Un’esemplare
sentenza della Cassazione penale sul riscontro del reato di maltrattamenti (ex
art. 572 c.p.) e di violenza privata continuata (ex art. 610 c.p.),
rispettivamente a carico del capogruppo e del titolare aziendale che – per
spingere i venditori porta a porta alla massima produttività – avevano posto in
atto tecniche di mobbing e schiavistiche, consistenti in reiterate violenze e
vessazioni fisiche e morali
Cassazione, penale, VI
sez. – 12 marzo 2001, n. 10090 (ud. 22
gennaio 2001) – Pres. Sansone – Rel. Garribba – Impp. Erba Orlando (avv.
Maccarone) e Celi Cataldo.
Rapporto di lavoro – Reiterate
violenze e vessazioni sui dipendenti per spingerli alla massima produttività, a
fini di massimo profitto – Reato di maltrattamenti di persone sottoposte alla
propria autorità, ex art. 572 c.p., a carico
dell’imputato capogruppo – Sussistenza – Reato di violenza privata continuata,
ex art. 40 c.p., per l’imprenditore omissivo, corresponsabile a causa della mancata applicazione delle
prescrizioni su di lui gravanti per
effetto dell’art. 2087 c.c.
E’ responsabile del reato
di maltrattamenti, ex art. 572 c.p. (con pena, nel caso di specie, pari a 5
anni di reclusione), il capogruppo di lavoratori porta a porta – retribuiti in
nero con compensi versati su libretti di risparmio intestati ai lavoratori ma
detenuti dal datore di lavoro - che
con ripetute e sistematiche vessazioni
fisiche e morali (consistite in schiaffi, calci, pugni, morsi, insulti,
molestie sessuali e, non ultima, la ricorrente minaccia di troncare il rapporto
di lavoro senza pagare le retribuzioni) aveva ridotto i suoi dipendenti, tra i
quali una minorenne, in uno stato di penosa sottomissione e umiliazione, al
fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro forsennati, alla ricerca del massimo
profitto, essendo questo proporzionale al volume delle vendite effettuate.
E’ inoltre colpevole del
reato di violenza privata continuata ex art. 610 c.p. (con pena, nel caso di specie, di 4
anni di reclusione) l’imprenditore omissivo – ex art. 40 c.p. - che tenuto ai sensi dell’art. 2087 c.c. ad
adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità
morale dei prestatori di lavoro non si sia adoperato per por fine alle vessazioni
attuate dai capigruppo, e pertanto se
ne rese corresponsabile.
MOTIVI DELLA DECISIONE
- Con sentenza del 1° febbraio 1999 la Corte d’appello di Milano
confermava le condanne alle pene di anni cinque e anni quattro di reclusione
rispettivamente inflitte dal Pretore a Erba Orlando e Celi Cataldo, dichiarati colpevoli:
- - il primo, dei reati continuati di cui agli artt. 572 e 610 cod. pen.,
per avere, quale capogruppo responsabile di zona per le vendite porta a porta
di prodotti per la casa per conto della ditta gestita da Celi Cataldo,
maltrattato, con atti di vessazione fisica e morale, alcuni giovani sottoposti
alla sua autorità nello svolgimento della attività lavorativa e, inoltre, per
avere, con i medesimi atti di violenza fisica e morale, costretto i predetti
giovani a intensificare l’impegno lavorativo oltre ogni limite di
accettabilità;
- -
il secondo, del reato continuato di cui all’art. 610 cod. pen.,
per avere, quale titolare della ditta predetta, avvalendosi del clima di
intimidazione creato dai suoi capigruppo e omettendo di reprimere i loro
eccessi, costretto gli anzidetti giovani ad aumentare l’impegno lavorativo
oltre il tollerabile.
- Avverso tale sentenza entrambi gli imputati hanno proposto ricorso
per cassazione.
- Erba denuncia violazione della legge penale e vizio di motivazione:
in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di maltrattamenti,
deducendo: l’insussistenza di un elemento costitutivo del reato, perché il
rapporto di lavoro non può essere assimilato al rapporto di convivenza
familiare previsto dall’art. 572 cod. pen.; che non sarebbe stato provato il dolo,
perché gli isolati episodi di violenza sarebbero stati commessi con dolo
d’impeto; in ordine al reato di violenza privata, deducendo che non sarebbe
stata dimostrata la pretesa coazione, dato che i giovani erano assolutamente
liberi di interrompere il rapporto di lavoro quando l’avessero voluto; in
ordine alla pena inflitta, lamentando che essa sarebbe eccessiva non essendosi
tenuto conto della condotta positiva susseguente al reato.
- Cominciando dall’esame del primo
motivo, si osserva che, anche se l’ipotesi di reato di più frequente
verificazione è quella che dà il nome alla rubrica dell’art. 572 cod. pen.
(maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli), la norma incriminatrice prevede
altresì le ipotesi di chi commette maltrattamenti in danno di persona
sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione,
istruzione, cura, vigilanza o custodia, per l’esercizio di una professione o di
un’arte.
- Si tratta di ipotesi di reato, in
questi ultimi casi, in cui non è richiesta, a differenza della prima, la
coabitazione o convivenza tra il soggetto attivo e quello passivo, ma solo un
rapporto continuativo dipendente da cause diverse da quella familiare.
- Venendo al caso in esame, non v’è
dubbio che il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e
lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e
disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore
dipendente, pone quest’ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla
norma penale testé richiamata, di persona sottoposta alla sua autorità, il che,
sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, permette di configurare a
carico del datore di lavoro il reato di maltrattamenti in danno dal lavoratore
dipendente.
- Vi è da aggiungere che nel caso di
specie il rapporto interpersonale che legava autore del reato e vittime era
particolarmente intenso, poiché, a parte il contatto quotidiano dovuto a
ragioni di lavoro, nel corso delle lunghe trasferte, viaggiando su un unico
pulmino, consumando insieme i pasti e alloggiando nello stesso albergo, si
realizzava tra le parti un’assidua comunanza di vita.
- Ma l’aspetto saliente della presente
vicenda sta nel fatto, diffusamente illustrato dai giudici del merito, che
l’imputato, con ripetute e sistematiche vessazioni fisiche e morali, consistite
in schiaffi, calci, pugni, morsi, insulti, molestie sessuali e, non ultima, la
ricorrente minaccia di troncare il rapporto di lavoro senza pagare le
retribuzioni pattuite (minaccia assai cogente, dato che il lavoro era svolto in
nero e le retribuzioni venivano depositate su libretti di risparmio intestati
ai lavoratori, ma tenuti dal datore di lavoro), aveva ridotto i suoi
dipendenti, tra i quali una minorenne, in uno stato di penosa sottomissione e
umiliazione, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro forsennati,
essendo il profitto dell’impresa direttamente proporzionale al volume delle
vendite effettuate.
- Ne risulta, dunque, una serie
di atti volontari, idonei a produrre quello stato di abituale sofferenza fisica
e morale, lesivo della dignità della persona, che la legge penale designa col
termine di maltrattamenti.
- Per quanto attiene poi
all’elemento psicologico del reato, la sentenza impugnata ha posto in rilievo
non soltanto la sussistenza del dolo, concentratosi nella coscienza e volontà
di ledere in modo abituale l’integrità fisica e morale dei soggetti passivi, ma
anche il movente, individuato nella ricerca del massimo profitto, che, al di là
di ogni dubbio, prova il disegno sottostante ai singoli fatti di violenza e
minaccia, che risultano quindi cementati da una volontà unitaria e persistente,
che va oltre il singolo episodio.
- Il motivo di ricorso è quindi
infondato.
- Il secondo motivo è
manifestamente infondato, dato che la sentenza impugnata, proprio per
rispondere alla deduzione difensiva già proposta con i motivi d’appello, ha
spiegato che l’asserita libertà delle vittime, di licenziarsi in qualsiasi
momento l’avessero voluto, era puramente apparente, perché, atteso il
meccanismo del pagamento posticipato delle retribuzioni e del deposito delle
relative somme su libretti di risparmio trattenuti dal datore di lavoro, esse
temevano che, andandosene, si sarebbe verificato quanto era stato loro
minacciato, cioè la perdita delle retribuzioni già maturate.
- E’ manifestamente infondato
anche il terzo motivo, perché il giudice di merito ha indicato a quali dei
parametri elencati dall’art. 133 cod. pen. si è attenuto nell’esercizio del
potere discrezionale di determinazione della pena (la gravità dei fatti, la
durata nel tempo della condotta delittuosa, il numero degli episodi e delle
vittime), e tale scelta, essendo adeguatamente motivata, non è censurabile in
sede di legittimità.
- Con motivo nuovo presentato ai
sensi dell’art. 585 comma 4 cod. proc. pen., la difesa del ricorrente E.
denuncia altro profilo di violazione della legge penale, sostenendo che i fatti
contestati avrebbero dovuto essere qualificati come abuso dei mezzi di
correzione e disciplina a mente dell’art. 571 cod. pen., perché la violazione e
minacce costituivano manifestazione, seppure abnorme, del potere disciplinare
che competeva al ricorrente quale responsabile dell’attività produttiva delle
vittime.
- Anche questo motivo è
palesemente infondato.
- L’abuso punito dall’art. 571
cod. pen. ha per presupposto logico necessario l’esistenza di un uso lecito dei
poteri di correzione e disciplina, e quindi si verifica quando l’uso è
effettuato fuori dei casi consentiti o con mezzi e modalità non ammesse
dall’ordinamento.
- Venendo al caso concreto, si
rammenta che lo Statuto dei lavoratori ha bandito ogni ricorso alla violenza da
parte del datore di lavoro nei confronti del lavoratore subordinato, per cui le
violenze nella fattispecie commesse non possono rientrare nella previsione
dell’art. 571 cit.
- Non solo, ma alla sussistenza
dei fatti nella fattispecie legale prevista dall’art. 571 osta la finalità
perseguita dagli autori del reato nell’esercizio del preteso jus corrigendi.
- Come hanno rimarcato i giudici
di merito, gli imputati perpetrarono sui giovani dipendenti le vessazioni
fisiche e morali sopra descritte, non come punizione per l’erronea esecuzione
del lavoro o per episodi di indisciplina o per altri fatti inerenti al corretto
svolgimento dell’attività lavorativa, ma per costringerli a sopportare ritmi di
lavoro altrimenti intollerabili, riducendoli di tal guisa in una condizione di
sfruttamento di tipo schiavistico. La condotta afflittiva posta in essere dagli
imputati non perseguiva dunque il fine educativo- correttivo che deve contraddistinguere
l’uso dei mezzi di correzione, ma mirava soltanto a scopi di lucro personale.
- Il ricorso di Erba deve dunque
essere rigettato.
- Celi denuncia mancanza e
manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta colpevolezza,
sostenendo che no sarebbe stata fornita la dimostrazione ch’egli sapesse o
incoraggiasse la condotta illecita dei suoi capigruppo, che, anzi, sarebbe
risultato che, ogni qualvolta fu informato dei loro eccessi, egli intervenne
per reprimerli.
- Si duole infine dell’entità
della pena irrogata e del diniego delle circostanze attenuanti generiche.
- Il ricorrente Celi è stato
ritenuto colpevole del reato di violenza privata continuata in applicazione del
principio stabilito dall’art. 40 cod. pen., secondo cui non impedire un evento
che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.
- Infatti, argomenta la sentenza
impugnata, egli, quale imprenditore, era tenuto in forza dal disposto di cui
all’art. 2087 cod. civ. ad adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità
fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, per cui, omettendo di
porre fine alle vessazioni attuate dai capigruppo sui lavoratori dipendenti, se
ne rese corresponsabile.
- Quanto al dolo, la Corte di
merito, con motivazione coerente con le risultanze probatorie e logicamente
ineccepibile, ha spiegato che il ricorrente era perfettamente consapevole dei
metodi vessatori usati dai capigruppo (e anzi li condivideva, essendo
personalmente interessato al massimo sfruttamento dei dipendenti, i cui libretti
di deposito tratteneva a fini ricattatori), e, sebbene ripetutamente
sollecitato dalle povere vittime a intervenire, nulla aveva fatto per reprimere
o interrompere la condotta antigiuridica dei capigruppo.
- Le censure sollevate dalla
difesa su questo punto sono dunque infondate, al pari di quelle concernenti il
diniego delle circostanze attenuanti generiche (peraltro connesse dal primo
giudice) e la misura della pena inflitta, che il giudice d’appello ha ritenuto
di confermare, sottolineando, con valutazione discrezionale insindacabile, la
notevole gravità dei fatti.
- P.Q.M
- La Corte di Cassazione rigetta
i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese
processuali.
- Roma, 22 gennaio 2001.
- Depositata in Cancelleria il 12
marzo 2001.