Il sistema contrattuale: ricostruire più che riformare

 

1. Ri-costruire più che ri-formare

            Esplicito subito la tesi che verrà qui sostenuta. Ritengo che il sistema italiano delle relazioni contrattuali debba oggi essere sottoposto ad una azione di energica ri-costruzione piuttosto che di pura e semplice ri-forma.

            Per argomentare la tesi appena affermata è utile anzitutto riassumere per sommi capi la vicenda dell’ultimo quindicennio. Il punto di riferimento essenziale è costituito naturalmente dal protocollo del 23 luglio 1993. Quell’accordo, stipulato nella stagione drammatica della crisi della c.d. prima repubblica e a ridosso del rischio del crack finanziario del paese, ha segnato un passaggio fondamentale nel tentativo di riportare sotto controllo i fondamentali economici (pil, inflazione, deficit pubblico). Ciò ha poi consentito all’Italia l’ingresso nell’Euro, pagato  caro in fase di  applicazione della nuova moneta sul piano della dinamica dei prezzi e del potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti, ma essenziale ai fini dell’aggancio a una solida prospettiva europea di un paese ancora incapace di uscire da una transizione politica infinita. Quell’accordo fu quindi un grande patto politico ma anche un forte accordo sociale, nella forma di un vero e proprio accordo interconfederale racchiuso nel patto politico. Lì furono infatti stabilite le regole del sistema contrattuale, con una definizione del rapporto tra i due livelli contrattuali che fino ad allora non si era conosciuta in termini così univoci e lineari, e le regole in materia di costituzione delle rappresentanze sindacali unitarie. Fu poi formulata una direttiva sulla estensione erga omnes dei contratti collettivi spesso trascurata, ma che nella economia dell’accordo svolgeva una funzione essenziale: “le parti auspicano un intervento legislativo finalizzato, tra  l’altro, ad una generalizzazione dei contratti collettivi aziendali che siano espressione della maggioranza dei lavoratori…Il governo si impegna ad emanare un apposito provvedimento legislativo inteso a garantire l’efficacia erga omnes nei settori produttivi dove essa appaia necessaria al fine di normalizzare le condizioni concorrenziali delle aziende” (lett. F), punto 2). Proprio la mancata applicazione di tale clausola determinerà  nel tempo rilevanti effetti critici.

            Il protocollo del luglio 1993 ha avuto una applicazione efficace nel breve termine: esso ha consentito di effettuare una politica di risanamento dei conti pubblici e rientro del deficit, nell’ambito di un controllo complessivo della dinamica dei redditi svolta con un forte consenso sociale. Le politiche di concertazione e la conseguente pace sociale (basti ricordare che in quel periodo fu rinnovato il contratto dei metalmeccanici, per la prima volta nella storia, senza un’ora di sciopero) consentirono di realizzare i parametri per l’ingresso nell’Euro. Su quella base furono anche possibili misure di innovazione nella disciplina del mercato del lavoro orientate ad introdurre forme ragionevoli e controllate di flessibilità (c.d. pacchetto Treu). Da quel momento ha cominciato a spezzarsi il ciclo virtuoso: ciò accadde, all’incirca, tra il 1998-99, a ridosso della crisi del governo Prodi. A partire da allora si è svolto un processo di progressivo svuotamento e snaturamento del disegno strategico del patto: non si è realizzata la disciplina legislativa della rappresentanza sindacale, con l’effetto di lasciare senza quadro regolativo le numerose vicende relative alla stipulazione di accordi sindacali “separati” o “non unitari” (emblematica in questo senso la vicenda del settore metalmeccanico fino al rinnovo unitario della parte economica del contratto nazionale di lavoro effettuata nel gennaio 2006); si è inflazionata la platea dei soggetti interlocutori delle politiche di concertazione, fino all’assurdo di convocare agli incontri con il governo circa 40 sigle associative; il disegno di politica dei redditi, strutturato in specifiche sessioni di verifica, è progressivamente evaporato, fino al punto da stravolgere la politica dei redditi in “politica dei salari”. Il colpo di grazia è poi venuto dalle politiche avviate dal governo di centrodestra il quale fin dal ”libro bianco del lavoro” dell’ottobre 2001 ha dichiarato l’esaurimento delle pratiche di concertazione a favore di una non meglio definita “politica della competitività” tradotta nella filosofia dell’”accordo con chi ci sta” e nel tentativo di usare strumentalmente la divisione dei sindacati ai fini di allargamento del consenso alle politiche governative, culminato nel c.d. “patto per l’Italia” del luglio 2002 e poi tradotto nelle ambigue formule di rinvio della legge alla contrattazione collettiva contenute nella l. n.30 e nel dlgs. n. 276 del 2003. Tale disegno è in seguito nel complesso fallito: esso tuttavia ha esercitato una notevole capacità distruttiva, togliendo ogni credibilità alle politiche di concertazione e determinando una complessiva destrutturazione del sistema di relazioni sindacali.  

            Le conseguenze di tutto ciò possono essere così riassunte: le politiche di concertazione, di fatto, non esistono più, non si sa neppure se l’accordo del luglio 1993, spesso richiamato in  termini meramente strumentali, e di cui si invoca diffusamente la revisione, esista ancora, pur non essendo stato formalmente disdettato da nessuno dei suoi sottoscrittori. Al tempo stesso sul piano delle condizioni materiali si deve rimarcare, come documentano tutte le più attendibili rilevazioni, che nell’ultimo quinquennio, anche a seguito del mancato controllo sulla applicazione del cambio  euro/lira, si è verificato uno spostamento di grande portata dei redditi dal lavoro dipendente, compreso quello degli strati intermedi e professionali, ai profitti e alle rendite. Basti citare i recenti dati Ocse che collocano al livello più basso il valore reale, in termini di potere d’acquisto, delle retribuzioni italiane. L’osservazione peraltro riguarda il senso comune. Basti paragonare, in termini nominali e reali, la retribuzione media del lavoro dipendente a cavallo degli anni 1999-2000 e quella accertata nel 2006: se allora la cifra si avvicinava al valore di due milioni di vecchie lire, oggi non supera quella di 1.200/1.300 euro. Con la differenza che in termini di potere d’acquisto effettivo tra i due milioni delle vecchie lire e i 1.200/1.300 euro di oggi la differenza può essere stimata almeno attorno a un 30% in meno. Ciò significa che nell’Italia di oggi è aperta una rilevante questione retributiva del lavoro dipendente, dai livelli più bassi di inquadramento (per non parlare del lavoro precario) ai livelli medio-alti della scala professionale. E’ ciò che ha fatto dire a un convinto sostenitore delle politiche di concertazione, come Pierre Carniti, che ciò che abbiamo di fronte non è più una politica dei redditi, quanto una “politica unilaterale dei salari” (1).

            Ce n’è abbastanza per concludere che visto dall’angolo visuale delle politiche “alte”, dei grandi accordi di concertazione, il tema del sistema contrattuale, a partire dal suo contenuto essenziale (la determinazione della dinamica dei redditi), ha bisogno di un forte intervento ri-costruttivo più che di semplici  terapie riformistiche. Ricostruire serie politiche di concertazione, ciò di cui questo paese ha un bisogno vitale anzitutto ai fini della ricomposizione della sua coesione sociale, implica di ripensare in radice al fondamento, alla finalizzazione e alle procedure della stessa concertazione, a partire da una valutazione sulle poste di scambio tra i diversi attori (2). Non si può ignorare che fin qui, nella esperienza italiana, la concertazione è stata per così dire finanziata dalla scala mobile e dai meccanismi retributivi c.d. automatici: fu così al tempo della legislazione dell’emergenza nella seconda metà degli anni ’70, poi negli anni ’80 quando si sperimentarono, attraverso vari conflitti, le prime forme di concertazione triangolare, e infine negli anni ’90, quando proprio la presa d’atto della definitiva abolizione di un sistema di indicizzazione automatica delle retribuzioni, che aveva caratterizzato le relazioni contrattuali italiane fin dalla metà del secolo scorso (a partire dalle indennità di “caropane” e “caro-latte” introdotte nel periodo corporativo), fu la base del complesso schema regolativo dell’accordo del luglio 1993. Cosicché è legittimo chiedersi quali possano essere le poste di scambio, dalla parte del sindacato, delle nuove  pratiche di concertazione. Una sola risposta è pensabile: l’idea di un nuovo  patto tra produttori, mirato a restituire all’Italia le condizioni per tornare ad essere un grande paese industriale e non un nuovo “giardino d’Europa”, che vive sul turismo e sul terziario.

 

2. La rinnovata modernità del contratto nazionale di lavoro

            In tale quadro di ragionamento va collocata la domanda sulla modernità ovvero sulla obsolescenza del contratto nazionale di lavoro. Questa domanda ha due risposte diverse.

            Se l’interrogativo riguarda i contenuti dei contratti nazionali di categoria la risposta non può che declinare nel senso della obsolescenza di questa figura contrattuale. Basti dare uno sguardo al vigente contratto nazionale dei metalmeccanici. Intere parti di questo contratto riflettono una immagine di archeologia giuridico-contrattuale. Se, ad esempio, si rileggono le clausole sulla classificazione professionale, introdotte ai tempi dell’inquadramento unico nel lontano 1972, sembra di rivedere un  film sulla organizzazione del lavoro dell’industrialismo di mezzo secolo fa: le esemplificazioni che corredano i profili professionali parlano di “guardafili, giuntisti, tubisti, ramisti, colatori ecc.” per le figure operaie, di “dattilografi, stenodattilografi, contabili ecc.” per quelle impiegatizie, tutte mansioni per lo più ormai inesistenti. Più in generale si può osservare che il contratto, nella parte speciale, è ancora diviso in tre sezioni (operai, intermedi, impiegati), la cui confezione risale alla legge sull’impiego privato del 1924 e che una molteplicità  di  clausole e dichiarazioni a verbale alludono a stipulazioni negoziali del tutto prive di attualità (forme di assunzione, recupero di ex-festività, cottimi ecc.). L’intero contratto dà l’idea di un documento tralaticio: una sorta di antico codice del lavoro, in cui vengono regolati minutamente sia le relazioni tra le parti (c.d. parte obbligatoria) sia la disciplina dei rapporti individuali di lavoro (c.d. parte normativa). E’ evidente che da questo punto di vista il contratto nazionale di lavoro merita di essere sottoposto a un esteso intervento di  revisione.

            Altro è il discorso se si guarda non più ai contenuti ma alla funzione del contratto nazionale di lavoro, che appare ancora oggi essenziale. In un paese socialmente e territorialmente frammentato come è divenuta l’Italia, il contratto nazionale di lavoro è infatti uno dei pochi strumenti di coesione economico e sociale. Da questo punto di vista il contratto nazionale di lavoro, pure largamente obsoleto sul piano dei contenuti e dei raggruppamenti per settori produttivi, che continuano a essere dispersi in una molteplicità di categorie in molti casi priva di fondamento, svolge una funzione non solo attuale ma persino necessaria.

            Che nell’Italia di oggi debba essere il contratto nazionale di lavoro per categorie a disciplinare minutamente  la concreta normazione dei rapporti individuali di lavoro può apparire  un non-senso. Tanto più che il vigente art. 114  cost., contenuto nella riforma del titolo V della cost. improvvidamente voluta dal centrosinistra nella scorsa legislatura, descrive il paese come un amalgama indistinto costituito da “comuni, città metropolitane, province e Stato”. La norma costituzionale vigente  appena citata (art.114) dice appunto così: “la Repubblica è costituita dai comuni ecc.”. Formula molto diversa da quella che, saggiamente, i costituenti avevano scritto: “La repubblica si riparte in Comuni, Province e Regioni”. Se la Repubblica “si riparte” vuol dire che essa intanto esiste, e poi si svolge in varie e molteplici articolazioni territoriali. Se la Repubblica invece “è costituita da comuni ecc.”, comprese le città metropolitane che non esistono e presumibilmente non esisteranno mai, vuol dire che l’entità unitaria diviene volatile, e rischia quindi di disperdersi in un indistinto di governi territoriali. Su questo i giuslavoristi non hanno riflettuto abbastanza. Essi si sono esercitati in molte esegesi della riforma del tit. V della costituzione realizzata dalla legge cost. n. 3 del 2001, poi largamente superate dalla sentenza n. 50 del 2005 della Corte costituzionale, ma non si sono interrogati a sufficienza  sul punto di fondo. Che allo stato attuale, per il diritto positivo,  l’Italia è essenzialmente un complesso di territori, debolmente unificata sul piano centrale. Infatti la fantasia territoriale si è ampiamente esercitata: i sindaci, anche di medi comuni, nominano staff e persino c.d. portavoce, altrettanto fanno i presidenti di provincia, per non parlare dei presidenti di regione; si applica generalmente nelle posizioni direttive, nella amministrazione centrale e periferica, un dissennato spoil system e si moltiplicano ai diversi livelli della amministrazione pubblica, favorite anche dai tagli alla spesa e dal blocco dei concorsi pubblici,  le assunzioni atipiche (contratti privatistici di consulenza, collaborazioni, contratti a termine ecc.). Il paese è stato territorializzato, nei fatti, senza avere assunto alcuna seria forma di tipo federale. La successiva riforma costituzionale approvata dal centrodestra, e ora al vaglio di un referendum popolare, porta alle estreme conseguenze tale tendenza. Tutto questo dice che occorre tornare a ripensare in apicibus l’assetto istituzionale della Repubblica. Ciò riguarda il diritto del lavoro e segnatamente il tema di cui qui ci stiamo occupando, quello del sistema contrattuale.

            E’ evidente infatti che se i rischi di frammentazione territoriale del paese appena descritti sono fondati,  la prima misura da concepire per quanto riguarda il sistema della contrattazione collettiva dovrebbe consistere nella strenua difesa e anzi nel rilancio della figura del contratto nazionale di lavoro per un  motivo essenziale, fino a qualche tempo fa impensabile, consistente nel fatto che il contratto nazionale di lavoro costituisce allo stato l’unico strumento unificante sul piano della normazione economico-sociale, ovvero l’unico termine di riferimento unitario a scala nazionale delle condizioni economiche e normative del lavoro dipendente italiano, per altro verso fortemente differenziate sul piano effettivo, per molte concomitanti ragioni, a livello territoriale: in sostanza l’unico strumento in  cui i lavoratori pugliesi, veneti, calabresi, lombardi ecc. possono trovare un comune e concreto punto di riferimento per la regolazione dei propri interessi.  

 

3. Il decentramento contrattuale utile e possibile

            Che un efficiente decentramento del sistema contrattuale sia necessario è indubbio. Il problema è: quale tipo di decentramento, a quali livelli e con quali funzioni. La tesi di Ichino in proposito a me pare  priva di fondamenti reali e quindi sostanzialmente astratta e intellettualistica. Tale tesi, sul punto inerente alla relazione tra sistema contrattuale e disciplina della rappresentanza sindacale, tralasciando qui ogni considerazione in tema di esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici, che costituisce tutt’altra questione, può essere così riassunta: si propone di dare vita a una ampia derogabilità del contratto nazionale di lavoro, dagli assetti retributivi agli istituti normativi quali inquadramento professionale e orario di lavoro, fino alle diverse materie implicate nella flesssibilità esterna e/o interna, ad opera di  sindacati o coalizioni di sindacati maggioritari, a ciò legittimati attraverso l’attribuzione ad essi, per via legislativa e contrattuale, di una capacità negoziale erga omnes (3). Non interessa qui discutere dei molteplici e rilevanti profili di legittimità costituzionale di tale ipotesi, ma metterne in dubbio, in via preliminare, la  fattibilità

            La tesi è centrata sulla idea della utilità e addirittura della necessità di un ampio esercizio del potere negoziale di deroga alle normative stabilite dai contratti nazionali di lavoro, quindi su  un  progressivo svuotamento del contratto nazionale mediante una diffusa sussidiarietà negoziale applicata a livello aziendale e variamente territoriale (di distretto, di provincia, di regione). Il punto cruciale sta nella individuazione del tipo di deroghe ipotizzate. Si prenda la materia retributiva: quali deroghe sono concretamente ipotizzabili rispetto ai minimi tabellari stabiliti dai contratti nazionali di lavoro? Qui si trascura un punto fondamentale: il decentramento contrattuale ovunque, da che esistono sistemi strutturati di relazioni sindacali, si è realizzato rendendo disponibili risorse aggiuntive sul trattamento della forza lavoro. Fu così ai tempi dell’avvento della contrattazione articolata nel 1962-63, e poi del decentramento realizzato con l’affermazione della contrattazione aziendale, a cavallo tra gli anni ’60 e ‘70. Non a caso la Confindustria è stata sempre fortemente contraria al decentramento contrattuale:  nel 1962-63, all’epoca dell’ “accordo separato” di Intersind e Asap, e nel 1969 al tempo del lodo Donat-Cattin. Ora invece si propone un decentramento contrattuale fondato sul criterio della deroga al ribasso rispetto ai minimi retributivi. C’è da chiedersi quale spazio reale sia in proposito disponibile. I minimi retributivi oggi stabiliti dai contratti nazionali di lavoro si aggirano, mediamente e al lordo, attorno a 1.000/1100 euro: per l’esattezza il minimo tabellare per la più alta qualifica operaia, al V livello di inquadramento, in vigore dall’aprile 2005 per il contratto nazionale dei metalmeccanici, consiste nella cifra di 1.297.56 euro che, al netto del  prelievo fiscale e contributivo, si attesta attorno ai  1.000 euro. E si parla del livello di inquadramento più alto raggiungibile da un lavoratore assunto con la normativa degli operai. Quando spiego ai miei studenti la struttura della retribuzione usando come riferimento una busta-paga media del settore industriale essi rimangono stupefatti che, dopo la complessa descrizione delle singole voci retributive, dai minimi contrattuali ai superminimi o premi di produzione aziendali, dalle maggiorazioni per lavoro straordinario agli scatti di anzianità, tolto il prelievo fiscale e contributivo la retribuzione netta di quel lavoratore si aggira attorno ai 1.100, 1.200 euro. Cosa c’è da derogare al riguardo? E poi, quale livello di negoziazione territoriale andrebbe introdotto in sostituzione di quello nazionale? Il livello regionale,  provinciale, i c.d. distretti? Ogni simulazione pratica di tale proposta lascia interdetti: non paiono immaginabili contratti regionali derogatori per la Calabria, la Puglia o la Sicilia, né contratti derogatori di livello provinciale o di area.  Al riguardo nessuna proposta fin qui formulata presenta  ipotesi convincenti. Tant’è che lo stesso documento sulle relazioni industriali presentato dalla Confindustria nel settembre 2005 ipotizza uno scenario del tutto diverso e decisamente più realistico: infatti in quel documento si afferma che “nel confermare un modello di assetti contrattuali articolato su due livelli” “al contratto collettivo nazionale continua ad essere affidato il compito di definire la dinamica dei trattamenti economici per ciascun livello di inquadramento” mentre “la contrattazione di secondo livello…deve conseguire un’effettiva variabilità dei premi in funzione dei risultati ottenuti nella realizzazione di obiettivi concordati fra le parti” (4).

            Nelle condizioni date, la proposta di un decentramento contrattuale indeterminato e senza principi  appare quindi  semplicemente  irrealistica, ancor prima che criticabile in sé.

            Altra cosa è immaginare un diverso rapporto tra contratto nazionale di lavoro e contrattazione decentrata in materia di gestione dei rapporti di lavoro, dal tema dell’inquadramento professionale, dell’orario di lavoro e delle diverse forme di flessibilità, fino a quello della retribuzione legata alla produttività. Qui vi è ampio spazio per una forte modernizzazione del contratto nazionale di lavoro: oltre al tema risalente dell’accorpamento degli inquadramenti contrattuali, già vent’anni fa segnalato con la proposta del “contratto d’industria” (5), va posto quello della riscrittura delle clausole più legate alle normative tipiche del vecchio industrialismo, da quelle in materia di inquadramento professionale a quelle riferite alla organizzazione del tempo di lavoro, oltre ad una serie di istituti normativi per i quali è necessaria una forte manutenzione (l’inquadramento per categorie speciali, i codici disciplinari, le norme in materia di formazione e diritto allo studio ecc.).

            In primo luogo occorre quindi aggiornare i testi dei contratti nazionali. Negli stessi contratti nazionali andrebbero poi introdotte clausole finalizzate ad un intelligente e mirato decentramento negoziale. La tecnica da utilizzare in proposito è quella delle “clausole di rinvio”. Su un complesso di materie il contratto nazionale potrebbe rinviare alla contrattazione decentrata la specificazione, l’integrazione e la stessa sperimentazione di nuovi assetti normativi: si pensi al tema della organizzazione dell’orario di lavoro, della gestione dei diversi strumenti di flessibilità organizzativa, in chiave di flessibilità interna ed esterna, e alla stessa materia dell’inquadramento professionale. Questo è un punto cruciale. E’ difficile infatti immaginare rispetto alla molteplicità degli assetti produttivi e professionali una ri-disciplina organica degli inquadramenti e della classificazione professionale sul piano centrale/nazionale. Più realistico appare il fatto che a partire da una serie di linee guida non solo si consenta ma si incentivi una diffusa sperimentazione in sede decentrata di specifici assetti negoziali. Saremmo in questo caso più nel campo di una feconda  sperimentazione piuttosto che in quello riduttivo e in fondo misero della pura e semplice deroga. D’altronde proprio così si dette vita negli anni ’70 alle nuove normative sull’inquadramento unico: esse non vennero calate dall’alto dalle normative del contratto nazionale; il contratto nazionale invece finì con il recepire le innovazioni negoziali introdotte in sede di contrattazione aziendale.

            Nell’immaginare nuovi rapporti tra contratto nazionale e diversi livelli di contrattazione decentrata ci si può spingere più in là, fino ad ipotizzare che sia il contratto nazionale stesso a legittimare, in casi specifici e limitati, vere e proprie discipline derogatorie, attraverso specifiche “clausole di uscita”,  secondo la formula utilizzata nella relazione della Commissione per la verifica del protocollo del 23 luglio 1993 licenziata il 25 maggio 1998 (c.d. Commissione Giugni), i cui suggerimenti sono largamente attuali (6). Tali “clausole di uscita” non alludono a deroghe generalizzate e indeterminate, ma a specifici e specializzati assetti regolativi, nella logica praticata, a volte con successo, dai c.d. “patti territoriali” e dai “contratti di riallineamento”. L’essenziale è che tutto questo si svolga sulla base di un governo razionale del sistema, attraverso un controllo da parte dei soggetti contrattuali dei processi di applicazione differenziata del contratto nazionale di lavoro a scala territoriale, in ragione di specifiche clausole di rinvio e di obbligo a negoziare su scala decentrata. Un decentramento, in sostanza, governato dal centro, come dal centro si devono governare le più complesse procedure di concertazione. In questo quadro i rinvii negoziali alla dimensione decentrata (sia essa aziendale o territoriale) si svolgerebbero in un quadro di certezza. Il rinvio alla contrattazione decentrata assumerebbe un carattere davvero sussidiario e non sostitutivo, essendo ben noto che poiché allo stato attuale la contrattazione decentrata  copre appena un terzo delle imprese, un decentramento generalizzato e non governato dal centro determinerebbe, al di là delle buone intenzioni  di chi lo propone, una disarticolazione  del sistema delle relazioni sociali  e la sottrazione da una regolazione sociale di base di ampie quote di lavoratori occupati nei settori delle piccole imprese e dei servizi.

 

4. Conclusioni

            In conclusione la necessaria  innovazione delle politiche del lavoro può essere riassunta nei seguenti termini. Occorre anzitutto procedere a  una depurazione delle vigenti normative in materia di flessibilità, attraverso una sostanziale riscrittura della legge n. 30 del 2003 orientata ai seguenti fini: promuovere efficaci politiche di accesso al lavoro attraverso forme flessibili di impiego e al tempo stesso inibire l’uso prolungato dei contratti flessibili come modo ordinario di esercizio delle attività d’impresa; incentivare l’assunzione a tempo indeterminato da parte delle imprese con misure di agevolazione fiscale e contributiva; rafforzare la capacità operativa dei centri per l’impiego anche adottando interventi sostitutivi dove le strutture pubbliche territoriali non raggiungono standard adeguati di efficienza (7). Sul versante delle relazioni sociali occorre creare le condizioni per la stipulazione di un nuovo e grande patto di concertazione, fondato sulla definizione di chiare regole in ordine alla politica dei redditi e alle politiche di sviluppo: in quel patto dovrebbero anche ridefinirsi le regole essenziali del sistema contrattuale, sulla falsariga metodologica dell’accordo del luglio 1993. Parte essenziale di quell’accordo dovrebbe essere costituito dall’impegno del governo di proporre in tempi brevi una legge finalizzata alla estensione erga omnes dei contratti collettivi, a livello nazionale e aziendale, fondata sulla regola di maggioranza e sulla garanzia del dissenso, tramite referendum. In tale contesto i sindacati potrebbero procedere a una revisione del sistema contrattuale fondata sulla attribuzione al contratto nazionale di lavoro di una funzione di disciplina di trattamenti minimi e inderogabili su alcuni istituti essenziali (minimi retributivi, orario di lavoro, inquadramento professionale ecc.), rinviando con apposite clausole alla contrattazione decentrata (a livello sia aziendale che territoriale) l’integrazione e/o  la modificazione delle clausole stabilite dal contratto nazionale, ovvero la sperimentazione di nuovi assetti normativi sulla base di chiari limiti determinati dal contratto nazionale.

Luigi Mariucci

Ordinario di diritto del lavoro nell'Università di Venezia

 

2 maggio 2006           

Note

(1) Cfr. P.Carniti, “Modello contrattuale? Prima parliamo di salari”, in www.eguaglianzaeliberta.it .

(2) Cfr. in tema gli interventi nel n.2/2004 di Lavoro e diritto, dedicato a “Concertazione e unità sindacale”.

(3) P. Ichino, “A che cosa serve il sindacato?”, Milano, Mondatori, 2005. La tesi di Ichino è criticata radicalmente, tra gli altri, da A Lettieri, “Il far West della contrattazione”, in www.eguaglianzaeliberta.it. e da P.G.Alleva in molteplici scritti, da ultimo in “La riforma del sistema contrattuale”, www.cgil.it/giuridico/ .

(4)“Relazioni industriali. Per una maggiore competitività delle imprese, lo sviluppo dell’occupazione e la crescita del paese”, Le proposte di Confindustria, 22 settembre 2005.

(5) “L’esigenza di procedere ad una razionalizzazione del numero dei contratti collettivi nazionali di categoria stipulati nell’ambito del sistema  Confindustria (attualmente 70 contratti nazionali disciplinano il rapporto di lavoro di circa 4 milioni e mezzo di lavoratori subordinati)” è ribadita dall’appena citato documento della Confindustria del 22 settembre 2005.

(6) Cfr. la Relazione finale della Commissione per la verifica del protocollo del 23 luglio 1993, del 25 maggio 1998. Puntuali osservazioni al riguardo sono formulate da B.Caruso, “Contrattazione, la realtà è più complessa di una polemica”, www.eguaglianzaeliberta.it .

(7) Per approfondimenti si vedano  “Dopo la flessibilità,cosa? Le nuove politiche del lavoro”, a cura di L.Mariucci, Il Mulino, 2006 e il fascicolo n.2/3 di Lavoro e diritto del 2006.

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