Tribunale Milano 12 febbraio
2010 - Est. Casella - Apice (avv. Nespor e Sergi) c. Università degli Studi
di Milano Bicocca (avv. Romeo, Cardani e Palermo).
Pubblico impiego -
Dequalificazione - Danno alla professionalità -Compromissione della vita
lavorativa e di quella professionale -Risarcimento - Spetta.
Ogni
lavoratore subordinato ha un vero e proprio diritto, ai sensi dell'art. 2103
c.c.,
allo
svolgimento della prestazione secondo la tipologia lavorativa propria della
qualifica
di appartenenza e la violazione di tale diritto (cd. «demansionamento»)
determina la
configurazione di una danno risarcibile, atteso che la negazione o
l'impedimento allo
svolgimento della prestazione lavorativa comportano una lesione del diritto
fondamentale
alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di
lavoro.
(...) Sulle mansioni
superiori
Il ricorrente risulta
inquadrato, come «assistente amministrativo», nell'Area C -posizione
economica C3 (ex VI qualifica funzionale) - ai sensi del Ccnl 1998/2001 del
personale comparto Università.
La VI qualifica funzionale era
così descritta dal DCPM 24/9/81: a) complessità di lavoro che
richiede una specifica formazione professionale relativa agli aspetti
teorici con il possesso del conseguente titolo ove la legge lo richieda;
conoscenza particolare delle modalità e la reale capacità d'uso di
determinati strumenti o di esecuzione di determinate procedure o tecniche;
b) autonomia nell'esecuzione del lavoro rapportata alla variabilità
delle condizioni operative, tale autonomia si manifesta nell'individuazione
delle procedure necessarie alla soluzione delle concrete situazioni di
lavoro, nell'ambito di prescrizioni di massima; c) responsabilità
tecnico-amministrativa e/o organizzativa per le attività direttamente svolte
o per il risultato conseguito dalie unità operative sott'ordinate.
Detta qualifica funzionale è
confluita nella nuova categoria C, le cui caratteristiche sono così
delineate nella Tabella A: «- Grado di autonomia: svolgimento di
attività inerenti procedure, con diversi livelli di complessità, basate su
criteri parzialmente prestabiliti; - Grado di responsabilità relativa alla
correttezza complessiva delle procedure gestite».
Il ricorrente ha agito in
giudizio per far accertare l'esercizio di mansioni superiori inquadrabili,
in via principale, in quelle della categoria EP o, in via subordinata, in
quelle della categoria D.
Nell'ambito del pubblico
impiego, l'art. 52 D. Lgs. 30/3/01 n. 165 stabilisce che «l'esercizio di
fatto di mansioni superiori non corrispondenti alla qualifica di
appartenenza non ha effetto ai fini dell'inquadramento del lavoratore o
dell'assegnazione di incarichi di direzione", dovendosi intendere per
«svolgimento di mansioni superiori... soltanto l'attribuzione in modo
prevalente, sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei
compiti propri di queste mansioni». In tali casi, «per il periodo di
effettiva prestazione, il lavoratore ha diritto al trattamento previsto per
la qualifica superiore».
Al di fuori delle ipotesi
menzionate dalla legge o dalla contrattazione collettiva, l'assegnazione a
mansioni superiori è affetta da nullità (comma 5). Dalla nullità dell'atto
discende la possibilità del lavoratore di sottrarsi all'ordine illegittimo,
mentre è assodato che l'amministrazione possa negare al medesimo il diritto
al trattamento economico corrispondente alla qualifica superiore.
Lo svolgimento di mansioni
superiori senza un provvedimento di assegnazione, pur essendo
irrilevante sotto il profilo dell'inquadramento, determina anch'esso il
diritto alle differenze retributive, non essendo sancita dalla norma citata
alcuna preclusione in tal senso. Bisogna, quindi, attribuire rilevanza
giuridica, alla stregua di assegnazione per facta concludentia di
mansioni superiori, a quell'atteggiamento di consapevole tolleranza
mantenuta dal datore di lavoro.
Dall'attribuzione di mansioni
superiori, quindi, non scaturisce per il dipendente un diritto alla
conservazione delle stesse, trattandosi di un provvedimento temporaneo e non
potendo per questo il lavoratore invocare un ridimensionamento della
propria posizione professionale e retributiva. La PA non è tenuta, infatti,
a comunicare al dipendente l'avvio del procedimento organizzatorio volto a
reintegrare la situazione di normalità.
Ciò premesso, affrontiamo
l'esame del caso di specie, tenendo presente che - per consolidata
giurisprudenza - nel procedimento logico giuridico diretto alla
determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato non può
prescindersi da tre fasi successive, e cioè, dall'accertamento in fatto
delle attività lavorative in concreto svolte, dall'individuazione delle
qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e dal
raffronto dei risultati di tali due indagini (vedi Cass. 22/8/07 n. 17896).
Orbene, nella specie, è emerso
dall'istruttoria espletata che il ricorrente ha effettivamente svolto a
partire dal gennaio 1999 mansioni superiori al proprio inquadramento.
In primo luogo, occorre
evidenziare che l'Università non ha affatto contestato che il ricorrente
abbia svolto le mansioni dedotte nel ricorso: in particolare, tra le
numerose attività svolte dal ricorrente, l'Università riconosce che il
dottor Apice «svolgeva un'attività di comunicazione, organizzazione e
promozione svolta in nome e per conto dell'Università, sotto la direzione e
responsabilità dei docenti titolari delle ricerche scientifiche e dei
progetti didattici» (p.to 48, p. 16 memoria difensiva). Riconosce inoltre
che svolgeva attività di coordinamento organizzativo, curando «i contatti
con di eventuali soggetti pubblici e privati coinvolti e interessati alle
ricerche, gestendo altresì l'organizzazione delle riunioni cui prendevano
parte, in veste ufficiale, i docenti interessati» (p.to 20, p. 7), di
supporto organizzativo nell'ambito delle numerose ricerche condotte dai
docenti, di gestione dei «contatti con società private ed enti pubblici
anche al fine di favorire eventuali patrocini per le ricerche dei docenti» (p.to
23, p. 8), di contatto con direttori di testate giornalistiche «proponendo
loro di pubblicare articoli che menzionassero i risultati degli studi e
delle ricerche svolte dai docenti della Facoltà» (p.to 25, p. 9). Riconosce
infine che il ricorrente si è occupato dell'organizzazione di seminari,
della «Guida dello studente», nonché dell'organizzazione di eventi, mostre e
convegni. L'Università sostiene però che tutte le suddette prestazioni siano
proprie del profilo professionale - categoria C - cui appartiene il
ricorrente e facciano parte delle normali funzioni della «segreteria
organizzativa di eventi». Sostiene inoltre che il ricorrente, abbia svolto
le dette prestazioni del tutto spontaneamente, senza alcun incarico formale.
In realtà, è emerso nel corso
dell'istruttoria che, da un lato, le prestazioni del ricorrente erano
richieste, approvate e utilizzate dai docenti con i quali ha lavorato e dai
propri responsabili e, dall'altro, che l'incarico, per quello che può
servire, è stato addirittura formalizzato come confermato dal prof. Antonio
De Lillo che ha riconosciuto la paternità di un documento avente a oggetto
assegnazione dei compiti del personale in organico preso la Facoltà «da cui
risulta che al ricorrente era stato assegnato l'Ufficio Relazioni esterne» (ud.
10/11/08).
I testimoni escussi in sede
istruttoria hanno riferito quanto segue:
- prof. Antonio De Lillo,
Preside della Facoltà di Sociologia fino al 2004: «la prima collaborazione
con il ricorrente è avvenuta quando ancora eravamo nell'Università Statale
anche per l'organizzazione di un grosso Convegno «Milano Diritto e Rovescio»
tenutosi nel 1997. In tale periodo ho potuto apprezzare le capacità
organizzative e di relazione messe in mostra dai ricorrente... il ricorrente
si occupava, tra l'altro, di mantenere i contatti con l'esterno e, in
particolare, con la stampa. Ricordo che mi proponeva alcune iniziative di
comunicazione (comunicati stampa) che mi sottoponeva. Io provvedevo a
vagliare l'iniziativa e autorizzavo a diffonderla. Posso confermare che il
ricorrente individuò una società di pubblicità per la creazione del logo
dell'Ateneo... so che l'incarico gli fu affidato dal Rettore... ricordo solo
che il logo venne eseguito gratuitamente evitando una gara per la sua
realizzazione... Ricordo che fu il ricorrente a reperire e a tenere i
contatti con i committenti esterni per le ricerche titolate «le professioni
più amate dagli italiani». «Le rivelazioni delle immagini che gli italiani
hanno delle occupazioni». «I giovani e i loro stili di vita» ... trattasi di
contratti procurati dal ricorrente... ricordo che li ricorrente teneva i
contatti con alcuni assessori per organizzare queste attività che venivano
poi effettuate dai docenti... il ricorrente si è occupato anche del
coordinamento redazione della guida alla didattica e ai servizi della
Facoltà, tenendo i rapporti coi singoli professori... Posso aggiungere che
la rete di conoscenze e capacità comunicative del ricorrente erano
concretamente utilizzate anche da altri docenti della Facoltà. Sono rimasto
Preside della Facoltà sino al 30/9/04. Fino ad allora mi sembra che le
attività del ricorrente siano rimaste inalterate e fotografate nel documento
che mi è stato rammostrato»; prof. Terenzio Mingione, docente
dell'Università dal 2000 e Preside della Facoltà di Sociologia dal 2004, il
quale ha riferito che il dott. Apice si era occupato dell'attività di
redazione della «Guida dello studente» per almeno un anno, nonché
dell’attività di interazione tra le ricerche svolte nella Facoltà e la
stampa», precisando che «di quest'ultima attività si occupava solo il dott.
Apice».
-Sig.ra Barbara Muzio, Capo
ufficio Amministrativo della Facoltà di Sociologia:
«Il dr. Apice si occupava
delle relazioni esterne e, in particolare, della promozione della Facoltà e
reperimento di fondi e sponsor... Ricordo altresì che vi era una targhetta
sulla porta del dott. Apice con scritto «Ufficio relazioni esterne..., delle
relazioni esterne se ne occupava solo il ricorrente e lo stesso faceva per
la stampa... Ricordo altresì che procurò alcuni contratti di ricerca per il
Dipartimento e ricordo che, grazie alla sua attività, la Facoltà era citata
più volte sugli organi di stampa... ricordo che fu il ricorrente a
organizzare l'importante evento «Milano diritto e rovescio». In particolare,
l'attività svolta dal ricorrente consisteva nel contattare le persone,
individuare la location, reperire eventuali sponsor... il dott. Apice
proponeva tutto al Preside De Lillo per l'approvazione. L'attività del
ricorrente non era meramente esecutiva, ma propositiva e veniva svolta
autonomamente... Una parte degli eventi organizzati avevano un buon
riscontro nel pubblico nel senso che aumentava la visibilità della Facoltà.
Con riferimento all'attività di ricerca, ricordo che il ricorrente è
riuscito a procurare alcuni contratti di ricerca tra cui quello
commissionato da Johnson & Johnson e da Procter & Gamble... Sul logo posso
riferire che se ne è occupato il ricorrente... La prima volta che ho visto
il logo definitivo [è stato] nell'ufficio del ricorrente che me lo mostrò...
Quanto alla «Guida dello studente», preciso che il ricorrente se ne occupò
per circa tre anni.,. il ricorrente si occupava dell'informazione generale,
della grafica e della pubblicazione... il ricorrente si occupava da solo,
col mio aiuto sopra specificato, della guida. La bozza finale veniva poi
visionata dal Preside per l'approvazione»;
-prof. Guido Martinetti,
professore dell’Università Bicocca ha riferito che il ricorrente, con
riferimento all'attività didattica, «collaborava agli esami, alla didattica
e ha seguito uno o due laureandi. Non so se il ricorrente abbia tenuto
qualche lezione, ma ciò è possibile... Ho sempre riconosciuto al ricorrente
capacità con le relazioni esterne. Ricordo che con me si era occupato in via
informale della costituzione di una associazione tra Pirelli e l'Ateneo,
mettendosi in contatto con il responsabile delle relazioni esterne di
Pirelli, Gianluca Wrinkler, progetto che è stato poi realizzato
dall'Ateneo... posso riferire che il dott. Apice si occupò
dell'organizzazione di un importante convegno con la Triennale che ebbe
grande successo». Il teste ricorda altresì che «si era prospettata la
realizzazione di un ufficio stampa dell'ateneo... Di tale eventualità ne
parlai con il ricorrente, prospettandogli il mio sostegno per il suo
inserimento in tale ufficio come addetto».
Dall'istruttoria è, pertanto,
emerso in modo inequivocabile che il ricorrente abbia svolto le mansioni
indicate nell'atto introduttivo e, in particolare, dimostrando la propria
capacità - riconosciutagli da tutti i testi, escussi - di gestire e tenere
le relazioni con l'esterno nonché di organizzazione e mantenere i rapporti
con la stampa in modo tale da permettere all'Università di trarre profitto
da tale sua attività relazionale.
È emerso altresì che il
ricorrente svolgeva la sua attività in autonomia, riferendo solo ai suoi
superiori, i quali — sulla base delle sue riconosciute capacità - gli hanno
addirittura formalizzato l'incarico e prospettato un suo coinvolgimento
nella creazione (formale) di un Ufficio Stampa e relazioni esterne
dell'Università.
Il ricorrente, quindi, non si
limitava a svolgere attività meramente operative vincolate a «procedure»
definite e con un ridottissimo margine di autonomia (tipiche dell'area C),
ma mansioni rientranti nella superiore area D, caratterizzate da una
maggiore professionalità, le cui funzioni implicano «diverse soluzioni non
prestabilite», gestite e adottate autonomamente dal lavoratore. Non per
niente, appartiene a questa categoria, l'attuale responsabile dell'Ufficio
relazioni esterne dell'ateneo.
Il ricorrente, quindi, ha il
diritto di percepire le differenze retributive tra la qualifica di
appartenenza (C3) e la qualifica immediatamente superiore corrispondente
alle mansioni (D1) svolte nel periodo dal 25/1/99 al 31/12/03.
Conseguentemente l'Università resistente è tenuta a corrispondere le
predette differenze (unitamente alle indennità di ateneo) con interessi
legali e rivalutazione monetaria dalle singole scadenze al saldo effettivo.
Non può essere accolta la
domanda principale, in quanto le mansioni effettivamente svolte dal
ricorrente non possono farsi rientrare in quelle proprie della categoria EP
(ex IX qualifica funzionale), caratterizzata da un «alto contenuto di
professionalità» e da un grado di autonomia «relativa alla soluzione di
problemi complessi di carattere organizzativo e/o professionale».
Sul demansionamento
In via generale, allorquando
da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o venga dedotto
un demansionamento riconducibili a un inesatto adempimento dell'obbligo
gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 c.c., è su
quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo
obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi
dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l'una o
l'altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri
imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale
risultante dall'art. 1218 c.c., da un'impossibilità della prestazione
derivante da causa a lui non imputabile (Cass. 6/3/06 n. 4766).
Nella specie, il ricorrente ha
lamentato un demansionamento a partire dalla fine del 2003, allorquando, a
seguito del procedimento disciplinare a cui non è seguita peraltro alcuna
sanzione, è stato privato di ogni mansione.
Sul punto, l'Università non ha
fornito alcuna prova che potesse contrastare le affermazioni del ricorrente.
Anzi, l'istruttoria ha pienamente confermata situazione prospettata dal
dott. Apice.
Il teste, prof. Terenzio
Mingione, preside della Facoltà dal 2004 ha, infatti, riferito: «dal 2004 al
2006 io personalmente non ho affidato alcun incarico amministrativo al dott.
Apice in attesa di determinazioni da parte dell'Amministrazione centrale la
quale, alla fine del 2006, mi comunicò che, avendo già costituito l'Ufficio
Stampa senza prevedere l'utilizzo del ricorrente, avrei potuto dare
incarichi amministrativi al dott. Apice». Il teste ha poi riferito di aver
affidato al ricorrente alcuni incarichi «di carattere non continuativo», tra
cui la catalogazione dei nuovi acquisti della Facoltà e il montaggio e lo
smontaggio di una Mostra fotografica. Emblematiche, sul punto, appaiono le
dichiarazioni della teste Barbara Muzio, secondo la quale, in seguito alla
pubblicazione dell'articolo sul settimanale «Panorama» (2003), il ricorrente
«è rimasto privo di alcuna mansione... Sostanzialmente con l'avvento del
nuovo Preside l'organigramma è rimasto identico, mentre con riferimento al
dott. Apice c'è stato uno svuotamento di mansioni».
Non può esserci pertanto alcun
dubbio sul demansionamento subito dal ricorrente che, tuttora, non svolge
alcuna mansione, compresa tra quelle di cui al profilo professionale
contrattualmente previsto.
Come sostenuto dalla costante
giurisprudenza (vedi, ex plurimis, Cass. 8/3/06 n. 4975), ogni
lavoratore subordinato ha un vero e proprio diritto, ai sensi dell'art. 2103
c.c., allo svolgimento della prestazione secondo la tipologia lavorativa
propria della qualifica di appartenenza e la violazione di tale diritto (cd.
«demansionamento») determina la configurazione di un danno risarcibile,
atteso che la negazione o l'impedimento allo svolgimento della prestazione
lavorativa comportano una lesione del diritto fondamentale alla libera
esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro,
implicando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione
dell' interessato.
La valutazione di siffatto
pregiudizio, per sua natura privo delle caratteristiche della patrimonialità,
non può che essere effettuata dal giudice alla stregua di un parametro
equitativo, essendo difficilmente utilizzabili criteri di riferimento
economici o reddituali.
Considerato che il pregiudizio
attiene a un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo
tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato
dall'ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il
giudice può far ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cass. 6/7/02 n.
9834) per la formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di
cui all'art. 2727 c.c. venga offerta una serie concatenata di fatti noti,
ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e
non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all'interno e
all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione
di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale,
eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti
l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, gli effetti negativi
dispiegati nella abitudini di vita del soggetto; da tutte queste
circostanze, complessivamente considerate attraverso un prudente
apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia
all’esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 c.p.c. a quelle
nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel
ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. D'altra parte, in
mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno
esistenziale, non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma
equitativa, perché questa, per non trasmodare nell'arbitrio, necessita di
parametri a cui ancorarsi.
Nella specie, è evidente che
il lungo periodo di forzata inerzia subita dal ricorrente abbia compromesso
la sua professionalità, impedendogli di esplicare la propria
professionalità, perdendo la possibilità di un ulteriore arricchimento e
aggiornamento del suo bagaglio professionale con grave nocumento al
prestigio e alla visibilità in ambito lavorativo.
Il danno alla professionalità
subita dal ricorrente viene liquidato, in via equitativa, in misura pari al
50% della retribuzione netta versata per ogni mese successivo al gennaio
2005 sino a oggi.
La domanda finalizzata a
ottenere direttamente dal datore di lavoro il risarcimento del danno
biologico nella misura del 25% è inammissibile, essendo, per tale pretesa,
legittimato passivo l'Inail.
Poiché l'art 10, 1° comma, D.
Lgs. 38/2000 stabilisce una regola di esonero esattamente coincidente con
l'ambito oggettivo di copertura dell'assicurazione, operando detta regola,
il datore di lavoro non è responsabile civilmente per le voci (qualitative)
di danno già oggetto di assicurazione.
Quindi, poiché il danno
biologico è attualmente oggetto di copertura da parte dell'Inail, in
situazione normale di esonero da responsabilità, il datore di lavoro non è
tenuto a risponderne, residuando, al limite, a suo carico solo la
responsabilità per il cd. «danno differenziale», (...)
*******
Tribunale
Lodi 20 maggio 2009 - est. Giuppi - La Rosa (avv. Montagna, Nespor e
Galmozzi) c. Azienda Ospedaliera della Provincia di Lodi (avv. Bottani).
Pubblico impiego –Dequalificazione - Danno alla professionalità
-Nozione - Risarcimento danno conseguenza - Spetta.
La
lesione della dignità professionale del lavoratore, la cui tutela è
espressamente
riconosciuta dagli artt. 2,4 e 32
Cost., costituisce un diritto inviolabile costituzionalmente
protetto e dunque suscettibile di dare luogo a risarcimento dei danni.
(...) Il curriculum
professionale del ricorrente dal 1978 al 1/12/02 - allorché è stata
istituita l'Azienda ospedaliera della provincia di Lodi e il rapporto di
lavoro del ricorrente è stato trasferito alla resistente - è stato
ricostituito con puntualità nel ricorso introduttivo ai punti 1-2-3-4, ha
trovato riscontro nella documentazione prodotta e non è stato oggetto di
contestazione da parte della resistente. In sintesi può ritenersi provato e
fondatamente affermarsi che tutta la carriera del ricorrente dal 1978 a oggi
si è svolta nel campo della medicina del lavoro e che quindi in tale
specializzazione il ricorrente ha maturato una quasi trentennale esperienza
lavorativa nel corso della quale gli sono stati attribuiti anche incarichi
di responsabile di servizio o di unità strutturali (incarico di responsabile
del servizio di protezione e prevenzione mentale e medico competente
conferito in data 1/1/99 dalla Asl; incarico di struttura semplice quale
responsabile dell'unità strutturale attività medico competente e medico
autorizzato conferito in data 23/5/01 dalla Asl).
Il dr. La Rosa lamenta che a
partire dell'anno 2004, è stata attuata nei suoi confronti dalla datrice di
lavoro una progressiva emarginazione consistita nella illegittima revoca
dell'incarico di responsabile dell'«unità strutturale attività medico
competente medico autorizzato» conferitogli dall'Asl in data 23/5/01; nella
progressiva riduzione delle funzioni assegnate e nel sostanziale svuotamento
degli incarichi attribuiti costringendolo a una forzata inattività
professionale.
All'esito dell'istruttoria
deve escludersi che la condotta datoriale, che pure per i motivi che di
seguito verranno esposti deve ritenersi inadempiente agli obblighi nascenti
dal contratto di lavoro, possa in qualche modo qualificarsi come
discriminatoria: in particolare nessun elemento, neppure indiziario,
consente di ritenere che il ricorrente sia stato discriminato per motivi di
carattere politico, e in particolare per la sua militanza in un partito
politico.
Al fine di decidere la
fondatezza delle domande risarcitorie proposte dal ricorrente, prima di
analizzare lo svolgimento dei fatti e le risultanze istruttorie, è
necessario fare alcune premesse circa i principi generali che regolano il
rapporto di lavoro dei dirigenti, l'attribuzione degli incarichi e, più in
generale, la natura degli interessi protetti e degli obblighi dei datori di
lavoro in materia di tutela della professionalità dei lavoratori.
In primis, quale necessaria premessa,
deve essere richiamata l'affermazione reiterata anche di recente da parte
delle Sezioni unite della Suprema Corte (Cass. 24/11/06 n. 2503, ma anche le
note sentenze SS.UU. gemelle dell'11/11/08 sul danno non patrimoniale) che
la professionalità del lavoratore (e quindi anche quella del dirigente),
intesa come complesso di capacità e attitudini, costituisce un bene di
valenza costituzionale la cui lesione da un lato viola la dignità del
lavoratore e dall'altra ne compromette le aspettative di progressione di
carriera.
Per espressa previsione di
legge - art. 19 D. Lgs. 165/01 TU pubblico impiego, come sostituito
dall'art. 3, comma 1, lett. a) della L. 15/7/02 n. 245 - al
conferimento degli incarichi e al passaggio di incarichi diversi non si
applica l'art. 2103 del codice civile in materia di equivalenza delie
mansioni. La norma, che peraltro conferma un principio affermato in
giurisprudenza come valido anche per il periodo antecedente la sua
reintroduzione (Cass. 19/12/08 n. 29817), in sostanza, stabilisce in maniera
chiara che nel passaggio da un incarico a un altro incarico dirigenziale il
dirigente non può invocare il principio della equivalenza delle mansioni e
quindi stigmatizza, coerentemente con l'idea che non ci sia una vera e
propria carriera dirigenziale intesa quale successione di incarichi di
rilievo, l'assenza di un qualsiasi diritto del dirigente al mantenimento di
un incarico di medesimo livello.
La giurisprudenza di
legittimità ha però affermato che nella attribuzione e nella revoca degli
incarichi la pubblica amministrazione è tenuta al rispetto degli obblighi
contrattuali di correttezza e buona fede. In particolare la Suprema Corte
(Sezione Lavoro 1/4/08 n. 981), ha affermate che, in materia di rapporto
d'impiego, i poteri della pubblica amministrazione, pur avendo, a seguito
della riforma del pubblico impiego, natura privatistica, incontrano limiti
posti da disposizioni contrattuali o normative, da ritenersi integrate dalle
regole di correttezza e buona fede. Vengono in considerazione le norme
contenute nell'art. 19, comma 1, D. Lgs. 165/01: «Per il conferimento di
ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla
natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e
delle capacità professionali del singolo dirigente, valutate anche in
considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi
fissati nella direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo del
Ministero...». Questa disposizione - ha affermato la Corte - obbliga,
dunque, l'amministrazione datrice di lavoro al rispetto degli indicati
criteri di massima e, necessariamente, anche per il tramite delle clausole
generali di correttezza e buona fede, «procedimentalizza» l'esercizio del
potere di conferimento degli incarichi (obbligando a valutazioni anche
comparative, a consentire forme adeguate di partecipazione ai processi
decisionali, a esternare le ragioni giustificatrici delle scelte).
Tanto premesso in ordine ai
principi generali che regolano la materia dell'attribuzione degli incarichi
dirigenziali, passando all'esame del merito della fattispecie sottoposta al
vaglio del giudice in questo procedimento, deve affermarsi che l'esclusione
dell'applicazione dell'art. 2103 c.c. al rapporto di lavoro del dirigente,
fa sì che nella fattispecie in esame sia superflua ogni indagine circa
l'equivalenza degli incarichi attribuiti nel tempo al ricorrente.
La fattispecie concreta,
tuttavia, così come allegata da parte ricorrente, almeno in parte sfugge
alla problematica relativa all'equivalenza degli incarichi, rientrando in
quella diversa della sottrazione pressoché integrale delle funzioni
attribuite: in altre parole il ricorrente lamenta anche una inaccettabile
riduzione quantitativa del lavoro assegnato. La sottrazione delle mansioni
costituisce un inadempimento del datore di lavoro agli obblighi contrattuali
che è certamente vietata anche nel rapporto di pubblico impiego.
L'istruttoria compiuta e la
documentazione prodotta, nonché le stesse parziali ammissioni dell'azienda
resistente, provano che l'incarico, o comunque le funzioni attribuite e in
concreto esercitate dal dottor La Rosa dal giugno 2004 di fatto sono prive
di contenuto quanto meno sotto l'aspetto quantitativo.
Con deliberazione n. 509 dei
17/6/04 il commissario straordinario, nell'ambito della riorganizzazione
delle attività di sorveglianza sanitaria, ha affidato al ricorrente la
sorveglianza sanitaria per i lavoratori dipendenti da terzi, mentre la
sorveglianza sanitaria per il personale dipendente (fino a quel momento
esercitata dal ricorrente) è stata affidata al medico competente in
convenzione. In sostanza, in base a una valutazione, la cui opportunità è
ovviamente sottratta al sindacato del giudice ordinario (potendo rilevare
eventualmente, sotto il diverso profilo della responsabilità per danno
erariale), l'azienda ospedaliera ha ritenuto di dover affidare al personale
dipendente, e quindi al dottor La Rosa dirigente medico di primo livello, le
funzioni di medico competente per il personale esterno; mentre le
corrispondenti funzioni di medico competente per il personale dipendente
dell'azienda ospedaliera non legato da un rapporto di subordinazione con
l'azienda ospedaliera ma operante, in regime di convenzione.
L'istruttoria testimoniale ha
confermato la tesi del ricorrente secondo il quale il numero di convenzioni
in essere fra l'azienda ospedaliera e datori di lavoro esterni è sempre
stata così esigua da lasciare il ricorrente praticamente inattivo per gran
parte della giornata lavorativa.
Il teste dr. Valerio,
direttore medico del presidio di Casalpusterlengo e Codogno, circa
l'attività svolta dai ricorrente ha così riferito: «Nel 2003, preso servizio
presso il presidio di Casale e Codogno, mi resi conto che il dottor La Rosa
di fatto non aveva alcun incarico: si limitava a fare qualche visita come
medico del lavoro per ditte esterne. Chiesi spiegazioni perché non era bello
vedere un medico aggirarsi senza far nulla e vi erano alcuni colleghi che si
lamentavano di essere viceversa oberati di lavoro. Mi fu detto che il
ricorrente era stato sollevato dall'incarico di medico competente, incarico
che aveva avuto fiduciariamente dal precedente direttore generale. Il nuovo
direttore generale aveva affidato l'incarico al dottor Moliari. Mi venne
anche detto che l'azienda ospedaliera aveva incaricato la dottoressa
Cacciatori di promuovere l'attività di medicina del lavoro presso aziende
esterne e che dunque tale promozione avrebbe dovuto riempire di contenuto le
funzioni del dottor La Rosa. Per quello che ho potuto vedere io la
promozione non ha avuto esito se non per uno o due potenziali clienti. Mi
feci promotore di una proposta di incarico presso il reparto di oncologia in
qualità di collaboratore nell'attività di ricerca nell'estate 2005».
L'amministrazione
costituendosi ha peraltro riconosciuto la esiguità quantitativa
dell'attività svolta dal ricorrente, che peraltro neppure in passato, quando
svolgeva le funzioni di medico competente per il personale dipendente
dell'Asl, sarebbe stata tale da occuparne a tempo pieno la giornata
lavorativa e anzi ne lasciavano scoperta la maggior parte (testuale,
comparsa di costituzione pp. 6-7): «Nulla, assolutamente nulla diversifica
la prestazione del medico competente rispetto ai destinatari del suo
operato, siano cioè essi interni o di esterni all'azienda ospedaliera, ma
certamente non così dovette sembrare ai dottor La Rosa. Nella sostanza dei
fatti, posto che per protocolli comunemente adottati e in vigore il tempo
utilizzato per ciascuna lista di controllo sui lavoratori da parte del
medico competente ha una durata di 15 minuti e considerato che la
prestazione standard di un dirigente medico nei confronti dell'azienda
ospedaliera (quella per intendersi per la quale riceve una regolare
retribuzione) ammonta circa 1500 ore annue di lavoro, è facile determinare
come anche nei periodi di picco l'impegno del ricorrente nella sua veste di
medico competente interno (e prendiamo per buone senza discussioni inutili
le tabelle approntate in ricorso) non superava le 350 ore annue. Si
aggiungano le visite esterne (che in realtà raramente sono più di 10 in un
anno) e le relazioni di servizio (ne è richiesta una solo annua); a voler
tutto concedere ed essere ottimisti l'impegno profuso dal dottor La Rosa nel
proprio standard lavorativo, che in ricorso viene descritto come pieno e
assorbente, non poteva superare le 500 ore annue. Ci si chiede con quale
utilizzo delle restanti 1000 ore, ma il dato qui non rileva se non per far
risaltare comparativamente come il monte ore assegnato a fronte delle
convenzioni esterne già in essere con l'azienda ospedaliera erano
perfettamente compatibili con il suo naturale e consueto iter lavorativo.
Non solo, ma esse erano nelle idee dell'azienda a fronte di richieste
esterne assolutamente incrementabili se solo si fosse seguito il doveroso
criterio di dare seguito puntuale ai contatti che gli uffici amministrativi
dell’azienda ospedaliera andavano tessendo e predisponendo per ampliare la
fascia dei soggetti serviti dall'ufficio del medico competente esterno».
L'amministrazione, attribuendo
al ricorrente la responsabilità della inoperosità e della mancanza di
convenzioni esterne, eccepisce, in sintesi, l'inadempimento del ricorrente
agli obblighi contrattuali.
L'istruttoria svolta ha
smentito la tesi difensiva dell'Azienda Ospedaliera: i clienti convenzionati
con l'azienda Ospedaliera per il servizio del Medico competente erano in
numero esiguo al momento dell'attribuzione dell'incarico al dott. La Rosa e
nessuno dei testi chiamati a deporre ha confermato la tesi della resistente
circa l'attribuibilità
della risoluzione della convenzione o del suo mancato perfezionamento alla
condotta professionale del ricorrente.
Infine, l'istruttoria non ha
fornito neppure labili elementi indiziari circa la eccepita preordinata
attività del ricorrente volta allo svuotamento dell'incarico e alla
colpevole alterazione del proprio ruolo: è sufficiente aggiungere che non
solo non è provata ma non è neppure allegata una qualsiasi anche se blanda,
reazione da parte dell'Amministrazione alla inoperosità del dirigente e alla
negligenza o imperizia nello svolgimento delle prestazioni.
Deve in sintesi concludersi
che quando nel giugno 2004 l’AO ha attribuito al dott. La Rosa l'incarico di
medico competente per gli esterni era consapevole che, dato l'esiguo numero
di convenzioni, l'attività del Dr. La Rosa sarebbe stata cosi limitata in
termini di impegno professionale, da renderlo praticamente inattivo per la
maggior parte della giornata lavorativa.
L'amministrazione, dunque,
nell'attribuzione e nella scelta dell'incarico attribuito al dott. La Rosa
si è resa inadempiente non solo ai già richiamati principi che l'art. 19 TU
indica quali criteri per la scelta degli incarico, ma ai più generali
obblighi di correttezza e buona fede per aver affidato al dirigente un
incarico di fatto privo di contenuto. Si ripete che la sottrazione pressoché
integrale di ogni funzione è vietata anche l'attribuzione «informale» del
ruolo di addetto alla segreteria scientifica del reparto di oncologi,
costituisce un pesante indizio della volontà di mortificare la dignità
professionale del ricorrente tenuto conto della specializzazione
(l'oncologia, mentre l'esperienza professionale del ricorrente è maturata
nel diverso campo della medicina del lavoro) e del ruolo segretariale che -
in assenza di altre specificazioni - non si concilia con l'esercizio
dell'arte medica.
Deve dunque affermarsi che a
partire dal giugno 2004 l'Amministrazione si è resa dapprima inadempiente
all'obbligo correttezza e buona fede nella scelta dell'incarico attribuito
al dott. La Rosa (compatibile con la sua pregressa esperienza professionale
ma di fatto privo di contenuto, in assenza di convenzioni esterne tali da
giustificare l'attribuzione dell'incarico) e successivamente all'obbligo di
eseguire il contratto e cioè di consentire ai dirigente di esplicare la
propria attività lavorativa in conformità alle modalità pattuite.
Quanto alle conseguenze di
tale inadempimento deve ritenersi provato il danno non patrimoniale
conseguente alla lesione della professionalità e della salute.
Si rende necessario il
sintetico richiamo alla teoria sui danno non patrimoniale come elaborata
dalle Sezioni Unite, intervenute nelle more del giudizio.
Per quel che qui rileva ai
fini della risarcibilità del danno non patrimoniale subito dal ricorrente, è
necessario richiamare i seguenti principi di carattere generale affermati
dalla corte di legittimità (Cass. sez. un. civili 11/11/08 n. 26972): «La
risarcibilità del danno non patrimoniale e ammessa oltre che nelle ipotesi
espressamente previste da una norma di legge, nei casi in cui il fatto
illecito vulneri diritti inviolabili della persona costituzionalmente
protetti. In assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla
legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purché conseguenti
alla lesione di un diritto inviolabile della persona costituzionalmente
protetto.
Ai fini della risarcibilità
del danno non patrimoniale conseguente alla lesione dei diritti
costituzionali inviolabili, occorre che l'offesa arrecata al diritto sia
grave e il pregiudizio sia serio.
Posto che il danno non
patrimoniale identificandosi con il danno determinato dalla lesione di
interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica è
categoria generale, non suscettibile di suddivisione in sottocategorie
variamente etichettate, va esclusa la sussistenza di un'autonoma categoria
denominata danno esistenziale.
Anche dall'inadempimento di
un'obbligazione contrattuale può derivare un danno non patrimoniale il cui
risarcimento è regolato secondo le norme dettate in materia di
responsabilità contrattuale.
Il risarcimento del danno alla
persona deve essere integrale senza dar luogo a duplicazioni.
Il danno non patrimoniale
anche quando sia determinato dalla lesione dei diritti inviolabili della
persona costituisce danno conseguenza, che deve essere allegato e provato; a
tal fine il giudice può far ricorso a presunzioni, ma il danneggiato dovrà
comunque allegare tutti gli elementi idonei a fornire nella concreta
fattispecie la serie concatenata dì fatti noti che consentono di risalire al
fatto ignoto».
A tali principi intende
aderire il giudice nella presente causa ai fini del riconoscimento e della
liquidazione del danno alla professionalità e alla salute subito dal
ricorrente.
Quanto alla professionalità le
Sezioni unite (par. 4.5) riconoscono che la lesione della dignità personale
del lavoratore, la cui tutela è espressamente riconosciuta dagli artt. 2, 4
e 32 della Costituzione, costituisce un diritto inviolabile
costituzionalmente protetto e dunque suscettibile di dare luogo a
risarcimento dei danni conseguenza sotto il profilo della dignità personale
del lavoratore e affermano che tale lesione si verifica ogni volta in cui vi
sia un pregiudizio alla professionalità da dequalificazione che si risolva
nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del
lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa.
Nel caso in esame la
prolungata e pluriennale inattività del ricorrente e il suo isolamento
professionale costituiscono senza alcun danno alla professionalità di medico
del lavoro, che privato della possibilità di esercitare in concreto le
mansioni di medico competente, ha visto progressivamente negli anni
impoverirsi la sua conoscenza e pratica professionale.
Quanto alla lesione dei
diritto alla salute, ha trovato riscontro nella relazione di consulenza
depositata dal consulente - dott Scagliusi - nominato d'ufficio dal giudice
che ha concluso per l'esistenza di un danno riconducibile all'attività
lavorativa quantificabile in ragione del 22-23% di invalidità permanente e,
quanto alla invalidità temporanea pari al 75% per un mese, per altri tre
mesi al 50% e per i successivi 3 al 25%.
Il giudice fa proprio il
giudizio espresso dal consulente tecnico che ha formulato le proprie
conclusioni, dopo aver esaminato il paziente, la documentazione clinica gli
atti e dopo aver sottoposto il ricorrente a test psicologici, oltre ad aver
preso visione delle risultanze dell’istruttoria dibattimentale. Il giudizio
del consulente è immune da vizi logici e non lascia spazi per ritenere che
la malattia psichica da cui è affetto il ricorrente abbia una causa diversa
da quella legata all'ambiente di lavoro.
La liquidazione del danno
patrimoniale, nelle sue diverse componenti, deve essere fatta in via
equitativa ex art. 1226 c.c.
Quanto alla componente legata
alla lesione della dignità professionale il giudice, in conformità a
precedenti sentenze di merito, ritiene di poter liquidare il danno usando
come parametro di riferimento una percentuale della retribuzione mensile
(pari a € 3.378,36). Nel caso in esame. lo svuotamento delle mansioni
perdura dal giugno 2004 e dunque, al momento della pronuncia della sentenza,
da circa cinque anni, pari a 60 mesi. Tenuto conto, in ragione della gravità
dell'inadempimento e delle conseguenze sulla professionalità nel caso
concreto, di una percentuale della retribuzione mensile di € 1.500 (di poco
inferiore al 50% di quella intera), il danno patrimoniale può essere
liquidato in € 90.000 (€ 1.500,00 x 60 mesi).
Quanto al danno biologico,
tenuto conto dei parametri in uso presso i tribunali del distretto di
Milano, in relazione alla natura e alla gravità (23% di invalidità
permanente) della patologia da cui è affetto il ricorrente e all'età dello
stesso, ma anche dei principi affermati dalle sopra richiamate sentenze
gemelle del novembre 2008 (laddove si richiama la necessità di evitare
duplicazioni ma anche la necessità di garantire un serio ristoro nei casi di
gravità della lesione - quale deve ritenersi presente nel caso in esame)
deve essere liquidato in complessivi € 64.000 (di cui 5.807,96 a titolo di
danno biologico secondo il calcolo proposto dal ricorrente nella memoria del
27/3/09 (p. 10).
Il danno non patrimoniale deve
quindi essere liquidato in complessivi € 154.000, oltre interessi legali e
rivalutazione monetaria dalla pronuncia al saldo.
Il giudice, che ha condannato
il datore di lavoro anche al risarcimento del danno alla salute, ritiene che
nel caso in esame non operi il principio dell'esonero del datore di lavoro
ex art. 10, comma 1, DPR 1124/65. Come noto, tale norma prevede che
l'assicurazione infortuni e malattie professionali esonera il datore di
lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro e le
malattie professionali. Si pone dunque il problema di verificare se la
malattia da cui è affetto il ricorrente sia coperta dall'assicurazione Inail
di cui al DPR 30/6/65 n. 1124, che a seguito dell'entrata in vigore del D.
Lgs. 23/2/2000 n. 38 copre anche il danno biologico.
Nelle more del giudizio, con
pronuncia di poco anteriore a quella di questo giudice, nella materia è
intervenuto il Consiglio di Stato con una decisione che, seppure contrastata
da taluni commentatori, il giudice ritiene di dovere condividere, almeno in
relazione alla fattispecie concreta di questo giudizio.
Il Consiglio di Stato, sez. VI,
con sentenza n. 1576/09 ha affermato i seguenti principi: «va confermata la
sentenza di annullamento della circolare Inail 71/03 sulla cosiddetta
costrittività organizzativa nei luoghi di lavoro che connette l'insorgere di
malattie psichiche o psicosomatiche a determinati fattori di nocività,
prescindendo dalla necessità di dimostrazione del nesso di causalità, che in
questi casi grava sul lavoratore».
Va annullato il decreto del
Ministero del lavoro 27/4/04 relativo ali individuazione delle malattie per
le quali è obbligatoria la denuncia ai sensi e per gli effetti dell'art. 139
DPR 30/6/65 n. 1124, nella parte in cui, approvando la lista H, contenente
le «malattie la cui origine lavorativa e illimitata probabilità», vi ha
inserito il gruppo numero sette concernente «malattie psicosomatiche da
disfunzione dell’organizzazione del lavoro».
il Consiglio di Stato, nella
motivazione delle sentenza, ha così argomentato: «Nell'ordine logico delle
questioni da affrontare va poi esaminato il quarto motivo di appello,
censurante l'affermazione principale del capo di sentenza di accoglimento in
primo grado (e che in verità già in quella sede avrebbe avuto carattere
assorbente), implicante cioè autonomamente l'annullamento della circolare
impugnata; si ha riguardo alla statuizione che ha stabilito che le malattie
professionali "non tabellare" possono essere indennizzate soltanto se
causalmente ricollegate al "rischio specifico" di una delle lavorazioni
elencate dalla legge ai fini dell'individuazione dei soggetti tutelabili o,
più precisamente, dell'oggetto (ambito dell'attività lavorativa protetta)
della stessa assicurazione. E infatti, l'individuazione delle lavorazioni in
questione più che determinare i soggetti da assicurare, che sono comunque,
in linea di principio, i lavoratori dipendenti, conduce a circoscrivere le
situazioni di fatto "lavorative" considerate in sé rischiose e comunque
definisce l'oggetto naturale del rapporto assicurativo di natura
pubblicistica».
2.1. Il punto da
trattare attiene quindi all'accoglimento relativo al quarto motivo di
ricorso di primo grado, in cui si deduceva che la soluzione apprestata dalla
circolare in ordine alla possibilità di intervento in materia di patologie
psichiche determinate dalle condizioni organizzativo/ambientali, non
troverebbe supporto nella sentenza della Corte Costituzionale 18/2/88 n.
179, richiamata dalla circolare impugnata come fondamento di una
interpretazione aderente all'evoluzione delle forme di organizzazione dei
processi produttivi.
La statuizione del Tar sul
punto deve essere confermata.
2.2. Sostiene l'appello
che tale pronuncia del giudice delle leggi avrebbe introdotto un sistema cd.
"misto", che superando il sistema tabellare chiuso, renderebbe tutelabile
qualsiasi malattia di cui sia provata la derivazione eziologica dal lavoro,
fermo rimanendo il riferimento al rischio specifico di una determinata
lavorazione soltanto per le malattie "tabellate", cioè incluse nell'elenco
previsto dall'art. 3 del DPR 30/6/65 n. 1124, per le quali vige la
presunzione semplice di origine professionale.
Tale assunto è in realtà
infondato, dovendo condividersi all'affermazione del Tar per cui,
contrariamente a esso, il sistema misto opera nel senso che la malattia
professionale è indennizzata, indipendentemente dalla sua inclusione nelle
tabelle allegate al DPR 30/6/65 n. 1124, se trova la sua derivazione causale
nell'esercizio di una delle lavorazioni di cui al precedente art. 1 dello
stesso DPR, come appunto dedotto nel menzionato quarto motivo del ricorso di
primo grado.
2.3. Va cioè condivisa
la censura dedotta in prime cure, per cui l'art. 1 del cit. DPR 1124/65 ha
condizionato l'intervento dell'assicurazione obbligatoria per le malattie
professionali, anche non tabellate, alla sussistenza di un "rischio
specifico" (e non già comune), cui è esposto il lavoratore addetto a
determinare lavorazioni, presuntivamente e preventivamente valutate
pericoloso dal legislatore stesso, mediante, appunto, l'espressa previsione
delle "attività protette" di cui allo stesso art. 1.
Al riguardo va notato che
l'affermazione giurisprudenziale, richiamata dall'Istituto appellante, della
progressiva assimilabilità alla "causa di servizio", cioè al sistema di
tutela delle patologie professionali insorgenti nell'ambito del pubblico
impiego, dell'attuale indennizzabilità delle malattie professionali non
tabellate (conseguente al predetto sistema misto), è una logica
implicazione, con riguardo al profilo della non più sussistente tipicità
delle conseguenze sanitarie (lesione dell'integrità psico-fisica) rilevanti
nei sistema assicurativo in discorso; ma detto indirizzo giurisprudenziale
non risulta aver del pari espressamente affermato il superamento del sistema
legale di determinazione dell'oggetto del rapporto assicurativo derivante
dall'individuazione delle lavorazioni "a rischio", operata, d'altra parte,
mediante una clausola aperta, riferita cioè ad attività complementari e
sussidiarie a quelle elencate dallo stesso art. 1 del DPR 1124/65 (cfr.
Cass. sez. lav. 25/2/05 n. 4005, che pur riconoscendo una certa connessione
sotto il profilo del nesso causale, ribadisce espressamente r"autonomia dei
due istituti" e, dunque, non affronta, neppure per implicato, il problema
qui in rilievo della predeterminazione legale dell'oggetto del rapporto).
Dunque, il criterio
determinativo del rischio rimane pur sempre connesso alla enucleabilità di
un segmento del ciclo produttivo e non anche a una fase dell'iniziativa
imprenditoriale che costituisce il presupposto immanente e generale
dell'intera attività produttiva, qual’è l'organizzazione del lavoro, la
quale, quindi, rimane concettualmente disomogenea rispetto all'attuale
criterio legale di determinazione del rischio e, dunque, al di fuori della
possibilità d'integrazione analogica consentita dal criterio di cui al
citato art. 1, pur assunto nell'interezza delle sue previsioni.
La conclusione ora riferita
obiettivamente esclude, in quanto non rientrante nell'elencazione di cui
all'art. 1 DPR 1124/65, la generalizzata rilevanza delle malattie psichiche
"riconducibili all'organizzazione aziendale delle attività lavorative",
quale categoria di rischio assunta nella sua globalità, prevista
dall'impugnata circolare; ciò trova peraltro conferma nella stessa invocata
sentenza n. 179/88 della Corte Costituzionale. Questa ha bensì postulato, in
adeguamento al precetto di cui all'art. 38 Cost., "l'aggiornamento con
adeguata frequenza degli elenchi delle malattie tipiche" nonché "anche e
soprattutto ilriconoscimento che il sistema tabellare ora in vigore
si pone in contrasto con lo stesso precetto costituzionale..., in quanto, in
aggiunta alla previsione tabellare non consente (nell'ambito delle attività
protette industriali e aglicole di cui rispettivamente agli artt. 1, 206,
207 e 208 del DPR 1124/65) l'indagine sull'eziologia professionale delle
malattie indipendentemente dagli elenchi stabiliti e dai tempi della
manifestazione morbosa richiesti dalla legge" (cfr. punto 7, par. 1 seni cit,
sottolineatura aggiunta).
2.4. L'inciso così
esplicitato dalia Corte rende conto di come il sistema "misto" introdotto
per via di decisione manipolatrice (caducante "nella parte in cui...") del
distinto art. 3 del DPR 1124/65, non sia il risultato di un'immutazione
coinvolgente l'art. 1, per quanto qui interessa, di cui ha invece serbato la
capacità delimitatrice dell'oggetto del sistema assicurativo, avendo cioè il
decisum costituzionale riguardato solo la caducazione del principio
della tipicità tabellare.
La Corte non ha perciò
intaccato il presupposto normativo per cui la malattia professionale
indennizzabile risulta collegata a un obbligo di assicurazione che si
giustifica in ragione dell'esecuzione, da parte dei lavoratori "addetti",
degli specifici "lavori" previsti dall'elenco di cui allo stesso art. 1,
comma 3 (e dai successivi commi relativi ai lavori "complementari e
sussidiari"), previsione che definisce il "rischio specifico" oggetto
dell'assicurazione, dal quale esula la generica categoria della "costrittività
organizzativa" prevista dalla circolare impugnata.
La possibilità di estendere
l'ambito del rischio assicurato e quindi la stessa ascrivibilità alle
prestazioni previdenziali delle malattie professionali collegate alla
generale "organizzazione aziendale delle attività lavorative", richiamata
dalla circolare medesima, richiede allo stato l'intervento del legislatore,
che riformuli in senso ampliativo lo stesso art. 1, ma non può essere
compiuto mediante una circolare interpretativa dissonante, tra l'altro,
dalla stessa sentenza della Corte Costituzionale che la circolare assume a
proprio fondamento».
Ritiene in particolare il
giudice di condividere l'assunto fondamentale della decisione del Consiglio
di Stato secondo quale nel sistema misto introdotto dalla Corte
Costituzionale nella sentenza n. 179/88, la malattia professionale può
essere indennizzata indipendentemente dalla sua inclusione nelle tabella
allegate al DPR 1124/65, soltanto se trova la sua derivazione eziologica
nell'esercizio di una delle lavorazioni dì cui all'art. 1 del testo unico.
È opportuno, a tal fine,
ricordare che la predetta sentenza aveva dichiarato illegittimo l'art. 3,
comma 1, DPR 1124/65 nella parte in cui non prevede che l'assicurazione
contro le malattie professionali nell'industria è obbligatoria anche per le
malattie diverse da quella compresa nelle tabelle allegate concernenti le
dette malattie e da quelle causate da una lavorazione specificata o da un
agente patogeno indicato nella tabelle stesse, purché si tratti di malattie
delle quali sia comunque provocata la causa di lavoro.
La malattia psichica originata
da demansionamento, dalla forzata inattività del lavoratore, come anche
quella determinata da mobbing non sono dunque coperte
dall'assicurazione Inail e il datore di lavoro non può invocare l'esonero di
cui all'art. 10 TU 1124/65.
Resta da decidere la domanda
avente a oggetto il diritto del ricorrente al mantenimento della titolarità
dell'incarico quale responsabile dell'unità strutturale attività medico
competente e medico autorizzato - incarico conferito con deliberazione n.
684 del 23/5/01 dall'allora azienda sanitaria locale della provincia di Lodi
- fino al 1/2/05 e di quella conseguente avente a oggetto il risarcimento
del danno conseguente alla -allegata dal ricorrente - illegittima revoca.
La documentazione versata in
atri dalle parti non consente di ritenere provato che sia stato stipulato un
contratto avente a oggetto tale incarico e dunque il conseguente diritto del
ricorrente, come è accaduto anche per gli incarichi successivi conferiti
dalla resistente, nessun contratto ha mai seguito la deliberazione di
conferimento dell'incarico. Come noto, attesa la natura privatistica
dell'incarico dirigenziale, la stipulazione del contratto è necessaria al
fine di far sorgere il relativo rapporto. Si aggiunga che costituisce
principio di carattere generale quello secondo il quale il contratto con il
quale l'amministrazione pubblica conferisce un incarico professionale deve
essere redatto, a pena di nullità, in forma scritta, ed è a questo fine
irrilevante l'esistenza di una deliberazione dell'organo dell'ente pubblico
che abbia autorizzato il conferimento dell'incarico al professionista, ove
tale deliberazione non si sia tradotta in un unico atto contrattuale
coevamente sottoscritto dal rappresentante esterno dell'ente e dal privato,
da cui possa detenersi la concreta instaurazione del rapporto con le
indispensabili determinazioni in ordine alla prestazione da svolgersi. La
stipulazione del contratto a seguito del conferimento dell'incarico è
prevista anche dalla contrattazione collettiva di comparto (art. 28, comma
5, Ccnl).
L'assenza di un contratto
validamente stipulato fra le parti impedisce al giudice di accogliere la
domanda di adempimento e di risarcimento del danno di parte ricorrente:
d'altronde proprio l'assenza del contratto impedisce di conoscerne il
contenuto, anche in relazione alla durata dell'incarico.
Per i motivi di cui sopra, la
domanda avente a oggetto la revoca dell'incarico quale responsabile
dell'unità strutturale attività medico competente e medico autorizzato deve
essere rigettata.
L'Azienda Ospedaliera della
Provincia di Lodi, in quanto soccombente, è condannata al pagamento delle
spese di lite in favore del ricorrente liquidate in € 4.000 (di cui €
1.800,00 a titolo di diritti) oltre a Iva e cpa tenuto conto sia della
complessità dell'istruttoria sia della complessità e novità delle questioni
trattate (dall'importo sopra liquidato sono escluse le spese di consulenza
tecnica anticipate dal ricorrente).
Le spese di consulenza
tecnica, liquidate come da separato dispositivo, sono poste definitivamente
a carico della soccombente. (...)
NOTA
Il risarcimento del danno alla
professionalità
In
entrambe le pronunce qui riportate il Giudice, riconosciuta l'esistenza del
danno professionale, sul che si tornerà a breve, ha riconosciuto la
necessità del risarcimento nei termini del cosiddetto danno conseguenza. Le
decisioni si inseriscono così nel solco tracciato dalle Sezioni unite, con
sentenza 11/11/08 n. 4712, le quali, come risaputo, prendendo spunto dalle
precedenti decisioni 31/5/03 n. 8827 e 8828, hanno ulteriormente definito la
materia della risarcibilità in sede aquiliana del danno non patrimoniale, in
particolare fornendo una lettura costituzionalmente orientata dell'art.
2059, alla cui luce la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale è
data, oltre che nei casi determinati dalla legge, in quelli di lesione di
diritti fondamentali della persona (in presenza, quindi, di una ingiustizia
che leda principi costituzionali, rectius: diritti di rango
costituzionale). In particolare, le Sezioni unite 24/6/08 (rectius:
11/11/08, ndr) n. 26792 hanno affermato che la lesione di interessi
non suscettibili di valutazione economica da luogo al diritto risarcimento
sotto il profilo della lesione della integrità psichica e fisica (art. 32
Cost.), in accordo alle modalità risarcitone proprie del danno biologico o
della lesione della dignità personale del soggetto offeso (artt. 2, 4 e 32
Cost.), e hanno inoltre affermato che, definitivamente accantonata la figura
del cosiddetto danno morale soggettivo, si dà luogo al risarcimento della
sofferenza soggettiva in sé considerata, quale ad esempio l'intima
sofferenza per la compromissione della dignità e l'alterazione della
percezione della propria immagine sia in contesto lavorativo che familiare
(purché, ovviamente, questa sofferenza abbia conseguenze esternamente e
obiettivamente apprezzabili, come il deterioramento delle abitudini di
vita), a prescindere dalle conseguenze fisiche e patologiche di questa
sofferenza le quali, ove presenti, danno luogo al risarcimento del danno
biologico. A seguito di questa pronuncia scompare dunque il danno
esistenziale il quale, come rilevato in dottrina, perde di significato non
dovendosi più «supplire a un vuoto di tutela dovuto a un'inadeguata
rappresentazione del danno non patrimoniale, stretto tra perdita
dell'integrità psicofisica e sofferenza interiore transeunte» (S. Mazzamuto,
«Il rapporto tra gli artt. 2059 e 2043 c.c. e le ambiguità delle Sezioni
unite a proposito della risarcibilità del danno non patrimoniale», in
Contratto e impr. 2009, 3, 589). In dottrina, ex multis, a
commento della sentenza 4712/08: «La rifondazione del danno non
patrimoniale, all'insegna della tipicità dell'interesse leso (con qualche
attenuazione) e dell'unitarietà», in Foro it. 2009,1,120; Sganga, «Le
Sezioni unite e l'art. 2059», in Giur. it. 2009, 1,61; Tomarchio,
«L'unilateralità del danno non patrimoniale nella prospettiva delle Sezioni
unite», in Nuova giur. civ. e comm. 2009,1,102; Cendon, «L'urlo e la
furia», ivi 2009, II, 7.
Venendo
alle due fattispecie massimate, nel primo dei casi in esame il Giudice
afferma con molta chiarezza che il danno (professionale) subito dal
ricorrente è determinato dalla lesione degli artt. 2,4 e 32 Cost.,
implicitamente richiamati nella seconda pronuncia unitamente annotata. Il
danno consiste nella lesione dell'immagine professionale, nella
compromissione della libertà di esplicazione della personalità nel luogo di
lavoro, nella lesione della percezione del sé sia in ambiente lavorativo che
familiare. La definizione che viene operata di danno professionale da
dequalificazione è coerente a quella della giurisprudenza consolidata: «La
dequalificazione professionale comporta lesione di un bene immateriale per
eccellenza, ossia la dignità professionale del lavoratore, intesa come
esigenza di manifestare le proprie utilità e le proprie capacità nel
contesto lavorativo: e ciò viene in evidenza specialmente quando il
lavoratore sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza
assegnazione di compiti costituendo il lavoro un mezzo oltre che di
guadagno, anche di estrinsecazione della personalità del soggetto» (TAR
Campania, sez. II, 23/10/09 n. 7301, in wwv.leggiditaliaprofessionale.it).
Cass. 19/12/08 n. 29S32, in Arg. dir. lav.: 2009,3, 857, per la quale
il danno esistenziale da dequalificazione è da intendersi «come ogni
pregiudizio, di natura non meramente emotiva e interiore, ma oggettivamente
accertabile, provocato sul fare aredittuale del soggetto, che alteri le sue
abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita
diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel
mondo esterno».
Nel
riconoscere e quantificare il danno conseguenza i giudici fondano la loro
decisione sulla base delle allegazioni documentali delle parti ricorrenti,
ritenute necessarie e imprescindibili. Sotto questo profilo le pronunce si
allineano all'indirizzo ermeneutico maggioritario che, appunto, individua
l'onere della prova, anche per presunzioni, in capo al lavoratore nel
rispetto dei canoni dettati dall'art. 2697 c.c.. Si veda in proposito Cass.
11/8/98 n. 7905; Cass. 19/12/08 n. 29832, per la quale «In tema di
demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del
lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale che asseritamente ne
deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento
datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso
introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del
pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è
subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica
medicalmente accertabile, il danno esistenziale (da intendere come ogni
pregiudizio, di natura non meramente emotiva e interiore, ma oggettivamente
accertabile, provocato sul fare aredittuale del soggetto, che alteri le sue
abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita
diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel
mondo esterno) va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti
dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievi la prova per
presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi
dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno e
all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione
di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale,
effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) si possa,
attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto
ignoto, ossia all'esistenza del danno»; Cass. sez. lav. 26/2/09 n. 4652;
Cass. sez, I, 2/8/06 n. 17654; Cass. sez. lav. 26/6/06 n. 14729, in
www.leggiditaliaprofessionale.it. Questa interpretazione che colloca sul
lavoratore l'onere dalla prova si distingue dal minoritario, e ormai anche
più risalente, indirizzo che, proprio con riferimento al danno da
demansionamento, statuiva che in caso di violazione dell'art. 2103 c.c.
fosse possibile presumere il danno subito quale sussistente in re ipsa
essendo la lesione automaticamente conseguente al demansionamento e non
essendo pertanto necessario provarla in giudizio, essendo quindi sufficiente
liquidarla in via equitativa. (Per una ricostruzione sistematica del tema e
precedenti giurisprudenziali, P. Primaverile, «Sul cd. danno esistenziale
sofferto dal prestatore di lavoro assegnato a mansioni inferiori», in
Arg. dir. lav. 2009,3, 857).
Infine,
sulla rilevanza del consenso del lavoratore adibito a mansioni inferiori ai
fini dei risarcimento del danno: Trib. Torino 30/7/08 e Appello Torino
11/5/09, in Arg. dir. lav. 2009,1139, con nota di M.G. Murrone, «Adibizione
a mansioni inferiori, decorso del tempo e consenso del lavoratore».
Elena Tanzarella
(fonte: D&L, Riv. crit.
dir. lav. 1/2010, p. 177 e ss.)