Il demansionamento non implica necessariamente il mobbing
 
Trib. Napoli, sez. lav,  3 novembre 2006 - Giud. Un. Urzini - Roveto c. Banca Popolare di Novara e Inail.
 
Mobbing - Nozione - Elementi costitutivi - Responsabilità del datore di lavoro - Onere della prova sul lavoratore - Prova dell'elemento psicologico - Necessità .
 
Il mobbing non ha la sua fonte regolatrice nella legge, bensì nella giurisprudenza che, nel corso degli anni, ha individuato i tratti caratterizzanti di un fenomeno socio culturale, consistente nella reiterazione di soprusi da parte dei superiori o dei colleghi di lavoro in danno del dipendente attraverso pratiche dirette ad isolarlo nell'ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l'equilibrio psichico del presta­tore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso.
Non può ritenersi implicito l'elemento intenzionale nella commissione di una condotta illecita perché violatrice di norme legali, quali, ad esempio, l'art. 2103 c.c.; infatti, la ricorrenza della fattispecie del mobbing e degli elementi costitutivi della stessa - nell'ottica dell'individuazione dì parametri certi di verifica - deve prescindere dalle specifiche tipologie di accadimento e non cedere al tentativo di ritenere che per alcune ipotesi, quali quelle in cui la condotta mobbizzante sia stata posta in essere attraverso comportamenti illeciti, possa ritenersi in re ipsa l'elemento psicologico della fattispecie.
Pertanto deve essere allegato e poi provato l’animus nocendi, attraverso l'indicazione dei soggetti autori della condotta e le finalità conosciute o conoscibili della condotta ovvero l'enunciazione della rappresentazione mentale dell'obiettivo pregiudizievole nei confronti del dipendente. Del resto, la scelta processuale di invocare il mobbing in luogo della mera violazione dell'art. 2103 c.c. (peraltro già proposta dalla ricorrente) non può essere senza effetti sul piano probatorio scaturendo dalla denuncia di una condotta mobbizzante un giudizio di maggior disvalore sociale che, se provata, determina un effetto economico di più ampia portata sul piano risarcitorio
 
Fatto. — Con ricorso depositato in cancelleria in data 15 luglio 2004 l'epigrafata ricorrente conveniva in giudizio la Banca Popolare di Novara a l'Inail al fine di ottenere, previo accertamento della responsabilità contrattuale del datore di lavoro, l'ammissione di una ctu al fine di accertare la natura e l'entità delle patologie lamentate e di quelle eventualmente verificate in sede di visita e la loro riconducibilità all'ambiente lavorativo; il riconoscimento della natura professionale delle malattie perché contratte nell'esercizio e a causa del mobbing aziendale che ha determinato l'esposizione al rischio; il riconoscimento della riduzione del 16% o della diversa misura accertata dal ctu e la condanna dell'Inail alla corresponsione della relativa rendita per malattia professionale; la condanna dei convenuti, per quanto di loro competenza in riferimento ai periodi lavorati e alla riconosciuta insorgenza degli stati patologici al risarcimento del danno biologico in riferimento alla valutazione del ctu; la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno morale da quantificarsi in via equitativa; il tutto con vittoria di spese di lite. A sostegno delle domande la ricorrente, ripercorso il suo iter lavorativo, dall'assunzione alla data del 30 giugno 1996, deduceva che dal 1° luglio 1996 era assegnata agli uffici della sede Capogruppo con l'incarico di responsabile dell'Ufficio contabilità; che dai primi mesi del 2000 era vittima di una vera e propria azione vessatoria da parte della Banca finalizzata all'allontanamento dal ruoli gestionali sempre ricoperti per indurla a rassegnare le dimissioni e a lasciare il suo ruolo a figure di neo assunzione; che all'indomani della comunicazione della sua intenzione di restare in servizio fino al compimento dell'età pensionabile, la banca aveva una reazione violenta consistita nella sua assegnazione ad attività impiegatizie per lo svolgimento dell'incarico di sviluppatore retail; che tale assegnazione, a seguito di azione giudiziaria, era revocata in via d'urgenza dai Tribunale di Napoli che disponeva la condanna della Banca alla reintegrazione nella precedente posizione lavorativa o in altra di contenuto equivalente o comunque direttiva; che solo apparentemente la Banca dava esecuzione all'ordine giudiziale perché di fatto, pur assegnandola all'ufficio esecutivo, le attribuiva il ruolo di semplice addetto con mansioni impiegatizie; che tale provvedimento era impugnato in via stragiudiziale, senza alcun esito ed ella continuava a svolgere tali mansioni in una mortificante e quasi completa inattività; che allo stato di mortificazione lavorativa ha fatto seguito un senso di frustrazione con una forte compromissione dello stato di salute e dell'integrità fisica essendo risultata affetta da «disturbo dell'adattamento con ansia e umore depresso misti» verosimilmente dovuta alle sue recenti vicende lavorative; che tale forma patologica conseguita all'azione di mobbing strategico posta in essere dal datore di lavoro per cui sussiste il nesso causale tra le stesse; che aveva inviato all'Inail in data 10 febbraio 2004 istanza per il riconoscimento della malattia professionale contratta a seguito dell'esercizio che ha determinato l'esposizione al rischio professionale depressione con diritto a rendita perché di grado superiore ai 16% e risarcimento dei danni biologico e morale nonché di tutti i danni anche a carico dei datore di lavoro derivanti dall'illegittimo comportamento. Tanto esposto, la ricorrente concludeva nei termini innanzi riportati.
Instauratosi ii contraddittorio, la Banca convenuta resisteva alle avverse domande. In particolare chiedeva la sospensione del giudizio in attesa della definizione sia del procedimento di merito instaurato dopo l'ordinanza cautelare di accoglimento della denunciata dequalificazione professionale sia dell'azione risarcitoria proposta dalla ricorrente per la mancata esecuzione dell'ordine giudiziale di reintegra nelle mansioni direttive, stante il rapporto di pregiudizialità tra quei giudizi e il presente; eccepiva l'inamminissibilità di qualsivoglia azione di risarcimento del danno da mobbing in conseguenza dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 38 del 2000; nel merito contestava i fatti allegati dalla ricorrente ed impugnava la documentazione medica versata in atti rilevando che mancavano gli estremi per qualificare la condotta ad essa addebitata come mobbing e non sussistevano gli estremi per ipotizzare una sua responsabilità della menomazione dell'integrità fisica patita dalla ricorrente. Concludeva quindi per l'integrale rigetto del ricorso, spese vinte.
L'Inail, costituitosi tempestivamente in giudizio, deduceva la genericità e l'infondatezza dalle domande attoree di cui chiedeva il rigetto con vittoria di spese. Acquisita nel corso del processo documentazione, all'odierna udienza la causa era discussa e decisa mediante pubblica lettura dei dispositivo.
 
Diritto. - Il ricorso, per le considerazioni di seguito enunciate, va integralmente rigettato. La prospettazione dei fatti riferita nell'atto introduttivo del giudizio unitamente alle conclusioni rassegnate, consentono di delimitare il tema d'indagine nei limiti del petitum e della causa petendi.
La ricorrente censura la condotta datoriale posta in essere dai primi mesi dell'anno 2000 e consistita nell'attribuzione di mansioni non confacenti a quelle svolte in precedenza e al livello professionale raggiunto nel corso della vita lavorativa e riconduce la stessa condotta datoriale ad una precisa volontà della Banca di allontanarla dal contesto lavorativo ai fine di liberarsi di una dipendente non più giovane. L'azione giudiziale da lei proposta per l'accertamento della violazione datoriale dall'art 2103 c.c. risulta, nel corso del presente giudizio, definita in senso favorevole alla ricorrente, mentre la contestuale richiesta di risarcimento del danno alla professionalità risulta rigettata. L'autonomia di quel giudizio rispetto al presente, di cui ha in comune solo il denunciato demansionamento, unitamente al diverso stato dei processi, quello in fase di istruttoria e questo appena incardinato, sono stati di ostacolo ad ipotesi di riunione e/o di sospensione dei giudizi.
Appare quindi evidente che nel presente giudizio, la ricorrente consideri il demansionamento perpetrato dalla banca quale esplicazione di un'azione di mobbing, così definita al capo F, pag. 7 del ricorso. Ella ha fatto ricorso alla figura di elaborazione giurisprudenziale del mobbing e a tale paradigma giurisprudenziale il giudicante deve rapportare il contenuto dei ricorso sul piano dell'ammissibilità della domanda di risarcimento del danno biologico e morale, scaturenti, secondo la prospettazione attorca, dalle cennate strategie comportamentali dei datore di lavoro. Il mobbing, come sopra enunciato e del resto evidenziato anche da parte ricorrente, non ha la sua fonte regolatrice nella legge bensì nella giurisprudenza che, nel corso degli ultimi anni, ha individuato i tratti caratterizzanti di un fenomeno socio culturale di dimensioni internazionali riscontrato tra l'altro, anche in alcuni ambienti di lavoro.
Si è giunti pertanto a definire il mobbing - termine derivante dalla lingua inglese e dal verbo to mob attaccare, aggredire) - sul luogo di lavoro come la reiterazione di soprusi da parte dei superiori o dei colleghi di lavoro in danno del dipendente attraverso pratiche dirette ad isolarlo nell'ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l'equilibrio psichico del prestatore menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando una catastrofe emotiva, depressione e talvolta anche il suicidio. Gli elementi caratterizzanti la fattispecie sono:
1) i comportamenti aziendali o in particolare di capi, di colleghi o di collaboratori devono essere molteplici - non essendo sufficiente l'unicità della condotta mobbizzante;
2) i comportamenti non devono essere casuali ma seguire una precisa strategia tendente ad estromettere il lavoratore dall'ufficio o settore in cui opera o addirittura dall'azienda, per motivi non sempre chiari o chiaramente identificabili ma comunque non dichiarabili e mai dichiarati; la strategia prevede dunque una serie di azioni che hanno lo scopo di isolare l'individuo, far nascere sensi di. colpa o di inutilità, ansia e timore di sbagliare e frustrazione. Tali azioni possono essere messe in atto da capi e colleghi per moti-vi di ordine del tutto personale come l'invidia, la gelosia o la competizione e in tal caso tendono a mettere in condizione il mobilizzato di non nuocere ai mobbers, alla loro carriera, al raggiungimento dei loro obiettivi; in altri casi è proprio l'azienda a mobbizzare il proprio dipendente con lo scopo di isolarlo o farlo dimettere perché ritenuto non più utile;
3) in ogni caso deve essersi prodotto un danno ossia deve verificarsi che il mobilizzato perde la stima di sé, va in depressione, somatizza in vario modo il malessere psicologico fino ad ammalarsi, fino alla decisione estrema in alcuni casi di interrompere il rapporto per uscire da una situazione ormai irreversibile.
Con riferimento alla controversia in esame la ricorrente ha individuato nell'azienda il mobber e nella dequalificazione il comportamento mobbizzante nonché nel danno biologico e morale gii effetti lesivi della condotta mobbizante posta in essere dalla Banca convenuta .
Pur tuttavia è incorsa in un evidente difetto di allegazione dei fatti e di conseguente prova dei fatti stessi laddove ha individuato la sussistenza di un caso di mohhing ai suoi danni ma ha omesso la prospettazione di elementi atti a provare l'animus nocendi. Difatti, l'unico accenno a tale elemento costitutivo della fattispecie di mobbing è contenuto alla pag. 6 dei ricorso ove vi è il riferimento assolutamente generico allo scopo della Banca di esautorare la sua figura professionale cagionando il danno biologico. Sarebbe stato invece un preciso onere della ricorrente allegare l'elemento doloso della condotta addebitata alla Banca attraverso il riferimento alla mera strumentalità della dequalificazione e all'indicazione del reale intento della Banca, a questo punto identificata nelle persone fisiche coinvolte nella vicenda, di pre­figurarsi il raggiungimento del reale obiettivo di mobbizzare il ricorrente.
Del resto, non può ritenersi implicito l'elemento intenzionale nella commissione di una condotta illecita perché violativa di norme legali, nella specie dell'art. 2103 c.c..
Difatti la ricorrenza dalla fattispecie del mobbing e degli elementi costitutivi della stessa, proprio nell'ottica dell'individuazione di parametri certi di verifica, deve prescinde dalle specifiche tipologie di accadimento e non cedere al tentativo di ritenere che per alcune ipotesi, quali quelle in cui la condotta mobbizzante sia stata posta in essere attraverso comportamenti illeciti, possa ritenersi in re ipsa l'elemento psicologico della fattispecie. In entrambi i casi, sia di condotte lecite che di condotte illecite, ad avviso del Giudicante deve essere allegato e poi provato l’animus nocendi, attraverso l'indicazione dei soggetti autori della condotta e le finalità conosciute o conoscibili della condotta ovvero l'enunciazione della rappresentazione mentale dell'obiettivo pregiudizievole nei confronti del dipendente. Del resto, la scelta processuale di invocare il mobbing in luogo della mera violazione dell'art. 2103 c.c. (peraltro già proposta dalla ricorrente) non può essere senza effetti sul piano probatorio scaturendo dalla denuncia di una condotta mobbizzante un giudizio di maggior disvalore sociale che, se provata, determina un effetto economico di più ampia portata sul piano risarcitorio.
Alla stregua delle considerazioni che precedono il vizio ridonda in un difetto di prova della domanda e vanno pertanto rigettate le richieste attoree nei confronti della banca convenuta che, partendo dalla verifica della responsabilità datoriale conducano alla condanna al risarcimento dei danni biologico e morale. La contestuale azione proposta nei confronti dell'Inail è immeritevole di considerazione. Ed invero, nelle conclusioni la ricorrente chiede la condanna dell'istituto assicuratore a corrispondere la rendita per malattia professionale nella misura del 16% o di altra da accertarsi (capo C) nonché per quanto di ragione, nei limiti della sua competenza in riferimento ai periodi lavorati e alla riconosciuta insorgenza degli stati patologici, al risarcimento del danno biologico in riferimento alla valutazione del ctu. È quindi palese la confusione in cui si trova la ricorrente la quale non ha affatto considerato la normativa entrata in vigore con il d.lgs. 38 del 2000 nel momento in cui ha ritenuto addebitabile all'istituto assicuratore sia la rendita per malattia professionale che il danno biologico laddove invece la responsabilità dell'ente è unica.
Difatti, con il d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38 è stato superato il previgente sistema dall'inabilità permanente come conseguenza di un infortunio o malattia professionale che sottragga in tutto o in parte l'attitudine al lavoro, attraverso il riconoscimento dell'indennizzabilità del danno biologico, ovvero «la lesione all'integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona». Tale nuova normativa si applica ai danni conseguenti ad infortuni sul lavoro verificatisi, nonché a malattie professionali denunciate a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di approvazione delle tabelle relative (D.M. 12 luglio 2000).
In linea con i principi affermati nella sentenza-monito della Corte costituzionale n. 87 del 28 gennaio 1991, con il suindicato decreto il legislatore del 2000 ha inteso realizzare un ampliamento della tutela concessa ai lavoratori. Attualmente, infatti, può trovare ristoro la menomazione dell'integrità fisica di per se stessa, indipendentemente dalle sue conseguenze ulteriori; l'art. 13 del d.lgs. del 2000 prevede espressamente che le prestazioni erogate dall'Inail sono determinate in misura indipendente dalla capacità di reddito del danneggiato.
La duplice richiesta formulata dalla ricorrente lascia intendere che per la parte, l'Inail è doppiamente gravato, sia della rendita che del danno biologico laddove ciò non è possibile. Anche a considerare non congiuntamente ma disgiuntamente le richieste attoree, della praticabile condanna dell'istituto al risarcimento del danno biologico manca qualsivoglia allegazione su cosa si debba intendere «per quanto di competenza» lasciando del tutto irrisolta la questione, tuttora dibattuta in giurisprudenza, della delimitazione - se quantitativa e/o qualitativa - della sfera di risarcimento che la legge ha riservato all'Inail ex d.lgs. 38 del 2000.
Per tali considerazioni, il ricorso va interamente rigettato. (Omissis).

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