Casi e situazioni di ordinaria e consuetudinaria vergogna, letti oggi

 

La dignità dei lavoratori

 

Tralascerò di porre al centro dell’articolo di questo mese idee, concetti, filosofie, personaggi fa­mosi, faraonici utili dei megamanagers, sistema paese, fusioni ed incorporazioni, per raccontare invece un caso reale, uno dei tanti che si vivono nel dorato mondo del credito, e che restano silenziosamente sepolti sotto montagne di carte. Uno di quei casi che sicuramente non troveranno spazio sui giornali economici, molto attenti ai numeri piuttosto che alle persone, né tanto meno sui quotidiani o sui magazine in allegato, perché questa notizia – mi si perdoni il bisticcio di parole - non fa notizia.

Il caso che vi racconterò, rispettando i fatti e, doverosamente, la privacy degli attori, non è insomma il paradigmatico cane morso dal padrone, ma fa parte di una serie di episodi che riguardano un lavoratore, uno di quelli che vivono nelle aziende in prima linea, tutti i giorni a contatto con il pubblico e costretti peraltro, a volte, a dover affrontare una quotidianità fatta di meschinità e di avvilenti persecuzioni da parte di chi li dirige ai massimi livelli. Impossibile? E ai tempi d'oggi? Valutate voi. Ecco i fatti.

Senza altri indugi vi racconterò il caso, per passare poi al commento e, dalla possibile soluzione, concluderò con alcune doverose riflessioni finali. Il luogo dei fatti o dei misfatti: una banca, una banca qualsiasi, in una regione qualsiasi.

I personaggi: un dipendente che ricopre anche un ruolo sindacale all'interno della sua azienda, un direttore generale, un capo, un altro sindacalista segretario provinciale.

Il lavoratore sindacalista subisce all' improvviso una pesante sanzione disciplinare:sospensione dal lavoro. Evento grave e di per sé avvilente che, per risultare legittimo, deve trovare giustificazioni concrete e serie da parte dell'impresa.

Il sindacato svolge il suo ruolo e si attiva. Chiede un incontro ai massimi livelli con il direttore generale della banca. La direzione, rispettando le norme, le leggi ed i contratti, lo concede. Bene, direte voi. Apparenza, rispondo io. Infatti, la Direzione approfitta dell'incontro per esercitare una serie di pressioni psicologiche nei confronti del dipendente vittima.

L'incontro è a quattro; il testimone del lavoratore, il segretario provinciale, annota diligentemente e con precisione, sopra un foglio, le frasi, le espressioni, gli atti. Insomma, tutto ciò che accade nel corso della riunione.

Prendere appunti non è vietato né scorretto. Il tono del direttore generale della banca è denigratorio e sconcertante. Si passa alle accuse. Quali? Eccole elencate. Il lavoratore esce in orario la sera; i permessi previsti dal contratto vengono presi inopinatamente il lunedì; non porta la cravatta regolamentare al collo. Silenzio. Sigaretta in bocca e fumo soffiato negli occhi del lavoratore.

Il passaggio successivo, da parte del direttore generale, è quello di tentare di instillare l'ombra del dubbio fra i due sindacalisti. Il consiglio che viene dato al segretario provinciale, è quello di non prestare ascolto alle parole del suo collega. Al dipendente, di lasciar perdere la difesa se gli è caro il suo posto di lavoro. Il finale suona come una vera e propria minaccia: "...andiamo avanti sino alla morte, dovrai lavorare altri vent'anni qui. Fai un esame di coscienza, hai tre figli". Ricapitolando, un vero e proprio museo degli orrori, e non una sola contestazione credibile tipo: hai commesso questi errori, sei un ritardatario, non lavori, non rispetti le norme aziendali, ti comporti in modo inadeguato con i clienti.

Nulla. Anche se, nella lettera inviata al lavoratore, quella sanzionatoria, si faceva riferimento con dovizia di citazioni a leggi, contratti, codici e decreti. Dopo l'avvilente incontro, il lavoratore sindacalista, che pure è riuscito - anche se evidentemente e volutamente provocato - a mantenere i nervi saldi, si rivolge al nostro ufficio legale presso la Federazione, affinché si valutino gli aspetti del caso. Dai dati in nostro possesso, ed in possesso dell'azienda, risulta che non si tratta di un assenteista. Il lavoratore, che ha una lunga anzianità di servizio, non ha mai subito altre sanzioni disciplinari, è benvoluto e stimato dai suoi colleghi e ha davvero tre figli, anche se questa non appare come una colpa. La sua vera unica colpa pare essere quella di aver scelto, ad un certo pun­to del suo percorso, di svolgere attività sindacale, attività che quel direttore generale considera meno di niente, come più volte ha sostenuto nelle riunioni dei capi filiale. Questi i fatti. A riprova di quanto scritto, c'è da aggiungere che un' altra collega, oggi passata ad altra azienda, ha confessato, dimostrandosi disponibile a confermare tutto in giudizio, come spesso anche lei si sia trovata a subire numerose vessazioni, con frasi ingiuriose e davvero irripetibili che il direttore generale - sempre lo stesso - le indirizzava a più riprese.

Soluzioni e riflessioni. Il sindacato ora interverrà, decisamente e ad ogni livello, per risolvere la questione alla radice, ma al di là di ciò che accadrà nelle aule giudiziali, occorre andare oltre. Prima riflessione. È bene non dare per scontato che il medioevo sia finito. Prepotenti feudatari o caste di nobilastri non di sangue, bensì di pericolosa stirpe formatasi all'interno dell'oligarchia finanziaria, si aggira nei luoghi di lavoro: abito scuro, cravatta in tono, inossidabile sorriso, stretta di mano calorosa, abbronzatura maldiviana, sigaretta alla Bogart, si atteggiano ad attori, esercitando un fosco potere. Il loro motto è che chi non appartiene alla loro ciurma è un uomo morto. Se tutto ciò accade - e a volte accade - occorre riconsiderare alcuni aspetti. Il sindacato, giustamente, ha tentato la via del dia logo in questi anni, ma il piano dev'essere di equilibrio paritario; non è accettabile una sorta di vantaggio che alcuni manager pretendono di possedere in virtù di pretese designazioni divine.

Forse, sosterrà qualcuno, il problema raccontato rappresenta solo un caso di maleducazione soggettiva. Vero. Eppure, la mia sensazione è che sotto la punta si annidi un iceberg molto più ampio e poderoso, sommerso dalle paure di ritorsione e di mobbizzazione, che sono forti e radicate. Senza voler fare di tutte le erbe un fascio - perché anche questa sarebbe una banalizzazione che farebbe torto a tante brave persone - sale il sospetto che vi sia un'omertà diffusa ed un diffuso malessere che si aggira e striscia per la categoria, un malessere che solo il sindacato può sconfiggere.

Persone come quel direttore generale non rispettano la dignità altrui, perché sono troppo impegnate a trattare clienti ed a fare soldi per se stesse. Abbagliate dai budget, danno sfogo ai loro più abietti istinti, trasformandosi in torturatori. Ed ecco che rientra poderosamente il tema del salario incentivante, del clima aziendale, di un rapporto fra le persone che si disintegra in nome del dio guadagno. Occorre una reazione concreta e non solo per risolvere quel singolo caso. Il prossimo contratto non potrà lasciare irrisolto il problema alla sua radice, quello del salario variabile che corrode la solidarietà fra persone, così come occorrerà necessariamente fare cultura, difendendo i valori che sono alla base del sindacato, reinserendoli con convinzione fra le lavoratrici ed i lavoratori.

Credere in valori superiori, ponendo al centro la persona e non il capitale: è questa la battaglia culturale da intraprendere. È la forza delle parole, dei credo. Infatti, leggi e contratti da soli non sempre sono sufficienti a far ragionare i prepotenti. Se fosse così facile, non esisterebbero prevaricazioni di alcun tipo, in nessun luogo del mondo. Sarà questa una visione romantica, si chiederà qualcuno. Forse. Ma se non si credesse in questa visione romantica, il sindacato assomiglierebbe terribilmente ad un qualsiasi circolo di lettura inglese. Molto snob ma lontanissimo dalla realtà

 

Enrico Gavarini

Segretario Generale Aggiunto Fabi

(fonte: la Voce dei bancari, aprile 2007)

 

Gli stipendi annui nel mondo del lavoro: raffronto tra managers e operai

 

Ai primi 3,4 milioni, ai secondi 21.600 euro

Top manager-operai: centosessanta a uno

 

ROMA — «Quando ho iniziato i miei studi di economia ci si scandalizzava giustamente se le differenze tra salario minimo e salario massimo in un'azienda erano di uno a cinquanta, mentre oggi, quando la differenza è tra uno a cinquecento si alzano le spalle». Romano Prodi, con un ricordo personale, ha messo il dito nella piaga: in Italia le retribuzioni sono una giungla e il divario tra operai e top manager è enorme. I dirigenti delle aziende italiane, ha sottolineato il premier al Corriere, se se non guadagnano almeno 2,5 milioni di euro l'anno «non entrano nemmeno nella classifica dei primi cinquanta manager». Lo stipendio medio dei primi cento top manager italiani è addirittura di 3,4 milioni l'anno, cioè 160 volte superiore rispetto a un operaio. E continua a crescere: nel 2006 è aumentato del 17%, cioè otto volte l'inflazione. I dirigenti in media guadagnano oltre 100 mila euro l'anno, cinque volte in più di un operaio che incassa circa 21 mila euro. I quadri in media guadagnano quasi il doppio degli impiegati: 47 mila euro contro 26 mila. I loro aumenti nel 2006 hanno oscillato tra il 4,2% e il 4,9% contro un incremento del 6,7% dei manager.

Basta scorrere la lista con le "buste paga" dei top manager italiani per rendersi conto delle enormi differenze con le retribuzioni della maggior parte dei lavoratori. Al primo posto della classifica pubblicata a fine marzo c'è Carlo Buora (Pirelli Telecom) con 18,8 milioni di euro, cioè 860 volte lo stipendio di un operaio. Buora, però, nel 2006 ha beneficiato anche di una mega liquidazione avendo lasciato Pirelli per concentrarsi su Telecom. Ma anche Alberto Lina, che non ha usufruito di proventi straordinari si messo in tasca una bella sommetta: tra Impregilo e Sirti ha incassato 7,3 milioni di euro, 350 volte di più di un operaio.

A pagare cifre così alte sono società pubbliche e private. Luca Cordero di Montezemolo tra Fiat e Ferrari ha portato a casa oltre sette milioni di euro mentre l'amministratore delegato dell'Eni, Paolo Scaroni ha incassato 2,34 milioni (nel 2005 il suo reddito aveva beneficiato di 10 milioni di euro grazie all'effetto buonuscita da Enel). L'attuale numero uno di Enel, Paolo Conti, nel 2006 ha guadagnato 1,3 milioni a cui si aggiungerà il "compenso variabile" che sarà deciso dal consiglio di amministrazione per un massimo di 600 mila euro. Ma al di là della "top 100" bisogna considerare anche le migliaia di manager che tra retribuzioni e stock-option portano a casa cifre milionarie.

 

Retribuzioni annue a confronto e incrementi percentuali

 

(fonte: la repubblica, 14 aprile 2007, p. 8)

 

Una conferma per i managers, nel pingue settore del credito, desunta da un

"COMUNICATO A TUTTI I LAVORATORI"

Come a tutti NON noto, il Consiglio di Amministrazione dell’Efibanca deliberò nel 2004, nell’era Fiorani allora Presidente di Efibanca, un piano di assegnazione di stock option a favore “dell’Amministratore Delegato e di dipendenti della Banca con incarichi direttivi”, naturalmente connesso al raggiungimento di determinati risultati.

Di tale progetto si conosce ben poco salvo il fatto che nei bilanci 2004 e 2005, sotto la voce “Riserva stock option”, erano appostati i seguenti importi:

Esercizio 2004 : Euro 2.471.000,00 - Esercizio 2005 : Euro 4.943.000,00

Per l’esercizio 2006 parrebbe che la posta sia considerevolmente aumentata (forse Euro 7.500.000,00 ?), fermo rimanendo che il dato ufficiale sarà noto solo al momento della presentazione del bilancio.

Nulla è naturalmente trapelato circa i criteri utilizzati per individuare il Personale meritevole di tale assegnazione né tantomeno quali siano stati, nell’ambito degli assegnatari, i principi adottati per la determinazione del quantum. Al riguardo, come più volte espresso in passato, critichiamo con forza un sistema incentivante assolutamente arbitrario e non ispirato minimamente a principi oggettivi e trasparenti. Sembrerebbe peraltro che non si tratterebbe di attribuzione di azioni della Banca, così come il termine stock option farebbe ritenere, bensì - mediante un tecnicismo finanziario - di un riconoscimento in denaro che coinvolgerebbe un ristrettissimo numero di colleghi “eletti”; sarebbe quindi esclusa la quasi totalità dei dipendenti della Banca reputando, evidentemente, irrilevante il contributo di tutti i Lavoratori per il raggiungimento dei risultati di bilancio.

Detto questo, lasciamo alla fantasia individuale stimare, approssimativamente, quella che potrebbe essere la quota pro capite delle così dette stock option.

Per tornare al progetto, sottolineiamo che l’iniziativa avrà concreta attuazione in un momento particolarmente delicato per la Banca: nei prossimi mesi si compirà infatti una tra le aggregazioni bancarie più rilevanti nel sistema nazionale il cui Piano Industriale prevede, tra l’altro, il trasferimento dell’Efibanca a Lodi con giustificate preoccupazioni e legittimi interrogativi da parte del Personale.

In tale contesto sarebbero distribuite stock option da “capogiro”, sempre a pochi e soliti “eletti”.

Sull’argomento, poiché gli unici elementi a disposizione sono i dati ufficiali di bilancio, ci limitiamo esclusivamente a dare una valutazione di carattere morale.

          Il meccanismo delle stock option, attraverso l’assegnazione di azioni della società, risponde all’esigenza aziendale di attrarre talenti, fidelizzare e trattenere i dipendenti, gratificarli per l’operato svolto, creare spirito di gruppo e senso di appartenenza.

Se il principio è assolutamente condivisibile, l’applicazione appare nel caso specifico quantomeno discutibile se non addirittura “scandalosa” vuoi per il ristretto numero di dipendenti coinvolti, vuoi per l’entità del premio.

Invochiamo pertanto la necessità di un’equa ridistribuzione a tutti i dipendenti della ricchezza prodotta nell’impresa e di un riequilibrio salariale a tutti i livelli. La questione investe il concetto della “responsabilità sociale dell’impresa” in senso lato e ci induce a riflettere su meccanismi di remunerazione dagli effetti perversi e non sempre utili allo sviluppo dell’impresa stessa; per molti manager il taglio del Personale o dei costi fissi, le dismissioni di partecipazioni - talvolta concentrate in pochi esercizi - rappresentano il modo più rapido e facile per far crescere gli utili ed intascare stock option senza alcun merito reale.

Guadagnare, in media, 300 volte il salario minimo di un impiegato o percepire in qualche caso premi o dividendi equivalenti a svariate decine di anni di lavoro di una segretaria non risponde né ad una logica di merito o di mercato, né al buon senso, soprattutto se si reclamano flessibilità e moderazione salariale ai dipendenti.

Al riguardo ci sembra opportuno riportare alcuni passaggi presenti nella nuova piattaforma di rinnovo del CCNL:

“…Il forte recupero di redditività ed i conseguenti risultati economici ottenuti dal sistema nel suo complesso, impongono di affrontare la problematica dello squilibrio nel modello distributivo generatosi a favore di azionisti e managers e che ha penalizzato i lavoratori…”

“…L’utilizzo massiccio del salario incentivante e di altre forme di salario discrezionale ha generato una disarmonia nelle dinamiche retributive…”

Sul tema riportiamo le raccomandazioni recentemente fatte dal Medef (la Confindustria francese) e dall’Afep (Associazione delle imprese private): Governance: una governance delle imprese che sia il più possibile esigente, intelligente ed esemplare.

Emolumenti: i compensi dei Dirigenti siano misurati, equi, atti a rafforzare la solidarietà e le motivazioni all’interno dell’impresa.

In sintesi equità e giustizia sociale.

Ci chiediamo e ovviamente chiediamo ai nostri Amministratori se tali principi abbiano mai rappresentato per loro un momento di riflessione !!!

Roma, 7 febbraio 2007

 

DIRCREDITO – FALCRI – FIBA/Cisl – FISAC/Cgil – SINFUB

di EFIBANCA

(fonte:http://www.dircredito.org/informa/comu070207.pdf)

 

 

I costi dello Stato

MEZZO MILIONE DI ITALIANI VIVE DI POLITICA

La denuncia di Prodi: fenomeno esplosivo. Un ddl entro maggio

Ai nostri parlamentari stipendio doppio che a Parigi o Berlino

 

ROMA - In Italia o vinci la lotteria o ti butti in politica. Il risultato è lo stesso: una vita al riparo dalle difficoltà economiche. Questo devono aver pensato gli oltre 400mila cittadini che oggi vivono di politica: deputati, assessori, consiglieri locali e consulenti. Un esercito, che costa caro alle casse dello Stato : oltre tre miliardi di euro, all'anno. A lungo la politica ha promesso interventi d'austerity. Ora ci prova Romano Prodi e il suo ministro per l'Attuazione del programma, Giulio Santagata, che annunciano un disegno di legge ad hoc, entro fine maggio. «I costi della politica - ha detto il premier - sono esplosi».

Quanto guadagna oggi un parlamentare? Il calcolo non è facile, tante le voci da sommare. Senatori e deputati si portano a casa 14mila euro netti al mese. All'indennità di 5.486 euro (ridotta del 10% con la legge Finanziaria 2006), va infatti aggiunta una diaria di 4.003 euro, "a titolo di rimborso delle spese di soggiorno a Roma" e altri 4.190 euro (che diventano 4.678 per i senatori) per "il rimborso delle spese inerenti al rapporto tra eletto ed elettori". Ma non è tutto. Il parlamentare non deve preoccuparsi dei suoi viaggi, usufruisce, infatti, di " tessere per la libera circolazione autostradale, ferroviaria, marittima e aerea sul territorio nazionale". Se poi deve andare all'estero, ha rimborsi annui di 3.100 euro. La bolletta telefonica non è un problema: per le sue chiacchierate, il deputato dispone di una somma annua di 3.098 euro, il senatore di 4.150 euro. Altri rimborsi sono infine previsti per i taxi (3.323 euro ogni tre mesi).

Il parlamentare pesa sulle casse dello Stato anche da ex: bastano due anni, sei mesi e un giorno di legislatura per maturare il diritto alla pensione. Oggi la percepiscono 2.005 ex deputati e 1.297 ex senatori, per una spesa complessiva di 186 milioni di euro all' anno. I parlamentari italiani ; possono fare la voce grossa in Europa: i loro stipendi, infatti, fanno invidia ai colleghi tedeschi, spagnoli, francesi e inglesi, che guadagnano anche meno della metà.

Ma i parlamentari nazionali sono solo una goccia nel mare dei costi della politica. Cesare Salvi e Massimo Villone (nel libro "Il costo della democrazia") calcolano che nel piatto oggi mangiano oltre 427mila persone: 149mila titolari di cariche elettive (dai deputati ai consiglieri circoscrizionali) e 278 mila consulenti. Quanto costano? Un miliardo e 851 milioni l'anno. E la fetta più grossa finisce proprio nelle tasche dell'esercito dei consulenti (ben 958 milioni di euro ogni anno), mentre deputati e senatori spendono "solo" 187 milioni.

Ci sono poi i ministeri, con i loro corposi staff, che "succhiano" un altro miliardo e 375 milioni di soldi pubblici. E il Quirinale? Il capo dello Stato ha un appannaggio di 218.407 euro all'anno, ma l'intera macchina del Colle costa circa 235 milioni di euro (destinati per l'87,6% alle spese per il personale).

Insomma, il sistema politico spende e spande, tanto da far dire a Romano Prodi che «sono esplosi i ; costi della politica, nettamente superiori ormai agli altri Paesi europei». Tocca a Giulio Santagata, presentare la strategia dell'esecutivo per contenere le spese: «Il governo - spiega il ministro a Repubblica - è pronto a intervenire con un suo disegno di legge entro maggio».

Quali le linee di intervento? «Primo, ridurre la proliferazione delle cariche negli enti locali, diminuendo per esempio il numero dei consiglieri comunali, provinciale e regionali, insieme al numero delle circoscrizioni cittadine. Secondo -prosegue il ministro - abbattere i costi delle politica e delle campagne elettorali. Terzo, aumentare la stretta sulle consulenze». Ma non basta. «Anche i vari organi costituzionali, come Camera e Senato, devono ridurre autonomamente le loro spese. In tal caso, però - conclude Santagata - il governo non può fare nulla».

 

Gli stipendi dei parlamentari nazionali

Mensili netti in euro, anno 2007

 

Italia: 13.679

Inghilterra: 9.977

Germania: 7.000

Francia: 6.892

Spagna: 4.731 (massima anzianità)

 

Il caso

Un milione di euro al giorno per mantenere un esercito di 11 mila persone

Sicilia al top, qui gli assessori guadagnano più dei ministri

PALERMO — Un milione di euro al giorno. È il costo della politica in Sicilia, la somma necessaria a mantenere quell'esercito di 11 mila persone che nell'isola possono vantare una carica in un'istituzione grande e piccola: dall'Assemblea regionale siciliana alle circoscrizioni. Indennità, gettoni di presenza, missioni e rimborsi spese costano in tutto 362 milioni l'anno: dato che risulta dalla lettura dei bilanci. È come se ogni siciliano - minorenni compresi - pagasse alla politica una tassa di 72 euro l'anno. L'Ars, che si picca di essere il parlamento più antico d'Europa, è sicuramente il più "caro": da solo, incide sulle casse pubbliche per 156 milioni, più o meno le risorse occorrenti per il personale politico dei 390 Comuni siciliani. L'Ars è l'unico consiglio regionale d'Italia dove gli stipendi sono pari al 100 per cento di quello dei parlamentari nazionali - dei senatori, per l'esattezza - e dove gli assessori, con i loro 14.500 euro netti al mese, guadagnano più dei ministri. I sindaci siciliani se la passano meglio dei colleghi del resto d'Italia: Diego Cammarata, primo cittadino di Palermo, vanta un introito mensile lordo di 9.475 euro. Guadagna 352 euro al mese in più (4.200 l'anno) rispetto al sindaco di Torino, Sergio Chiamparino. E ben al di sotto si ferma il sindaco di Firenze, Leonardo Domenici, che ha uno stipendio mensile lordo di 7.580,70 euro. L'austerity, d'altronde, non varca facilmente lo Stretto. La Finanziaria nazionale del 2006 ha stabilito un taglio del 10 per cento delle indennità di sindaci e consiglieri. Ma la norma non è mai stata recepita dall'Ars e la riduzione è stata lasciata alla volontà autonoma dei singoli Comuni. Risultato? Nella maggior parte delle amministrazioni, fra cui Palermo, i compensi non sono stati toccati.

(emanuele lauria)

 

 

(fonte: la repubblica, 14 aprile 2007, p.9)

 

Pensioni d’oro per i parlamentari

 

Mentre ai cittadini sono richiesti dei sacrifici, la casta dei politici gode di trattamenti previdenziali di favore. Da 3 a 10 mila euro al mese con soli cinque anni di contributi.

Attualmente per andare in pensione sono richiesti 35 anni di contributi e 57 anni di età. E dal prossimo anno, se non ci saranno modifiche legislative, saranno necessari 60 anni di età.

Ma così non è possibile andare avanti. Serve una riforma. Perché con l’allungamento della vita e per il bene della finanza pubblica, occorre smettere di lavorare più tardi.

Riformisti, di destra e di sinistra, di mezzo. Associazioni imprenditoriali, organismi internazionali. Tutti, all’unisono, fermi nell’invocare profondi interventi sul sistema previdenziale.

“Lavorare di più per prendere di meno”. E’ questa la soluzione proposta.

Un sacrificio, ma che salvaguarda il Pil e garantisce la produttività del sistema Italia. Un vero peccato, però, che questo spirito si fermi alle porte del Parlamento.

Il vitalizio dei deputati e dei senatori ha le caratteristiche di un vero e proprio privilegio. Regole e leggi lo dimostrano.

Prendiamo i deputati, per i quali è in vigore un regolamento del 1997. Gli onorevoli, il cui mandato parlamentare è iniziato dopo la XIII legislatura del 1996, acquisiscono il diritto alla pensione a 65 anni di età e con 5 anni (una legislatura) di contributi.

Ma questo trattamento, simil cittadino comune, nasconde il trucco. Il diritto alla pensione è fissato al sessantacinquesimo anno di età, peccato che tale limite si abbassa di un anno per ogni ulteriore anno di mandato oltre i cinque. Sino a raggiungere il traguardo dei 60 anni.

Se vi state incazzando, aspettate. Perché c’è dell’altro. Gran parte dei deputati è stata eletta prima del 1996, cioè prima della riforma. Ciò significa che si ha diritto alla pensione a 60 anni di età, riducibili a 50 utilizzando gli anni di mandato oltre i cinque minimi richiesti. E così con oltre tre legislature – e 20 anni di contributi – è possibile accedere alla pensione con meno di 50 anni!

Non sono da meno i senatori. Anche qui c’è stata una riforma, in base alla quale a partire dalla XIV legislatura del 2001 questi servi Patriae hanno diritto alla pensione a 65 anni e a condizione di aver svolto un mandato di cinque anni.

Ma dietro l’apparenza si cela l’inganno. Ed ecco, infatti, che fioccano le deroghe. Per chi è stato eletto prima del 2001, il cui diritto al vitalizio scatta a 60 anni con una sola legislatura (5 anni), a 55 con due (10 anni) e a 50 con tre mandati (15 anni). Per gli eletti dal 2001, che possono andare in pensione a 60 se hanno conquistato un secondo mandato.

Due anni e sei mesi sono meglio di 35, ovvero via libera alle baby pensioni. Un cittadino per godere della pensione di anzianità deve avere 57 anni, 60 dal 2008, e aver versato contributi per 35. Troppi per deputati e senatori che hanno abbassato il limite contributivo a una legislatura: 5 anni.

Inoltre i parlamentari, per evitare i rischi dell’instabilità politica, con il rischio di chiusura anticipata delle Camere, hanno deciso che sono sufficienti, per aver diritto al vitalizio, due anni e sei mesi. Basta, poi, pagare contributi volontari per i due anni e mezzo mancanti, ma con calma. Onorevoli e senatori possono saldare il debito a fine mandato e in 60 comode rate.

Il metodo contributivo riduce le pensioni. Meglio non utilizzarlo. A partire dal 1996, successivamente alla riforma Dini, il lavoratori hanno abbandonato il vantaggioso calcolo retributivo, che fissava la pensione in base a una media dello stipendio degli ultimi anni di lavoro.

Al suo posto è subentrato il calcolo contributivo che funziona come una polizza. Il reddito pensionistico è pari ai contributi – rivalutati - effettivamente versati. Con il risultato di avere pensioni molto più basse delle attuali di circa il 40, 50%.

A tale rigore i furbetti del Parlamento non hanno voluto soggiacere. Il meccanismo escogitato è stato quello di legare una percentuale a ciascun anno. Per cinque anni di mandato si ha diritto al 25% dell’indennità lorda (12 mila 434 euro): 3.109 euro di vitalizio. Per 10 anni al 38%: 4.725 euro. Per 20 al 68%: 8.455 euro. Infine il gran finale: con 30 anni di mandato si ha diritto a un vitalizio pari all’80% dell’indennità, 9.947 euro al mese.

E per contrastare i pericoli delle spinte inflative è stata introdotta la clausola d’oro, in base alla quale la pensione si rivaluta automaticamente, essendo legata all’importo dell’indennità del parlamentare ancora in servizio.

Il sistema delle pensioni parlamentari costa parecchio alle tasche dei contribuenti. Nel 2006 a Montecitorio sono costate 127 milioni di euro (ci sono 2005 pensionati sul foglio paga), contro 9 milioni 400 mila di contributi versati dai deputati in carica. Situazione simile al Senato dove ogni anno sono spesi per le pensioni quasi 60 milioni di euro a fronte dei 4 milioni 800 mila di entrate contributive. Con il risultato che le casse parlamentari hanno chiuso il 2006 con un buco di ben 174 milioni di euro.

Eppure sull’orizzonte riformista non si staglia alcun urlo di dissenso. Vige, anzi, un silenzio bipartisan. Un comune intento che salva il portafoglio e la vecchiaia di deputati e di senatori. Un po’ meno la faccia...

 

Roma, 31.5.2007

 

(fonte: http://lavoro.economia.alice.it/racconti/r325_pensioni.html e http://www.pmli.it/pensioninababbiparlamentari.htm)

 

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