Due sentenze di merito in tema di demansionamento

 

Tribunale Milano 12 febbraio 2010 - Est. Casella - Apice (avv. Nespor e Sergi) c. Università degli Studi di Milano Bicocca (avv. Romeo, Cardani e Palermo).
Pubblico impiego - Dequalificazione - Danno alla professionalità -Compromissione della vita lavorativa e di quella professionale -Risarcimento - Spetta.
 
Ogni lavoratore subordinato ha un vero e proprio diritto, ai sensi dell'art. 2103 c.c., allo svolgimento della prestazione secondo la tipologia lavorativa propria della qualifica di appartenenza e la violazione di tale diritto (cd. «demansionamento») determina la configurazione di una danno risarcibile, atteso che la negazione o l'impedimento allo svolgimento della prestazione lavorativa comportano una lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro.
 
 (...) Sulle mansioni superiori
Il ricorrente risulta inquadrato, come «assistente amministrativo», nell'Area C -posizione economica C3 (ex VI qualifica funzionale) - ai sensi del Ccnl 1998/2001 del personale comparto Università.
La VI qualifica funzionale era così descritta dal DCPM 24/9/81: a) complessità di lavoro che richiede una specifica formazione professionale relativa agli aspetti teorici con il possesso del conseguente titolo ove la legge lo richieda; conoscenza particolare delle modalità e la reale capacità d'uso di determinati strumenti o di esecuzione di determinate procedure o tecniche; b) autonomia nell'esecuzione del lavoro rapportata alla variabilità delle condizioni operative, tale autonomia si manifesta nell'individuazione delle procedure necessarie alla soluzione delle concrete situazioni di lavoro, nell'ambito di prescrizioni di massima; c) responsabilità tecnico-amministrativa e/o organizzativa per le attività direttamente svolte o per il risultato conseguito dalie unità operative sott'ordinate.
Detta qualifica funzionale è confluita nella nuova categoria C, le cui caratteristiche sono così delineate nella Tabella A: «- Grado di autonomia: svolgimento di attività inerenti procedure, con diversi livelli di complessità, basate su criteri parzialmente prestabiliti; - Grado di responsabilità relativa alla correttezza complessiva delle procedure gestite».
Il ricorrente ha agito in giudizio per far accertare l'esercizio di mansioni superiori inquadrabili, in via principale, in quelle della categoria EP o, in via subordinata, in quelle della categoria D.
Nell'ambito del pubblico impiego, l'art. 52 D. Lgs. 30/3/01 n. 165 stabilisce che «l'esercizio di fatto di mansioni superiori non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell'inquadramento del lavoratore o dell'assegnazione di incarichi di direzione", dovendosi intendere per «svolgimento di mansioni superiori... soltanto l'attribuzione in modo prevalente, sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di queste mansioni». In tali casi, «per il periodo di effettiva prestazione, il lavoratore ha diritto al trattamento previsto per la qualifica superiore».
Al di fuori delle ipotesi menzionate dalla legge o dalla contrattazione collettiva, l'assegnazione a mansioni superiori è affetta da nullità (comma 5). Dalla nullità dell'atto discende la possibilità del lavoratore di sottrarsi all'ordine illegittimo, mentre è assodato che l'amministrazione possa negare al medesimo il diritto al trattamento economico corrispondente alla qualifica superiore.
Lo svolgimento di mansioni superiori senza un provvedimento di assegnazione, pur essendo irrilevante sotto il profilo dell'inquadramento, determina anch'esso il diritto alle differenze retributive, non essendo sancita dalla norma citata alcuna preclusione in tal senso. Bisogna, quindi, attribuire rilevanza giuridica, alla stregua di assegnazione per facta concludentia di mansioni superiori, a quell'atteggiamento di con­sapevole tolleranza mantenuta dal datore di lavoro.
Dall'attribuzione di mansioni superiori, quindi, non scaturisce per il dipendente un diritto alla conservazione delle stesse, trattandosi di un provvedimento temporaneo e non potendo per questo il lavoratore invocare un ridimensionamento della pro­pria posizione professionale e retributiva. La PA non è tenuta, infatti, a comunicare al dipendente l'avvio del procedimento organizzatorio volto a reintegrare la situazione di normalità.
Ciò premesso, affrontiamo l'esame del caso di specie, tenendo presente che - per consolidata giurisprudenza - nel procedimento logico giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato non può prescindersi da tre fasi successive, e cioè, dall'accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dall'individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e dal raffronto dei risultati di tali due indagini (vedi Cass. 22/8/07 n. 17896).
Orbene, nella specie, è emerso dall'istruttoria espletata che il ricorrente ha effettivamente svolto a partire dal gennaio 1999 mansioni superiori al proprio inquadramento.
In primo luogo, occorre evidenziare che l'Università non ha affatto contestato che il ricorrente abbia svolto le mansioni dedotte nel ricorso: in particolare, tra le numerose attività svolte dal ricorrente, l'Università riconosce che il dottor Apice «svolgeva un'attività di comunicazione, organizzazione e promozione svolta in nome e per conto dell'Università, sotto la direzione e responsabilità dei docenti titolari delle ricerche scientifiche e dei progetti didattici» (p.to 48, p. 16 memoria difensiva). Riconosce inoltre che svolgeva attività di coordinamento organizzativo, curando «i contatti con di eventuali soggetti pubblici e privati coinvolti e interessati alle ricerche, gestendo altresì l'organizzazione delle riunioni cui prendevano parte, in veste ufficiale, i docenti interessati» (p.to 20, p. 7), di supporto organizzativo nell'ambito delle numerose ricerche condotte dai docenti, di gestione dei «contatti con società private ed enti pubblici anche al fine di favorire eventuali patrocini per le ricerche dei docenti» (p.to 23, p. 8), di contatto con direttori di testate giornalistiche «proponendo loro di pubblicare articoli che menzionassero i risultati degli studi e delle ricerche svolte dai docenti della Facoltà» (p.to 25, p. 9). Riconosce infine che il ricorrente si è occupato dell'organizzazione di seminari, della «Guida dello studente», nonché dell'organizzazione di eventi, mostre e convegni. L'Università sostiene però che tutte le suddette prestazioni siano proprie del profilo professionale - categoria C - cui appartiene il ricorrente e facciano parte delle normali funzioni della «segreteria organizzativa di eventi». Sostiene inoltre che il ricorrente, abbia svolto le dette prestazioni del tutto spontaneamente, senza alcun incarico formale.
In realtà, è emerso nel corso dell'istruttoria che, da un lato, le prestazioni del ricorrente erano richieste, approvate e utilizzate dai docenti con i quali ha lavorato e dai propri responsabili e, dall'altro, che l'incarico, per quello che può servire, è stato addi­rittura formalizzato come confermato dal prof. Antonio De Lillo che ha riconosciuto la paternità di un documento avente a oggetto assegnazione dei compiti del personale in organico preso la Facoltà «da cui risulta che al ricorrente era stato assegnato l'Ufficio Relazioni esterne» (ud. 10/11/08).
I testimoni escussi in sede istruttoria hanno riferito quanto segue:
- prof. Antonio De Lillo, Preside della Facoltà di Sociologia fino al 2004: «la prima collaborazione con il ricorrente è avvenuta quando ancora eravamo nell'Università Statale anche per l'organizzazione di un grosso Convegno «Milano Diritto e Rovescio» tenutosi nel 1997. In tale periodo ho potuto apprezzare le capacità organizzative e di relazione messe in mostra dai ricorrente... il ricorrente si occupava, tra l'altro, di mantenere i contatti con l'esterno e, in particolare, con la stampa. Ricordo che mi proponeva alcune iniziative di comunicazione (comunicati stampa) che mi sottoponeva. Io provvedevo a vagliare l'iniziativa e autorizzavo a diffonderla. Posso confermare che il ricorrente individuò una società di pubblicità per la creazione del logo dell'Ateneo... so che l'incarico gli fu affidato dal Rettore... ricordo solo che il logo venne eseguito gratuitamente evitando una gara per la sua realizzazione... Ricordo che fu il ricorrente a reperire e a tenere i contatti con i committenti esterni per le ricerche titolate «le professioni più amate dagli italiani». «Le rivelazioni delle immagini che gli italiani hanno delle occupazioni». «I giovani e i loro stili di vita» ... trattasi di contratti procurati dal ricorrente... ricordo che li ricorrente teneva i contatti con alcuni assessori per organizzare queste attività che venivano poi effettuate dai docenti... il ricorrente si è occupato anche del coordinamento redazione della guida alla didattica e ai servizi della Facoltà, tenendo i rapporti coi singoli professori... Posso aggiungere che la rete di conoscenze e capacità comunicative del ricorrente erano concretamente utilizzate anche da altri docenti della Facoltà. Sono rimasto Preside della Facoltà sino al 30/9/04. Fino ad allora mi sembra che le attività del ricorrente siano rimaste inalterate e fotografate nel documento che mi è stato rammostrato»; prof. Terenzio Mingione, docente dell'Università dal 2000 e Preside della Facoltà di Sociologia dal 2004, il quale ha riferito che il dott. Apice si era occupato dell'attività di redazione della «Guida dello studente» per almeno un anno, nonché dell’attività di interazione tra le ricerche svolte nella Facoltà e la stampa», precisando che «di quest'ultima attività si occupava solo il dott. Apice».
-Sig.ra Barbara Muzio, Capo ufficio Amministrativo della Facoltà di Sociologia:
«Il dr. Apice si occupava delle relazioni esterne e, in particolare, della promozione della Facoltà e reperimento di fondi e sponsor... Ricordo altresì che vi era una targhetta sulla porta del dott. Apice con scritto «Ufficio relazioni esterne..., delle relazioni esterne se ne occupava solo il ricorrente e lo stesso faceva per la stampa... Ricordo altresì che procurò alcuni contratti di ricerca per il Dipartimento e ricordo che, grazie alla sua attività, la Facoltà era citata più volte sugli organi di stampa... ricordo che fu il ricorrente a organizzare l'importante evento «Milano diritto e rovescio». In particolare, l'attività svolta dal ricorrente consisteva nel contattare le persone, individuare la location, reperire eventuali sponsor... il dott. Apice proponeva tutto al Preside De Lillo per l'approvazione. L'attività del ricorrente non era meramente esecutiva, ma propo­sitiva e veniva svolta autonomamente... Una parte degli eventi organizzati avevano un buon riscontro nel pubblico nel senso che aumentava la visibilità della Facoltà. Con riferimento all'attività di ricerca, ricordo che il ricorrente è riuscito a procurare alcuni contratti di ricerca tra cui quello commissionato da Johnson & Johnson e da Procter & Gamble... Sul logo posso riferire che se ne è occupato il ricorrente... La prima volta che ho visto il logo definitivo [è stato] nell'ufficio del ricorrente che me lo mostrò... Quanto alla «Guida dello studente», preciso che il ricorrente se ne occupò per circa tre anni.,. il ricorrente si occupava dell'informazione generale, della grafica e della pubblicazione... il ricorrente si occupava da solo, col mio aiuto sopra specificato, della guida. La bozza finale veniva poi visionata dal Preside per l'approvazione»;
-prof. Guido Martinetti, professore dell’Università Bicocca ha riferito che il ricorrente, con riferimento all'attività didattica, «collaborava agli esami, alla didattica e ha seguito uno o due laureandi. Non so se il ricorrente abbia tenuto qualche lezione, ma ciò è possibile... Ho sempre riconosciuto al ricorrente capacità con le relazioni esterne. Ricordo che con me si era occupato in via informale della costituzione di una associazione tra Pirelli e l'Ateneo, mettendosi in contatto con il responsabile delle relazioni esterne di Pirelli, Gianluca Wrinkler, progetto che è stato poi realizzato dall'Ateneo... posso riferire che il dott. Apice si occupò dell'organizzazione di un importante convegno con la Triennale che ebbe grande successo». Il teste ricorda altresì che «si era prospettata la realizzazione di un ufficio stampa dell'ateneo... Di tale eventualità ne parlai con il ricorrente, prospettandogli il mio sostegno per il suo inserimento in tale ufficio come addetto».
Dall'istruttoria è, pertanto, emerso in modo inequivocabile che il ricorrente abbia svolto le mansioni indicate nell'atto introduttivo e, in particolare, dimostrando la propria capacità - riconosciutagli da tutti i testi, escussi - di gestire e tenere le relazioni con l'esterno nonché di organizzazione e mantenere i rapporti con la stampa in modo tale da permettere all'Università di trarre profitto da tale sua attività relazionale.
È emerso altresì che il ricorrente svolgeva la sua attività in autonomia, riferendo solo ai suoi superiori, i quali — sulla base delle sue riconosciute capacità - gli hanno addirittura formalizzato l'incarico e prospettato un suo coinvolgimento nella creazione (formale) di un Ufficio Stampa e relazioni esterne dell'Università.
Il ricorrente, quindi, non si limitava a svolgere attività meramente operative vincolate a «procedure» definite e con un ridottissimo margine di autonomia (tipiche dell'area C), ma mansioni rientranti nella superiore area D, caratterizzate da una maggio­re professionalità, le cui funzioni implicano «diverse soluzioni non prestabilite», gestite e adottate autonomamente dal lavoratore. Non per niente, appartiene a questa cate­goria, l'attuale responsabile dell'Ufficio relazioni esterne dell'ateneo.
Il ricorrente, quindi, ha il diritto di percepire le differenze retributive tra la qualifica di appartenenza (C3) e la qualifica immediatamente superiore corrispondente alle mansioni (D1) svolte nel periodo dal 25/1/99 al 31/12/03. Conseguentemente l'Università resistente è tenuta a corrispondere le predette differenze (unitamente alle indennità di ateneo) con interessi legali e rivalutazione monetaria dalle singole scadenze al saldo effettivo.
Non può essere accolta la domanda principale, in quanto le mansioni effettivamente svolte dal ricorrente non possono farsi rientrare in quelle proprie della categoria EP (ex IX qualifica funzionale), caratterizzata da un «alto contenuto di professionalità» e da un grado di autonomia «relativa alla soluzione di problemi complessi di carattere organizzativo e/o professionale».
Sul demansionamento
In via generale, allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o venga dedotto un demansionamento riconducibili a un inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 c.c., è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l'una o l'altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall'art. 1218 c.c., da un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (Cass. 6/3/06 n. 4766).
Nella specie, il ricorrente ha lamentato un demansionamento a partire dalla fine del 2003, allorquando, a seguito del procedimento disciplinare a cui non è seguita peraltro alcuna sanzione, è stato privato di ogni mansione.
Sul punto, l'Università non ha fornito alcuna prova che potesse contrastare le affermazioni del ricorrente. Anzi, l'istruttoria ha pienamente confermata situazione prospettata dal dott. Apice.
Il teste, prof. Terenzio Mingione, preside della Facoltà dal 2004 ha, infatti, riferito: «dal 2004 al 2006 io personalmente non ho affidato alcun incarico amministrativo al dott. Apice in attesa di determinazioni da parte dell'Amministrazione centrale la quale, alla fine del 2006, mi comunicò che, avendo già costituito l'Ufficio Stampa senza prevedere l'utilizzo del ricorrente, avrei potuto dare incarichi amministrativi al dott. Apice». Il teste ha poi riferito di aver affidato al ricorrente alcuni incarichi «di carattere non continuativo», tra cui la catalogazione dei nuovi acquisti della Facoltà e il montaggio e lo smontaggio di una Mostra fotografica. Emblematiche, sul punto, appaiono le dichiarazioni della teste Barbara Muzio, secondo la quale, in seguito alla pubblicazione dell'articolo sul settimanale «Panorama» (2003), il ricorrente «è rimasto privo di alcuna mansione... Sostanzialmente con l'avvento del nuovo Preside l'organigramma è rimasto identico, mentre con riferimento al dott. Apice c'è stato uno svuotamento di mansioni».
Non può esserci pertanto alcun dubbio sul demansionamento subito dal ricorrente che, tuttora, non svolge alcuna mansione, compresa tra quelle di cui al profilo professionale contrattualmente previsto.
Come sostenuto dalla costante giurisprudenza (vedi, ex plurimis, Cass. 8/3/06 n. 4975), ogni lavoratore subordinato ha un vero e proprio diritto, ai sensi dell'art. 2103 c.c., allo svolgimento della prestazione secondo la tipologia lavorativa propria della qualifica di appartenenza e la violazione di tale diritto (cd. «demansionamento») determina la configurazione di un danno risarcibile, atteso che la negazione o l'impedimento allo svolgimento della prestazione lavorativa comportano una lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, implicando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell' interessato.
La valutazione di siffatto pregiudizio, per sua natura privo delle caratteristiche della patrimonialità, non può che essere effettuata dal giudice alla stregua di un parametro equitativo, essendo difficilmente utilizzabili criteri di riferimento economici o reddituali.
Considerato che il pregiudizio attiene a un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall'ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cass. 6/7/02 n. 9834) per la formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di cui all'art. 2727 c.c. venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all'interno e all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nella abitudini di vita del soggetto; da tutte queste circostanze, complessivamente considerate attraverso un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 c.p.c. a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. D'altra parte, in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno esistenziale, non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma equitativa, perché questa, per non trasmodare nell'arbitrio, necessita di parametri a cui ancorarsi.
Nella specie, è evidente che il lungo periodo di forzata inerzia subita dal ricorrente abbia compromesso la sua professionalità, impedendogli di esplicare la propria professionalità, perdendo la possibilità di un ulteriore arricchimento e aggiornamento del suo bagaglio professionale con grave nocumento al prestigio e alla visibilità in ambito lavorativo.
Il danno alla professionalità subita dal ricorrente viene liquidato, in via equitativa, in misura pari al 50% della retribuzione netta versata per ogni mese successivo al gennaio 2005 sino a oggi.
La domanda finalizzata a ottenere direttamente dal datore di lavoro il risarcimento del danno biologico nella misura del 25% è inammissibile, essendo, per tale pretesa, legittimato passivo l'Inail.
Poiché l'art 10, 1° comma, D. Lgs. 38/2000 stabilisce una regola di esonero esatta­mente coincidente con l'ambito oggettivo di copertura dell'assicurazione, operando detta regola, il datore di lavoro non è responsabile civilmente per le voci (qualitative) di danno già oggetto di assicurazione.
Quindi, poiché il danno biologico è attualmente oggetto di copertura da parte dell'Inail, in situazione normale di esonero da responsabilità, il datore di lavoro non è tenuto a risponderne, residuando, al limite, a suo carico solo la responsabilità per il cd. «danno differenziale», (...)
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Tribunale Lodi 20 maggio 2009 - est. Giuppi - La Rosa (avv. Montagna, Nespor e Galmozzi) c. Azienda Ospedaliera della Provincia di Lodi (avv. Bottani).
Pubblico impiego – Dequalificazione - Danno alla professionalità -Nozione - Risarcimento danno conseguenza - Spetta.
 
La lesione della dignità professionale del lavoratore, la cui tutela è espressamente riconosciuta dagli artt. 2,4 e 32 Cost., costituisce un diritto inviolabile costituzionalmente protetto e dunque suscettibile di dare luogo a risarcimento dei danni.
 
(...) Il curriculum professionale del ricorrente dal 1978 al 1/12/02 - allorché è stata istituita l'Azienda ospedaliera della provincia di Lodi e il rapporto di lavoro del ricorrente è stato trasferito alla resistente - è stato ricostituito con puntualità nel ricorso introduttivo ai punti 1-2-3-4, ha trovato riscontro nella documentazione prodotta e non è stato oggetto di contestazione da parte della resistente. In sintesi può ritenersi provato e fondatamente affermarsi che tutta la carriera del ricorrente dal 1978 a oggi si è svolta nel campo della medicina del lavoro e che quindi in tale specializzazione il ricorrente ha maturato una quasi trentennale esperienza lavorativa nel corso della quale gli sono stati attribuiti anche incarichi di responsabile di servizio o di unità strutturali (incarico di responsabile del servizio di protezione e prevenzione mentale e medico competente conferito in data 1/1/99 dalla Asl; incarico di struttura semplice quale responsabile dell'unità strutturale attività medico competente e medico autorizzato conferito in data 23/5/01 dalla Asl).
Il dr. La Rosa lamenta che a partire dell'anno 2004, è stata attuata nei suoi confronti dalla datrice di lavoro una progressiva emarginazione consistita nella illegittima revoca dell'incarico di responsabile dell'«unità strutturale attività medico competente medico autorizzato» conferitogli dall'Asl in data 23/5/01; nella progressiva riduzione delle funzioni assegnate e nel sostanziale svuotamento degli incarichi attribuiti costringendolo a una forzata inattività professionale.
All'esito dell'istruttoria deve escludersi che la condotta datoriale, che pure per i motivi che di seguito verranno esposti deve ritenersi inadempiente agli obblighi nascenti dal contratto di lavoro, possa in qualche modo qualificarsi come discriminatoria: in particolare nessun elemento, neppure indiziario, consente di ritenere che il ricorrente sia stato discriminato per motivi di carattere politico, e in particolare per la sua militanza in un partito politico.
Al fine di decidere la fondatezza delle domande risarcitorie proposte dal ricorrente, prima di analizzare lo svolgimento dei fatti e le risultanze istruttorie, è necessario fare alcune premesse circa i principi generali che regolano il rapporto di lavoro dei dirigenti, l'attribuzione degli incarichi e, più in generale, la natura degli interessi protetti e degli obblighi dei datori di lavoro in materia di tutela della professionalità dei lavoratori.
In primis, quale necessaria premessa, deve essere richiamata l'affermazione reiterata anche di recente da parte delle Sezioni unite della Suprema Corte (Cass. 24/11/06 n. 2503, ma anche le note sentenze SS.UU. gemelle dell'11/11/08 sul danno non patrimoniale) che la professionalità del lavoratore (e quindi anche quella del dirigente), intesa come complesso di capacità e attitudini, costituisce un bene di valenza costituzionale la cui lesione da un lato viola la dignità del lavoratore e dall'altra ne compromette le aspettative di progressione di carriera.
Per espressa previsione di legge - art. 19 D. Lgs. 165/01 TU pubblico impiego, come sostituito dall'art. 3, comma 1, lett. a) della L. 15/7/02 n. 245 - al conferimento degli incarichi e al passaggio di incarichi diversi non si applica l'art. 2103 del codice civile in materia di equivalenza delie mansioni. La norma, che peraltro conferma un principio affermato in giurisprudenza come valido anche per il periodo antecedente la sua reintroduzione (Cass. 19/12/08 n. 29817), in sostanza, stabilisce in maniera chiara che nel passaggio da un incarico a un altro incarico dirigenziale il dirigente non può invocare il principio della equivalenza delle mansioni e quindi stigmatizza, coerentemente con l'idea che non ci sia una vera e propria carriera dirigenziale intesa quale successione di incarichi di rilievo, l'assenza di un qualsiasi diritto del dirigente al mantenimento di un incarico di medesimo livello.
La giurisprudenza di legittimità ha però affermato che nella attribuzione e nella revoca degli incarichi la pubblica amministrazione è tenuta al rispetto degli obblighi contrattuali di correttezza e buona fede. In particolare la Suprema Corte (Sezione Lavoro 1/4/08 n. 981), ha affermate che, in materia di rapporto d'impiego, i poteri della pubblica amministrazione, pur avendo, a seguito della riforma del pubblico impiego, natura privatistica, incontrano limiti posti da disposizioni contrattuali o normative, da ritenersi integrate dalle regole di correttezza e buona fede. Vengono in considerazione le norme contenute nell'art. 19, comma 1, D. Lgs. 165/01: «Per il conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati nella direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo del Ministero...». Questa disposizione - ha affermato la Corte - obbliga, dunque, l'amministrazione datrice di lavoro al rispetto degli indicati criteri di massima e, necessariamente, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede, «procedimentalizza» l'esercizio del potere di conferimento degli incarichi (obbligando a valutazioni anche comparative, a consentire forme adeguate di partecipazione ai processi decisionali, a esternare le ragioni giustificatrici delle scelte).
Tanto premesso in ordine ai principi generali che regolano la materia dell'attribuzione degli incarichi dirigenziali, passando all'esame del merito della fattispecie sottoposta al vaglio del giudice in questo procedimento, deve affermarsi che l'esclusione dell'applicazione dell'art. 2103 c.c. al rapporto di lavoro del dirigente, fa sì che nella fattispecie in esame sia superflua ogni indagine circa l'equivalenza degli incarichi attribuiti nel tempo al ricorrente.
La fattispecie concreta, tuttavia, così come allegata da parte ricorrente, almeno in parte sfugge alla problematica relativa all'equivalenza degli incarichi, rientrando in quella diversa della sottrazione pressoché integrale delle funzioni attribuite: in altre parole il ricorrente lamenta anche una inaccettabile riduzione quantitativa del lavoro assegnato. La sottrazione delle mansioni costituisce un inadempimento del datore di lavoro agli obblighi contrattuali che è certamente vietata anche nel rapporto di pubblico impiego.
L'istruttoria compiuta e la documentazione prodotta, nonché le stesse parziali ammissioni dell'azienda resistente, provano che l'incarico, o comunque le funzioni attribuite e in concreto esercitate dal dottor La Rosa dal giugno 2004 di fatto sono prive di contenuto quanto meno sotto l'aspetto quantitativo.
Con deliberazione n. 509 dei 17/6/04 il commissario straordinario, nell'ambito della riorganizzazione delle attività di sorveglianza sanitaria, ha affidato al ricorrente la sorveglianza sanitaria per i lavoratori dipendenti da terzi, mentre la sorveglianza sanitaria per il personale dipendente (fino a quel momento esercitata dal ricorrente) è stata affidata al medico competente in convenzione. In sostanza, in base a una valutazione, la cui opportunità è ovviamente sottratta al sindacato del giudice ordinario (potendo rilevare eventualmente, sotto il diverso profilo della responsabilità per danno erariale), l'azienda ospedaliera ha ritenuto di dover affidare al personale dipendente, e quindi al dottor La Rosa dirigente medico di primo livello, le funzioni di medico competente per il personale esterno; mentre le corrispondenti funzioni di medico competente per il personale dipendente dell'azienda ospedaliera non legato da un rapporto di subordinazione con l'azienda ospedaliera ma operante, in regime di convenzione.
L'istruttoria testimoniale ha confermato la tesi del ricorrente secondo il quale il numero di convenzioni in essere fra l'azienda ospedaliera e datori di lavoro esterni è sempre stata così esigua da lasciare il ricorrente praticamente inattivo per gran parte della giornata lavorativa.
Il teste dr. Valerio, direttore medico del presidio di Casalpusterlengo e Codogno, circa l'attività svolta dai ricorrente ha così riferito: «Nel 2003, preso servizio presso il presidio di Casale e Codogno, mi resi conto che il dottor La Rosa di fatto non aveva alcun incarico: si limitava a fare qualche visita come medico del lavoro per ditte esterne. Chiesi spiegazioni perché non era bello vedere un medico aggirarsi senza far nulla e vi erano alcuni colleghi che si lamentavano di essere viceversa oberati di lavoro. Mi fu detto che il ricorrente era stato sollevato dall'incarico di medico competente, incarico che aveva avuto fiduciariamente dal precedente direttore generale. Il nuovo direttore generale aveva affidato l'incarico al dottor Moliari. Mi venne anche detto che l'azienda ospedaliera aveva incaricato la dottoressa Cacciatori di promuovere l'attività di medicina del lavoro presso aziende esterne e che dunque tale promozione avrebbe dovuto riempire di contenuto le funzioni del dottor La Rosa. Per quello che ho potuto vedere io la promozione non ha avuto esito se non per uno o due potenziali clienti. Mi feci promotore di una proposta di incarico presso il reparto di oncologia in qualità di collaboratore nell'attività di ricerca nell'estate 2005».
L'amministrazione costituendosi ha peraltro riconosciuto la esiguità quantitativa dell'attività svolta dal ricorrente, che peraltro neppure in passato, quando svolgeva le funzioni di medico competente per il personale dipendente dell'Asl, sarebbe stata tale da occuparne a tempo pieno la giornata lavorativa e anzi ne lasciavano scoperta la maggior parte (testuale, comparsa di costituzione pp. 6-7): «Nulla, assolutamente nulla diversifica la prestazione del medico competente rispetto ai destinatari del suo operato, siano cioè essi interni o di esterni all'azienda ospedaliera, ma certamente non così dovette sembrare ai dottor La Rosa. Nella sostanza dei fatti, posto che per protocolli comunemente adottati e in vigore il tempo utilizzato per ciascuna lista di controllo sui lavoratori da parte del medico competente ha una durata di 15 minuti e considerato che la prestazione standard di un dirigente medico nei confronti dell'azienda ospedaliera (quella per intendersi per la quale riceve una regolare retribuzione) ammonta circa 1500 ore annue di lavoro, è facile determinare come anche nei periodi di picco l'impegno del ricorrente nella sua veste di medico competente interno (e prendiamo per buone senza discussioni inutili le tabelle approntate in ricorso) non superava le 350 ore annue. Si aggiungano le visite esterne (che in realtà raramente sono più di 10 in un anno) e le relazioni di servizio (ne è richiesta una solo annua); a voler tutto concedere ed essere ottimisti l'impegno profuso dal dottor La Rosa nel proprio standard lavorativo, che in ricorso viene descritto come pieno e assorbente, non poteva superare le 500 ore annue. Ci si chiede con quale utilizzo delle restanti 1000 ore, ma il dato qui non rileva se non per far risaltare comparativamente come il monte ore assegnato a fronte delle convenzioni esterne già in essere con l'azienda ospedaliera erano perfettamente compatibili con il suo naturale e consueto iter lavorativo. Non solo, ma esse erano nelle idee dell'azienda a fronte di richieste esterne assolutamente incrementabili se solo si fosse seguito il doveroso criterio di dare seguito puntuale ai contatti che gli uffici amministrativi dell’azienda ospedaliera andavano tessendo e predisponendo per ampliare la fascia dei soggetti serviti dall'ufficio del medico competente esterno».
L'amministrazione, attribuendo al ricorrente la responsabilità della inoperosità e della mancanza di convenzioni esterne, eccepisce, in sintesi, l'inadempimento del ricorrente agli obblighi contrattuali.
L'istruttoria svolta ha smentito la tesi difensiva dell'Azienda Ospedaliera: i clienti convenzionati con l'azienda Ospedaliera per il servizio del Medico competente erano in numero esiguo al momento dell'attribuzione dell'incarico al dott. La Rosa e nessuno dei testi chiamati a deporre ha confermato la tesi della resistente circa l'attribuibilità della risoluzione della convenzione o del suo mancato perfezionamento alla condotta professionale del ricorrente.
Infine, l'istruttoria non ha fornito neppure labili elementi indiziari circa la eccepita preordinata attività del ricorrente volta allo svuotamento dell'incarico e alla colpevole alterazione del proprio ruolo: è sufficiente aggiungere che non solo non è provata ma non è neppure allegata una qualsiasi anche se blanda, reazione da parte dell'Amministrazione alla inoperosità del dirigente e alla negligenza o imperizia nello svolgimento delle prestazioni.
Deve in sintesi concludersi che quando nel giugno 2004 l’AO ha attribuito al dott. La Rosa l'incarico di medico competente per gli esterni era consapevole che, dato l'esiguo numero di convenzioni, l'attività del Dr. La Rosa sarebbe stata cosi limitata in termini di impegno professionale, da renderlo praticamente inattivo per la maggior parte della giornata lavorativa.
L'amministrazione, dunque, nell'attribuzione e nella scelta dell'incarico attribuito al dott. La Rosa si è resa inadempiente non solo ai già richiamati principi che l'art. 19 TU indica quali criteri per la scelta degli incarico, ma ai più generali obblighi di correttezza e buona fede per aver affidato al dirigente un incarico di fatto privo di contenuto. Si ripete che la sottrazione pressoché integrale di ogni funzione è vietata anche l'attribuzione «informale» del ruolo di addetto alla segreteria scientifica del reparto di oncologi, costituisce un pesante indizio della volontà di mortificare la dignità professionale del ricorrente tenuto conto della specializzazione (l'oncologia, mentre l'esperienza professionale del ricorrente è maturata nel diverso campo della medicina del lavoro) e del ruolo segretariale che - in assenza di altre specificazioni - non si concilia con l'esercizio dell'arte medica.
Deve dunque affermarsi che a partire dal giugno 2004 l'Amministrazione si è resa dapprima inadempiente all'obbligo correttezza e buona fede nella scelta dell'incarico attribuito al dott. La Rosa (compatibile con la sua pregressa esperienza professionale ma di fatto privo di contenuto, in assenza di convenzioni esterne tali da giustificare l'attribuzione dell'incarico) e successivamente all'obbligo di eseguire il contratto e cioè di consentire ai dirigente di esplicare la propria attività lavorativa in conformità alle modalità pattuite.
Quanto alle conseguenze di tale inadempimento deve ritenersi provato il danno non patrimoniale conseguente alla lesione della professionalità e della salute.
Si rende necessario il sintetico richiamo alla teoria sui danno non patrimoniale come elaborata dalle Sezioni Unite, intervenute nelle more del giudizio.
Per quel che qui rileva ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale subito dal ricorrente, è necessario richiamare i seguenti principi di carattere generale affermati dalla corte di legittimità (Cass. sez. un. civili 11/11/08 n. 26972): «La risarcibilità del danno non patrimoniale e ammessa oltre che nelle ipotesi espressamente previste da una norma di legge, nei casi in cui il fatto illecito vulneri diritti inviolabili della persona costituzionalmente protetti. In assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona costituzionalmente protetto.
Ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale conseguente alla lesione dei diritti costituzionali inviolabili, occorre che l'offesa arrecata al diritto sia grave e il pregiudizio sia serio.
Posto che il danno non patrimoniale identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica è categoria generale, non suscettibile di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate, va esclusa la sussistenza di un'autonoma categoria denominata danno esistenziale.
Anche dall'inadempimento di un'obbligazione contrattuale può derivare un danno non patrimoniale il cui risarcimento è regolato secondo le norme dettate in materia di responsabilità contrattuale.
Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale senza dar luogo a duplicazioni.
Il danno non patrimoniale anche quando sia determinato dalla lesione dei diritti inviolabili della persona costituisce danno conseguenza, che deve essere allegato e provato; a tal fine il giudice può far ricorso a presunzioni, ma il danneggiato dovrà comunque allegare tutti gli elementi idonei a fornire nella concreta fattispecie la serie concatenata dì fatti noti che consentono di risalire al fatto ignoto».
A tali principi intende aderire il giudice nella presente causa ai fini del riconoscimento e della liquidazione del danno alla professionalità e alla salute subito dal ricorrente.
Quanto alla professionalità le Sezioni unite (par. 4.5) riconoscono che la lesione della dignità personale del lavoratore, la cui tutela è espressamente riconosciuta dagli artt. 2, 4 e 32 della Costituzione, costituisce un diritto inviolabile costituzionalmente protetto e dunque suscettibile di dare luogo a risarcimento dei danni conseguenza sotto il profilo della dignità personale del lavoratore e affermano che tale lesione si verifica ogni volta in cui vi sia un pregiudizio alla professionalità da dequalificazione che si risolva nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa.
Nel caso in esame la prolungata e pluriennale inattività del ricorrente e il suo isolamento professionale costituiscono senza alcun danno alla professionalità di medico del lavoro, che privato della possibilità di esercitare in concreto le mansioni di medico competente, ha visto progressivamente negli anni impoverirsi la sua conoscenza e pratica professionale.
Quanto alla lesione dei diritto alla salute, ha trovato riscontro nella relazione di consulenza depositata dal consulente - dott Scagliusi - nominato d'ufficio dal giudice che ha concluso per l'esistenza di un danno riconducibile all'attività lavorativa quantificabile in ragione del 22-23% di invalidità permanente e, quanto alla invalidità temporanea pari al 75% per un mese, per altri tre mesi al 50% e per i successivi 3 al 25%.
Il giudice fa proprio il giudizio espresso dal consulente tecnico che ha formulato le proprie conclusioni, dopo aver esaminato il paziente, la documentazione clinica gli atti e dopo aver sottoposto il ricorrente a test psicologici, oltre ad aver preso visione delle risultanze dell’istruttoria dibattimentale. Il giudizio del consulente è immune da vizi logici e non lascia spazi per ritenere che la malattia psichica da cui è affetto il ricorrente abbia una causa diversa da quella legata all'ambiente di lavoro.
La liquidazione del danno patrimoniale, nelle sue diverse componenti, deve essere fatta in via equitativa ex art. 1226 c.c.
Quanto alla componente legata alla lesione della dignità professionale il giudice, in conformità a precedenti sentenze di merito, ritiene di poter liquidare il danno usando come parametro di riferimento una percentuale della retribuzione mensile (pari a € 3.378,36). Nel caso in esame. lo svuotamento delle mansioni perdura dal giugno 2004 e dunque, al momento della pronuncia della sentenza, da circa cinque anni, pari a 60 mesi. Tenuto conto, in ragione della gravità dell'inadempimento e delle conseguenze sulla professionalità nel caso concreto, di una percentuale della retribuzione mensile di € 1.500 (di poco inferiore al 50% di quella intera), il danno patrimoniale può essere liquidato in € 90.000 (€ 1.500,00 x 60 mesi).
Quanto al danno biologico, tenuto conto dei parametri in uso presso i tribunali del distretto di Milano, in relazione alla natura e alla gravità (23% di invalidità permanente) della patologia da cui è affetto il ricorrente e all'età dello stesso, ma anche dei principi affermati dalle sopra richiamate sentenze gemelle del novembre 2008 (laddove si richiama la necessità di evitare duplicazioni ma anche la necessità di garantire un serio ristoro nei casi di gravità della lesione - quale deve ritenersi presente nel caso in esame) deve essere liquidato in complessivi € 64.000 (di cui 5.807,96 a titolo di danno biologico secondo il calcolo proposto dal ricorrente nella memoria del 27/3/09 (p. 10).
Il danno non patrimoniale deve quindi essere liquidato in complessivi € 154.000, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla pronuncia al saldo.
Il giudice, che ha condannato il datore di lavoro anche al risarcimento del danno alla salute, ritiene che nel caso in esame non operi il principio dell'esonero del datore di lavoro ex art. 10, comma 1, DPR 1124/65. Come noto, tale norma prevede che l'assicurazione infortuni e malattie professionali esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Si pone dunque il problema di verificare se la malattia da cui è affetto il ricorrente sia coperta dall'assicurazione Inail di cui al DPR 30/6/65 n. 1124, che a seguito dell'entrata in vigore del D. Lgs. 23/2/2000 n. 38 copre anche il danno biologico.
Nelle more del giudizio, con pronuncia di poco anteriore a quella di questo giudi­ce, nella materia è intervenuto il Consiglio di Stato con una decisione che, seppure contrastata da taluni commentatori, il giudice ritiene di dovere condividere, almeno in relazione alla fattispecie concreta di questo giudizio.
Il Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza n. 1576/09 ha affermato i seguenti principi: «va confermata la sentenza di annullamento della circolare Inail 71/03 sulla cosiddetta costrittività organizzativa nei luoghi di lavoro che connette l'insorgere di malattie psichiche o psicosomatiche a determinati fattori di nocività, prescindendo dalla necessità di dimostrazione del nesso di causalità, che in questi casi grava sul lavoratore».
Va annullato il decreto del Ministero del lavoro 27/4/04 relativo ali individuazio­ne delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia ai sensi e per gli effetti dell'art. 139 DPR 30/6/65 n. 1124, nella parte in cui, approvando la lista H, contenente le «malattie la cui origine lavorativa e illimitata probabilità», vi ha inserito il gruppo numero sette concernente «malattie psicosomatiche da disfunzione dell’organizzazione del lavoro».
il Consiglio di Stato, nella motivazione delle sentenza, ha così argomentato: «Nell'ordine logico delle questioni da affrontare va poi esaminato il quarto motivo di appello, censurante l'affermazione principale del capo di sentenza di accoglimento in primo grado (e che in verità già in quella sede avrebbe avuto carattere assorbente), implicante cioè autonomamente l'annullamento della circolare impugnata; si ha riguardo alla statuizione che ha stabilito che le malattie professionali "non tabellare" possono essere indennizzate soltanto se causalmente ricollegate al "rischio specifico" di una delle lavorazioni elencate dalla legge ai fini dell'individuazione dei soggetti tutelabili o, più precisamente, dell'oggetto (ambito dell'attività lavorativa protetta) della stessa assicurazione. E infatti, l'individuazione delle lavorazioni in questione più che determinare i soggetti da assicurare, che sono comunque, in linea di principio, i lavoratori dipendenti, conduce a circoscrivere le situazioni di fatto "lavorative" consi­derate in sé rischiose e comunque definisce l'oggetto naturale del rapporto assicurati­vo di natura pubblicistica».
2.1. Il punto da trattare attiene quindi all'accoglimento relativo al quarto motivo di ricorso di primo grado, in cui si deduceva che la soluzione apprestata dalla circolare in ordine alla possibilità di intervento in materia di patologie psichiche determinate dalle condizioni organizzativo/ambientali, non troverebbe supporto nella sentenza della Corte Costituzionale 18/2/88 n. 179, richiamata dalla circolare impugnata come fondamento di una interpretazione aderente all'evoluzione delle forme di organizzazione dei processi produttivi.
La statuizione del Tar sul punto deve essere confermata.
2.2. Sostiene l'appello che tale pronuncia del giudice delle leggi avrebbe introdotto un sistema cd. "misto", che superando il sistema tabellare chiuso, renderebbe tutelabile qualsiasi malattia di cui sia provata la derivazione eziologica dal lavoro, fermo rimanendo il riferimento al rischio specifico di una determinata lavorazione soltanto per le malattie "tabellate", cioè incluse nell'elenco previsto dall'art. 3 del DPR 30/6/65 n. 1124, per le quali vige la presunzione semplice di origine professionale.
Tale assunto è in realtà infondato, dovendo condividersi all'affermazione del Tar per cui, contrariamente a esso, il sistema misto opera nel senso che la malattia professionale è indennizzata, indipendentemente dalla sua inclusione nelle tabelle allegate al DPR 30/6/65 n. 1124, se trova la sua derivazione causale nell'esercizio di una delle lavorazioni di cui al precedente art. 1 dello stesso DPR, come appunto dedotto nel menzionato quarto motivo del ricorso di primo grado.
2.3. Va cioè condivisa la censura dedotta in prime cure, per cui l'art. 1 del cit. DPR 1124/65 ha condizionato l'intervento dell'assicurazione obbligatoria per le malattie
professionali, anche non tabellate, alla sussistenza di un "rischio specifico" (e non già comune), cui è esposto il lavoratore addetto a determinare lavorazioni, presuntiva­mente e preventivamente valutate pericoloso dal legislatore stesso, mediante, appunto, l'espressa previsione delle "attività protette" di cui allo stesso art. 1.
Al riguardo va notato che l'affermazione giurisprudenziale, richiamata dall'Istituto appellante, della progressiva assimilabilità alla "causa di servizio", cioè al sistema di tutela delle patologie professionali insorgenti nell'ambito del pubblico impiego, dell'attuale indennizzabilità delle malattie professionali non tabellate (conseguente al predetto sistema misto), è una logica implicazione, con riguardo al profilo della non più sussistente tipicità delle conseguenze sanitarie (lesione dell'integrità psico-fisica) rilevanti nei sistema assicurativo in discorso; ma detto indirizzo giuri­sprudenziale non risulta aver del pari espressamente affermato il superamento del sistema legale di determinazione dell'oggetto del rapporto assicurativo derivante dall'individuazione delle lavorazioni "a rischio", operata, d'altra parte, mediante una clausola aperta, riferita cioè ad attività complementari e sussidiarie a quelle elencate dallo stesso art. 1 del DPR 1124/65 (cfr. Cass. sez. lav. 25/2/05 n. 4005, che pur riconoscendo una certa connessione sotto il profilo del nesso causale, ribadisce espressamente r"autonomia dei due istituti" e, dunque, non affronta, neppure per implicato, il problema qui in rilievo della predeterminazione legale dell'oggetto del rapporto).
Dunque, il criterio determinativo del rischio rimane pur sempre connesso alla enucleabilità di un segmento del ciclo produttivo e non anche a una fase dell'iniziativa imprenditoriale che costituisce il presupposto immanente e generale dell'intera attivi­tà produttiva, qual’è l'organizzazione del lavoro, la quale, quindi, rimane concettual­mente disomogenea rispetto all'attuale criterio legale di determinazione del rischio e, dunque, al di fuori della possibilità d'integrazione analogica consentita dal criterio di cui al citato art. 1, pur assunto nell'interezza delle sue previsioni.
La conclusione ora riferita obiettivamente esclude, in quanto non rientrante nell'elencazione di cui all'art. 1 DPR 1124/65, la generalizzata rilevanza delle malattie psichiche "riconducibili all'organizzazione aziendale delle attività lavorative", quale categoria di rischio assunta nella sua globalità, prevista dall'impugnata circolare; ciò trova peraltro conferma nella stessa invocata sentenza n. 179/88 della Corte Costituzionale. Questa ha bensì postulato, in adeguamento al precetto di cui all'art. 38 Cost., "l'aggiornamento con adeguata frequenza degli elenchi delle malattie tipiche" nonché "anche e soprattutto il riconoscimento che il sistema tabellare ora in vigore si pone in contrasto con lo stesso precetto costituzionale..., in quanto, in aggiunta alla previsione tabellare non consente (nell'ambito delle attività protette industriali e aglicole di cui rispettivamente agli artt. 1, 206, 207 e 208 del DPR 1124/65) l'indagine sull'eziologia professionale delle malattie indipendentemente dagli elenchi stabiliti e dai tempi della manifestazione morbosa richiesti dalla legge" (cfr. punto 7, par. 1 seni cit, sottolineatura aggiunta).
2.4. L'inciso così esplicitato dalia Corte rende conto di come il sistema "misto" introdotto per via di decisione manipolatrice (caducante "nella parte in cui...") del distinto art. 3 del DPR 1124/65, non sia il risultato di un'immutazione coinvolgente l'art. 1, per quanto qui interessa, di cui ha invece serbato la capacità delimitatrice dell'oggetto del sistema assicurativo, avendo cioè il decisum costituzionale riguardato solo la caducazione del principio della tipicità tabellare.
La Corte non ha perciò intaccato il presupposto normativo per cui la malattia pro­fessionale indennizzabile risulta collegata a un obbligo di assicurazione che si giustifica in ragione dell'esecuzione, da parte dei lavoratori "addetti", degli specifici "lavori" previsti dall'elenco di cui allo stesso art. 1, comma 3 (e dai successivi commi relativi ai lavori "complementari e sussidiari"), previsione che definisce il "rischio specifico" oggetto dell'assicurazione, dal quale esula la generica categoria della "costrittività organizzativa" prevista dalla circolare impugnata.
La possibilità di estendere l'ambito del rischio assicurato e quindi la stessa ascrivibilità alle prestazioni previdenziali delle malattie professionali collegate alla generale "organizzazione aziendale delle attività lavorative", richiamata dalla circolare medesima, richiede allo stato l'intervento del legislatore, che riformuli in senso ampliativo lo stesso art. 1, ma non può essere compiuto mediante una circolare interpretativa dissonante, tra l'altro, dalla stessa sentenza della Corte Costituzionale che la circolare assume a proprio fondamento».
Ritiene in particolare il giudice di condividere l'assunto fondamentale della decisione del Consiglio di Stato secondo quale nel sistema misto introdotto dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 179/88, la malattia professionale può essere indennizzata indipendentemente dalla sua inclusione nelle tabella allegate al DPR 1124/65, soltanto se trova la sua derivazione eziologica nell'esercizio di una delle lavorazioni dì cui all'art. 1 del testo unico.
È opportuno, a tal fine, ricordare che la predetta sentenza aveva dichiarato illegittimo l'art. 3, comma 1, DPR 1124/65 nella parte in cui non prevede che l'assicurazione contro le malattie professionali nell'industria è obbligatoria anche per le malattie diverse da quella compresa nelle tabelle allegate concernenti le dette malattie e da quelle causate da una lavorazione specificata o da un agente patogeno indicato nella tabelle stesse, purché si tratti di malattie delle quali sia comunque provocata la causa di lavoro.
La malattia psichica originata da demansionamento, dalla forzata inattività del lavoratore, come anche quella determinata da mobbing non sono dunque coperte dall'assicurazione Inail e il datore di lavoro non può invocare l'esonero di cui all'art. 10 TU 1124/65.
Resta da decidere la domanda avente a oggetto il diritto del ricorrente al mantenimento della titolarità dell'incarico quale responsabile dell'unità strutturale attività medico competente e medico autorizzato - incarico conferito con deliberazione n. 684 del 23/5/01 dall'allora azienda sanitaria locale della provincia di Lodi - fino al 1/2/05 e di quella conseguente avente a oggetto il risarcimento del danno conseguente alla -allegata dal ricorrente - illegittima revoca.
La documentazione versata in atri dalle parti non consente di ritenere provato che sia stato stipulato un contratto avente a oggetto tale incarico e dunque il conseguente diritto del ricorrente, come è accaduto anche per gli incarichi successivi conferiti dalla resistente, nessun contratto ha mai seguito la deliberazione di conferimento dell'incarico. Come noto, attesa la natura privatistica dell'incarico dirigenziale, la stipulazione del contratto è necessaria al fine di far sorgere il relativo rapporto. Si aggiunga che costituisce principio di carattere generale quello secondo il quale il contratto con il quale l'amministrazione pubblica conferisce un incarico professionale deve essere redatto, a pena di nullità, in forma scritta, ed è a questo fine irrilevante l'esistenza di una deliberazione dell'organo dell'ente pubblico che abbia autorizzato il conferimento dell'incarico al professionista, ove tale deliberazione non si sia tradotta in un unico atto contrattuale coevamente sottoscritto dal rappresentante esterno dell'ente e dal privato, da cui possa detenersi la concreta instaurazione del rapporto con le indispensabili determinazioni in ordine alla prestazione da svolgersi. La stipulazione del contratto a seguito del conferimento dell'incarico è prevista anche dalla contrattazione collettiva di comparto (art. 28, comma 5, Ccnl).
L'assenza di un contratto validamente stipulato fra le parti impedisce al giudice di accogliere la domanda di adempimento e di risarcimento del danno di parte ricorrente: d'altronde proprio l'assenza del contratto impedisce di conoscerne il contenuto, anche in relazione alla durata dell'incarico.
Per i motivi di cui sopra, la domanda avente a oggetto la revoca dell'incarico quale responsabile dell'unità strutturale attività medico competente e medico autorizzato deve essere rigettata.
L'Azienda Ospedaliera della Provincia di Lodi, in quanto soccombente, è condannata al pagamento delle spese di lite in favore del ricorrente liquidate in € 4.000 (di cui € 1.800,00 a titolo di diritti) oltre a Iva e cpa tenuto conto sia della complessità dell'istruttoria sia della complessità e novità delle questioni trattate (dall'importo sopra liquidato sono escluse le spese di consulenza tecnica anticipate dal ricorrente).
Le spese di consulenza tecnica, liquidate come da separato dispositivo, sono poste definitivamente a carico della soccombente. (...)
NOTA
Il risarcimento del danno alla professionalità
In entrambe le pronunce qui riportate il Giudice, riconosciuta l'esistenza del danno professionale, sul che si tornerà a breve, ha riconosciuto la necessità del risarcimento nei termini del cosiddetto danno conseguenza. Le decisioni si inseriscono così nel solco tracciato dalle Sezioni unite, con sentenza 11/11/08 n. 4712, le quali, come risaputo, prendendo spunto dalle precedenti decisioni 31/5/03 n. 8827 e 8828, hanno ulteriormente definito la materia della risarcibilità in sede aquiliana del danno non patrimoniale, in particolare fornendo una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059, alla cui luce la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale è data, oltre che nei casi determinati dalla legge, in quelli di lesione di diritti fondamentali della persona (in presenza, quindi, di una ingiustizia che leda principi costituzionali, rectius: diritti di rango costituzionale). In particolare, le Sezioni unite 24/6/08 (rectius: 11/11/08, ndr) n. 26792 hanno affermato che la lesione di interessi non suscettibili di valutazione economica da luogo al diritto risarcimento sotto il profilo della lesione della inte­grità psichica e fisica (art. 32 Cost.), in accordo alle modalità risarcitone proprie del danno biologico o della lesione della dignità personale del soggetto offeso (artt. 2, 4 e 32 Cost.), e hanno inoltre affermato che, definitivamente accantonata la figura del cosiddetto danno morale soggettivo, si dà luogo al risarcimento della sofferenza soggettiva in sé considerata, quale ad esempio l'intima sofferenza per la compromissione della dignità e l'alterazione della percezione della propria immagine sia in contesto lavorativo che familiare (purché, ovviamente, questa sofferenza abbia conseguenze esternamente e obiettivamente apprezzabili, come il deterioramento delle abitudini di vita), a prescindere dalle conseguenze fisiche e patologiche di questa sofferenza le quali, ove presenti, danno luogo al risarcimento del danno biologico. A seguito di questa pronuncia scompare dunque il danno esistenziale il quale, come rilevato in dottrina, perde di significato non dovendosi più «supplire a un vuoto di tutela dovuto a un'inadeguata rappresentazione del danno non patrimoniale, stretto tra perdita dell'integrità psicofisica e sofferenza interiore transeunte» (S. Mazzamuto, «Il rapporto tra gli artt. 2059 e 2043 c.c. e le ambiguità delle Sezioni unite a pro­posito della risarcibilità del danno non patrimoniale», in Contratto e impr. 2009, 3, 589). In dottrina, ex multis, a commento della sentenza 4712/08: «La rifondazione del danno non patrimoniale, all'insegna della tipicità dell'interesse leso (con qualche attenuazione) e dell'unitarietà», in Foro it. 2009,1,120; Sganga, «Le Sezioni unite e l'art. 2059», in Giur. it. 2009, 1,61; Tomarchio, «L'unilateralità del danno non patrimoniale nella prospettiva delle Sezioni unite», in Nuova giur. civ. e comm. 2009,1,102; Cendon, «L'urlo e la furia», ivi 2009, II, 7.
Venendo alle due fattispecie massimate, nel primo dei casi in esame il Giudice afferma con molta chiarezza che il danno (professionale) subito dal ricorrente è determinato dalla lesione degli artt. 2,4 e 32 Cost., implicitamente richiamati nella seconda pronuncia unitamente annotata. Il danno consiste nella lesione dell'immagine professionale, nella compromissione della libertà di esplicazione della personalità nel luogo di lavoro, nella lesione della percezione del sé sia in ambiente lavorativo che familiare. La definizione che viene operata di danno professionale da dequalificazione è coerente a quella della giurisprudenza consolidata: «La dequalificazione professionale comporta lesione di un bene immateriale per eccellenza, ossia la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza di manifestare le proprie utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo: e ciò viene in evidenza specialmente quando il lavoratore sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti costituendo il lavoro un mezzo oltre che di guadagno, anche di estrinsecazione della personalità del soggetto» (TAR Campania, sez. II, 23/10/09 n. 7301, in wwv.leggiditaliaprofessionale.it). Cass. 19/12/08 n. 29S32, in Arg. dir. lav.: 2009,3, 857, per la quale il danno esistenziale da dequalificazione è da intendersi «come ogni pregiudizio, di natura non meramente emotiva e interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare aredittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno».
Nel riconoscere e quantificare il danno conseguenza i giudici fondano la loro decisione sulla base delle allegazioni documentali delle parti ricorrenti, ritenute necessarie e imprescindibili. Sotto questo profilo le pronunce si allineano all'indirizzo ermeneutico maggioritario che, appunto, individua l'onere della prova, anche per presunzioni, in capo al lavoratore nel rispetto dei canoni dettati dall'art. 2697 c.c.. Si veda in proposito Cass. 11/8/98 n. 7905; Cass. 19/12/08 n. 29832, per la quale «In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale (da intendere come ogni pregiudizio, di natura non meramente emotiva e interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare aredittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno) va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievi la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno e all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno»; Cass. sez. lav. 26/2/09 n. 4652; Cass. sez, I, 2/8/06 n. 17654; Cass. sez. lav. 26/6/06 n. 14729, in  www.leggiditaliaprofessionale.it. Questa interpretazione che colloca sul lavoratore l'onere dalla prova si distingue dal minoritario, e ormai anche più risalente, indirizzo che, proprio con riferimento al danno da demansionamento, statuiva che in caso di violazione dell'art. 2103 c.c. fosse possibile presumere il danno subito quale sussistente in re ipsa essendo la lesione automaticamente conse­guente al demansionamento e non essendo pertanto necessario provarla in giudizio, essendo quindi sufficiente liquidarla in via equitativa. (Per una ricostruzione sistematica del tema e precedenti giurisprudenziali, P. Primaverile, «Sul cd. danno esistenziale sofferto dal prestatore di lavoro assegnato a mansioni inferiori», in Arg. dir. lav. 2009,3, 857).
Infine, sulla rilevanza del consenso del lavoratore adibito a mansioni inferiori ai fini dei risarcimento del danno: Trib. Torino 30/7/08 e Appello Torino 11/5/09, in Arg. dir. lav. 2009,1139, con nota di M.G. Murrone, «Adibizione a mansioni inferiori, decorso del tempo e consenso del lavoratore».

Elena Tanzarella

(fonte: D&L, Riv. crit. dir. lav. 1/2010, p. 177 e ss.)

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