- Sommario:
- 1.
Nozione
assorbente di subordinazione
- 2.
I riprovevoli
comportamenti datoriali
- 3.
Corretto
valore da conferire alla vicende private del prestatore
- 4.
Conferme
dall’orientamento giurisprudenziale
- 5.
Conclusioni
-
- *******
- 1. Nozione
assorbente di subordinazione
- Una non condivisibile concezione totalizzante (o
assorbente) della nozione di “subordinazione” – cui si sono sempre ispirate le aziende nel giudicare i comportamenti
del prestatore di lavoro – ha portato spesso a far acquisire rilevanza non solo
agli atti o fatti commessi dal prestatore di lavoro nell’esercizio delle
proprie mansioni e sul luogo di lavoro ma anche a comportamenti tenuti nel
privato e talora irrilevanti ai fini del futuro, corretto, adempimento della
prestazione.
- Questa diffusa (quanto errata) visione secondo la
quale l’intera personalità del lavoratore subordinato – sia nelle
manifestazioni lavorative che extra lavorative – sarebbe implicata nel giudizio
di conformità al “carattere fiduciario” (da cui è connotato il rapporto di
lavoro), ha pertanto occasionato, sia in passato che ai tempi nostri, dure
stigmatizzazioni, in veste di sanzioni disciplinari espulsive, nei confronti
di comportamenti extralavorativi (o eventi
estranei al rapporto di lavoro) attinenti all’ambito dei rapporti patrimoniali
con i terzi (rilevanti o meno sotto il profilo dell’illecito o del reato)
ovvero afferenti alla di lui sfera morale.
- Ciò in ragione del loro intrinseco carattere
riprovevole, quando invece i comportamenti in questione andavano valutati – ai
fini della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento – se ed in
quanto venivano in rilevanza diretta con
(o avevano effetti di riverbero causalmente inscindibile su) le obbligazioni
di lavoro e gli specifici adempimenti contrattuali o erano idonei ad inficiarne
o pregiudicarne la futura esecuzione.
- Così appellandosi le imprese talora alla
necessità di salvaguardare il decoro, la reputazione o il prestigio aziendale,
talaltra al dovere di tutelare, ex art. 2087 c.c., la personalità morale
(spesso, invece, solo un perbenismo di facciata) dei colleghi o colleghe nei
cui confronti il lavoratore di dubbia moralità – persistendo il rapporto –
continuerebbe a dispiegare influenze “contagiose” e comunque invocando una
lesione irreparabile del rapporto di fiducia, è stata dalla giurisprudenza
porta in emersione l’irrogazione di drastiche sanzioni disciplinari a carico
dei lavoratori.
- In tempi sufficientemente remoti – ma anche ai
nostri giorni – si è licenziato in tronco, per causa tale da non consentire la
prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.), il lavoratore
sposato che intratteneva relazioni amorose extralavorative con collega nubile
(1), il convivente more uxorio (2), l’insegnante di un
istituto confessionale sposatosi con il solo rito civile (3), il lavoratore i
cui familiari avevano tenuto atteggiamenti irriguardosi o proferito ingiurie
nei confronti del di lui datore di lavoro (4), il prestatore indebitatosi, a
seguito di operazioni speculative in borsa, oltre il proprio livello reddituale
(6), quello incappato in reati patrimoniali a carico di terzi e senza alcun
coinvolgimento dell’azienda (6), quello reo di aver omesso, per eccessivo
rispetto del principio di gerarchia, di riferire delatoriamente
all’imprenditore fatti illeciti commessi dal superiore diretto (7), i
lavoratori colpevoli di aver intentato e vinto una causa, per la qualificazione
“subordinata” del rapporto di lavoro, contro il recalcitrante datore di lavoro
(8), il tecnico Rai detentore, al di fuori dell’ambiente e dell’orario di
lavoro, di sostanze stupefacenti (9).
- Sebbene diverse di queste fattispecie abbiano
trovato in magistratura corretta soluzione (nel senso che è stata disattesa la
pretesa ricorrenza della giusta causa, per estraneità al rapporto delle vicende
assunte come vulneratrici della
“fiducia” datoriale, specie nel caso di
addebiti afferenti alla vita sentimentale, in ragione senz’altro di una
liberalizzazione dei costumi (senza che per questo i comportamenti e le tresche
amorose perdessero di per sé il loro carattere disdicevole), altre ipotesi non
sono state – invece – decise con analoga modernità ed assenza di pregiudizi e
sono state sacrificate alla concezione distortamente “fiduciaria”. Più che
pregiudizi, possono aver talvolta giocato a sfavore dei lavoratori subordinati
reali e comprensibili preoccupazioni, quali il timore che posizioni libertarie ed aperturiste finissero per incentivare
– per impunità – il novero dei comportamenti non conformi all’ordinamento.
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- 2. I riprovevoli
comportamenti datoriali
- Per inciso c’è poi da osservare che mentre i
fatti privati del lavoratore vengono fatti risaltare come lesivi (e, con
varietà di aggettivazioni, come scuotenti, minanti, incrinanti, vulnerativi)
della fiducia datoriale per riverbero indiretto o trasversale sul “buon nome” dell’azienda che lo ha in organico,
nessun diritto di reciprocità – salvo rare eccezioni – viene accordato fattualmente
alla reputazione del prestatore che, nella stessa logica, non può che essere
egualmente lesa dall’appartenenza ad azienda i cui amministratori siano venuti
alla ribalta per imputazioni e condanne penali o amministrative, non tanto per
fatti privati quanto addirittura in
relazione specifica con l’esercizio delle loro funzioni gestionali (che il caso
non sia di scuola ne sono testimoni le cronache giornalistiche).
- Forese che il fatto di prestare attività in una
società – eminentemente con funzioni direttive – dei cui amministratori venga
successivamente acclarata la rilevante scorrettezza gestionale o la distrazione
di fondi (statali) con specifica destinazione (ad esempio per l’innovazione
tecnologica, la formazione, la ristrutturazione aziendale, e simili) non si
rifrange sulla “reputazione” o sul “prestigio professionale” del dirigente o
del funzionario direttivo?
- Al verificarsi dell’evento, il meno che questi
può subire sono le scontate ironie degli amici e dei colleghi che – più
fortunatamente – operano in aziende meglio gestite, mentre più incisivi e più
tangibili sono i pregiudizi nel momento in cui matura la decisione di reperire un’altra occupazione. Nel caso
specifico, infatti, si troverà, in via pregiudiziale, impegnato a dissipare
dubbi e legittimi sospetti del nuovo datore di lavoro e del management della
nuova azienda e non sempre avrà la fortuna di dimostrare convincentemente la
propria assoluta estraneità alle vicende dei precedenti, incauti, gestori
aziendali (specie se svolgente mansioni
di responsabile amministrativo o finanziario, di redazione bilanci e simili). Sostenitori ad oltranza della
concezione fiduciaria hanno avuto la temerarietà di affermare che
sussisterebbe bilateralità di rimedi, perché di fronte al licenziamento
del lavoratore per “vulnerazione fiduciaria” datoriale esistono le dimissioni “
per giusta causa ( o in tronco)” del lavoratore nei confronti di un’azienda che
abbia leso la sua reputazione. Concludendo che “in definitiva, i pochi casi nei quali il venir meno della
fiducia nel datore di lavoro è stato considerato giusta causa di dmissioni in
tronco, bastano a salvare il principio” della bilateralità (e quindi del supposto
equilibrio) della concezione “fiduciaria” (10).
- A nostro avviso è, invece, vero l’opposto: cioè a
dire, nel diritto del lavoro – che è diritto sostanziale – i principi non sono
esatti per essere connotati da astratta razionalità ma la loro rispondenza al
giusto discende dall’equità dei risultati che si accompagna alla loro
applicazione concreta. Poiché la
lesione della “suscettibilità” del datore di lavoro a fronte di comportamenti
extra lavorativi sgraditi o riprovevoli del prestatore di lavoro viene
gratificata con lo strumento dell’espulsione dello stesso dall’azienda e la
privazione dei mezzi di sostentamento connessi al bene dell’occupazione, mentre
l’ordinamento appronta per la corrispondente lesione “fiduciaria” subita dal
prestatore di lavoro l’irridente rimedio del “rendersi disoccupato per libera
scelta” attraverso la ricusazione dell’azienda con le dimissioni per giusta
causa, le palesi iniquità discendenti dalla concezione “fiduciaria”
esasperatamente intesa (tale è quando si dispiega su comportamenti estranei alle obbligazioni di lavoro, quantunque
indiscutibilmente censurabili sotto il profilo etico e legale), minano
seriamente la credibilità e l’utilizzo della concezione in parola.
-
- 3. Corretto valore da conferire alle vicende
private del prestatore
- Pertanto, particolarmente:
- a)
- dopo la legge sulla giusta causa del 1966 che – introducendo il
giustificato motivo di licenziamento, identificato normativamente nel “notevole
inadempimento agli obblighi contrattuali” – ha, a nostro parere
(recentissimamente condiviso dalla Cassazione (11) orientato, identificato e
circoscritto la nozione di “giusta causa” all’inadempimento contrattuale di più
incisiva gravità, bandendo dal suo
ambito concettuale qualsiasi altro fatto o evento (indipendente dal gravissimo
inadempimento contrattuale) accolto in precedenza da una superata concezione
estensiva della nozione di “giusta causa”;
- b)
- dopo l’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori che inibendo all’art.
8 l’appropriazione occulta di fatti “irrilevanti ai fini dell’attitudine
professionale del lavoratore”, ha fornito una chiave di lettura, in termini
esclusivamente tecnico-professionali, del comportamento del prestatore di
lavoro;
- c)
- considerato poi che il rapporto di
lavoro non è necessariamente caratterizzato dalla costituzione “intuitu personae” ma in ragione
eminentemente delle qualità professionali;
- d)
- che le dimensioni e l’organizzazione delle attuali imprese sono andate
nella direzione della “spersonalizzazione” dell’apporto collaborativo, con
accentuazione e prevalenza della validità tecnico-professionale del risultato
della prestazione;
-
l’approccio alla questione – culturalmente più
corretto e rispondente alla moderna realtà giuridica e sociale – è quello di
non conferire, come regola generale, alcuna
(o la minima) rilevanza agli
eventi ed alle vicende extralavorative del prestatore d’opera.
- Quando tali comportamenti siano, invece, di
rilevante gravità, potranno incidere sull’idoneità ad adempiere correttamente
alle obbligazioni contrattuali, ma per raggiungere un tale convincimento la loro
valutazione dovrà essere tanto prudente quanto equilibrata e massimamente oggettiva (e non emotiva),
così come indica l’orientamento – pur sempre perfettibile – della Suprema Corte
che si esprime nel senso che la rilevanza disciplinare dei comportamenti
privati prescinde dagli stessi astrattamente considerati idonei a vulnerare la
fiducia per la loro intrinseca riprovazione sociale, “dovendo essere invece valutati in concreto,
in relazione alla natura ed alla qualità del singolo rapporto intercorrente tra
le parti, alla posizione che in esso
abbia il prestatore di lavoro e quindi alla qualità ed al grado del particolare
vincolo di fiducia che quel rapporto comporta; dovendosi altresì considerare se
lo specifico comportamento, valutato non soltanto nel suo contenuto obiettivo
ma anche per la sua portata soggettiva, specie in relazione alle circostanze e
condizioni in cui è stato posto in essere, ai suoi motivi ed ai suoi effetti
nonché all’intensità dell’elemento intenzionale o colposo, risulti tale da
ledere gravemente, così da farla venir meno, la fiducia che il datore di lavoro
deve poter riporre nel proprio dipendente in quel particolare rapporto” (12). Imprescindibile
poi, per la Cassazione stessa, un’attenta considerazione di tutte le
circostanze del comportamento in
concreto “poiché il
licenziamento per giusta causa, stante l’impossibilità di prescindere da un
equo criterio di proporzione tra la mancanza addebitata e la sanzione inflitta,
appare legittimo quando risulti l’insufficienza di qualsiasi altra sanzione a
tutelare l’interesse dell’azienda”(13), in ragione della giusta considerazione
del provvedimento di licenziamento
quale “extrema ratio”.
- Con la conseguenza che, in materia, la posizione della giurisprudenza di
legittimità è riassumibile nella seguente massima: “i fatti ed i comportamenti del lavoratore
estranei all’ambito contrattuale, non verificatisi nel corso e nel luogo
dell’attività lavorativa, sono, in linea generale, irrilevanti ai fini della
valutazione degli addebiti quando non abbiano alcuna incidenza sulla sfera
contrattuale .Quando, invece, tali comportamenti siano collegati, sia pure
indirettamente, con l’esecuzione della prestazione lavorativa, oppure assumano
un rilievo talmente grave da far ritenere il lavoratore professionalmente
inidoneo alla prosecuzione del rapporto di lavoro, non v’è dubbio che essi
valgono a determinare un’irreparabile compromissione dell’elemento fiduciario,
che costituisce la base del rapporto di lavoro subordinato, specialmente quando
tale rapporto, per le sue caratteristiche e peculiarità, richiede una
collaborazione qualitativamente elevata e una fiducia correlativamente molto
lata, che può estendersi anche alla serietà dei comportamenti privati del
lavoratore” (14).
- Per la verità non va sottaciuto come l’iniziale
massima sembri essere stata, di recente, oggetto di una riaffermazione in senso
restrittivo e meno garantista per i lavoratori, asserendosi – ad esempio da
Cass. 11430 del 30 agosto 2000 (che ha legittimato il licenziamento di un
addetto del Poligrafico dello Stato, svolgente opera di collettore, non si
capisce se all’esterno o all’interno, delle giocate del lotto clandestino
effettuate in azienda (15) - al fine di
legittimare la sanzione espulsiva che:
“Se il comportamento
extralavorativo del dipendente è di regola irrilevante ai fini della lesione
del vincolo fiduciario che è alla base del rapporto di lavoro, può acquisire
rilievo al richiamato effetto qualora presenti una particolare gravità oppure
esiga, in ragione di peculiari caratteristiche della prestazione, un più ampio
margine di fiducia, esteso alla serietà della condotta privata, il cui venir
meno menoma l’idoneità professionale, cui si riferisce l’articolo 8 Stat.
lav….Ai fini della valutazione di congruità della giusta causa di licenziamento
vanno tenuti presenti oltre agli inadempimenti derivanti dal contratto di
lavoro, anche situazioni estranee ad esso, attinenti alla vita privata ed
esterna del lavoratore, concretanti violazioni di valori di particolare valore giuridico e/o sociale,
tali da far ritenere, in relazione alla natura del rapporto, al tipo di
mansioni, al grado di affidamento da esse richiesto, il lavoratore
professionalmente inidoneo alla prosecuzione del rapporto, cioè all’esatto
adempimento delle future prestazioni”.
- Alla stregua di tale principio (sia nella forma
estensiva che più restrittiva), in epoca non lontana, è stato ritenuto (da
Cass. n. 2683/1990) giustificato il licenziamento per giusta causa, nei
confronti di un lavoratore del settore bancario, con mansioni delicate di
custodia e trasporto valori, resosi responsabile di rapina a mano armata nei
confronti di una prostituta, mentre da Cass n. 2981/1983 è stato ritenuto
giustificato il licenziamento di un dipendente di una Cassa di risparmio a
fronte del privato comportamento di emissione reiterata di assegni a vuoto,
prevista nel ccnl tra le ipotesi convenzionali di risoluzione del rapporto.
- In altra sentenza del 1985 (16), il principio
sopra riferito in forma estensiva ha portato, invece, ad escludere che un
lavoratore – responsabile del reato di atti osceni e di libidine violenta –
potesse essere licenziato per giusta causa, atteso che l’azione indegna era
stata commessa “non in
connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro e, considerate le
mansioni del dipendente (addetto alla movimentazione manuale delle merci negli
scali aeroportuali), detta azione non poteva che considerarsi – anche in
relazione all’art. 8 L. n. 300/’70 – irrilevante ai fini dell’attitudine professionale del lavoratore”.
- Ancora in una sentenza del 1985 (17) si è
asserito che: “in conseguenza
dell’evoluzione dei costumi, è da ritenersi
che i comportamenti sessuali fuori azienda non abbiano alcuna
rilevanza sul rapporto fiduciario tra
datore di lavoro e lavoratore. Ne consegue l’illegittimità del licenziamento
intimato ad una lavoratrice che
intrattiene una relazione adulterina con un compagno di lavoro, estrinsecatasi
in congressi carnali posti in essere negli intervalli di lavoro e in spazi
extra aziendali”.
Notandosi, da parte nostra, che se si è accorti nello scegliere il Dirigente di
livello – in luogo dell’anonimo, quantunque aitante, compagno d lavoro (verso
il quale si può anche scusare la sbandata giovanile) – se ne possono trarre
indubbi vantaggi ai fini degli incentivi economici e della progressione d
carriera, in barba alla legge n.
125/1991 sulle pari opportunità uomo-donna, notoriamente invocata (quando fa
comodo a fini antidiscriminatori) da
queste “mantidi (poco) religiose”!
-
- 4. Conferme
dall’orientamento giurisprudenziale
- In più recenti e meno datate sentenze – occasionate
da reati di detenzione e/o spaccio di
stupefacenti, purtroppo sempre più ricorrenti nei tempi attuali – si è giunti
da affermare che: “i
comportamenti tenuti dal lavoratore nella vita privata ed estranei
all’esecuzione della prestazione lavorativa possono incidere radicalmente sul
vincolo fiduciario per la loro gravità
e risonanza nonché in considerazione delle mansioni espletate dal
dipendente e della particolare natura dell’azienda datrice di lavoro, ma non
possono rilevare ai fini della dedotta giusta causa di licenziamento, allorché
non abbiano prodotto effetti riflessi nell’ambiente di lavoro e tanto meno
nociuto al prestigio dell’Ente datore di lavoro” (18). Aggiungendosi che: “ha diritto ad essere reintegrato nel suo
posto di lavoro ed a far parte della comunità sociale e professionale del
lavoro, il dipendente che sia stato licenziato per spaccio di droghe leggere,
sia perché il consumo di tali sostanze è sentito dalla coscienza sociale –
quando non è tollerato – come un disvalore di grado assai inferiore rispetto
alle c.d. droghe pesanti, sia perché nel fatto commesso non è ravvisabile alcun
nesso, né funzionale né occasionale, con l’attività lavorativa prestata in
qualità di manovratore ferroviario”(19). Ancora recentemente, nel caso di un
primario di un istituto ospedaliero condannato per il furto di una tela da una
chiesa e, quindi, licenziato, il magistrato ha asserito che: “il comportamento penalmente rilevante del
lavoratore (che deve essere valutato considerando la personalità dello stesso
e la sua condotta complessiva nello
svolgimento della prestazione lavorativa) non è idoneo a ledere l’elemento
fiduciario e, quindi, non può
costituire giustificato motivo di licenziamento, allorché, oltre ad esaurirsi
in un singolo episodio, sia del tutto estraneo all’esecuzione della prestazione
lavorativa e non incida in alcun modo sull’aspetto tecnico della
professionalità del dipendente, riguardando invece l’aspetto etico
comportamentale”
(20).
- Anche in caso di condanne penali per “tentata estorsione”
(a danno di terzi da parte di dipendente delle FF.SS.) e di “tentato furto con
danni ad un supermercato” (da parte di macchinista dell’Ente Ferrovie) si è
asserita l’illegittimità del licenziamento per presunta vulnerazione del
vincolo fiduciario, in quanto detta compromissione deve essere intesa non già
in senso generico ma nel senso specifico di una ragionevole probabilità di
pregiudizio del corretto adempimento delle mansioni contrattuali (21).
- Secondo il consolidato – e già riferito –
orientamento (22) della Cassazione (quantunque soggetto alle evidenziate
tentazioni restrittive), la valutazione dell’elemento fiduciario va, infatti,
operata con riferimento non al fatto astrattamente considerato bensì agli
aspetti concreti afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto,
alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche
mansioni del dipendente nonché alla portata soggettiva del fatto stesso.
L’oggetto del vincolo fiduciario è, quindi, rappresentato dalla fiducia
nell’esattezza dei successivi adempimenti da parte del lavoratore e non dalla
fiducia sulla rettitudine e probità del lavoratore medesimo (quantunque pur sempre auspicabile e
apprezzabile come un quid
pluris, non
necessariamente postulato).
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- 5. Conclusioni
- Ciò che riportiamo asetticamente potrebbe,
ad una disattenta o superficiale lettura – specie da parte dei c.d.
perbenisti – essere scambiato quasi per un incentivo alla “deresponsabilizzazione”
ed al “lassismo comportamentale”, intento del tutto estraneo alla nostra
operazione documentale e dal cui sospetto si può e ci si deve liberare quando
si focalizzi l’attenzione su due fondamentali considerazioni:
- a)
le vicende extralavorative riprovevoli – sanzionate zelantemente con
l’espulsione dall’azienda – deludono molto spesso “solo” aspettative non
giuridicamente protette ed urtano “solo” umanamente comprensibili
suscettibilità. Non si può, obiettivamente, per la tutela di un supposto
“decoro” o “prestigio” o “reputazione” aziendale, legittimare – per fatti
estranei alla prestazione dedotta in contratto, quantunque moralmente
disdicevoli ed indegni ma non idonei a riverberarsi sull’aspettativa di
corretto adempimento delle specifiche mansioni – lo spiegamento della massima
sanzione privativa dell’occupazione, considerato che il “licenziamento”, come
insegna la giurisprudenza della
Cassazione, è misura da azionare, nel rapporto di lavoro, solo quando
altre misure di natura conservativa e non traumatiche, si rivelino certamente
idonee a stigmatizzare ed a scoraggiare la reiterazione del comportamento
disdicevole;
- b)
l’addizionare alla sanzione penale statuale (es. la detenzione, e
simili) la massima pena privata costituita dalla privazione o perdita del posto
di lavoro ( e quindi della fonte insieme di mantenimento proprio, della propria
famiglia oltre che di riconoscimento sociale), per ragioni del tutto
indipendenti da inadempimenti o ragionevoli ed obiettive inaffidabilità
contrattuali, contraddice la funzione rieducativa e sociale attribuita dal
nostro ordinamento costituzionale (art. 27, comma 3, Cost.) all’intervento
punitivo dello Stato, rischiando anzi di essere la perdita del posto di lavoro,
indotta dalla commissione del reato, causa od occasione di nuovi comportamenti
criminosi, anziché di “normalizzazione, rieducazione e reinserimento sociale”.
- Resta, naturalmente, del tutto impregiudicata la
possibilità che le parti, a livello contrattuale, facciano assumere rilevanza
disciplinare a determinati comportamenti tenuti dal lavoratore nella sua vita
privata ed estranei all’esecuzione della prestazione. Si tratta di eccessive ma
non per questo illegittime limitazioni alla sfera delle autonomie e delle
libertà personali (è il caso del divieto contrattuale per il lavoratore
bancario di giocare in borsa, che – per quanto opportuno – era stato giudicato,
in epoca fascista, disciplinarmente sanzionabile già nel 1929, in assenza di un
divieto contrattuale, sulla base di una tecnica argomentativa di “processo alle
intenzioni” sostanziantesi nella considerazione per cui “il fatto di darsi al gioco di borsa senza
avere per giunta i mezzi per fronteggiare le perdite, costituisce per il
cassiere di banca una mancanza così grave da non consentire la prosecuzione
anche provvisoria del rapporto d’impiego, perché distrugge in pieno quella
fiducia che è il presupposto logico e fondamentale del rapporto stesso e fa
nascere il ragionevolissimo timore che il giocatore imprudente, assillato
dall’ansia di allontanare da sé l’avvilente minaccia dell’esecuzione, possa
mettere da un momento all’altro le mani nella pingue cassa a sua piena
disposizione” (così
Trib. Milano 9 giugno 1929, cit.).
- Giustappunto la
successivamente introdotta previsione contrattuale limitativa, evidenzia
che l’inibizione di quel comportamento non è necessariamente immanente al
prestatore di lavoro in conseguenza diretta del suo status di subordinazione nello specifico settore del
credito, ma addizionalmente conseguente ad una pattuizione volta a
salvaguardare esigenze di aziende alle quali – si dice consuetudinariamente –
il cittadino/utente richiede maggiore affidabilità, per effetto della gestione
delle proprie risorse finanziarie e dei propri patrimoni, senza tuttavia indulgere per questa strada
al ridicolo o, peggio, venire inconsapevolmente incontro ai non trasparenti
interessi corporativi di chi vorrebbe, in una visione grettamente consumistica
ed accumulativa, legittimare od accreditare una casta di imprese con maggior
“decoro”, “prestigio” o “utilità sociale” di altre (quando invece la loro
funzione è già viziata dall’intrinseco
e prevalente supporto alla rendita da capitale e le degenerazioni dai
compiti istituzionali occasionano e sconfinano nell’infimo reato usurario).
- (pubblicato, senza gli attuali aggiornamenti, in Lavoro e giurisprudenza, Ipsoa ed., n 11/1996,
p. 885; aggiornato, in Lav. prev. Oggi n. 7/2001, p. 859)
-
- NOTE
-
- (1) App. Messina 24 maggio
1962, in Or. giur. lav. 1963, 341.
- (2) App. L’aquila 26 giugno
1949, in Riv. giur. abruzz. 1949, 31.
- (3) Cass. 21 novembre 1991, n. 12530, in Giust. civ. 1962, I, 661; Trib. Firenze 28 febbraio
1992, in Foro it. 1992, I, 2247.
- (4) App. Roma 11 dicembre
1964, in Riv. giur. lav. 1965, II, 33.
- (5) Trib. Milano 19 giugno
1929, in Mass. giur. lav. 1929, 419.
- (6) App. Firenze 1 aprile
1964, in Giur. tosc. 1964, 777.
- (7) Trib. Genova 13 ottobre
1959, in Or. giur. lav. 1960, 328.
- (8) Fattispecie evidenziata
da Cass. 29 giugno 1981, n. 4241, in Mass. giur. lav. 1982, 67, che ha correttamente stigmatizzato – e
conseguentemente invalidato – come “vendetta” l’illegittimo comportamento
ritorsivo aziendale.
- (9) Pret. Roma 30 giugno 1990, in Dir. prat. lav. 1991, 133.
- (10) Così Trioni, Fedeltà, fiducia ed elemento personalistico nel rapporto di
lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1972, 1640, cui adde, La fedeltà nel rapporto di lavoro, Milano 1982, 263 e ss.
- (11) Trattasi di Cass. 3 ottobre 2000, n. 13144 (inedita allo stato) la
quale ha affermato in ordine alla nozione di “giusta causa” che : “Un’oramai remota giurisprudenza affermava
che, con la generica definizione di giusta causa di licenziamento di cui
all’art. 2119 c.c., il legislatore aveva inteso riferirsi a qualunque vicenda
(e non solo a comportamenti inadempienti del lavoratore) che non consentisse la
prosecuzione neppure provvisoria del rapporto stesso; successivamente alla entrata
in vigore della legislazione limitativa dei licenziamenti,a partire dalla legge
604/66, la giurisprudenza, confortata
dalla dottrina dominante, ha ritenuto che il concetto di giusta causa, così
genericamente individuato dall’art. 2119 c.c., trovi la sua più precisa
definizione nella stessa definizione recata dalla legge n. 604/66 del
giustificato motivo soggettivo (“notevole inadempimento agli obblighi
contrattuali”)… Cosicché la giusta causa si differenzia dal “giustificato
motivo soggettivo” non già dal punto di vista qualitativo, trattandosi in
entrambi i casi di comportamenti inadempienti del lavoratore, bensì sotto il
profilo quantitativo, nel senso della maggiore gravità dell’inadempimento, tale
da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto”.
- (12) Così il consolidato orientamento di Cassazione, a partire dalla
sentenza n. 2689 del 24 giugno 1977.
- (13) Così Cass. 29 aprile 1983, n. 2981 e numerose conformi.
- (14) Cass. 23 luglio 1985, n. 4336, in Riv. it. dir. lav. 1986, II, 609, con
nota di Ianniello; Cass. 3 aprile 1990, n. 2683, in Mass. giur. lav. 1990, 446.
- (15) In Lav. prev. Oggi, 2000, 2093.
- (16) Cass. 13 dicembre 1985, n. 6317, in Dir. prat. lav. 1986, 854, con nostro articolo a pag. 811.
- (17) Pret. Torino 28 ottobre 1985, in Giust. civ. 1986, I, 3245. Pret. Roma 30 giugno 1990, in Dir. prat. lav. 1991, 133.
- (18) Pret. Roma 30 giugno 1990, in Dir. prat. lav. 1991, 133.
- (19) Pret. Milano 22 novembre 1991, in D&L, Riv. crit. dir. lav. 1992, 708; contra, per il caso di spaccio abituale da parte di lavoratore bancario suppostamente tentabile dalla liquidità
maneggiata, Pret. Bari 4 dicembre 1989, in Riv. it. dir. lav. 1990, II, 688.
- (20) Pret. Bergamo 29 luglio 1992, in D&L, Riv. crit. dir. lav. 1993, 171.
- (21) Pret. Milano 29 novembre 1994, in D&L, Riv. crit. dir. lav. 1994, 607 e, rispettivamente, Pret. Torino 29
luglio 1993, ibidem 1994, 607.
- (22) Vedi, esemplificativamente, Cass. 27 novembre 1992, n. 12678; Cass. 29
marzo 1991, n. 3395.