Danno da demansionamento: prova presuntiva - in base a gravità, durata, pubblicità, rimostranze, perdita di ragionevoli aspettative di carriera, alterazione peggiorativa delle abitudini di vita - conforme ai criteri di Cass. SU. n. 6572/2006

 

Trib. Potenza, sez. lav., 20 luglio 2006 – Giud. Marotta – Liccese M. (avv. Guarino, Coppola) c. Banca Carime SpA (avv. Fabbri, Chiello, Bozzoli)

 

Danno da demansionamento - Prova presuntiva in base a gravità, durata, pubblicità, rimostranze, frustrazione di ragionevoli aspettative di percorso professionale - Conformità alle statuizioni di Cass. SU n. 6572/2006 - Sussistenza e risarcibilità.

 

La disciplina dell'assegnazione delle mansioni ai dipendenti è dettata dall'art. 2103 c.c. che sancisce il diritto del lavoratore ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti a quelle ultime effettivamente svolte. Il disposto è violato, avuto riguardo alla libertà ed alla dignità del lavoratore nei luoghi in cui presta la sua attività ed al sistema di tutela del suo bagaglio professionale, quando il dipendente sia assegnato a mansioni inferiori ed anche quando questi veda modificati unilateralmente i suoi compiti con una riduzione in termini quantitativi che incida sulla qualità degli stessi (Cass. 4/10/95, n. 10405).

In particolare, la giurisprudenza ritiene palese l'illegittimo esercizio dello ius variandi allorquando il dipendente (ancorché senza conseguenze sulla retribuzione) sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, costituendo il lavoro, non solo fonte di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del soggetto (Cass. 13/8/91, n. 8835).

Lo spirito informatore della norma è teso a fare salvo il diritto del lavoratore alla utilizzazione, al perfezionamento ed all'accrescimento del proprio corredo di nozioni, di esperienza e di perizia acquisita nella fase pregressa del rapporto (Cass. 13/11/91, n. 12088; Cass. 10/2/88, n. 1437; Cass. 6/6/85, n. 3372; Cass. 15/6/83; n. 4106) ed ad impedire che si determini una perdita delle potenzialità professionali acquisite, ovvero una sottoutilizzazione del patrimonio professionale del lavoratore, avuto riguardo non solo alla natura intrinseca delle attività esplicate dal lavoratore, ma anche al grado di autonomia e discrezionalità del dipendente nel contesto dell'organizzazione aziendale (Cass. 14/7/93, n. 7789.

Si può configurare la dequalificazione anche se per le nuove mansioni il contratto collettivo preveda lo stesso livello di inquadramento stabilito per le precedenti; l'equivalenza voluta dall'art. 2103 cod. civ. presuppone infatti che le nuove mansioni, pur se non identiche a quelle in precedenza espletate, corrispondano alla specifica competenza tecnica del dipendente, ne salvaguardino il livello professionale e siano comunque tali da consentire l'utilizzazione del patrimonio di esperienza lavorativa acquisito nella pregressa fase del rapporto; inoltre le nuove mansioni, oltre a salvaguardare il livello professionale acquisito, devono garantire l'accrescimento delle capacità professionali del lavoratore (Cass. Lav. n. 7395 del 2/6/2000 conforme Cass. Lav. 17/3/99, n. 2428).

Accertato in istruttoria il demansionamento, va evidenziato che il ricorrente ha versato in atti copiosi documentazione medica attestante non solo la sussistenza di una patologia psico-somatica ma anche l'idoneità della stessa a compromettere la vita quotidiana (serenità familiare, sfera sessuale, stabilità personale, vita sociale). Il suddetto quadro è stato ulteriormente valorizzato dalle numerosissimi richieste rivolte dal Liccese alla Direzione Generale della Banca aventi ad oggetto la riduttiva prestazione richiesta, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, denotanti una chiara situazione di disagio ed una ossessivo ricerca di un ritorno alla normalità e, dunque, in sé caratterizzanti un problematico "vissuto" lavorativo.

Le risultanze istruttorie, inoltre, attraverso le descrizioni dello stato di sostanziale inoperosità del Liccese, del suo ripetitivo dolersi, con chiunque avesse con lui un minimo di relazione, del fatto che fossero frustrate le sue ragionevoli aspettative di svolgere quantomeno un compito consono al proprio percorso lavorativo concorrono ad integrare l'elemento delle conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione. Anche, dunque, aderendo al più rigoroso orientamento giurisprudenziale recentemente formatesi (cfr. Cass. sez. un. n. 6572/2006) è da ritenersi che, nello specifico, sia stato soddisfatto l'onere di allegazione e di prova del complessivo pregiudizio (definito dal ricorrente,  in modo  omnicomprensivo,  "danno biologico")  certamente derivante dalla condotta illegittima di cui si è detto che va risarcito sia con riferimento alla permanente menomazione della indennità psico-fisica sia a titolo di "danno esistenziale". Nella specie gli elementi forniti dal ricorrente con riferimento alla durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, nonché alla frustrazione delle ragionevoli aspettative di svolgere quantomeno un compito consono al proprio percorso lavorativo (cfr. le deposizioni testimoniali sopra valorizzate) e quelli fomiti con riferimento agli effetti negativi dispiegati nelle sue abitudini di vita (cfr. la documentazione relativa agli esiti delle visite psichiatriche presso centri specializzati allegata al fascicolo del ricorrente) consentono di ritenere, anche facendo ricorso alle regole fissate e consolidate dell'esperienza giuridica, complessivamente provato il pregiudizio risarcibile a titolo di danno esistenziale.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in data 20/12/2000 Liccese Michelangelo esponeva: -che era stato assunto dalla ex Cassa di Calabria e Lucania (poi diventata CARICAL S.p.A. e quindi CARIME S.p.A.) in data 10/11/67 come impiegato di III categoria grado 4° e di aver svolto tali mansioni impiegatizie presso le dipendenze di Catanzaro Agenzia n. 2, Catanzaro Lido, Bernalda; -che aveva poi svolto mansioni di direttore di Filiale presso la dipendenza di Tursi ed era stato inquadrato con decorrenza dal 31/12/79 nell'ex grado di funzionario di II; - che aveva quindi svolto mansioni di direttore delle filiali di S. Arcangelo e di Villa d'Agri; - che aveva partecipato al concorso interno per 14 posti di funzionario di grado primo collocandosi al terzo posto; - che era stato inquadrato come funzionario con decorrenza dal 6/8/90 ma non aveva svolto mansioni corrispondenti a tale inquadramento a differenza di quanto era accaduto per altri partecipanti al medesimo concorso interno; - che aveva svolto le mansioni di direttore dell'Agenzia di Pisticci di rango inferiore alle succursali; - che aveva assunto nel settembre del 1993 presso la sede di Cosenza il nuovo incarico di funzionario capo equipe addetto alle ispezioni ed era stato anche nominato responsabile del controllo interno dell'area titoli e, per un periodo, responsabile della dipendenza di Avella; -che era stato trasferito in data 26/5/97 presso l'Agenzia Centrale di Potenza ed era stato assegnato allo staff di Direzione; - che presso tale agenzia era stato di fatto estraniato da qualsiasi attività lavorativa concreta, da qualsiasi relazione sia all'interno della struttura, per l'irrilevanza dei compiti, che esterna, per l'assenza di contatto con la clientela; - che gli era stato affidato il "servizio estero provinciale" che però non era mai stato istituito; - che non aveva mai goduto di autonomia per la concessione di crediti; - che le limitate attività svolte erano state meramente esecutive e si erano sostanziate nella copiatura dei dati relativi ai rapporti con l'Esattoria e la Direzione Provinciale del Tesoro.

Sosteneva il ricorrente di non essere mai stato inquadrato nelle mansioni che gli competevano e di essere stato assegnato, nell'ultimo periodo, a mansioni notevolmente inferiori e ridotto ad uno stato di quasi totale inoperosità. Assumeva che per l'illegittimo comportamento datoriale gli era derivato, oltre ad un danno patrimoniale per il mancato riconoscimento del livello superiore, anche un danno per il demansionamento e la mancata progressione in carriera nonché biologico per la patologia invalidante.

Chiedeva, pertanto, il riconoscimento del suo diritto all'inquadramento come funzionario di prima fin dall'1/4/94 e come dirigente dall’ 1/7/96 e la condanna della Banca convenuta al pagamento delle differenze retributive nonché al risarcimento del danno per il demansionamento e concludeva come sopra riportato.

Si costituiva in giudizio la Banca CARIME S.p.A. e contestava le avverse pretese escludendo non solo la sussistenza dei presupposti per un inquadramento dall'1/4/94 come Direttore di filiale di prima e dall'1/7/96 come dirigente ma anche ogni demansionamento sia prima che dopo l'assegnazione del Liccese all'Agenzia di Potenza. Contestava che fossero stati dedotti sufficienti elementi a sostegno della pretesa risarcitoria. Eccepiva, inoltre, la prescrizione quinquennale con riferimento alle pretese antecedenti il quinquennio.

Compiuta l'istruttoria ed espletata C.T.U., all'odierna udienza il Giudice del Lavoro decideva la causa come da dispositivo in atti, di cui veniva data pubblica lettura.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

La domanda merita accoglimento nei termini di seguito precisati. Si osserva preliminarmente che risulta dagli atti ed è, invero, pacifico tra le parti, che a Liccese Michelangelo era stato riconosciuto dal 6/8/90 il grado e la qualifica di funzionario di grado I.

A seguito di tale riconoscimento il Liccese venne assegnato all'Agenzia di Pisticci e ricoprì tale incarico dal 10/12/90 al 12/12/93. Si duole il ricorrente del fatto che tale assegnazione non sarebbe stata corrispondente alla rivestita qualifica di Direttore di succursale. Invero è emerso dagli atti di causa che Pisticci, nella classificazione delle dipendenze per gruppo di appartenenza in materia di deleghe creditizie, è agenzia di gruppo 2 alla stregua delle succursali di Rossano Scalo e Vibo Valentia (cui erano stati assegnati altri colleghi del Liccese, vincitori del concorso interno a 14 posti di funzionario e collocati in graduatoria dopo di lui).

Inoltre, ai sensi delle previsioni dei contratti Integrativi Aziendali del 1990 (art. 3) e del 1995 (art. 3), le posizioni di preposto alle singole dipendenze possono essere ricoperte anche da "elementi di grado superiore a quello minimo fissato" senza che ciò comporti, per chiara indicazione delle parti contrattuali, alcun demansionamento.

Non sembra, pertanto, che il ricorrente possa dolersi dell'assegnazione all'Agenzia di Pisticci e la circostanza dallo stesso invocata che altri dipendenti vincitori del concorso interno a 14 posti di funzionario, collocati in graduatoria dopo di lui, siano stati assegnati a succursali non può costituire elemento per ritenere che nei confronti del Liccese sia stata, in detta occasione, attuata una disparità di trattamento.

Essendo, infatti, sul piano formale, sostanzialmente omogenee le mansioni svolte presso l'Agenzia di Pisticci rispetto a quelle svolte presso le succursali di Rossano Calabro Scalo e di Vibo Valentia, ben possono essere stati determinanti, ai fini della scelta, altri elementi di valutazione (come ad esempio la provenienza dei funzionari da zone geografiche limitrofe a quelle di assegnazione, così come si evince dalle stesse indicazioni fornite dal ricorrente in sede di atto introduttivo).

E' proprio il Liccese, del resto, che descrive puntualmente le attività svolte presso l'Agenzia di Pisticci e che evidenzia, tra l'altro, di aver "gestito l'ordinaria amministrazione delle attività di filiale quale alter ego della banca, curando, con il supporto del personale impiegatizio, nel rispetto delle direttive ricevute ed in armonia con gli obiettivi da conseguire, le relazioni d'affari concernenti la raccolta, gli impieghi, i servizi" nonché di aver "curato personalmente i rapporti più significativi in termini di valor monetario e di persone che rappresentavano le espressioni più qualificate per l'azienda", di aver "autorizzato l'apertura dei conti correnti a nominativi di clienti da lui stesso ritenuti meritevoli di ottenere tale strumento finanziario disponendo la chiusura per quelli che da un personale esame .... risultavano non più convenienti per la Banca", di aver curato "la gestione del credito erogato ...nelle diverse forme ...di credito con andamento regolare, partite anomale....credito incagliato.... sofferenze... intervenendo con azioni finalizzate alla normalizzazione per le posizioni riconducibili a regolarità, proponendo prima e gestendo poi i piani di bonario recupero...".

Non sembra, invero, che le suddette attività siano compatibili con il lamentato demansionamento.

Certo la mancata assegnazione ad una succursale avrebbe potuto avere una qualche rilevanza in termini di pregiudizio per il successivo inquadramento del Liccese in un grado (di funzionario) superiore a quello formalmente riconosciuto  (inquadramento presupponente la  preposizione ad una succursale) se tale situazione fosse stata mantenuta nel tempo dalla Banca pur in presenza di disponibilità di posti di direttore di succursale cui eventualmente destinare il Liccese.

Nello specifico, però, dopo il periodo di assegnazione a Pisticci, fu lo stesso Liccese a chiedere di essere assegnato al servizio ispettorato al fine di "poter maturare nuove esperienze presso Servizi della Direzione Centrale" (cfr. comunicazione del 26/10/93).

Tale fatto esclude che la prima assegnazione presso l'Agenzia di Pisticci (come detto non costituente in sé demansionamento e comunque dettata da esigenze verosimilmente temporanee di normalizzazione di detto ufficio) possa essere stata preordinata al fine di non far conseguire al Liccese il requisito formale per l'eventuale successivo riconoscimento del grado superiore.

Per quanto attiene, poi, all'incarico svolto dal Liccese presso il servizio ispettorato, lo stesso non è risultato caratterizzato da una assegnazione a compiti non corrispondenti all'inquadramento.

E' emerso, infatti, che presso l'ufficio ispettorato vi erano altri funzionari inquadrati come il ricorrente che dipendevano dal funzionario capo servizio (dott. Francesco Lanzino) e, dopo le modifiche dell'assetto del servizio ispettorato, dal responsabile operativo della funzione (rag. Fernando De Nardo, per il periodo di assegnazione del ricorrente alla Funzione Internai Auditing, e rag. Antonio Garro, per periodo di assegnazione del ricorrente alla Gestione Interventi Ispettivi).

L'istruttoria svolta (cfr. dichiarazioni rese da Piro Luciana, Canonaco Giuseppe, Laguardia Mario, Lanzino Francesco, De Luca Vincenzo) ha consentito di chiarire che le attività svolte dal Liccese, come dagli altri ispettori dell'ufficio, consistevano sia in ispezioni generali - effettuate presso le filiali e consistenti nella verifica di tuta l'operatività dell'unità ispezionata - sia in ispezioni settoriali - presso specifici comparti, ad esempio credito, valori, servizi di cassa e di tesoreria -, che l'iniziativa di tali interventi era sempre del responsabile del servizio, che in caso di ispezione particolarmente complessa venivano istituiti dei gruppi ed indicato all'interno degli stessi un responsabile (in relazione alla categoria di inquadramento ovvero alla professionalità in caso di gruppo formato da ispettori di pari grado) senza che, peraltro, esistesse una formalizzata figura di capo equipe ispettiva. In concreto i compiti ispettivi svolti dal Liccese erano stati quelli relativi alla determinazione della consistenza e concordanza dei valori custoditi presso la dipendenza ispezionata, l'effettuazione a campione di determinati controlli, la predisposizione di una relazione analitica e sintetica relativa ai comparti esaminati, la sottoposizione di tali elaborati al capo della funzione nonché al capo del servizio per l'adozione degli eventuali provvedimenti in caso di riscontrate anomalie.

Non sembra, dunque, che l'attività ispettiva svolta dal Liccese, caratterizzata da compiti di responsabilità sia pure limitati allo specifico intervento settoriale, sia stata tale da risultare non corrispondente all'inquadramento dello stesso come funzionario di Ia (divenuto nuovamente, a seguito della riorganizzazione aziendale attuata in conseguenza dell'accordo sindacale del 26/11/93, di IIa) e da integrare, dunque, un demansionamento.

Né d'altra parte può sostenersi che il Liccese abbia in concreto svolto mansioni di livello superiore al punto da giustificare la sua pretesa al riconoscimento dell'inquadramento dal 1/4/94 come Direttore di filiale di Ia (e ciò con riferimento al nuovo inquadramento come funzionario di IIa di cui all'intervenuta riorganizzazione aziendale) e dall’ 1/7/96 come dirigente (e ciò anche con riferimento all'ulteriore inquadramento, a seguito della definizione della nuova categoria dei Quadri Direttivi di cui al C.C.N.L. dell' 11/7/99, nel 4° livello retributivo della categoria dei Quadri Direttivi).

Oltre a doversi, infatti, sottolineare che il lamentato (e per quanto evidenziato non provato) demansionamento ma si concilia con la pretesa suddetta, va aggiunto  che non sono emersi dagli atti  elementi a sostegno della prospettazione attorea.

Come già sopra evidenziato l'assegnazione del ricorrente all'Agenzia di Pisticci èra stata in linea con le previsioni del contratto Integrativo Aziendale del 1990 (art. 3), confermate nel successivo del 1995 (art. 3), secondo cui le posizioni di preposto alle singole dipendenze possono essere ricoperte anche da "elementi di grado superiore a quello minimo fissato".

Per quanto attiene all'attività svolta presso il Servizio Ispettorato non è emerso lo svolgimento da parte del Liccese di compiti diversi e superiori rispetto a quelli degli altri funzionari assegnati al medesimo servizio.

Non è stato, in particolare, riscontrato dall'istruttoria svolta lo stabile affidamento al Liccese di mansioni di capo equipe o comunque di prevalenti compiti di coordinamento degli altri ispettori (cfr. sul punto le dichiarazioni rese da Piro Luciana, Canonico Giuseppe, Laguardia Mario, Lanzino Francesco, De Luca Vincenzo) risultando l'affidamento dell'incarico di capo gruppo (peraltro limitato a contingenti situazioni di ispezioni particolarmente complesse e comunque distribuito, secondo una turnazione, tra i vari ispettori tanto che, come dichiarato dal teste Lanzino Francesco, lo stesso Liccese si era trovato ad essere componente di equipe con a capo altri ispettori) dettato più che altro da esigenze logistiche afferenti all'individuazione di un soggetto di riferimento per le incombenze connesse al servizio. Si ricorda che con riferimento alla categoria, contrattualmente creata, dei "funzionari" delle aziende di credito, la strada scelta dalla contrattazione nazionale è stata quella di identificare in via generale il funzionario mediante determinazione di alcuni requisiti, e di rinviare alla contrattazione aziendale l'accertamento delle qualifiche che, corrispondendo ai requisiti ed ai gradi previsti, diano diritto al relativo inquadramento (cfr. art. 3 del CCNL per i dirigenti e funzionari delle Casse di Risparmio, in atti). Dalla contrattazione collettiva nazionale emerge che il funzionario di banca, facente parte del cd. "Personale Direttivo", è una categoria prevista e disciplinata unitamente a quella dei Dirigenti ed è contraddistinta da supremazia gerarchica oltre che da mansioni con responsabilità diretta ed elevato grado di professionalità. Più precisamente, i requisiti che il funzionario deve possedere per essere qualificato come tale sono: specifiche mansioni con responsabilità diretta ed elevato grado di professionalità, inquadramento nella categoria superiore a quella dei quadri, e preposizione gerarchica su un adeguato numero di impiegati e/o quadri (art. 3 del C.C.N.L. citato).

Peraltro, ai sensi di quanto previsto dall'art. 18 del C.C.N.L. del 1995 il funzionario "è tenuto a coadiuvare e supplire altri funzionari anche se di grado inferiore e in uffici diversi da quello di appartenenza" e ciò induce a ritenere che tale categoria non sia strettamente qualificata dall'esercizio di poteri di supremazia gerarchica.

Per quanto attiene ai gradi, la nuova disciplina contrattuale prevede l'attribuzione del grado di funzionario di Ia solo per i preposti alle Filiali di prima - ex Succursali ed è pacifico in atti che il Liccese non abbia mai svolto mansioni di Direttore di una ex Succursale.

A termini di disciplina pattizia non sembra, dunque, che le funzioni ispettive svolte dal Liccese, senza alcun ruolo fisso e continuativo di capo equipe (figura, questa, come detto, non prevista dalle stesse declaratorie contrattuali) possano integrare una situazione tale da comportare l'attribuzione del grado di funzionario di Ia.

Per quanto attiene, poi, al lamentato mancato inquadramento come dirigente, oltre a richiamarsi le stesse argomentazioni a base della ritenuta infondatezza della pretesa all'inquadramento come funzionario di Ia, deve osservarsi che la circostanza dell'avvenuta promozione nelle qualifiche dirigenziali di colleghi di lavoro inizialmente di pari grado rispetto al ricorrente non consente di ritenere che il Liccese possa aver maturato identico diritto. E' consolidato principio giurisprudenziale quello secondo il quale non esiste nei rapporti di lavoro subordinato di diritto privato di un principio di parità di trattamento. Si valorizza l'autonomia privata come sede naturale di bilanciamento degli interessi in gioco, la cui composizione è discrezionalmente apprezzata dalle parti, senza che possa configurarsi un sindacato esterno sotto il profilo del rispetto della parità di trattamento, traducetesi in un inammissibile controllo di ragionevolezza. Non è dunque possibile integrare il contratto individuale con un obbligo di parità di trattamento quale specificazione dell'obbligo di correttezza e buona fede: ciò perché tale obbligo opera nel senso che questo, per essere riferibile ad un rapporto che è essenzialmente di scambio, non può essere influenzato dal comportamento - eventualmente più favorevole - tenuto da parte datoriale con riferimento ad altri rapporti di lavoro (cfr. in tal senso Cass. n. 4850 del 7/3/2006, Cass. n. 10195 del 27/5/2004, Cass. n. 15751 del 21/10/2003, Cass. n. 8296 del 19/6/2001, Cass. SS.UU. n. 4570 del 17/5/96). In ogni caso va rilevato che, ai fini di un inquadramento come dirigente, è richiesto dalla contrattazione collettiva per il personale direttivo delle aziende di credito (ed egualmente da quella per il personale direttivo delle Casse di Risparmio - cfr. art. 108 del C.C.N.L. per il personale direttivo - dirigenti e funzionari - delle Casse di Risparmio del 1995) non solo che il dipendente appartenente al personale direttivo ricopra nell'azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, di autonomia, di potere decisionale e che esplichi funzioni di coordinamento e gestione generale al fine di realizzare gli obiettivi dell'azienda ma anche che sussista una formale qualificazione della relativa azienda.

Anche a prescindere da ogni considerazione sulla necessità di un formale riconoscimento da parte del datore di lavoro (e richiamata, comunque, sul punto la pronuncia della Cass. a SS.UU. n. 5031 del 15/10/85 che, con riferimento al riconoscimento della qualifica dirigenziale, ha espressamente sancito il diritto del dipendente all'attribuzione di detta qualifica in conseguenza dello svolgimento in concreto delle relative mansioni, dovendo essere esclusa la possibilità, per contrarietà a norme imperative, che una clausola contrattuale preveda la necessità di un formale riconoscimento da parte del datore di lavoro) va evidenziato che non sono emersi elementi deponenti nel senso di una ampiezza delle funzioni, tali da influire sulla conduzione dell'intera azienda o di un suo ramo autonomo, e non circoscritta, come nel caso dell'impiegato con funzioni direttive, ad un settore, o ramo, o ufficio o servizio della stessa.

Per quanto attiene, invece, al lamentato demansionamento per il periodo a far data dall'assegnazione presso l'Agenzia di Potenza ritiene questo giudicante che la prospettazione di cui al ricorso abbia trovato il riscontro delle risultanze istruttorie.

Innanzitutto occorre evidenziare che le emergenze processuali depongono nel senso che, fino al momento del trasferimento a Potenza, il Liccese abbia svolto la propria attività lavorativa in modo pieno ed adeguato alle proprie professionalità e capacità.

Oltre allo svolgimento dei compiti ispettivi sopra descritti e comportanti le responsabilità tipiche della funzione, il Liccese, che si era sempre distinto per essere un lavoratore infaticabile (tanto da meritare l'epiteto di "stakanovista" - cfr. le dichiarazioni rese da Lanzino Francesco -) ed un affidabile e capace organizzatore (così da risultare particolarmente efficace nel riportare a normalità situazioni "incagliate" come si era verificato presso l'Agenzia di Pisticci - cfr. dichiarazioni rese da Leone Michele -), era stato destinatario di incarichi particolarmente delicati, ancorché non comportanti lo svolgimento di mansioni superiori rispetto ali'inquadramento, come ad esempio la proficua assegnazione alla Agenzia di Avella, nella quale si erano verificati problemi che avevano reso necessario il licenziamento del preposto e di alcuni impiegati - cfr. sul punto le dichiarazioni rese da Lanzino Francesco e da Palma Giorgio -.

Con il trasferimento a Potenza si è verificato per il Liccese un totale cambiamento del ruolo dallo stesso comunque rivestito all'interno della Banca (e, come detto, caratterizzato da compiti ed attribuzioni che, pur senza essere caratterizzati da quella autonomia, da quel potere decisionale e da quelle funzioni di coordinamento e gestione generale propri del dirigente, erano pur sempre particolarmente qualificati e presupponenti capacità decisionale, sia pure relativamente ad un determinato servizio, oltre che capacità propositive) ed un vero e proprio svilimento dell'impegno lavorativo, ridotto ad incombenze giornaliere assai modeste ed anzi praticamente trascurabili.

Non ritiene, invero, questo giudice che alla base di tale situazione determinatasi presso l'Agenzia di Potenza vi sia stata una precisa volontà della Banca di isolare il Liccese e ridurlo ad una sostanziale inoperosità. Tuttavia le emergenze processuali depongono nel senso che, a fronte dello stato di inattività del Liccese chiaramente manifestatesi sin dalla prima assegnazione dello stesso a Potenza, la Banca non abbia ritenuto di intervenire per un ripristino della normalità.

Si evince, infatti, dagli atti ed anche dall'istruttoria svolta che effettivamente doveva essere istituito presso tale Agenzia il "Servizio Estero Provinciale" cui il Liccese era stato preposto. La circostanza che, però detto servizio non sia mai partito - cfr. sul punto le dichiarazioni rese da Laguardia Mario, da De Martino Teodoro, da Di Lonardo Antonio, da Logiudice Raffaele - e che l'Agenzia di Potenza fosse organizzata in modo tale da escludere la necessità di un coordinamento delle attività contabili (gestione batch, chiusura giornata contabile, verifica partite sospese, gestione rapporti con Esattoria e Direzione Provinciale del Tesoro per il riversamento somme diverse), atteso che le relative operazioni, tutte automatizzate, erano effettuate in contabilità direttamente dagli operatori che erano, pertanto, "autosufficienti" e comunque le autorizzazioni erano date dal Direttore della Filiale il quale in qualche occasione delegava un "quadro" o un soggetto con qualifica superiore a quella di impiegato (ma non il Liccese) - cfr. sul punto quanto dichiarato da Di Lonardo Antonio, da Laguardia Mario, da De Martino Teodoro, da Spera Rocco - ha di fatto determinato una sottrazione al Liccese di competenze mai sostituite con altre equivalenti ed effettive. E' stato, in particolare, accertato che il Liccese non ha mai svolto presso l'Agenzia di Potenza alcuna attività di controllo, anche a campione, sull'operato degli addetti agli sportelli o ai retrosportelli (cfr. dichiarazioni rese da Logiudice Raffaele nonché il contenuto dell'ordine di servizio del 15/6/98 da cui si evince che il coordinamento delle attività di sportello era affidato al rag. Spera Rocco)

E', inoltre, emerso che il Liccese, che pure aveva un percorso professionale degno di nota proprio per ciò che riguardava il settore creditizio, non ha in concreto esercitato presso l'Agenzia di Potenza alcuna autonomia creditizia (e ciò nonostante il formale provvedimento del 24/6/98 con il quale la Banca lo aveva autorizzato ad esercitare la facoltà di autonomia creditizia nei limiti di £. 40.000.00): il cliente che aveva bisogno di accedere al credito presso l'Agenzia di Potenza non poteva certo rivolgersi al Liccese - cfr. sul punto le chiare affermazioni rese da De Martino Teodoro nonché quelle rese da Di Lonardo Antonio il quale ha precisato che per i clienti il referente per le aperture di credito non era il Liccese ma Riccardi Mario e che solo quest'ultimo collaborava con il Direttore di Filiale e quelle, di analogo tenore, rese da Logiudice Raffele nonché il contenuto del citato ordine di servizio del 15/6/98 da cui si evince che il coordinamento dell'istruttoria fidi era affidato a Riccardi Mario -.

L'attività del Liccese (il quale, come riferito dal teste Spera Rocco, era uno dei tre funzionari - tra cui lo stesso Spera e Riccardi Mario - collocati in posizione intermedia tra il Direttore e gli altri dipendenti dell'Agenzia di Potenza) lungi dall'essere in qualche modo rapportabile, per contenuto, a quella degli altri colleghi di pari grado e lungi dall'integrare quei poteri di rappresentanza da esercitarsi in via generale e continuativa, in relazione al compimento di atti di contenuto negoziale e gestionale pertinenti all'esercizio dell'impresa (tipici delle mansioni funzionariali) è stata, in sostanza, sempre limitata alle sole operazioni di riscontro dei mandati per il servizio di Tesoreria della Regione Basilicata. Tale attività, enfaticamente descritta dalla società convenuta come di verifica della correttezza di tutte le operazioni connesse alla gestione dei mandati ricevuti (pagamenti addebitamenti ecc.), si è, di fatto, sostanziata in una mera selezione dei mandati (senza alcuna elaborazione) - cfr. le dichiarazioni rese da Tarulli Grazia, da Di Lonardo Antonio, da Spera Rocco nonché le dichiarazione rese da Lo Giudice Raffaele il quale ha emblematicamente descritto la stessa come di "spuntatura" dei mandati dando l'idea di una semplice operazione di riscontro dei dati e degli importi -.

Significativo è che il Liccese, il quale aveva formalmente, sin dai primi tempi della sua assegnazione a Potenza, segnalato alla Banca il suo stato di inoperosità e chiesto specifiche indicazioni sui compiti da svolgere (cfr. le raccomandate del 17/10/97, del 15/1/98, del 30/1/98, del 25/6/98), abbia ricevuto come risposta l'ordine di servizio del 15/6/98 nel quale gli venivano attribuite in aggiunta al "coordinamento delle attività relative alla gestione delle tesorerie e dei servizi di cassa" (ritenuto evidentemente insufficiente, per la pochezza dei relativi compiti, a riempire di contenuto le mansioni di detto funzionario) anche il "servizio estero provinciale" (come detto mai istituito) ed il "coordinamento delle attività contabili" (come detto mai effettuato in ragione degli automatismi delle operazioni). Fatta dunque eccezione per il tempo dedicato alla descritta attività di "spuntatura" dei mandati che giornalmente pervenivano (peraltro in modo non continuo ed in numero non sempre elevato), la giornata del Liccese è sempre proseguita nella totale inattività (cfr. le dichiarazioni rese da Di Lonardo Antonio: "....preciso che anche ora che io lavoro ad un piano diverso dell'edificio quando vado a trovare il Liccese vedo che lo stesso non svolge alcuna attività ed ha il tavolo libero da carte....mi risulta che saltuariamente il Liccese abbia curato i rapporti con l'Esattoria e la Direzione Provinciale del Tesoro e più raramente con l'autorità giudiziaria....", da Spera Rocco "...mi è capitato di vedere il Liccese "inoperoso" ma non so ciò a cosa fosse dovuto...", da Logiudice Raffaele: "...era molto raro che entrassero persone nella sua stanza...", da Palma Giorgio, il quale, avendo già avuto, come legale della Banca, rapporti con il Liccese nel periodo della sua assegnazione ad Avella ed avendone apprezzate le capacità e la fattiva collaborazione che aveva contribuito al recupero di crediti per 8 miliardi, ha precisato,  con riferimento all'attività svolta  dal  Liccese a Potenza: "....ricordo che la scrivania del Liccese era libera da carte ... non ho avuto modo di capire di cosa si occupasse e di vedere altri dipendenti nella stanza.....il Liccese mi raccontò che non faceva alcuna attività lavorativa e che questa situazione lo stava stressando. La cosa mi meravigliò perché io lo conoscevo come una persona molto attiva. Ricordo che non accolse bene una mia battuta nella quale io gli dissi che non era male ricevere lo stipendio a fine mese per leggere il giornale. Si lamentò infatti con me perché avrebbe voluto fare qualcosa e rimpiangeva i bei tempi di Avella....", da De Martino Teodoro: ".. .posso dire che quando entravo nella sua stanza lo vedevo a volte che leggeva il giornale a volte il Liccese mi portava i mandati che io dovevo eseguire facendo assegni circolari... con me il Liccese si è più volte lamentato del fatto che la Banca non lo teneva nella giusta considerazione e dopo aver svolto attività di ispettorato o di preposto a filiali importanti non svolgesse un compito consono al suo percorso lavorativo. Il Liccese ripeteva tali cose in modo quasi ossessivo e spesso era anche "pesante" starlo a sentire..."). Alla stregua dei risultati istmttori così riassunti devono, in definitiva, ritenersi fondate le deduzioni del ricorrente circa l'illegittimità della posizione lavorativa a lui assegnata con il trasferimento all'Agenzia di Potenza apparendo del tutto verosimile quanto riferito dagli indicati testi su uno stato pressoché costante di inattività.

In punto di diritto deve, quindi, osservarsi che la disciplina dell'assegnazione delle mansioni ai dipendenti è dettata dall'art. 2103 c.c. che sancisce il diritto del lavoratore ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti a quelle ultime effettivamente svolte. Il disposto è violato, avuto riguardo alla libertà ed alla dignità del lavoratore nei luoghi in cui presta la sua attività ed al sistema di tutela del suo bagaglio professionale, quando il dipendente sia assegnato a mansioni inferiori ed anche quando questi veda modificati unilateralmente i suoi compiti con una riduzione in termini quantitativi che incida sulla qualità degli stessi (Cass. 4/10/95, n. 10405).

In particolare, la giurisprudenza ritiene palese l'illegittimo esercizio dello ius variandi allorquando il dipendente (ancorché senza conseguenze sulla retribuzione) sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, costituendo il lavoro, non solo fonte di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del soggetto (Cass. 13/8/91, n. 8835).

Lo spirito informatore della norma è teso a fare salvo il diritto del lavoratore alla utilizzazione, al perfezionamento ed all'accrescimento del proprio corredo di nozioni, di esperienza e di perizia acquisita nella fase pregressa del rapporto (Cass. 13/11/91, n. 12088; Cass. 10/2/88, n. 1437; Cass. 6/6/85, n. 3372; Cass. 15/6/83; n. 4106) ed ad impedire che si determini una perdita delle potenzialità professionali acquisite, ovvero una sottoutilizzazione del patrimonio professionale del lavoratore, avuto riguardo non solo alla natura intrinseca delle attività esplicate dal lavoratore, ma anche al grado di autonomia e discrezionalità del dipendente nel contesto dell'organizzazione aziendale (Cass. 14/7/93, n. 7789).

Tradizionalmente la giurisprudenza propende per l'assoluta inderogabilità del disposto dell'art. 2103 c.c., "avendo la norma adottato uno strumento di tutela rigido, che opera in tutte le direzioni" (Cass. lav., 13/8/91, n. 8835) ed affermandosi che la dequalificazione conseguente al mutamento di mansioni non è consentita neppure in via meramente temporanea (Cass. 20/1/87, n. 491).

Certo è che nessuna deroga è consentita per decisione unilaterale del datore di lavoro. Invero, dopo che è stata sostenuta la derogabilità della norma nei casi di sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, argomentando che in tale caso la valutazione di equivalenza deve prendere in considerazione, nel momento in cui viene effettuato lo spostamento, ciò che il lavoratore esprime o può esprimere, si è poi fatto strada il principio in base al quale il lavoratore può ottenere l'assegnazione a mansioni inferiori pur di evitare maggiori ed altrimenti inevitabili svantaggi (Cass. lav., 15/3/95, n. 2990; Cass., 1/12/88, n. 6515; Cass., 12/1/84, n. 266).

Si rammenta, infine, che per i Giudici di legittimità l'indagine circa l'equivalenza o meno delle nuove mansioni assegnate al lavoratore deve essere svolta non in base ad un criterio formalistico ma al contenuto ed alla natura delle prestazioni effettivamente svolte, perché le mansioni hanno carattere di specificità rispetto alla genericità dell'inquadramento, per cui il riferimento in astratto al livello o grado del sistema di classificazione adottato dalla contrattazione collettiva non è di per sé sufficiente ai fini dell'accertamento dell'equivalenza (Cass. lav. 23/11/95, n. 12121; Cass. lav. 4/10/95, n. 10405; Cass. lav. 22/4/95 n. 4561; Cass. lav. 14/7/93, n. 7789; Cass. lav. 8/4/91, n. 3661; Cass. lav. 19/3/91, n. 2896; Cass. lav. 20/12/85, n. 6565).

Ancora di recente la Suprema Corte insegna che si può configurare la dequalificazione anche se per le nuove mansioni il contratto collettivo preveda lo stesso livello di inquadramento stabilito per le precedenti; l'equivalenza voluta dall'art. 2103 cod. civ. presuppone infatti che le nuove mansioni, pur se non identiche a quelle in precedenza espletate, corrispondano alla specifica competenza tecnica del dipendente, ne salvaguardino il livello professionale e siano comunque tali da consentire l'utilizzazione del patrimonio di esperienza lavorativa acquisito nella pregressa fase del rapporto; inoltre le nuove mansioni, oltre a salvaguardare il livello professionale acquisito, devono garantire l'accrescimento delle capacità professionali del lavoratore (Cass. Lav. n. 7395 del 2/6/2000 conforme Cass. Lav. 17/3/99, n. 2428).

Sempre di recente è stato più compiutamente riconosciuto che la negazione o l'impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della professionalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale (Cass. 2/1/2002 n. 10).

La condotta di demansionamento (che costituisce una delle fattispecie di mobbing) che colpisce la professionalità del lavoratore non attiene solo all'impedimento di espletare le mansioni assegnate all'atto dell'assunzione e di competenza o di svolgerne di inferiori, e comunque prive di qualsiasi capacità evolutiva e migliorativa della sua professionalità ma anche alla forzata inattività (Cass. Sez. Lav. N. 2763 del 22/2/2003, Cass. Sez. Lav. N. 34443 del 6/11/2000), all'impoverimento ed allo svuotamento delle mansioni medesime con modifica in pejus (riduzione di attività, privazione di strumenti di lavoro o di lavoro da eseguire).

Tali casi costituiscono indubbie violazioni dell'art. 2103 c.c.. Con riferimento al  caso in esame è da ritenersi che  il  sostanziale sradicamento dall'originaria posizione nel  contesto  dell'organizzazione aziendale determinato con l'assegnazione del Liccese all'Agenzia di Potenza, il venir meno del contatto con gli abituali interlocutori, l'assenza di qualsivoglia potere di iniziativa, la collocazione in un settore avulso dalla pregressa esperienza professionale, finanche il mutamento della cornice logistica in cui si è esplicata l'attività e più significativamente il pressocchè totale svuotamento, per le ragioni sopra specificate, della posizione lavorativa del ricorrente, sostanzialmente costretto all'inattività per la massima parte della giornata lavorativa, costituiscano un complesso di circostanze di fatto chiaramente deponenti nel senso di una assegnazione del ricorrente a mansioni  qualitativamente non equivalenti a quelle originarie, con conseguente palese violazione del disposto dell'art. 2103 c.c.. L'attribuzione di mansioni inferiori pacificamente rappresenta fatto potenzialmente idoneo a produrre conseguenze dannose. Fino a qualche tempo fa non risultavano ancora stratificati orientamenti univoci in ordine all'esatta individuazione dell'area dei danni risarcibili ed alla quantificazione degli stessi.

Tuttavia la prevalente e più meditata giurisprudenza ha sempre ritenuto che l'assegnazione a mansioni inferiori in violazione dell'art. 2103 c.c. innanzi tutto determini una lesione immanente al patrimonio professionale del lavoratore, inteso come attuale bagaglio di conoscenze teoriche e pratiche funzionalizzato all'esplicazione dell'attività, che è di certo ben economicamente valutabile, posto che esso rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore di una persona sul mercato del lavoro.

Contrastante è stato l'orientamento giurisprudenziale con riferimento alla questione se tale voce di danno sia automaticamente inferibile dalla condotta datoriale inadempiente, atteso che il mancato esercizio dell'attività che si ha diritto di esplicare si traduce immediatamente nell'impossibilità di confrontare la propria attitudine di lavoro con la quotidiana prassi applicativa e, quindi, in un deperimento della capacità di risolvere le evenienze in base al progressivo formarsi della conoscenza e dell'esperienza. In questo senso la Suprema Corte (Cass. Sez. Lav. n. 14443 del 06/11/2000, Cass. Sez. Lav. n. 14189 del 14/11/2001, Cass. Sez. Lav. N. 13033 del 23/10/2001, Cass. Sez. Lav. 11727 del 18/10/1999) ha affermato il principiò secondo cui la dequalificazione, in quanto lesione della personalità del lavoratore, tutelata dalla Costituzione, costituisce un danno in sé, il cui risarcimento deve essere liquidato anche in via equitativa, in base all'art. 1226cod. civ..

In particolare la Cassazione (cfr. Cass. Sez. Lav. n. 13033 del 23/10/2001) ha chiarito che il demansionamento del lavoratore produce un danno in sé in quanto non solo viola il divieto posto dall'art. 2103 c.c., ma da luogo ad una pluralità di pregiudizi solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del dipendente e costituisce anche lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della propria personalità nel luogo di lavoro. Al pregiudizio determinato da tale lesione, che incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato - ha affermato la Corte - va riconosciuta un'indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione equitativa anche nell'ipotesi in cui venga a mancare la dimostrazione di effettive conseguenze negative sul piano economico. Sempre sul presupposto che conseguenze dannose siano automaticamente inferibili dalla condotta datoriale inadempiente si è ritenuto che oltre al danno emergente al patrimonio professionale, l'assegnazione di mansioni inferiori possa esser causa di un danno da mancato guadagno per la perdita di chance, sia per la possibile privazione di eventuali progressioni in carriera in ambito aziendale sia con riferimento all'eventualità di reperire occasioni di proficuo lavoro all'esterno.

Affermatasi la tesi secondo cui i concetti di "perdita" e di "guadagno" di cui all'art. 1223 c.c. non si relazionano esclusivamente ad entità di natura direttamente pecuniaria ma includono qualsivoglia utilità suscettibile di valutazione economica, si è riconosciuto che è tale anche una situazione fattuale fonte non di reddito certo ma solo probabile: il valore economico di tale utilità dipende dalla duplice variabile della misura del reddito che detta situazione è idonea a produrre e dal grado di probabilità esistente che tale reddito sia da essa effettivamente prodotto, sicché il danno risarcibile si identifica nella perdita della possibilità di conseguire un risultato utile e non come perdita di quel risultato.

La giurisprudenza, al fine di delimitare l'area di risarcibilità del danno da perdita di una chance, ha tuttavia richiesto, ponendo le basi per un più rigoroso orientamento più di recente formatesi, che si provi in concreto la realizzazione almeno di alcuno dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta (in fattispecie di danno derivante da mutamento delle mansioni e consistente nel mancato conseguimento di un vantaggio di carriera connesso ad una valutazione comparativa di candidati, v. Cass. Sez. Lav. N. 10748 del 2/12/96); alla mancanza di una tal prova non è possibile sopperire con una valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., atteso che l'applicazione di tale norma è diretta a sopperire all'impossibilità di provare l'ammontare preciso del danno ma non l'esistenza dello stesso (Cass. Sez. Lav., 24/1/92, n. 781).

Infine, nessuno nega che la modifica in peius delle mansioni sia potenzialmente produttiva di menomazione all'integrità psico-fisica della persona in sé e per sé considerata - ed. danno biologico -, in quanto incidente sul valore "uomo" in tutta la sua concreta dimensione, e che comprende il danno alla vita di relazione, quello estetico, il danno alla sfera sessuale, nonché il danno alla capacità generica lavorativa.

Secondo ricorrenti definizioni, il risarcimento della lesione del bene della salute - oggetto di un autonomo diritto primario assoluto - non può essere limitato alle conseguenze che incidono soltanto sull'idoneità del soggetto a produrre reddito, ma si collega alla somma di funzioni naturali riguardanti la persona nel suo ambiente di vita e di lavoro, e aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica (Cass. lav., 24/1/90, n. 411; Cass. 14/1/88, n. 208; Cass., 21/3/86, n. 2012; Cass., 25/5/85, n. 3212).

In tema di liquidazione del danno biologico, il rigoroso insegnamento della Suprema Corte impone l'accertamento del nesso causale tra l'inadempimento datoriale e la compromissione dell'efficienza psico-somatica dell'individuo, utilizzabile per le esigenze di vita vegetativa e di relazione (Cass. Sez. Lav., 13/8/91, n. 8835, Cass. Sez. Lav., 18/4/96, n. 3686).

Più di recente sempre la Suprema Corte, proseguendo sulla linea di rigore tracciata dalle precedenti pronunce in materia di prova del danno da perdita di chance, ha precisato che: "In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto,  che alteri  le sue abitudini  e gli  assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'alt. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove" (cfr. in tal senso Cass. Sez. U. sent. n. 6572 del 24/03/2006 e nel medesimo senso Cass. Sez. Lav. sent. n. 6992 del 14/05/2002, Cass. Sez. Lav. sent. n. 10361 del 28/05/2004). Ciò premesso, venendo alla fattispecie che ci occupa, parte ricorrente nulla ha dedotto in ordine ad una perdita di chance limitandosi ad un generico riferimento ad una compromissione della possibilità di avanzamento ir carriera, il che preclude ogni quantificazione del danno sotto tale profilo. Il Liccese ha, però, dedotto di aver subito, in conseguenza di tale illegittimi condotta, un danno indicato come "biologico" e riferito sia alla propria integrità psico-fisica (in ragione della patologia invalidante derivata) sia ad ogni ambito di espressione della propria personalità (in ragione delle conseguenze sulla sua vita familiare e sociale).

Con riferimento al dedotto danno il ricorrente ha versato in atti copiosi documentazione medica attestante non solo la sussistenza di una patologia psico-somatica ma anche l'idoneità della stessa a compromettere la vita quotidiana (serenità familiare, sfera sessuale, stabilità personale, vita sociale). Il suddetto quadro è stato ulteriormente valorizzato dalle numerosissimi richieste rivolte dal Liccese alla Direzione Generale della Banca aventi ad oggetto la riduttiva prestazione richiesta, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, denotanti una chiara situazione di disagio ed una ossessivo ricerca di un ritorno alla normalità e, dunque, in sé caratterizzanti un problematico "vissuto" lavorativo.

Le risultanze istruttorie, inoltre, attraverso le descrizioni dello stato di sostanziale inoperosità del Liccese, del suo ripetitivo dolersi, con chiunque avesse con lui un minimo di relazione (peraltro sempre per motivi non attinenti al servizio), del fatto che fossero frustrate le sue ragionevoli aspettative di svolgere quantomeno un compito consono al proprio percorso lavorativo concorrono ad integrare l'elemento delle conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione. Anche, dunque, aderendo al più rigoroso orientamento giurisprudenziale recentemente formatesi è da ritenersi che, nello specifico, sia stato soddisfatto l'onere di allegazione e di prova del complessivo pregiudizio (definito dal ricorrente,  in modo  omnicomprensivo,  "danno biologico")  certamente derivante dalla condotta illegittima di cui si è detto che va risarcito sia con riferimento alla permanente menomazione della indennità psico-fisica sia a titolo di "danno esistenziale" (sotto il profilo del pregiudizio per il libero dispiegarsi delle attività dell'uomo nell'ambito della famiglia e di altre o di altre comunità ovvero sotto il profilo della compromissione delle attività realizzatrici della persona umana, tra le quali assume particolare rilievo, nella stessa Carta Costituzionale, proprio l'attività lavorativa). D'altra parte, considerato che il danno esistenziale è pregiudizio che attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall'ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cass. Sez. Lav. N. 9834 del 6/7/2002 richiamata anche dalla più recente pronuncia della Cass. Sez. U. sent. n. 6572 del 24/03/2006) per la formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di cui all'art. 2727 c.c. venga offerta una serie concatenata di fatti noti che, complessivamente considerati attraverso un prudente apprezzamento, consentano coerentemente di risalire al fatto ignoto e cioè all'esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.

Nella specie gli elementi forniti dal ricorrente con riferimento alla durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, nonché alla frustrazione delle ragionevoli aspettative di svolgere quantomeno un compito consono al proprio percorso lavorativo (cfr. le deposizioni testimoniali sopra valorizzate) e quelli fomiti con riferimento agli effetti negativi dispiegati nelle sue abitudini di vita (cfr. la documentazione relativa agli esiti delle visite psichiatriche presso centri specializzati allegata al fascicolo del ricorrente) consentono di ritenere, anche facendo ricorso alle regole fissate e consolidate dell'esperienza giuridica, complessivamente provato il pregiudizio risarcibile a titolo di danno esistenziale.

Per quanto attiene alla permanente menomazione della indennità psico-fisica va rilevato che il nominato C.T.U. (le cui conclusioni questo giudice ritiene di condividere per l'analiticità e coerenza del giudizi espressi sulla base degli accertamenti effettuati che appaiono completi ed esaustivi) ha riscontrato il Liccese affetto da "Disturbo dell'adattamento cronico con depressione reattiva" ed ha posto tale patologia in stretto collegamento causale con il lamentato svilimento professionale quantificando il relativo danno biologico nella misura del 20%.

Applicando, dunque, le Tabelle del Tribunale di Milano di liquidazione del danno biologico rivalutato al gennaio 2006 e considerando la fascia di età d 50 anni (quale era l'età del Liccese al momento dell'assegnazione a Potenza e la percentuale di invalidità del 20% si perviene ad una quantificazione del danno biologico pari ad € 41.434,00.

Per quanto riguarda poi il "danno esistenziale" si osserva che la risarcibilità di tale pregiudizio non patrimoniale assume rilevo tipico proprio sotto il profilo del "danno da demansionamento", quale lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro con incidenza sulla vita professionale e di relazione dell'interessato (cfr. Cass. Sez. Lav. n. 10 del 2/1/2002). Detto carattere non patrimoniale ne impone una liquidazione rimessa ad una valutazione equitativa del giudice (art. 1226 c.c.).

La generalità delle pronunce giurisprudenziali in materia fa ricorso, a tal fine, al parametro della retribuzione mensile percepita dal lavoratore nel periodo in questione, riconoscendo, a titolo risarcitorio, una percentuale variabile della stessa (e ciò sul presupposto che il compenso percepito dal dipendente retribuisca la prestazione delle mansioni inferiori ma non la sottrazione delle mansioni originarie).

Si tratta, invero, di un criterio per taluni non del tutto soddisfacente: a fronte, infatti, di una lesione cagionata a beni costituzionalmente protetti, inerenti alla persona dovrebbe pervenirsi ad una modalità di liquidazione del risarcimento fondata, come per il danno biologico, su criteri che evitino il «rischio di risarcire in modo differente un analogo pregiudizio a diritti fondamentali della persona umana in conseguenza di eventuali differenze di retribuzione che poco hanno a che fare con danni non a caso denominati come "esistenziali"».

E, tuttavia, in assenza di qualsiasi allegazione, ad opera delle parti, circa un più adeguato criterio di liquidazione, appare comunque preferibile, anche al fine di limitare i rischi di arbitrarietà pure insiti in ogni valutazione di tipo equitativo, seguire il parametro risarcitorio rappresentato dalla retribuzione mensile del lavoratore, secondo l'indirizzo giurisprudenziale prevalente. Si ricorda, del resto, che in questo senso si è espressa anche la Cassazione che ha giudicato non privo di concretezza il ricorso in via parametrica alla retribuzione per la determinazione in termini quantitativi del danno, posto che, indubbiamente, non può negarsi che elemento di massimo rilievo nella determinazione della retribuzione è il contenuto professionale delle mansioni sicché essa costituisce, in linea di massima, espressione (per qualità e quantità, ai sensi dell'art. 36 della Costituzione) anche del contenuto professionale della prestazione; l'entità della retribuzione ben può, dunque, essere assunta, nell'ambito di una valutazione necessariamente equitativa, a parametro del danno da impoverimento professionale derivato dall'annientamento delle prestazioni proprie della qualifica (Cass. Sez. Lav. n. 9228 del 7/7/2001).

Nel caso in esame, tenendo conto del fatto che tale valutazione equitativa del danno deve mirare ad una reintegrazione del pregiudizio determinato dalla effettiva diminuzione del patrimonio del danneggiato, attraverso il raffronto tra il suo valore attuale e quello che sarebbe stato ove la obbligazione fosse stata esattamente adempiuta (e, quindi, deve riguardare il periodo dal luglio 1998 - primo mese successivo alla comunicazione del Liccese del 25/6/98 con la quale lo stesso aveva chiesto di essere messo in condizione di poter esperire l'attività relativa al Servizio estero - al dicembre 2003 - data del pensionamento - e, dunque, 78 mesi e ciò in ragione del fatto che la condotta datoriale, lungi dal cessare a seguito delle richieste del Liccese di ripristino di una situazione professionale rispettosa dei criteri di cui all'art. 2103 c.c., inutilmente invocato, è proseguita senza modificazioni fino a tale ultima data) e tenendo, altresì, conto della mancanza di una intenzionale volontà in capo all'azienda (si ricorda, al riguardo, che uno specifico intento persecutorio non è indispensabile ai fini della risarcibilità del danno che è, pertanto, da qualificare come "ingiusto" ogni qualvolta consegua alla violazione dell'art. 2103 c.c.) è da ritenersi che il danno esistenziale derivato al ricorrente dalla descritta situazione di sostanziale privazione delle sue mansioni sia equamente commisurabile al 30% della retribuzione allo stesso spettante per un periodo di mesi 78.

Il ricorrente ha prodotto in giudizio prospetto paga relativo al mese di febbraio 2000 da cui si evince una retribuzione di € 2.910.70 il cui 30% è pari ad € 873,21.

Secondo il criterio adottato, il danno esistenziale ammonta dunque a complessivi € 68.110,38 (873,38x78).

Da ultimo si osserva che nessuna domanda è stata avanzata in ricorso volta ad ottenere il rimborso di eventuali spese mediche sostenute il che esclude ogni pronuncia avente ad oggetto tale danno patrimoniale. In conclusione, la domanda va parzialmente accolta e, per l'effetto, va condannata la Banca Carime S.p.A., in persona del legale rappresentante pro-tempore, al pagamento in favore di Liccese Michelangelo della somma di € 41.434,00 a titolo di danno biologico e della somma di € 68.110,38 a titolo di danno esistenziale e, dunque, al pagamento della complessiva somma di € 109.544,38, somma da considerarsi comprensiva di interessi e rivalutazione monetaria.

Il parziale accoglimento della domanda consente di condannare la Banca convenuta al pagamento in favore del ricorrente di metà delle spese processuali e di compensare fra le parti la residua quota fatta eccezione per le spese di C.T.U. (liquidate a parte) che si pongono esclusivamente a carico della convenuta.

P. Q. M.

Il Giudice del Lavoro definitivamente pronunziando sul ricorso proposto con atto depositato in data 20/12/2000 da Liccese Michelangelo ogni altra domanda, eccezione e deduzione disattesa, così provvede:

1) in parziale accoglimento della domanda condanna la Banca Carime S.p.A., in persona del legale rappresentante prò-tempore, al pagamento in favore di Liccese Michelangelo della somma di € 109.544,38 comprensiva di interessi e rivalutazione monetaria;

2) condanna la Banca Carime S.p.A., in persona del legale rappresentante pro-tempore, al pagamento in favore del ricorrente di metà delle spese di giudizio liquidate in complessivi € 2.774,00 di cui € 253,00 per esborsi comprensivi di rimborso forfettario, € 721,00 per diritti e € 1.800,00 per onorari e compensa tra le parti la residua quota ponendo interamente a carico della Banca convenuta le spese di C.T.U., liquidate a parte.

 

Così deciso in Potenza il 9/6/2006 (depositata il 20 luglio 2006)

Il Giudice

Dr.sa Caterina Marotta

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