Mancata assegnazione di mansioni e lesione della professionalità

 

Tribunale di Roma, 28 febbraio 1990 - Pres. Iacuzio - Est.  Pivetti - Rai S.p.a. (avv.  De Stefano) c. Pirarba (avv.  D'Amati).

 

Mancata assegnazione di mansioni - Illegittimità - Conseguenze - Fattispecie.

 

L'illegittima condotta del datore di lavoro, consistente nel retribuire il dipendente non assegnandogli alcuna mansione, autorizza il giudice ad ordinargli di assegnare al dipendente le mansioni proprie della qualifica di appartenenza e a risarcirgli i danni subiti (nella fattispecie il datore di lavoro è stato condannato a risarcire i seguenti danni: a) mancati guadagni che il lavoratore avrebbe potuto legittimamente conseguire (perdita di chances professionali) e mancata effettuazione di lavoro straordinario; b) perdita di professionalità derivante dalla mancata esecuzione delle prestazioni; c) lesione della dignità professionale e personale del lavoratore.

 

Svolgimento del processo e motivi della decisione

 

Il 14 aprile 1976 Giulio Cesare Pirarba stipulò con la Rai Radiotelevisione italiana S.p.a. una «conciliazione sindacale» ai sensi degli art. 441 c.p.c., volta a definire una controversia da lui promossa al fine di ottenere il riconoscimento dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra lui e la Rai.  Con tale accordo le parti stabilivano l'immediata assunzione del Pirarba nonché l'impegno dell'ente a inquadrarlo come annunciatore televisivo non appena avesse deciso di coprire a Roma un posto inerente a tale qualifica.  Con un successivo ricorso del 12 dicembre 1979, Giulio Cesare Pirarba convenne a giudizio l'ente radiotelevisivo affermando che quest'ultimo aveva inquadrato altre persone quali annunciatori televisivi a Roma senza però provvedere a fare altrettanto con lui.  Chiedeva quindi che la Rai fosse condannata a dare esecuzione all'impegno assunto e quindi a inquadrarlo in V classe, con la qualifica di annunciatore televisivo. La Rai si costituì deducendo che, dopo l'accordo transattivo, il Pirarba era stato sottoposto a un « provino» che non aveva avuto un esito positivo in quanto egli era risultato non telegenico e quindi non idoneo alle mansioni di annunciatore televisivo.  La società chiese quindi il rigetto della domanda appellandosi anche agli artt. 1256 e 1460 c.c. La domanda venne accolta dal Pretore e la sentenza venne confermata in appello e in cassazione.  Con lettera del 29/1/82, la Rai comunicò al Pirarba di averlo assegnato, in esecuzione della sentenza, alla IV classe di retribuzione con la qualifica di annunciatore televisivo.  Dopo di ciò egli fu utilizzato per un breve periodo di tempo quale annunciatore televisivo in varie redazioni televisive, riuscendo peraltro non gradito, a dire della Rai, alla direzione delle relative testate a causa della sua mancanza di telegenia.  Gli venne quindi offerto di svolgere prestazioni di annunciatore soltanto «in voce», ma egli rifiutò l'adibizione a una prestazione «dimezzata».  Venne quindi lasciato inoperoso, nonostante le sue rimostranze, e invitato a presentarsi in azienda solo per timbrare il cartellino di presenza, pur continuando a ricevere regolarmente lo stipendio e gli altri emolumenti ordinari.  Nel ricorso introduttivo del presente giudizio egli denunciò l'illegittimità di tale comportamento della Rai e dedusse che dallo stesso gli erano derivati danni dai quali aveva diritto di essere risarcito.  In particolare vi era stata lesione della sua reputazione e della sua dignità professionale, una menomazione della sua identità, una dequalificazione professionale e la perdita sia di concrete fonti di guadagno (collegate sia al lavoro straordinario che veniva svolto normalmente dagli annunciatori televisivi non assoggettati come lui a una condizione di forzata inoperosità), sia alla possibilità di trovare - grazie alla notorietà che l'apparizione in video determina - occasioni di ingaggio al di fuori della Rai per spettacoli ed altre utilizzazioni.

Il Pretore, con la sentenza qui in esame, ha affermato che il Pirarba aveva diritto a espletare tutte le mansioni proprie della qualifica di annunciatore televisivo e aveva correlativamente il diritto a rifiutare l'espletamento di una prestazione non già solo parziale, ma intrinsecamente diversa da quella contrattuale, quale era quella cui la Rai intendeva adibirlo.  Il comportamento della Rai era stato quindi illegittimo e dava al Pirarba il diritto al risarcimento del danno che ne era conseguito.  Il Pretore ha quindi liquidato lire 10.000.000 per il danno che, con riferimento alle occasioni di lavoro extracontrattuali, era stato provocato al ricorrente dal fatto di non aver potuto godere di quella notorietà che le apparizioni in video gli avrebbero procurato.  Altri 10 milioni sono stati liquidati per il danno che la forzata inattività aveva provocato alla professionalità del Pirarba.  Il Pretore ha invece escluso la risarcibilità del danno collegato alla perdita dei compensi per lavoro straordinario, del danno morale e del danno per lesione dell'identità personale.

2.         Con una censura preliminare, la Rai rileva che la scelta degli annunciatori televisivi, ai quali far leggere i telegiornali, non spetta al giudice, ma all'insindacabile valutazione dei direttori delle testate giornalistiche, e ciò era dimostrato proprio da quella mancanza di previsioni contrattuali circa i criteri di scelta e i canoni di telegenia che invece il Pretore aveva posto a base della sua argomentazione, insieme alla considerazione che la posizione della Rai non trovava riscontro neppure nell'aspetto fisico del ricorrente.  Una valutazione, quest'ultima, che spettava soltanto al discrezionale apprezzamento dei direttori di testata, i quali avevano anche il diritto di modificare le loro scelte, nel senso di variare il volto delle persone che leggono il telegiornale, senza che costoro potessero rivendicare una sorta di possesso territoriale del video.  Sicché la decisione di primo grado si traduceva in una lesione dell'autonomia professionale di tali direttori e quindi anche dei diritti loro riconosciuti dall'art. 2103 c.c.

Il Tribunale rileva che la motivazione della sentenza pretorile è basata esclusivamente su basilari princìpi giuridici in tema di autonomia negoziale e non già sulle personali valutazioni del giudice circa l'idoneità o meno del ricorrente a esercitare le mansioni di annunciatore televisivo (è opportuno precisare che nella pronunzia non vi è nulla che possa implicare l'affermazione dell'utilizzabilità del Pirarba soltanto presso i telegiornali e non anche in altre trasmissioni. E’ un profilo che non ha rilievo ai fini della decisione della questione in esame, ma la precisazione appare ugualmente opportuna allo scopo di evitare il rischio di equivoci circa gli effetti della sentenza).

E’ appunto un principio basilare dell'autonomia negoziale quello secondo cui il contratto vincola le parti: sarebbe infatti privo di senso che l'ordinamento riconoscesse ai soggetti dotati di capacità di agire la possibilità di autoregolarsi, se poi non attribuisse efficacia giuridicamente,vincolante al regolamento che le parti hanno liberamente adottato, e trattasse invece le loro dichiarazioni di intenti.  Il Pretore ha affermato che il Pirarba aveva il diritto di svolgere la prestazione di annunciatore in video (o meglio, anche in video) non già perché era idoneo a svolgerla, ma perché questa era la prestazione concordata contrattualmente tra il medesimo e la Rai e nessuna clausola dell'accordo prevedeva che potesse aver rilevanza alcuna, al riguardo, un successivo giudizio positivo o negativo di telegenia.  Un concetto, questo, che già era stato statuito nella precedente vicenda processuale dal giudice di primo grado, da quello d'appello e da quello di legittimità.  Il riferimento contenuto nella sentenza all'ipotesi di un aspetto fisicamente ripugnante è stato riportato dall'appellante in modo non corretto.  Ben lungi dall'enunciare parametri per la scelta degli annunciatori televisivi, il Pretore si è limitato a osservare che la questione avrebbe potuto porsi in termini diversi nell'ipotesi di modificazioni di fatto successive al contratto, come a esempio nel caso di traumi o malattie deformanti, tali da indurre nell'utente ripugnanza al cospetto dell'immagine dello sventurato annunciatore.  Così pure è stato frainteso il riferimento all'aspetto fisico del Pirarba, formulato dal Pretore non già come fondamento della propria decisione, ma come sottolineatura dell'insostenibilità dell'impostazione difensiva della Rai; e anche, forse, per non lasciare che una trattazione esclusivamente giuridica (quale doveva necessariamente essere) di tale impostazione potesse assumere l'aspetto di una sorta di attestato implicito di brutta presenza.

Ciò premesso, il Tribunale rileva che, secondo la difesa dell'appellante, i diritti derivanti al ricorrente dal contratto e dall'art. 2103 c.c. troverebbero un condizionamento o un limite nell'autonomia professionale dei direttori di testata e nelle loro facoltà di apprezzamento discrezionale.  L'unico supporto normativo addotto al riguardo è il medesimo art. 2103, riferito però, appunto, ai direttori suddetti.

Tale argomentazione è giuridicamente incomprensibile.

Nessun criterio interpretativo, neppure il più sofisticato e «creativo», può consentire di leggere nell'art. 2103 qualcosa per cui ai lavoratori che operano alle dipendenze di direttori di testate telegiornalistiche trovi applicazione quello jus variandi in pejus che invece è stato abrogato con la riforma del 1970.

Neppure può essere riconosciuto alcun rilievo giuridico alla circostanza, esposta dalla Rai, secondo cui sarebbero previsti soltanto dìeci annunciatori televisivi nell'organigramma aziendale.  Di tale propria impostazione organizzativa l'azienda avrebbe ben potuto tener conto prima di assumere il Pirarba con quella qualifica.  Ma essendosi essa stessa diversamente regolata, non è dato comprendere in base a quale norma la circostanza dedotta potrebbe modificare diritti ed obblighi contrattuali delle parti.

Né il diritto della Rai ad adibire il Pirarba a mansioni esclusivamente di voce fuori campo (ovvero a mansioni di annunciatore radiofonico) è stato sostenuto sotto il profilo dell'equivalenza, sicché tale profilo, che coinvolgerebbe ragioni di diritto e di fatto diverse da quelle allegate dalle parti, non deve essere qui esaminato.

3.      Va tenuto quindi per fermo che l'esclusione delle prestazioni in video e l'utilizzazione del Pirarba soltanto come annunciatore radiofonico o come voce fuori campo costituisce una modifica in pejus rispetto alle mansioni per le quali egli era stato assunto e cioè rispetto alle mansioni proprie della qualifica di annunciatore televisivo.  La stessa norma contrattuale, del resto (v. p. 54 del Ccnl) colloca l'annunciatore televisivo a Roma, Milano, Napoli o Torino a un livello superiore rispetto all'annunciatore radiofonico nelle medesime città e considera le prestazioni in video elemento rilevante per l'avanzamento.  Questo punto, come si è detto, non ha comunque formato oggetto di contestazione da parte della Rai.

Ai sensi dell'art. 2103 e della disciplina generale sui contratti la modifica unilaterale in pejus delle mansioni del lavoratore è illegittima (Cass. 8/9/88 n. 5092; Cass. 29/11/88 n. 6441; Cass. 2516/89 e numerose altre), e il lavoratore ha quindi il diritto di rifiutare l'esecuzione di una prestazione lavorativa diversa e meno qualificata di quella contrattualmente dovuta, salvo che si tratti di una richiesta di carattere non solo temporaneo, ma anche volta a sopperire a situazioni eccezionali di necessità e urgenza non altrimenti risolvibili dal datore di lavoro.

Parimenti è illegittimo privare il lavoratore di ogni mansione per tenerlo meramente a disposizione a tempo indeterminato (e cioè al di fuori di occasioni transitorie, limitate nel tempo e determinate da esigenze funzionari o da simili contingenze).  L'art. 2103 c.c., infatti, nello stabilire che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, configura un preciso obbligo - e non già soltanto un onere ex art. 1206 c.c. - del datore di lavoro di consentire al lavoratore lo svolgimento delle sue mansioni e quindi anche un correlativo diritto del lavoratore ad espletarle.  Il che corrisponde alla ratio di una norma che è essenzialmente diretta anche alla salvaguardia dell'interesse del lavoratore alla conservazione del proprio patrimonio professionale nonché all'accrescimento, allo sviluppo e all'affinamento di esso mediante l'esercizio stesso dell'attività lavorativa.

La visione di tale obbligo e del corrispondente diritto - sia che si concretizzi nell'assegnazione a mansioni inferiori, sia che si manifesti come privazione di ogni mansione - dà luogo alle conseguenze di cui all'art. 1453 c.c. Pertanto, il lavoratore che, in tale ipotesi, non intenda recedere per giusta causa dal rapporto, può chiedere al giudice di condannare il datore di lavoro all'adempimento di tale obbligo, salvo in ogni caso il risarcimento del danno.

In queste linee va inquadrata e accolta - nei limiti di cui si dirà in seguito - la domanda del Pirarba.

4.   Esaminando ora le specifiche censure formulate dagli appellanti alla pronunzia pretorile, deve in primo luogo essere accolta, per i motivi ora esposti, quella con cui il Pirarba lamenta che il giudice di primo grado abbia omesso di pronunziarsi (per effetto di un evidente fraintendimento circa il contenuto delle domande in esame) sulla sua richiesta di condanna della Rai ad adibirlo alle mansioni di annunciatore televisivo.  In ordine a tale domanda non può dirsi cessata la materia di contendere in virtù del fatto che il Pirarba, dopo la pronunzia pretorile, è stato effettivamente adibito a tali mansioni, in quanto non è dato sapere se si sia trattato di un'assegnazione definitiva oppure di un'ottemperanza alle prescrizioni implicite della sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva.

Né all'accoglimento della domanda può essere di ostacolo l'eventuale incoercibilità in forma specifica dell'ordine di fare in cui la richiesta pronunzia si concretizza, dato che questo è il problema che riguarda la fase esecutiva e non quella di cognizione (v. Cass. 16/3/84 n. 1833; Trib.  Roma 21/9/88 n. 5856, pres.  Dal Pont, est.  Pucci, in causa Messaggero c. Ferretti).

Deve essere infine disattesa la deduzione (formulata dalla difesa della Rai con richiamo a Cass. 20/1/87 n. 491) secondo cui la reintegrazione del lavoratore nelle mansioni delle quali sia stato illegittimamente spogliato non sarebbe possibile nel caso in esame, dato che al Pirarba non erano state mai fatte svolgere le mansioni di annunciatore televisivo.  P- chiaro, infatti, che il principio enunciato dalla Corte è riferibìle sia al caso di modificazioni in pejus delle mansioni svolte sia di adibizione a mansioni inferiori a quelle di assunzione.

5.   Restano da esaminare le censure dell'uno e dell'altro appellante in ordine alla determinazione del danno al cui risarcimento il Pretore ha condannato la Rai.

Quest'ultima critica l'attribuzione al Pirarba del risarcimento del danno per mancati guadagni da lavoro extra-aziendale per due motivi.

Con il primo motivo l'appellante deduce che l'art. 36 del contratto collettivo aziendale vieta ai dipendenti della Rai di svolgere simili attività in favore di terzi, pur al di fuori dell'orario di lavoro.  Trattandosi quindi di un'attività illegittima, la perdita della possibilità di compierla non poteva dar luogo a un danno risarcibile.  Né poteva essere condivisa l'argomentazione del Pretore, secondo cui l'eventuale illegittimità degli ingaggi extracontrattuali sarebbe stata rilevante solo sul piano disciplinare e non anche su quello della risarcibilità del danno.

Il Tribunale ritiene che anche nel campo della responsabilità contrattuale vige il requisito dell'ingiustizia del danno e che tale requisito sia da riferire all'interesse leso e non solo all'antigiuridicità della condotta lesiva.  Nel caso in cui l'inadempimento di una delle parti impedisca all'altra di compiere un'attività che quest'ultima si era contrattualmente obbligata a non compiere, non può parlarsi di lesione di un interesse meritevole di tutela, né, quindi, di danno ingiusto.

Nella fattispecie in esame, peraltro, la condotta che l'inadempimento della Rai ha impedito non incontrava, nella regolamentazione collettiva, il divieto che l'appellante deduce.

Il richiamato art. 36 dei Ccnl 16/11/83 vieta al dipendente di «trarre comunque partito a proprio vantaggio da quanto forma oggetto di disimpegno delle sue mansioni» nonché di «compiere qualunque atto od operazione che comunque possa nuocere agli interessi della società ed esercitare la propria attività professionale in concorrenza con la società» e di «valersi, anche al di fuori dell'orario di lavoro, della propria condizione di dipendente della società per svolgere a fini di lucro atti che comunque siano in contrasto con gli interessi dell'azienda».

Appare chiaro che le tre previsioni contemplano diverse manifestazioni di violazione dell'obbligo di fedeltà: la prima di esse si riferisce particolarmente all'abuso di posizione, quale quello del dipendente che compie un atto di esercizio delle proprie funzioni nell'interesse proprio, a scapito e comunque in luogo dell'interesse dell'azienda.  La seconda e la terza previsione contemplano come elemento essenziale il contrasto con gli interessi dell'azienda, anche sotto forma di concorrenza o di partecipazione ad attività concorrenziali altrui.  Tale espressa specificazione impone anzi di ritenere a contrario, che l'esercizio di attività professionale al di fuori dell'orario di lavoro è sempre consentita, ove non procuri nocumento agli interessi dell'azienda né si ponga in concorrenza con quest'ultima.

Rientrerebbe certamente in tale previsione la prestazione della propria opera a favore di reti televisive concorrenti, ovvero la partecipazione a iniziative volte o comunque idonee a ledere gli interessi economici della Rai, ma quest'ultima non ha dedotto che di tale natura siano le attività extra-aziendali delle quali, secondo le prove raccolte, gli annunciatori televisivi sono soliti trarre integrazioni ai loro guadagni (attività di doppiaggio, attività di presentazione di premi e in altri spettacoli, spots pubblicitari ecc.).

Il motivo sin qui esaminato è pertanto infondato.

6.   L'appellante censura l'aggiudicazione del risarcimento in esame per un secondo motivo, che investe anche la seconda voce del risarcimento accordato dal giudice di primo grado.  La decisione pretorile, afferma la Rai, trova il suo fondamento nel presupposto della perdita di notorietà che il Pirarba avrebbe subìto non comparendo in video, ma tale impostazione è frutto dell'erronea confusione tra notorietà e capacità professionale.  In difetto di una prova preliminare sulle capacità professionali del Pirarba, si domanda la Rai, chi può affermare che egli, dopo le sue apparizioni in video, avrebbe trovato più numerose occasioni di lavoro?

Il Tribunale osserva che la giurisprudenza ha ritenuto risarcibile il danno da perdita di notorietà ben prima che la questione fosse - correttamente - inquadrata nella risarcibilità del danno da perdita di chances. La deduzione della Rai, secondo cui dall'apparizione dei presentatore sullo schermo non deriva con certezza un aumento della sua notorietà in senso positivo, non essendo certa la sua «resa» e il gradimento del pubblico, si ispira a una concezione del danno risarcibile (e, più precisamente, del requisito della certezza del danno per la sussistenza del nesso di causalità), che, se accolta, implicherebbe invece l'irrisarcibilità di qualunque lesione di notorietà, dato che non può mai ritenersi assolutamente certo che da quest'ultima derivino nuove e più favorevoli occasioni di lavoro.  Ma la questione può ritenersi ormai risolta dal riconoscimento giurisprudenziale della risarcibilità del danno da perdita di chances (cfr. Cass. 19/4/83 n. 6906; Cass. 19/12/85 n. 6506; Cass. 1/4/87 n. 3139), secondo cui i concetti di «perdita» e di «guadagno» di cui all'art. 1223 c.c. non si riferiscono soltanto ad entità di natura direttamente pecuniaria, bensì designano qualunque utilità economicamente valutabile.  E nella realtà concreta è tale - costituisce cioè un'entità economicamente valutabile - anche una situazione che sia fonte non di reddito certo, ma di reddito soltanto probabile.  Il valore economico di tale utilità è dato, ovviamente, dall'entità del reddito che tale situazione è idonea a produrre e dal grado di probabilità esistente che tale reddito sia da essa effettivamente prodotto (così come vale l'inverso: il valore economico negativo di un rischio è determinato in base all'entità della perdita possibile e al grado di probabilità che l'evento dannoso abbia a verificarsi e tale valore è economicamente valutabile, tant'è vero che su di esso si basa, a esempio, la determinazione del prezzo di mercato per l'assicurazione contro tale rischio).  Il grado di tale probabilità influisce sull'ammontare del danno e quindi sulla misura del risarcimento, ma non sulla risarcibilità del danno così identificato come perdita della possibilità di conseguire un risultato utile e non come perdita di quel risultato.

In applicazione di tali principi, una volta accertato l'inadempimento da parte della Rai all'obbligo di consentire le prestazioni in video del ricorrente, era da valutare, in base agli elementi di fatto emersi dall'istruttoria, nonché in base a criteri, anche equitativi, di ragionevolezza, verosimiglianza e comune esperienza, se e in quale misura l'esecuzione di tali prestazioni era idonea a rendere probabile la nascita o la crescita di una notorietà dell'artista, intesa, a sua volta, non tanto come bene a sé stante (profilo, questo, non considerato dal Pretore, senza che al riguardo vi sia stata censura) ma come fattore che determina a sua volta la probabilità di ulteriori occasioni di lavoro extra-aziendali.

A tal fine è certamente da prendere in considerazione anche l'ovvia influenza che la capacità professionale - e più in generale la capacità di essere gradito al pubblico - avrebbe avuto sulla «resa economica» di tale notorietà.  La mancanza di prove - in un senso e nell'altro - in ordine a tale elemento, incide peraltro anch'essa sulla valutazione dell'entità e della probabilità del reddito potenziale perduto e quindi sulla misura del danno, non sulla risarcibilità di esso.

Nessun rilievo specifico è stato svolto in ordine alla concreta determinazione quantitativa del danno operata in via equitativa dal Pretore.  Il Tribunale ritiene comunque che tale determinazione - che ha fatto riferimento alla metà dei compensi che mediamente gli altri annunciatori ricavavano da occasioni di tale genere - sia da confermare, perché appare  tener congruamente conto sia del carattere solo probabile del reddito sul quale parametrare il risarcimento, sia della minore influenza della notorietà su una parte di tali prestazioni extra-aziendali (in particolare, quelle di doppiaggio).

Anche questo motivo deve quindi essere respinto.

7.      E a maggior ragione esso deve essere respinto quando investe il capo della sentenza con cui la Rai è stata condannata al risarcimento del danno per la lesione della propria professionalità che il Pirarba ha subito a causa dell'allontamento continuo dall'attività lavorativa.

Al riguardo è di notare che la decisione pretorile sul punto non è collegata alla perdita di notorietà, ma al pregiudizio subito dal Pirarba al proprio patrimonio professionale effettivo e potenziale e cioè proprio all'interesse direttamente tutelato dalla prima delle proposizioni prescrittivi dell'art. 2103 c.c.

In concreto, che la forzata inoperosità cui il Pirarba è stato costretto dalla Rai per oltre tre anni sia stata idonea a ledere la professionalità del medesimo, appare realistico sulla base di nozioni di comune esperienza nonché degli specifici elementi di fatto del caso in esame.  Occorre in primo luogo, infatti, considerare che si trattava di un annunciatore televisivo sostanzialmente alle prime armi, e quindi con una professionalità specifica presumibilmente ancora da costruire o quanto meno da affinare.  In secondo luogo è certo che, per un'attività quale quella dell'annunciatore televisivo, il concreto esercizio di essa e il bagaglio di esperienze e di verifiche che tale esercizio comporta, costituiscono elementi indispensabili appunto per lo sviluppo e l'affinamento della specifica capacità professionale, specialmente nella fase iniziale della vita lavorativa in questo specifico settore.  In termini più concreti e più ovvi: a parità delle altre condizioni, un presentatore televisivo che abbia già esercitato per tre anni tale attività è di regola più bravo di quello che sia rimasto inoperoso per lo stesso arco di tempo.

Che la professionalità sia un bene economicamente valutabile è altrettanto ovvio, posto che essa rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore economico di una persona nel mercato del lavoro.

La lesione della professionalità - e cioè la riduzione di essa, il ritardo nel suo completamente, il mancato affinamento ecc. - costituisce quindi danno risarcibile.

La pronunzia pretorile sul punto è pertanto ineccepibile, né è stata censurata dalla Rai la concreta determinazione equitativa di tale danno.

Un gravame è stato invece proposto al riguardo dal Pirarba, che ha chiesto che il danno in questione fosse liquidato in misura pari alle retribuzioni previste per la prestazione che non gli è stato consentito di svolgere.

Il Tribunale ritiene che tale parametro non abbia alcuna base logica e oggettiva, posto che il valore della prestazione per colui che la riceve è diverso da quello che la prestazione stessa può avere per chi la esegue, diversi essendo gli interessi in questione.  Appare quindi da confermare l'equilibrata liquidazione equitativa operata dal Pretore.

8. Il Pretore non ha invece accolto quella parte della pretesa risarcitoria che si riferiva al mancato guadagno per lavoro straordinario.

Motivando tale decisione, il Pretore ha osservato in primo luogo che se il lavoratore ha certamente diritto al compenso per il lavoro straordinario svolto, egli non ha nessun diritto a svolgere lavoro straordinario.  In secondo luogo, il Pìrarba non aveva subito alcun danno sotto il profilo in esame in quanto non aveva di fatto svolto lo straordinario in questione.

Il Pirarba censura tale decisione e il suo gravame deve essere parzialmente condiviso.

Il Tribunale osserva che agli argomenti esposti dal Pretore si oppongono princìpi in tema di lucro cessante: in verità, dall'impostazione enunciata dal giudice di primo grado deriverebbe, se accolta, un ridimensionamento quanto mai drastico del concetto stesso di «mancato guadagno» ai.sensi dell'art. 1223 c.c. Tale norma, infatti, fa riferimento al guadagno che il danneggiato avrebbe di fatto normalmente avuto senza l'evento dannoso (l'inadempimento) e che invece non ha avuto in conseguenza di esso, prescindendo dalla considerazione di relazioni giuridiche precostituite, salva l'esclusione della risarcibilità per mancati guadagni che sarebbero stati il frutto di attività vietate dall'ordinamento.  Così pure, allorquando il guadagno mancato è rappresentato dal corrispettivo di una prestazione di fare che è stata impedita, può venire in rilievo, agli effetti dell'art. 1227 c/o della compensatio lucri cum damno (o comunque ai fini della determinazione del valore netto della perdita), il fatto che il danneggiato abbia impiegato (oppure avrebbe potuto impiegare, usando l'ordinaria diligenza) in altri compiti lucrativi il tempo che era destinato alla prestazione in questione. Il tempo che sia stato recuperato al riposo e alla libera disposizione di sé, non viene generalmente considerato quale posta di questo bilancio economico volto a comparare lo stato del patrimonio quale esso è dopo l'inadempimento e quale sarebbe stato senza di esso, ma è tuttavia un elemento che in taluni casi può essere tenuto in considerazione ai fini di quella valutazione equitativa che sempre occorre fare per determinare il danno da lucro cessante.

Nella specie, il fatto che se al Pirarba fosse stato consentito di svolgere le mansioni di annunciatore televisivo che gli spettavano, egli avrebbe svolto anche lavoro straordinario, ricevendone il relativo compenso, è sufficientemente dimostrato dal fatto, provato nell'istruttoria di primo grado, che tutti gli annunciatori televisivi sono chiamati a prestazioni straordinarie in misura notevole, nonché dal fatto, qui documentato dalle buste paga prodotte, che lo stesso Pirarba, una volta reintegrato nelle mansioni suddette, ha anch'egli fruito di tali compensi per una media di lire 500.000-600.000 al mese.  Considerato peraltro che il non gradimento avrebbe potuto influire in senso riduttivo sull'assegnazione di lavoro straordinario all'appellante e che l'entità di esso poteva variare a seconda dei servizi ai quali egli fosse stato addetto, appare equo e prudenziale determinare in complessive lire 10.000.000 il danno risarcibile per tale mancato guadagno.

10.    In accoglimento parziale del relativo motivo di appello formulato dal Pirarba, la Rai deve altresì essere condannata al risarcimento del danno derivante dalla lesione che il suo comportamento ha cagionato alla dignità professionale e personale del lavoratore, inteso come danno alla vita di relazione,

Ha giustamente posto in rilievo la difesa dell'appellante che il fatto che quest'ultimo sia stato accantonato e mantenuto in ozio retribuito non può non averlo qualificato, agli occhi della collettività aziendale, come peso morto, inutile, se non addirittura dannoso per l'azienda.  Se poi si aggiunge che tale forzata inoperosità si collegava ostentatamente a un giudizio di inettitudine professionale, è chiaro che l'appellante ha subìto una sensibile menomazione della propria immagine nel proprio ambiente professionale e di lavoro e tale lesione costituisce, secondo princìpi ormai consolidati, un danno che non è morale, ma è patrimoniale indiretto.

Per questo titolo appare equo liquidare complessive lire 4.000.000, tenendo conto sia della durata della situazione di emarginazione in cui l'appellante è stato tenuto, sia del recupero di immagine che è presumibilmente derivato dalla sua successiva assegnazione alle mansioni che gli spettavano.

11. Debbono essere invece respinte le pretese risarcitorie relative al danno morale (che è risarcibile solo quando derivi da reato) e al danno da lesione dell'identità personale.  Non vi è stata infatti nella specie alcuna falsa rappresentazione all'esterno della persona del Pirarba, mediante l'attribuzione al medesimo di atti, fatti, pensieri o situazioni a esso estranei o mediante la negazione di ciò che a lui era proprio.

12.    In considerazione dell'esito della lite anche le spese del giudizio d'appello vanno poste a carico della Rai.

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