?" "Domani." Ci fu un lungo silenzio. "Ora andiamo alla stazione di polizia, signore." Dalla stazione telefonai a Ingrid. Venne a rispondere Sally. "Non devi dire niente. Anna è stata qui." "Oh, Dio! Dov'è ora?" "All'ospedale, il Wellington, con Wilbur." "Con Wilbur?" "Sì. Ha avuto un attacco cardiaco nel pomeriggio. Martyn aveva telefonato qui, stava cercando di rintracciare Anna." Fece una pausa. "Ho detto ad Anna di Wilbur ed è andata via subito." "Tua madre è lì?" "Sì. Non chiedere di parlare con lei. Non ancora." "Sally. Oh, Sally." "Io e la mamma andiamo a vedere il corpo di Martyn. Lei lo desidera disperatamente." Mi rivolsi al poliziotto. "In che ospedale hanno portato il corpo di mio figlio?" "Al Middiesex." Lo dissi a Sally. "Ora ascolta, vi prego, vi prego, non andate. Procederò io, stasera, al riconoscimento ufficiale. Vi porto io domani, te lo giuro. Convinci tua madre ad aspettare. E' estremamente importante. Fa' come ti dico, Sally, te ne prego." "Ci proverò, ci proverò. Anna è pazza... Questo lo sai, no?" "No. No, Sally, non è pazza." "Aveva con sé una valigia. Ha detto che andava a trovare Wilbur e che poi sarebbe partita per Parigi. Tanto era tutto pronto per il volo, ha detto. Per la luna di miele. Mi ha sorriso. Ti pare possibile? Mi ha sorriso. Se non è pazza, è malvagia." "Oh, Sally, Sally, non è né l'una né l'altra cosa." "Cos'è, allora? Vi ha portati alla distruzione tutt'e due, te e Martyn." "A tua madre ha detto tutto?" "Non lo so. Ci sono delle cose che la mamma non vuol dire. E io non gliele posso certo chiedere. Ma posso indovinare." "Non credo che tu lo possa, Sally. Più tardi verrò a casa." "Non lo fare. Per piacere." "Lo farò, Sally. Devo. Più tardi." Deposi il ricevitore. "Mia moglie lo sa." "Sissignore. Lo immaginavo." Mi sedetti in un ufficetto con un uomo alto dai capelli grigi, l'ispettore Doonan. Mi trattava con una sorta di stanca gentilezza. La gentilezza era forse l'ultima risorsa, davanti al continuo rinnovarsi degli effetti dell'umana follia. Ero proprio fortunato a trovarmi a tu per tu con l'ispettore Doonan. Resi la mia dichiarazione. Lui aveva alcune domande da fare. "Da quanto tempo dura la sua relazione con...?" "Anna. Cinque mesi." "Da quanto tempo la conosce?" "E' cominciata subito. A pochi giorni dal nostro primo incontro." "Suo figlio non aveva alcun sospetto?" "Nessuno ha mai avuto alcun sospetto." "Nessuno?" "Be', una persona. Il patrigno di Anna, Wilbur. Oh Dio, ha avuto un attacco cardiaco. E' al Wellington. Per questo Martyn stava cercando Anna. Posso telefonare?" "Sissignore, naturalmente." Andò alla porta e qualcuno chiamò l'ospedale. Mi feci dire in che stanza era, e parlai con la caposala. Fu una conversazione breve e tranquillizzante. Wilbur non era più in rianimazione: tre giorni di ospedale, e poi avrebbe dovuto prendersi un lungo periodo di riposo. Era stato un attacco leggerissimo. "Come faceva suo figlio a sapere che eravate tutt'e due a questo indirizzo?" "Non lo sapeva. Non ci capisco niente. Martyn non sapeva di quest'appartamento. "Non aveva la chiave. Ha forzato la porta" disse l'ispettore Doonan. "E' per questo che i Thompson si sono affacciati al pianerottolo." Queste parole erano del poliziotto più giovane. "I Thompson?" "I testimoni che hanno visto suo figlio cadere." "Ah." "Lei crede che la signorina Barton possa essere stata negligente? Che magari abbia lasciato l'indirizzo in qualche agenda?" "No. Non era una persona negligente." "Dov'è, ora? Dovremo parlare con lei." "A Parigi. E' partita per Parigi, per andare da Peter. Peter! Quello, in principio, era il suo appartamento. Martyn può avere telefonato a lui, quando non riusciva a immaginare dove potesse essere andata Anna. Peter! Deve aver parlato con Peter a Parigi." "Chi è Peter?" "Diceva che voleva restare sola prima del matrimonio. Saltar fuori da un indirizzo segreto." "Piano, signore. E' una storia molto confusa." "Posso telefonargli?" "A chi? A Peter?" "Sì." "A Parigi?" "Pago io." "Non si tratta di questo, signore." Sospirò. "Sa il numero?" "Sì." L'ispettore Doonan mi porse il ricevitore. "Peter?" "Qui." "Sono il padre di Martyn." "Lo so. Ha telefonato Anna. Sta venendo qui. Non c'è niente da dire. Sono addoloratissimo." "E' stato lei a dargli l'indirizzo?" "Sì." "Lo immaginavo." "Non sapevo che c'era anche lei. Credevo che fosse il posto dove Anna sarebbe andata a riflettere. A stare tranquilla prima di domani. Quando Martyn ha telefonato... disperato... a causa di Wilbur, gliel'ho detto. Eravamo amici, in un certo senso, Martyn e io." "In un certo senso siamo amici anche noi." "In un certo senso." "Può darsi che Anna debba tornare qui." "Glielo spiegherò." "La polizia sa che è stato un incidente, ma Anna dovrà fare una dichiarazione." "Certo, capisco." "Ora devo andare." "Arrivederci." "Arrivederci." Resi la mia dichiarazione. "L'accompagno a casa, signore. Ma prima avremo bisogno di un'identificazione ufficiale." Andammo all'ospedale. Procedetti all'identificazione. Non c'è niente da dire. Non parlerò di questo. Era l'una passata quando rincasai. La porta della vecchia camera da letto di Sally si aprì. Comparve il suo viso inebetito. L'invitai a ritirarsi con un cenno e mormorai: "Tua madre." Sally chiuse la porta. Camminai verso una luce: Ingrid mi stava aspettando in cucina. Non era una cucina progettata per dolori di questo genere. Le sue superfici lucenti e il suo candore immacolato avevano maggiori probabilità di intensificare il tormento che di lenirlo. Non c'erano angoli bui, né legni teneri, per assorbire le urla, mute o meno. Nerovestita, con le spalle a me, per un attimo trovai nella sua silhouette un'incredibile rassomiglianza con la figura di Anna. Si voltò per affrontarmi. La sorpresa rappresentata dal suo viso mi fece salire il vomito alle labbra. Afferrai un asciugamano; l'odore del vomito mi era familiare. Lei mi porse un bicchier d'acqua. Toccandosi il viso, disse: "L'ho fatto per fermare il dolore, con questo." Alzò un piccolo asciugamano bianco insanguinato con un nodo. La sua faccia era striata di sangue. Le guance tumefatte davano l'impressione che tutti i lineamenti del suo viso si fossero gonfiati, mentre gli occhi sembravano essere stati ricacciati in minuscole pozze di tenebre di qualche bitorzoluto paesaggio lunare. "Il dolore mi stava divorando. Questo è servito." Riprese l'asciugamano e si diede una sferzata. Una goccia di sangue cadde nel bicchiere che avevo deposto sul tavolo. Un'immagine di Anna si formò oscenamente davanti ai miei occhi. Il suo viso, pensai, aveva sempre avuto un che di gonfio, un che di grossolano. Che la chiave fosse quella? Anna non aveva lineamenti delicati che potessero essere sciupati dalla brutalità di baci che dovevano salvare una vita. Il viso di Ingrid, prima così delicatamente cesellato, così piccolo, così limpido nell'occhio, alto di zigomo, era sempre sembrato ammonire: "Attenti. Posso rompermi." E anche il suo corpo, così lungo e sottile nelle curve eleganti dell'anca e del seno, aveva detto no a qualunque cosa non fosse il più tenero amore. Avevo cercato il piacere con la stessa attenzione con cui si studierebbe un raro pezzo di ceramica di un paese lontano. Ingrid si sedette davanti a me. "Tu non sei un uomo cattivo" disse. "E io non sono una stupida." Ci scambiammo un'occhiata, un uomo e una donna, due perfetti estranei. L'indomani o il giorno dopo avremmo sepolto nostro figlio. "Mi sembra chiaro che tu e... Anna" sospirò, più che pronunciare il suo nome, "... non avete potuto farci niente. Tu non sei un uomo cattivo." Le labbra gonfie e le lacrime che aveva in gola le arrochivano la voce. Quelle parole - "uomo cattivo" avevano un loro ritmo marcato e ossessivo, come se un tamburo, con il suo rullare, le trasformasse in una parola sola: "Uomocattivo, uomocattivo, uomocattivo." "Quando hai capito..." disse lei, "quando hai capito che eri perduto..." Si interruppe e parve vacillare, talché la nuova forma e il colore sgargiante del suo viso divennero qualcosa di orrendamente mobile. "... Avresti dovuto ucciderti. Avresti dovuto ucciderti. Sai come. Ti sarebbe stato facile. Sai come." "Sì. Credo di sì." "Non più" disse lei, "non più. No, vigliacco, ora non più. Rimani. Continua a stare al mondo. Continua a stare al mondo e a darmi un po' di gioia. Perché, oh, perché non ti sei ucciso? Sapevi come fare." "Sinceramente, non ci ho mai pensato. Non ci ho mai nemmeno pensato." Mi sembrava di essere un bambino che avrebbe potuto facilmente risparmiarsi una dura punizione. Ma che non aveva semplicemente mai pensato all'ovvia soluzione. "Aston l'ha fatto" mormorai. "Aston?" "Mi ero dimenticata di lui. Aston... e ora Martyn. Oh Dio, che donna malvagia." La sua voce diventò un urlo. "Avrei potuto seppellirti e vivere. Capisci? Avrei potuto seppellirti e vivere. Anche sapendo cos'avevi fatto, avrei potuto seppellirti. E vivere. E amare. Il dolore sarebbe stato sopportabile. Questo dolore è insopportabile. E' insopportabile." Riprese a sferzarsi il viso. La rincorsi e la tenni stretta. Era una lotta impari, e finì rapidamente. La costrinsi ad accucciarsi su una sedia. "Non muoverti" mormorai. Aprii il mio armadietto e tornai indietro con alcuni tranquillanti. "No" disse lei in tono reciso. "E no e no e no." "E' indispensabile" dissi io. "Indispensabile per chi?" disse lei con voce stridula. "Per te. Perché una volta tanto non sai che cosa fare... Vero, dottore? Io voglio solo quello che non potrò più avere. Rivoglio mio figlio. Ridammi mio figlio. Ridammelo. Subito. Ridammelo subito." "Ingrid, ascoltami. Martyn è morto. Se n'è andato per sempre. Per sempre. La sua vita è conclusa. Ascoltami, Ingrid. Ascoltami. Io ho provocato questa morte. Lascia che sia io a portarne il peso. Non mi libererò mai di questa morte, né la fuggirò. Lasciala scivolare verso di me, Ingrid. Spingila verso di me, spingi la sua morte verso di me. Respira profondamente, Ingrid, respira profondamente. Dopo tutto questo, tu vivrai. Spingi la morte di Martyn verso di me. Tu vivrai. Dallo a me, ora. Dammi la sua morte." La portai verso il tavolo e ve la distesi sopra. Lei si tirò le gambe verso il petto come se fosse in procinto di partorire. Lacrime brucianti le scorrevano sulle gote. I bottoni della giacca saltarono via durante quelle convulsioni, e tra i singhiozzi e il torcersi delle sue membra. "Dammi subito la sua morte, Ingrid." "Oh, Martyn, Martyn, Martyn" piangeva lei. Poi un urlo terribile e muto fu seguito da un sospiro così profondo che compresi che tutto era finito. Qualcosa volò verso di me e di me parve impossessarsi. Ingrid giaceva sul tavolo, scossa da un pianto silenzioso. Le sue lacrime scorrevano, lavandole dolcemente le contusioni e togliendole il sangue dal viso. Lacrime e sangue le formavano quasi una ghirlanda intorno al collo, che dividendosi in tanti rivoli di un rosa pallido le scorreva verso i seni. "Vado a lavarmi" disse lei. La pilotai nel bagno. Procedevamo lentamente, la mia amica e io. Forse avevo ancora qualche capacità che le avrebbe permesso di affrontare serenamente il resto della sua vita. Feci scorrere l'acqua nella vasca e vi aggiunsi una delle sue essenze. Lei si sciolse i capelli, che erano sempre rimasti assurdamente legati in un elegante chignon. Le mollette e anni di esperienza gli avevano permesso di scampare a un simile caos, come un piccolo segno di normalità. L'aiutai a svestirsi come si sarebbe fatto con un bambino. Lei scivolò nella vasca e sott'acqua. Sul suo corpo e sui suoi capelli, l'essenza agiva come il miracoloso unguento di un mago. Per un tempo interminabile Ingrid giacque nella vasca, o si lasciò scivolare sott'acqua, ripetendo, come a un ritmo sconosciuto, un acrobatico rituale di sopravvivenza. Mi sedetti sul pavimento concentrando su di lei tutte le mie energie. Con una forza che non sapevo di possedere, cancellai dalla mia mente tutti gli altri pensieri. A volte facevo scorrere nella vasca dell'altra acqua calda. A volte ne lasciavo scorrer via. Lei non sembrava accorgersi di me, quando veniva a galla e ritornava a immergersi. Finalmente disse: "Vorrei dormire." L'avvolsi in un asciugamano e l'asciugai. Poi cercai d'infilarle una camicia da notte. Scosse la testa e scivolò tra le lenzuola. In pochi secondi si addormentò. Mi sedetti accanto alla finestra e guardai fuori, nella notte. C'era la luna piena nel cielo senza stelle. Pensai alle poche volte che avevo notato queste cose. Qualche grave insufficienza dell'anima, forse. Un vuoto ereditario. Un nulla tramandato di generazione in generazione. Un vizio della psiche, scoperto soltanto da coloro che ne subiscono le conseguenze. Ero consumato dalle immagini di Martyn bambino: una, in particolare, di lui che correndo girava la testa mentre lo chiamavo; lo splendore del suo riso nella cornice di un dorato giorno d'estate. Chiusi gli occhi lentamente per calare un sipario su quella scena. C'era un funerale per il quale bisognava prepararsi. Ora dovevo predisporre tutto il necessario per un funerale. Trovai un po' di carta e cominciai il mio elenco. Necrologi, il Times, il Telegraph. Temevo che altri annunci, meno garbati sarebbero stati fatti, da messaggeri di morte, nelle distratte vite mattutine di persone che non avrei mai conosciuto. Nei giornali più scandalistici ci sarebbero state insinuazioni, e negli altri forse un semplice accenno alla tragedia. Di me stesso non mi preoccupavo. Ciò che a un tratto mi sembrava vitale era difendere la dignità della vita di mio figlio. Potevo far qualcosa? L'agitazione, una tremenda agitazione, mi faceva muovere la testa e le spalle in brevi e meccanici sussulti. Dio! Non posso entrare in stato di choc. Devo tener duro. Sgattaiolai fuori dalla stanza. Inghiottii qualche compressa di Diapazan e tornai alla mia lista: autorità, bara, funzione religiosa, fiori, musica. Ingrid si mosse. Guardai l'orologio. Erano passate delle ore. Com'era possibile? La luna era sparita. L'alba, era quasi giorno. L'oggi era arrivato. Martyn, dunque, era morto ieri. Martyn è morto sette giorni fa, il mese scorso, l'anno scorso. Sono dieci anni oggi che Martyn è morto. Sono venti. Quando avrei cessato di contare i giorni? Quando, oh, quando sarei morto anch'io? Ingrid si lasciò sfuggire un gemito. L'oggi, e il suo dolore, stavano aprendosi implacabilmente un varco nel suo sonno. Vidi i movimenti del suo corpo passare dalla collera alla disfatta. Alla fine ricadde sul letto in un tormento di sottomissione. I suoi occhi, improvvisamente desti, abbracciarono in un lampo tutta la realtà. "E' vero, no?" L'aiutai a scendere dal letto. Non ci scambiammo una parola. Lentamente e silenziosamente mia moglie si diresse verso il bagno e chiuse la porta con cura. Io mi girai verso la finestra e vidi il giorno farsi più lungo e più vicino. Macchine, gente e suoni riempivano qualche sconosciuta area della coscienza. Il furgone del lattaio che girava l'angolo pareva un veicolo spaziale che procedesse storicamente attraverso un pianeta appena scoperto. Sapevo che c'era stata una frattura. Un abisso si era spalancato. Sapevo che per me il mondo reale doveva collocarsi in una prospettiva nitida e nuova. La parte automatica e separata della mia esistenza era quella in cui avrei dovuto funzionare. Nei prossimi giorni avrei dovuto abitare totalmente questa parte di me. L'altra area doveva restare inattiva per essere vissuta in un secondo tempo, forse per sempre. La paura mi assalì. Comincia subito, comincia subito, in questa dimensione. Guarda le macchine. Ascolta i rumori. Concentrati sul furgone del lattaio. Guarda! Con un sobbalzo si è fermato di colpo, là fuori. Ingrid uscì dal bagno. Trasformata. Lo chignon era tornato alla sua plissettata simmetria. Il suo viso, dal quale durante la notte era scomparso ogni gonfiore, aveva, nel suo perfetto e discreto maquillage, l'immobilità di una maschera. Entrò nella stanza, ammantata della perfezione artificiale con cui le donne già belle si armano contro il mondo. Era nuda. L'intimità del matrimonio non aveva mai offuscato la nitidezza di quell'immagine. Si piazzò davanti a me e disse: "Che peccato che ci siamo conosciuti." "E Sally? C'è sempre Sally." "Sì. Sì. Sally. Ma, sai, per me quello che contava era Martyn, In realtà è sempre solo una persona. Anna, immagino, per te?" Sospirai. "Che fortuna, per te, che non sia morta. Eh? Anna è... Anna... per usare un'espressione molto comune... è una sopravvissuta, no? Sei mai stato innamorato di me?" "Sì. Mi sembrava così naturale" dissi. "E questo." Ingrid indicò il proprio corpo. "E questo?" "Sei straordinariamente bella." "Lo so. Mio Dio! Credi che non lo sappia?" Si girò verso la specchiera. "Ho" disse, "un bel viso, guardalo. Guarda il mio corpo. I miei seni sono piccoli ma ancora belli. Vita e fianchi sono snelli." Con le mani tracciò una linea verso i genitali. "E questa? Questa parte di me, qui, tra le mie gambe elegantissime? Cosa mi dici di tutta questa bellezza? Non bastava, vero? Non bastava! Il suo insuccesso mi è costato Martyn." Si girò verso di me. Ora, riflesse nella specchiera, c'erano le linee snelle della sua schiena e l'assurda, spaventosa perfezione dello chignon. "Avresti dovuto morire" disse tranquillamente. "Avresti dovuto morire. Mio Dio, non mi sei mai sembrato proprio vivo, in ogni caso." "Hai perfettamente ragione su entrambi i punti. Avrei dovuto morire. Ma non ci ho pensato. Non sono mai stato veramente vivo finché non ho incontrato Anna." "Forse, dopo tutto, sei un uomo cattivo. Hai portato il tuo orrore nella mia vita. Per un attimo, solo per un attimo, capisci? Ho pensato di far l'amore con te." Dovevo avere un'aria sorpresa. Lei rise. Una risata breve, secca, amara. "Guardandoti, posso vedere come sono diventata totalmente irrilevante. Ne trarrò una forza considerevole." Aprì un cassetto e indossò la biancheria. Poi si mise un vestito nero di una semplicità così estrema da assumere l'aspetto di un'icona d'inutile bellezza, forma senza potere. Sentii arrivare Edward. Ingrid gli corse incontro. Edward si strinse la figlia al petto. La rovina sul suo viso era terribile. "Oh, mia Ingrid" mormorò, "mia carissima, mia cara, cara Ingrid, mia povera bambina." "Oh, papà." Restai paralizzato per un attimo. Non era Ingrid che chiamava Edward, ma Sally che chiamava me. Ritta sulla soglia della stanza, bisbigliò: "Oh, papà." Mi diressi verso di lei. Ma a un tratto lei disse: "No! No!" e mi voltò le spalle e scese le scale, come se il solo guardarmi le avesse fatto male. La seguii lentamente. "Sally, ieri sera sei stata meravigliosa. Dev'essere stato durissimo per te. Me l'ha detto Sally, sai?" Edward mi salutò con un inchino. "Durissimo per lei... durissimo." "Sally è molto coraggiosa. Buongiorno, signore." Jonathan era nell'atrio. "Sono addoloratissimo..." La sua voce si spense. "Possiamo parlare... in privato?" Andammo nello studio. "Provvederò io a telefonare all'ufficio di stato civile e all'albergo" disse. "A tutti, tranne i genitori di Anna. Fortuna che era una cosa in famiglia... Oh Dio, credo di aver fatto una gaffe... Ma lei capisce cosa intendo dire." "Alla madre di Anna telefonerò io. Wilbur ha appena avuto un leggero attacco cardiaco. E' di vitale importanza che venga trattato nel modo giusto. Suo padre è al Savoy, credo. Telefonerò anche a lui." "Farò tutto dalla stanza di Sally, signore, se per lei va bene." Annuii. La richiesta era una cortesia, tanto più apprezzata. "Sei innamorato di Sally?" "Moltissimo." "Ne sono assai felice. Vorrei dire: sono felice che sia tu, Jonathan." "Grazie, signore." Chiamai la madre di Anna. "Stavo per telefonarle" disse lei. "Ieri sera non c'era nulla che potessi dire o fare. E' dall'alba che aspetto di chiamarla." "Sa tutto?" "Oh, sì." "Anna?" "Sì. E' venuta a trovare Wilbur. Quando siamo uscite nel corridoio, me l'ha detto. Poi è partita. Sa cos'ho provato?" "No." "Mi sono sentita improvvisamente molto vecchia. Mi sono sentita molto vecchia. I francesi lo chiamano coup de Jieux. Oggi sembro vecchissima. Dovrei consolarla, immagino. Ma veramente lei non se lo merita, no? Siete bene assortiti, voi due. Parlo di lei e di Anna. Portate nella vita degli altri le pene dell'inferno. Anna ha sempre avuto questo talento. Chiaramente, lei lo ha appena scoperto. Sua moglie merita comprensione, un'infinita, un'infinita comprensione. Ma da quello che ho visto di lei, la comprensione non le andrà a genio. Come non gradirà la compassione." Ci fu una pausa di silenzio. Poi la donna riprese a parlare. "Sono diversa da come mi ricordava?" "Sì, molto." "Tutta quella frivolezza, ha creduto che fosse vera? Mi ha aiutato a tirare avanti. Wilbur ha sempre visto giusto. Perché l'ho sposato, in realtà." "Come sta Wilbur?" "Si riprenderà." "Non glielo dica." "Lo sa." "Anna?" "No, non Anna. Io. Riesce a leggermi in viso la tragedia. Ha detto: 'L'avevo avvertito. L'avevo avvertito. E' vero?" "Sì. Sì, è vero." "Avrebbe dovuto ascoltarlo. Wilbur sa tutto. Vorrei assistere al funerale. Mi farà sapere dove e quando?" "Ne è sicura?" "Ne sono sicurissima. Suo figlio era importante, per me. A modo mio ho cercato di metterlo in guardia, quella sera. Ma sono stata troppo oscura. Anna lo sapeva, naturalmente. Sapeva cosa stavo cercando di fare con le mie chiacchiere su Peter, e su Aston." "E' andata da Peter, lo sa?" "Sì, lo so. Fa sempre così. Crede che io non sappia cosa accadde la notte che Aston morì. Mio Dio, crede che io non capisca perché Aston è morto. Ho sempre finto di non sapere. Per non perdere i contatti con lei, immagino. Inutile. Tutto quello che ho fatto è stato inutile. Vorrei che avesse avuto un'altra madre. Forse lo vorrebbe anche lei. Ah, sono stanca. Arrivederci... Arrivederci." Volevo chiederle se Anna aveva informato suo padre. Ma la conversazione era finita. Gli telefonai immediatamente. Non volevo credere a ciò che Elizabeth aveva detto di sua figlia, non ora. Sapevo che davanti a me si stendeva una fila di anni vuoti. Li avrei riempiti con tutte le parole dette da Anna, dal giorno in cui avevo saputo per la prima volta della sua esistenza. "Charles?" "E' gentile da parte sua telefonare. Vi ho scritto... a lei e a sua moglie. Separatamente. Non desidero parlare con voi. Mia moglie e io torniamo subito a Devon. Non c'è proprio niente di utile da dire, o da fare. Ho una certa conoscenza di quello che sta attraversando, ma ovviamente la situazione è molto più terribile. Ecco perché so che tutto è inutile. Tutto." Sospirò e disse, quasi in un sussurro: "E tutti." Poi la comunicazione si interruppe. Avevo altre due telefonate da fare, a tutela del mio onore. Chiamai il mio agente. Nel suo trantran mattutino riversai la mia triste storia. Occorrono così poche parole per narrare una storia terribile! "Mio figlio è morto." "Oh, mio Dio! Cos'è successo?" "C'è stato un terribile incidente. Avrà strascichi terribili e scandalosi, John. Devo dirti con profonda tristezza che do le dimissioni. Ci conosciamo da moltissimo tempo, John. Tu mi conosci abbastanza bene per accettare senza discutere che questa è una decisione irreversibile." "In nome di Dio, cos'è successo? Non puoi telefonarmi a quest'ora senza una parola di spiegazione." Era quasi in singhiozzi. "Oh, Mio Dio, non è possibile. Cosa posso fare?" "Puoi essere l'amico di cui oggi ho più bisogno. Accetta quello che ti sto dicendo. Tutto sarà più chiaro nei prossimi due o tre giorni. Ma rispetta, ti prego, i miei desideri. La mia carriera è finita. Presto cominceranno a chiamarti i giornalisti e potrai fare la dichiarazione che ti ho detto: mi sono dimesso. John, sono davvero spiacente. Sono molto, molto spiacente." Deposi il ricevitore. Chiamai il ministro a casa. In una breve conversazione posi fine al mio futuro. Non gli dissi nulla più di quanto avevo detto al mio agente. Era un uomo per il quale vita e carriera erano la stessa cosa. Credeva che fosse così anche per me. Capì dunque che solo una catastrofe poteva avermi indotto a prendere una decisione simile. Dopo avermi espresso tutta la sua comprensione, disse che avrebbe informato il primo ministro non appena gli fosse pervenuta la mia lettera di dimissioni. "La preparerò immediatamente. L'avrà tra poco." Ormai avevo da fare solo un'ultima telefonata. "Andrew..." "Aspettavo la tua telefonata. Hanno dato la notizia al telegiornale. Sono addoloratissimo. Che tragedia spaventosa! Che posso fare per te?" "Voglio fare una dichiarazione. Con urgenza. Alla stampa. Dovrai chiedere l'autorizzazione alla polizia. Posso discuterla con te?" "Certo. La notizia era brevissima. C'erano delle domande senza risposta. Che cosa è successo esattamente?" Il suo tono da avvocato era inquisitorio. "Non mi accusano di niente, Andrew. Ho già dato le dimissioni, non soltanto dal ministero, ma anche dal parlamento. Voglio, come privato cittadino, salvaguardare la memoria di mio figlio. Voglio proteggere mia moglie e mia figlia dalle calunnie e dalle insinuazioni che potrebbero danneggiarle ulteriormente." "Tu sei, e sei sempre stato, l'uomo più freddo che conosca. Benissimo. Prepariamo questa dichiarazione. Vuoi che venga lì?" "No. E' brevissima." "L'hai già buttata giù?" "No, non del tutto. Comunque, ci sono degli aspetti legali di cui non sono sicuro. "Concordiamone la base. Poi posso fare qualche telefonata." Alla fine decidemmo che Andrew avrebbe fatto, dopo essersi consultato con gli avvocati, la seguente dichiarazione a nome mio. Mio figlio Martyn è morto ieri sera in un tragico incidente. Naturalmente verrà effettuata l'autopsia. Alcuni dei fatti relativi a questa tragedia possono dar luogo a discussioni. Mi sono perciò dimesso dal ministero, e dal parlamento. Le mie dimissioni hanno effetto immediato. Come privato cittadino, cosa che rimarrò per il resto della mia vita, chiedo per me e per mia moglie il rispetto della nostra privacy, affinché ci sia consentito di piangere la terribile perdita di nostro figlio. E per nostra figlia, che ha perduto il fratello adorato. Non faremo altri commenti, né ora né in qualunque altro momento futuro. "La preparerò io. Faranno un mucchio di domande. Non si lasceranno imbavagliare tanto facilmente." "No. Ma se è chiaro che noi non faremo altri commenti, forse ci lasceranno in pace. Le dimissioni mi tolgono ogni funzione pubblica." "Dubito che sia così facile. Dovrai prepararti a leggere cose molto spiacevoli sui giornali popolari." "Non li leggo mai." "Bene, allora. Tutto a posto." "Andrew, io ce la metto tutta. Sto cercando di salvare il salvabile per Ingrid e per Sally." "Mi spiace. Mi spiace. E' possibile che la tua vigilanza provochi dei risentimenti. E Anna?" "E' a Parigi." "Incontattabile?" "Credo di sì." "L'aspetto matrimoniale... Lo gonfieranno al massimo." "Sì. Ne sono sicuro." "Vuoi che parli con la gente del palazzo, che cerchi di farla tacere?" "No. Quelli che vogliono parlare, lo faranno. L'autopsia richiederà la loro testimonianza, perciò è inutile." "Gli esiti non saranno noti prima di tre mesi, forse più." "La causa della morte è chiarissima. Martyn è morto sul colpo per essersi rotto il collo in seguito alla caduta. Credo che tra un paio di giorni al massimo potremo fargli privatamente il funerale. Andrew, niente nella vita mi aveva preparato a questa conversazione. E' tanto incredibile per me quanto credo lo sia per te. Sto cercando di restare nel mondo dei preparativi, delle informazioni e dei programmi perché devo mettere Ingrid e Sally al sicuro. Poi forse potrò anche diventare matto. Questa sarebbe la reazione giusta. Ma non ora, Andrew, non ora. Mi serve la tua assistenza fredda e professionale. Per piacere." "L'avrai. Contaci." "Grazie, grazie. Ora devo andare. Manderò Ingrid e Sally ad Hartley con Edward. Ha detto che avrebbe cercato di organizzare le cose in modo tale da far seppellire Martyn in quel cimitero." "E tu?" "Edward ha detto che posso usare il suo appartamento di Londra. Da lì contatterò tutti quelli che devono tenersi in relazione con me." "Come sta Ingrid?" "Che posso dire?" "Niente." "Al sicuro, Andrew. Sto cercando di aiutarle a mettersi al sicuro." "E tu?" "Oh, io. La mia vita è finita. Ma questo è irrilevante, adesso. Andrew, ti sono molto grato. Procedi pure, allora." "Sì. Arrivederci." "Arrivederci, Andrew." Anche se può arrivare con sorprendente repentinità, l'orrore divora lentamente la sua preda. Nelle lunghe ore di giorni e di anni, esso spande la sua tenebra fosca in ogni angolo della creatura che ha conquistato. Mentre la speranza se ne va come il sangue da una ferita letale, una greve fiacchezza la invade. La vittima scivola in un Ade dove bisogna cercare nuove strade in quella che ora, si sa, sarà una tenebra permanente. L'orrore mi reclamava. Ingrid e Sally avrebbero sofferto una pena lancinante e terribile. Ma dovevo impedire che l'orrore avesse la meglio su di loro. Allora forse avrebbero avuto una possibilità. "Sally e Ingrid vorrebbero andare all'ospedale prima di venire ad Hartley." Edward era entrato nello studio. "Le accompagno io, Edward." "Senza di te. Temo che Ingrid voglia andarci senza di te." "Capisco. E' molto difficile, Edward. Sono in pena per loro." "Un po' tardi, direi, non ti pare?" "Qualunque cosa tu possa dire non avrà alcun effetto, Edward. In questo momento sono insensibile al dolore. E posso aiutare Ingrid a superare questa prova terribile." "Con la tua presenza peggiorerai le cose." "Gliel'hai chiesto, Edward?" "No. Ma sono sicuro." Andai in cucina. "Ingrid, vi accompagno tutti, tu, Sally ed Edward, alla camera mortuaria dell'ospedale." Ingrid sedeva al suo posto, rigida e impettita. Teneva i piedi in una strana posizione, come se li avesse piantati nella moquette. La schiena era diritta contro la spalliera. Era un corpo teso al massimo, come se sapesse che il minimo cedimento, di un muscolo o di un nervo, ne avrebbe provocato la totale disintegrazione. Il suo viso, dal quale era scomparsa ogni tumefazione, era di nuovo pallido e delicato, e mostrava un certo impaccio a reggersi sul collo. Tenere insieme un corpo, restaurare una faccia, primi passi sulla strada della sopravvivenza. Il dolore imprigionato nella gabbia d'acciaio dell'uomo visto dal di fuori è pur sempre dolore imprigionato. Straziando furiosamente i muscoli e le ossa, nell'incapacità di liberarsi, infligge le sue inguaribili ferite. Lesioni interne che si portano nella tomba, che nessuna autopsia può rivelare. Lentamente il dolore si stanca e si addormenta, ma non muore mai. Col tempo si abitua al suo carcere, e un rapporto di rispetto si sviluppa tra carceriere e detenuto. Lo so adesso, solo adesso. Ingrid mi aveva dato Martyn. E la notte prima io avevo abbracciato la sua morte e gliel'avevo portato via. Ne avrei fatto tesoro. E lei ora era scevra del furore, del rancore e della colpa degli incolpevoli. Adesso la sua lotta era contro il dolore. E anche se questo alla fine avrebbe vinto, Ingrid avrebbe avuto una vita. Non è impresa da poco. "Credo sia meglio che vi accompagni io." Queste parole erano di Edward. "Devi venire anche tu, papà. Ma io voglio andare a trovare Martyn con suo padre." Edward sospirò e ci voltò le spalle, piangendo. Era un vecchio sconfitto alla fine della vita. Non aveva alcuna chance. La ferita era mortale. Non sarebbe sopravvissuto. Mi venne in mente un vecchio proverbio cinese: "Di un uomo non dire che è felice finché non si trova nella tomba." La lunga vita di Edward segnata da una sola ferita, la morte della moglie, finiva con quest'ultima violenza, e io ne vidi la fiammella spegnersi nei suoi occhi. Il resto sarebbe seguito. Londra non è un posto per morire. Passammo lungo strade pullulanti di automobili che andavano al lavoro, di automobili che andavano a scuola, di autobus che scaricavano colonne di persone nei grigi ingressi degli edifici, davanti ai colori violenti di posti destinati a rivestire il corpo, e di posti destinati a nutrirlo. Non era la giusta via d'accesso a una camera mortuaria. Là, tutto ciò che rimane di una vita che hai amato è un corpo che devi seppellire. Piccoli emblemi di rispetto erano sopravvissuti al mio vecchio mondo. Fummo accolti con discrezione. Ci guidarono in silenzio fino a quella che doveva essere la nostra ultima visione di Martyn. Davanti alla morte sono indispensabili il silenzio e la soggezione. Perché le lacrime e le grida non sono reali: sono soltanto l'eco di un dolore che è cominciato con la prima morte. E che all'ultima cesserà con un sospiro. Restammo là in silenzio, io e questa donna, a guardare la gelida bellezza di nostro figlio. A notare come la morte aveva quasi assunto il suo aspetto. Il suo pallore e i suoi capelli neri, i suoi lineamenti Cesellati, erano ora come la testa marmorea di un giovane dio. Non so quanto tempo restammo là in piedi. Finalmente Ingrid si mosse. Lentamente, con occhi e labbra asciutte, baciò suo figlio. Mi guardò, e con gli occhi mi diede il suo permesso. Ma io non volli. Il bacio di Giuda è per i vivi. Non avrei insozzato mio figlio ulteriormente. Non ritornammo a casa. Jonathan aveva fatto le valigie. Gli autisti erano stati avvertiti, e Ingrid, Sally, Jonathan ed Edward, avvolti nel soffice e protettivo mantello della ricchezza, partirono per Hartley e per la beata serenità della campagna. Verso una nuova vita. La vita dopo Martyn. La prima tappa del loro viaggio era cominciata. Mi sistemai nell'appartamento di Edward. In seguito il ministro venne a trovarmi là. Mi venne consegnata una lettera privata del primo ministro. Gentilezze di persone perbene, umanitarie dimostrazioni di una distaccata comprensione. I guardinghi visitatori provenienti dal mio mondo perduto cominciavano a rendersi conto, lentamente, che l'uomo che avevano davanti, antico rivale, collega o protégé, stava precipitando sempre più in fretta e sempre più lontano da loro; precipitando, attraverso i vari livelli del potere e del successo, attraverso le membrane della decenza e della normalità, in un labirinto di orrori. E nelle sue circonvoluzioni si annidavano la depravazione, la brutalità, la morte. E la cosa più terribile di tutte: il caos. Ma le persone perbene fanno di tutto per comportarsi bene. E quelle erano persone perbene. Che perdita sarei stato! si sforzarono di assicurarmi. Una di esse pronunciò persino, con accenti di una disperata sincerità, la menzogna delle persone perbene: "Puoi anche farcela. Ritira le dimissioni. Hai agito troppo precipitosamente." Poi la sua voce, piena di dolore, rimase soffocata dalla verità. Ci fu una telefonata di Andrew. "I giornali seguiranno il solito schema. Davanti alla tua casa ci sono una decina di giornalisti e di fotografi. Presto andranno ad Hartley e forse scopriranno anche dove ti trovi adesso." "Devo dire a Edward di sbarrare i cancelli di Hartley?" "Assolutamente." "Cosa posso aspettarmi, dunque?" "La solita trafila. I giornali che si rivolgono a un pubblico selezionato si concentreranno sulla tua carriera e sulle tue dimissioni. Il giornale di Martyn punterà sulla tragedia verificatasi proprio la vigilia delle nozze. Ci saranno molte insinuazioni. Non ti hanno trovato nudo? Gli altri avranno una giornata campale. Mancherà poco che ti diano dell'assassino. Ma tu e Anna sarete in prima pagina. Si fanno illazioni su... come posso dire... giochi sessuali, non so. Oh Dio! In ogni caso, ti avverto. Senza arrivare alla diffamazione, ti metteranno in croce." "Quanto durerà?" "Be', tu hai dato le dimissioni. Anna è sparita. Dopo il funerale il clamore si spegnerà. Certo, altri articoli usciranno nel corso dell'inchiesta." "Sì, probabilmente." "L'altro punto sollevato da un giornalista è quello del vostro matrimonio. Tu e Ingrid eravate ancora insieme? Intendevi chiedere il divorzio? Giornalismo investigativo per il bene della società, conosci il genere." "E così durerà otto o dieci giorni?" "Sì, più o meno." "E poi, per il resto della mia vita! Andrew, ci sono molti problemi di cui dovrò parlare con te, ma dopo il funerale." "C'è qualcosa che possa fare, intanto?" "No. Ti ringrazio per tutto quello che hai già fatto. Ora temo di dover andare. Ho ancora un mucchio di cose da sistemare." Con alcuni sconosciuti parlai della sepoltura di mio fig]io ad Hartley. Con l'aiuto di Edward, si fissarono tempi e modi in cui il suo corpo ci sarebbe stato sottratto per sempre. Quindi riparlai con la madre di Anna. Aveva deciso che era meglio non assistere al funerale. Ci dicemmo addio. Edward organizzò le cose in modo tale da farmi entrare dalla parte dei campi. Quella notte a tarda ora partii per Hartley. Immagini di orrore e di morte si nascondevano dietro le ombre spettrali]i degli alberi lungo la strada. Il dolore della perdita di Martyn era uguagliato solo dal dolore della mancanza di lei. Il nome che invocava la mia voce era Anna, Anna, Anna. Ma le lacrime che piangevo erano per lui. Occupammo quietamente gli angolini del giorno dopo, un giorno che sembrava ancora normale. Mangiando e bevendo, nuotando, passeggiando. Dedicammo a queste attività un tempo e un'attenzione maggiori del solito, trasformandole quasi in un rito. Ci riuscì possibile fare i preparativi per la funzione religiosa e il funerale in brevi e intense raffiche di telefonate e d'incontri. Edward aveva due linee private e il telefono principale era staccato. Uomini stanchi e annoiati con macchine fotografiche e donne giovani e pittoresche furono avvistati in fondo al viale. La stampa. Non provavo alcuna animosità. Mio figlio, dopo tutto, era stato uno di loro. Anche Anna, senza dubbio, aveva atteso davanti a qualche casa per descrivere i volti straziati dei parenti in lutto. In modo che, tra i cornflakes e il pane tostato, l'eternità potesse entrare schiamazzando nella testa dei suoi lettori. In cocchi di metallo neri e lucenti, la mattina dopo, passammo davanti agli stanchi annalisti della nostra piccola storia; sembravano frustrati dall'incapacità del giorno prima di parlare con qualcuno o scattare fotografie. I lampi e i ronzii delle loro macchine, e le domande che i giornalisti formulavano di là dai vetri dei finestrini, sembravano far parte del rituale della morte né più né meno del cappellano, che con il viso atteggiato a compunzione accoglieva l'ennesima famiglia nella sua casa di antichi simboli e parole. La nostra famigliola. coro tenebroso schierato intorno alla fossa, fu testimone dell'impossibile. La sepoltura di Martyn. In questa scena tutta in nero sognai Anna. La evocai in piedi davanti alla fossa, tutta vestita di bianco. Così bianca. E nella fossa spalancata gettava bracciate di rose rosse. Le spine, incidendole le braccia, lasciavano cadere gocce di sangue sulla terra e sul bianco, oh, che bianco, del vestito. Bianco. Bianco. Per un attimo, tutto fu cancellato da una luce bianca. Poi era finita. Sui nostri cocchi neri tornammo in fretta ad Hartley. Ingrid quella sera sedette con me nello studio di Edward. Due persone, mortalmente stanche. "Non voglio più vivere con te" disse lei. "Mai più." "Cosa vuoi fare?" "Voglio andare via per qualche mese, in Italia. Arthur Mandieson mi ha offerto la sua casa fuori Roma. Chiederò a Sally di venire con me per un mese. Jonathan potrà venirla a trovare in aereo. Poi credo che a lei non spiacerebbe stabilirsi a Londra con lui." "Capisco. Sono fatti chiaramente l'uno per l'altro. E dopo?" "Io starò ad Hartley, credo. Forse prenderò anche un appartamentino a Londra. Pregherò Paul Panten di contattare Andrew e di fare tutto il necessario." "Lo dirò ad Andrew." "Un'altra cosa." "A partire da dopodomani, non voglio vederti mai più. Mi sarebbe di grande aiuto averne la certezza. Comporterà dei sacrifici. Le nozze di Sally... Altre circostanze familiari... Come i funerali." Scoppiò in un'aspra risata. "Hai la mia parola." "Capisci?" "Certo." "Quella notte, quella strana notte in cui dicesti: "Dallo a me. Dallo a me," una collera terribile mi lasciò. Passò a te. Non la voglio mai più, nella mia vita. Devi andartene e portartela via." "Potrò vedere Sally, qualche volta?" "Naturalmente. Ma pregala di non dirmelo." "Va bene." "Non ti chiedo che progetti hai. Lasciami all'oscuro." "Va bene." "Non mi hai mai amato, lo sai. "No." "In fondo lo sapevo. Ma allora sembrava che andasse bene così, a entrambi." "Sì. Oh sì, andava... benissimo." "E' la vendetta dell'amore, secondo te? La sua lezione? L'amore non si lascia ingannare." "Forse." "Anche a me piacerebbe incontrare un amore così." Rimasi in silenzio. Lei sospirò. "Hai ragione. Dubito che possa mai succedermi. Forse sarebbe troppo crudele, per me. Ne avrei troppa paura. Ti ho molto apprezzato, sai? A modo mio, ti ho amato. Non credo che tu abbia mai capito quanto." Sorrise tristemente. "Tutta la mia vita vecchia è sepolta qui con Martyn. Ad Hartley troverò la mia strada, purché..." "Io resti fuori dalla tua vita." "Sì. Ora sono tanto, tanto stanca. E' straordinario, ma so che dormirò. E tu?" "Starò qui seduto per un po', voglio parlare con Sally e con Edward, poi andrò via." La seguii con lo sguardo mentre si avviava alla porta, con le membra ancora dolenti per lo strazio insopportabile della perdita di Martyn. Si voltò indietro e mi sorrise. "Addio. Non voglio sembrarti crudele, ma che peccato che tu non sia morto, in un incidente o qualcosa, l'anno scorso." "La mia tragedia è che non sono d'accordo. Addio, Ingrid." Si chiuse la porta alle spalle. Dopo un po' di tempo anch'io lasciai la stanza. Tra le lacrime, davanti a un caffè, e studiato dagli occhi intransigenti di Edward e Sally, mi tagliai via dalla loro vita come avrei fatto con un cancro dal loro corpo. Con un argenteo filo di parole cercai di ricucire le ferite. Partii per Londra. Nell'appartamento di Edward feci i miei piani Per il resto della mia vita. "Posta da Hampstead." Era Andrew al telefono. "Vuoi che te la inoltri lì da Edward?" "Andrew, ho bisogno di parlare con te: del futuro. Puoi venire qui?" "Verrò nel pomeriggio, verso le quattro." "Va bene." Mi porse una grossa busta marrone piena di lettere. "Tutte per me?" "No. Molte per Ingrid, alcune per Sally." "Puoi spedirle ad Hartley?" "Potrebbero esserci delle lettere... be'... di qualche maniaco." "Come si fa a capirlo?" "Guardiamo attentamente tutte le buste." Ne mettemmo da parte alcune che avevano un'aria strana. Ma non c'era nulla di sinistro. Era posta normalissima, offerte di ditte delle pulizie, annunci di liquidazioni, eccetera. "Tutto il resto sembra sicuro" dissi. "Spediscile ad Hartley." "Non vedrai Ingrid... nei prossimi giorni?" Mi guardò, poi distolse lo sguardo. "Andrew. Ingrid e io non torneremo più insieme, mai più. Voglio che tu ti metta in contatto con Paul Panten e che si venga a un accomodamento. Siamo ricchi, tutt'e due. Ingrid dovrà avere tutto ciò che appartiene alla nostra vecchia vita. Hampstead, i quadri, tutto. Se ti metti in contatto con Johnson, della Albrights, per fare l'inventario, possiamo studiare un accordo finanziario. Sally, naturalmente, ha il suo fondo in amministrazione fiduciaria." "E quello di Martyn... adesso. Mi rincresce, ma questa è una conversazione d'affari." "No. Prego, hai ragione. Sì, e adesso anche quello di Martyn. Passava automaticamente a lei se Martyn fosse morto senza aver messo su famiglia. Andrew, ho bisogno di qualche giorno per pensare al mio avvenire. Possiamo vederci venerdì?" "Senz'altro." Abbassò lo sguardo alle lettere. Vedemmo entrambi quella dalla Francia. "Ora vado. Ne parleremo venerdì. Penso io a tutto, non ti preoccupare." "Andrew, ti sono profondamente grato. Nessuna obiezione? Nessun consiglio?" "Ti conosco troppo bene per pensare di darti dei consigli. O forse troppo poco. A venerdì." Uscì. Aprii la lettera che veniva dalla Francia. Era di Peter. "Ho una lettera di Anna per lei. Ha insistito che gliela dessi personalmente. Può telefonarmi? Parleremo di come e quando posso farlo." Nient'altro. Telefonai immediatamente. "Dov'è Anna?" "Non lo so." "Non ci credo." Sospirò. "La prego di capire che quello che lei crede o non crede è per me del tutto irrilevante." "Scusi. Quando se n'è andata?" "Il giorno del funerale di Martyn." "Come faceva a conoscere la data?" "Mio Dio! Non si può dire che fosse un segreto per la stampa inglese." "Dov'è andata?" Lui rimase muto. "Non le sto chiedendo dov'è adesso, solo dov'è andata quel giorno." "E' andata, amico mio, a visitare la tomba di suo fratello." Per un attimo rimasi accecato dalla luce bianca della sorpresa. "Sola?" "Solissima. Glielo dirò ancora una volta. L'ultima volta che ho visto Anna è stato il giorno del funerale di Martyn. E' uscita di casa e ha preso un taxi. Mi ha detto addio. Credo che dicesse sul serio, questa volta." "Com'era vestita?" "Cosa? Un abito bianco. Ha detto che andava a comprare delle rose per la sua tomba. Poi è sparita." "Rosse, immagino." Come in un sogno. "Non so di che colore. Questa è una conversazione impossibile. Ora, come ultima cosa che farò per Anna, devo portarle io la lettera o viene a prenderla lei?" "Vengo a prenderla io." "Meglio allora che venga a casa mia." Mi diede l'indirizzo. "Domani alle sei." "Domani alle sei." L'appartamento aveva tutta la ritrosa eleganza e l'ingannevole semplicità che ero giunto ad associare alla figura di Peter Calderon. Quanto a lui, era un uomo intelligentissimo. Tanto intelligente da dissimulare la propria vivacità intellettuale. Era uno di quegli uomini che imparano in fretta dai pochi errori che commettono. Come quelli che aveva fatto con Anna, tanto tempo fa. "Molto gentile" dissi, per avviare la conversazione. "No. Non è una gentilezza. E' un dovere." "Ah!" "Ecco la lettera. Preferirei che non la leggesse qui." "Perché? Sa cosa contiene?" "No." "Ma potrebbe tirare a indovinare?" "No. Potrei darle la mia opinione professionale. Ma probabilmente lei non mi darebbe ascolto." "La sto ascoltando, adesso." "Anna troverà che è impossibile continuare la sua relazione con lei." "Perché no? Oh, capisco, le solite ragioni." "Allude al senso di colpa? No, no, Anna sa tenerlo benissimo a bada, il suo senso di colpa. Quasi tutti lo fanno, in realtà. Per esempio, lei è riuscito perfettamente bene a ingannare suo figlio. E non parliamo del piccolo tradimento di sua moglie. Eppure lei è qui, pochi giorni dopo la morte di suo figlio, una morte provocata, senza dubbio, in gran parte da lei. Lei è qui a cercare Anna. Per piacere! Senso di colpa, rimorso, la sua complice e ipocrita espressione è di per sé già un'assoluzione. Reciti solo un atto di dolore, "Dio, mi pento" e via dicendo, ed ecco subito il castigo. Il rimorso è il castigo. Così castigati, e perciò purificati, possiamo tornare ai nostri delitti." "Perché allora? Perché lei non può riprendere con me?" "Perché è solo adesso che finalmente ha detto addio ad Aston. Anna mi ha parlato della sua relazione con lei. Lei faceva parte del processo di guarigione. Ne era una parte di vitale importanza. L'estremo limite che avete raggiunto era, come posso dire?, un viaggio che lei e Anna eravate destinati a fare insieme. Ma un viaggio che ora è finito. Finito." Mi guardò. "A questo punto, almeno, è finito per Anna." "L'ultima cosa che mi ha detto è stata proprio questa: è finita. Ma io non mi rassegnerò. "Perché per lei non è ancora finita." "E non lo sarà mai." "Forse no. Forse no. Ma lei ora sarà solo un visitatore di vecchi panorami, vecchie stanze, vecchi sogni. Forse a lei basta questo." "Non mi arrenderò." "Legga la lettera e decida. Ringrazi il cielo di aver fatto quel viaggio. Capita a poca gente. Forse è meglio così. La conseguenza è quasi sempre una tragedia. Ma poi, se lei avesse saputo, un anno fa...?" Lo guardai. "Mia moglie avrebbe preferito che fossi morto. Che non vivessi per fare tutto questo." "Ma allora non sarebbe mai vissuto. Vero?" "No." Sorrise, mentre mi accompagnava alla porta. "Pochi rimpiangono questa esperienza." "E lei?" "Non ho mai fatto questa esperienza con Anna. E neanche Martyn. In questo senso, e solo in questo, eravate veramente fatti l'uno per l'altro. Uomini e donne, per stare insieme, battono le strade più diverse, le strade più diverse. La vostra era elevata e pericolosa. Noi, per la maggior parte, percorriamo sentieri più bassi." Nel verde di un boschetto dei giardini delle Tuileries trovai un posto tranquillo. Appoggiato a un platano, lessi il mio destino: Devo togliermi dalle tue mani, ritornare in possesso di me stessa. Sono stata un dono fatale. Sono stata il dono del dolore che cercavi tanto ansiosamente, la massima ricompensa del piacere. Benché avvinti in un selvaggio minuetto, ci siamo librati nello spazio, liberamente, chiunque e qualunque cosa fossimo, o fossimo destinati a essere. Come creature venute da un altro mondo, abbiamo trovato in ogni passo la lingua del nostro pianeta perduto. Tu avevi bisogno del dolore. Era il mio dolore che agognavi. Ma anche se adesso non ci credi, la tua fame è saziata in pieno. Ricorda, ora hai il tuo dolore. Sarà "tutto, sempre." Anche se tu mi trovassi, io non ci sarei. Non cercare una cosa che hai già. Anche le ore e i giorni che ci sono stati concessi, e che ora sono finiti per sempre, sono "tutto. Sempre." Anna Una foglia cadde lentamente sulla terra come un'enorme lacrima verde. Io non avevo più lacrime da versare. Mi tastai il corpo, toccandomi il petto e le braccia. Questa carcassa dovrà trovare asilo in qualche posto finché non sarà pronta per la sepoltura. Dovevo mantenere la promessa fatta a Ingrid: vivere, continuare a vivere. Ma avevo anche bisogno di una bara, per così dire. Mi raddrizzai per allontanarmi. Una bambina che inseguiva freneticamente una palla mi urtò. Ci scambiammo un'occhiata, e non so quale lampo d'intuizione la fece scappare via, piangendo. Occorre un tempo straordinariamente breve per ritirarsi dal mondo. Certi affari essenziali, si capisce, devono essere formalizzati. Andrew si occupa di tutti i conti, e trasferisce una cifra mensile per le spese di mantenimento. Le lettere private provenienti da Hampstead o da Hartley vengono distrutte da lui. La scorta si esaurisce con notevole rapidità. Poca gente ha il mio indirizzo. Sally, naturalmente; Peter Calderon: non si sa mai. Ma io so che in fondo non esiste sospensione della pena. Avevo solo un'ultima pubblica comparsa da fare, all'inchiesta. Il verdetto è stato di morte accidentale. Ingrid, Sally ed Edward non si sono presentati. Naturalmente, si è malignato molto sull'assenza di Anna Barton. Ho un appartamento in una stradina della città dove sono venuto ad abitare. L'ho scelto con cura. I muri bianchi e i soffitti bianchi foderati di legno hanno guidato la mia scelta. Da allora ho aggiunto avvolgibili bianchi ai finestroni, una moquette bianca, bianche librerie. Col tempo ho anche comprato della carta bianca con un motivo ornamentale in rilievo per nascondere le copertine dei libri. Trovo le ombre, per pallide che siano, troppo scure per poterle sopportare. La donna delle pulizie che viene ogni giorno per due ore non gradisce il fatto che io me ne stia seduto a guardarla. Ma devo farlo. Una volta ha portato delle rose rosse. Non è riuscita a trovare i gigli che avevo chiesto. Sono cominciati degli spasimi che ho impiegato giorni ad arginare. Ho due grandi ritratti, che sono rivolti contro il muro quando arriva lei. So che cercherebbe di girarli, se io non ci fossi. Sono appesi l'uno di fronte all'altro, nel breve corridoio che dal soggiorno principale porta al bagno. Pur avendo faticato a ingrandirli fino alla misura che volevo io, il fotografo alla fine c'è riuscito. Montati su fondo bianco, sono alti circa un metro e mezzo. Seguo una routine. Faccio ginnastica. Ho comprato un libro che si basa sull'antico regime di mio padre: tredici minuti di ginnastica ogni mattina. Quindi la colazione. Lettura. Sempre i classici. Qua dentro c'è da leggere per una vita. E non ho certo una vita, davanti a me. Quando puliscono l'appartamento, studio lingue ascoltando dei nastri registrati. Ogni anno faccio una vacanza al sole sempre in un paese diverso. Così mi costringo ad avere almeno un minimo di conoscenza della lingua del paese che visiterò. Questo è il terzo anno che mi sottopongo alla prova. Quando la donna delle pulizie se ne va, faccio una lunga passeggiata. Consumo un pasto leggero in un caffè. Poi ritorno nel mio bianco rifugio e riprendo la lettura o ascolto della musica. Altrettanto spesso siedo per ore lasciandomi invadere dalla bianca purezza della stanza. Ricevo regolarmente notizie da Sally. Wilbur è morto. Non a causa di una crisi cardiaca, dopo tutto, ma in un incidente stradale. E' stato Edward a morire per un attacco cardiaco, entro un anno dalla morte di Martyn. Pensavo... Temevo proprio che potesse accadere. Ingrid si è risposata, con un capitano d'industria che è appena diventato cavaliere. Sally non si è ancora sposata. Lei e Jonathan stanno sempre insieme. "Non è" mi ha scritto qualche tempo fa, "che io non abbia fiducia nell'amore. E' che non so più che cosa sia." Io non mi sento mai solo. Il mio posto preferito a questo mondo, il mio mondo, è il lungo e stretto corridoio che va in bagno. Lì mi siedo, qualche volta, verso sera, a guardare la fotografia di Martyn in grandezza naturale. Cambio la posizione della sedia, così la prospettiva cambia sempre. Una volta mi sono limitato a stare in piedi davanti alla sua immagine con le braccia che toccavano i lati della cornice. Per ore e ore ho cercato, nei suoi occhi, una traccia della consapevolezza che la sua vita non sarebbe stata quella che sperava. Ma, fermata per sempre dall'obiettivo in un momento di gioia, di forza e di bellezza, la sua faccia sembrava irrompere da quella gabbia tecnologica di vetro con una trionfale e spavalda vitalità A volte guardo Anna... in una foto scattata ad Hartley durante il weekend del suo fidanzamento. L'ho presa dallo studio quando ho lasciato Hartley per l'ultima volta. Anna risponde al mio sguardo con un'aria interrogativa. Il movimento dei capelli neri, soffici e agitati dalla brezza, contrasta con la fermezza degli occhi che non sorridono e con la solennità del viso. Ricordo come rideva raramente. Quando frugo nel suo viso da ogni lato riesco a trovarci solo una forza passiva che sembra dire: "Non sono in trappola, perché non mi muovo." Su quel viso c'è un presagio dei suoi anni di silenzio. Raramente mi assale il desiderio. Una volta (e da allora ho smesso di bere) deposi il suo ritratto sul pavimento. Stendendomi su di esso, in quello che credevo un accesso di dolore, mi trovai invece perduto nella tempesta di un corpo disperato. E mentre piangevo per lo strazio, seme e lacrime sgorgarono. E allora mi venne in mente ciò che aveva scritto della notte in cui Aston si era accostato al suo letto: "Seme e lacrime sono simboli della notte." Ora vesto sportivamente, e porto spesso gli occhiali neri. Trovo che tutti i colori mi feriscono. Ho un bagaglio leggerissimo per la mia breve vacanza. Germania, quest'anno. L'aeroporto è orribile, affollato, pittoresco e rumoroso. Giro l'angolo. Tutto tace. Mi sembra che tutta l'altra gente si muova improvvisamente al rallentatore. Anna compare davanti a me. Avanza verso di me. Mi toglie gli occhiali neri. Guarda dentro e oltre di me come se volesse strapparsi per sempre da me. Lotta in silenzio per la parte di lei che serbo ancora. E' onnipotente. Questa è una ripresa di possesso. Il mio corpo sembra piegarsi su se stesso, diventare uno strillo o una canzone, un suono così acuto, così sottile, da frantumare ossa e lacerare muscoli. So che mi hanno strappato il cuore. Si sta disintegrando. Cado in ginocchio. E' un atto di adorazione e di resa. Le mie labbra sfiorano il cotone del suo vestito. I suoi gialli e i suoi verdi da giardino d'estate sono acido gettato nei miei occhi. Qualcuno si precipita ad aiutarmi. Anna semplicemente continua a camminare. "Ha bisogno di un dottore?" Il giovanotto mi aiuta a rimettermi in piedi. "No. No, sto bene. Sono io stesso un dottore." Torno indietro di corsa nella direzione che ha preso. La vedo unirsi a un uomo che tiene un bambino per mano. Lui si volta appena appena verso di lei e le labbra di Peter Calderon le sfiorano i capelli. Da questa prospettiva, vedo che il lieve scompiglio della gonna è dovuto a una gravidanza. Trovo un taxi. Mentre riparte a tutta birra verso l'appartamento da cui ora dubito che uscirò mai più, mi chiedo per quanto tempo il mio corpo sopravviverà. Non molto tempo, non molto tempo, spero. Pensieri irrevocabili mi assalgono. Con un sospiro chiudo la porta. Mentre muoio, forse anni prima che l'idiota meccanismo del mio corpo finalmente si arrenda, mormoro a me stesso e a quelle facce mute in corridoio: "Almeno adesso sono certo della verità." Per quelli di voi che ne dubitano: questa è una storia d'amore. E' finita. Altri saranno più fortunati. Auguro loro ogni bene.