Lavoro: le carte truccate del governo (*)
L’evidente inattendibilità del tasso d’inflazione
programmata indicato dal governo nel DPEF e le sue negative ripercussioni
sull’imminente stagione dei rinnovi contrattuali, tanto più probabili dopo il
penoso balletto di contraddittorie dichiarazioni in cui si sono esibiti, nell’arco
di pochi giorni, presidente del consiglio e ministro del lavoro, presentano
almeno un aspetto positivo: da esse, infatti, può derivare una spinta oggettiva
a riprendere le fila del dialogo fra le tre maggiori confederazioni dopo le
profonde lacerazioni degli ultimi mesi. E’ ancora presto, naturalmente, per
dire se le ragioni di una rinnovata unità d’azione riusciranno a farsi valere
nella misura che sarebbe necessaria per difendere con più efficacia il potere
d’acquisto dei lavoratori minacciato dalle scelte di politica economica del
governo. Certo è che quell’unità potrebbe essere facilitata, e resa più
credibile, se alla questione salariale si intrecciasse una rigorosa battaglia
per la tutela dei diritti: a partire da quelli che il governo si propone di manomettere
in sede di approvazione delle misure legislative attuative del Patto per
l’Italia.
Nella calura estiva la questione, apparentemente solo
tecnica, è stata quasi completamente trascurata. Vale la pena di riprenderla
adesso: giacché con la ripresa dei lavori parlamentari i nodi non sciolti del
Patto per l’Italia verranno al pettine. Alla vigilia della firma del Patto
s’era cercato, sulle colonne di questo giornale, di porre in evidenza tutti gli
abusi cui le modifiche prospettate nella legislazione del lavoro, a prima vista
marginali e di scarso rilievo, avrebbero potuto prestarsi nell’esperienza
applicativa. I contenuti del Patto, purtroppo, non smentiscono quelle
preoccupazioni ed anzi le rafforzano, sol che si abbia la pazienza di leggerlo
sino in fondo, soffermandosi in particolare sugli allegati n. 2 e 3: è in
questa coda velenosa, infatti, che si è depositato l’armamentario giuridico
funzionale ad agevolare la diffusione della frode nel mercato del lavoro.
L’allegato n. 2 si occupa della modifica al regime
dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, con l’obiettivo dichiarato di
promuovere la “crescita dimensionale delle imprese”. Il testo della norma,
viceversa, conferma che essa, per come risulta sinora costruita, servirà
soprattutto ad imprese ben al di sopra della fatidica soglia dei quindici
addetti per eludere le regole attualmente esistenti in materia di protezione
dai licenziamenti illegittimi. Come si spiega l’arcano? Semplicissimo: tutto
dipende dal fatto che il (nuovo) campo d’applicazione dell’art. 18 viene
disegnato senza nessun riferimento ai datori di lavoro, ma limitandosi
semplicemente a prevedere che tutti i lavoratori assunti con contratto a tempo
indeterminato, nei tre anni successivi all’emanazione del decreto legislativo
con cui la modifica dell’art. 18 sarà resa operativa, non verranno presi in
considerazione al fine di determinare la consistenza occupazionale
dell’impresa. Per chi volesse compiere operazioni fraudolente, a questo punto
risulta aperto non un sentiero, ma una superstrada a scorrimento veloce.
Tralasciando ipotesi più sofisticate e complesse, la verità è infatti che la
modifica prefigurata lascia incredibilmente spazio alle operazioni più
immediate e dirette di aggiramento dell’art. 18. Basta un esempio banale per
rendersene conto: con la legislazione attuale una grande impresa, poniamo del
settore della distribuzione commerciale, intenzionata ad aprire un nuovo
supermercato, si limiterebbe a costituire un’unità produttiva (uno
stabilimento, una filiale) della stessa casa-madre, applicando conseguentemente
a tutti i nuovi assunti la disciplina dell’art. 18; domani sarà invece assai
più conveniente dar vita ad una nuova società
(dal punto di vista giuridico-formale diversa e separata dalla prima,
ancorché da essa controllata al 100%), la quale potrà senza affanni procedere
ad assunzioni anche di centinaia di addetti, superando la soglia dei quindici
dipendenti senza applicare a nessuno l’art. 18.
Né si dica che non sarebbe possibile formulare un enunciato
normativo meno ambiguo: se l’obiettivo fosse davvero quello dichiarato, ovvero
il sostegno alla crescita dimensionale delle piccole imprese, si potrebbe
agevolmente tradurre la pretesa volontà del legislatore in una disposizione di
significato pur sempre discutibile, ma comunque inequivoco, chiarendo che la
nuova disciplina si applica solo e soltanto alle imprese con meno di quindici
addetti già esistenti alla data (5 luglio 2002) della firma del Patto per
l’Italia. Se così non sarà, si dovrà necessariamente riconoscere ancora una
volta la natura a doppio fondo delle politiche del governo della destra: tante
chiacchiere attorno al problema della crescita dei livelli occupazionali per
celare il regalo che si vuol fare alla Confindustria della deregolazione del
mercato del lavoro.
Quanto all’allegato n. 3, ciò che si prospetta con riguardo
alla disciplina del trasferimento d’impresa è non meno stupefacente. E’ noto,
ed è stato ampiamente ricordato prima della firma del Patto, che la
legislazione vigente, approvata nel 2001 dal governo di centrosinistra per dare
attuazione alla seconda direttiva comunitaria in materia, richiede, perché
possano applicarsi le regole relative al trasferimento d’impresa anche al
trasferimento di un ramo aziendale, che quest’ultimo costituisca
un’articolazione funzionalmente autonoma di un’impresa, “preesistente come tale
al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”. Il
testo attuale dell’art. 2112 del codice civile, nel quale si rintraccia
l’indicazione in parola, è frutto della riforma del 2001 e rispecchia
puntualmente i contenuti della direttiva comunitaria e della giurisprudenza
della Corte di giustizia. Con la consueta disinvoltura nei confronti delle
regole europee, il governo vorrebbe adesso intervenire sulla disciplina vigente
e modificarla nel senso che il requisito dell’autonomia funzionale del ramo
d’azienda dovrebbe sussistere solo “nel momento del suo trasferimento”: un
banale escamotage linguistico, dietro il quale non è difficile scorgere
l’intenzione di legittimare la costituzione di fittizi rami d’azienda, mai
esistiti prima dell’operazione di trasferimento, al solo scopo di consentire
l’espulsione dei lavoratori addetti al preteso ramo aggirando qualsiasi regola
in materia di licenziamento.
L’aspetto
più strabiliante dell’operazione, ad ogni modo, va ravvisato nella circostanza
che essa viene presentata come funzionale alla “completa conformazione della
disciplina vigente con la normativa comunitaria” ed in particolare motivata
dall’obbligo di recepire nell’ordinamento interno una direttiva comunitaria (la
direttiva n. 2001/23 del 12 marzo 2001). Ora, a parte il fatto che la normativa
comunitaria è già stata recepita nel nostro ordinamento senza suscitare alcuna
contestazione da parte delle autorità di Bruxelles (in particolare con riguardo
alla decisiva questione dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda
preesistente al suo trasferimento), l’elemento davvero grottesco dell’intera
vicenda sta proprio in questo: nel proposito dichiarato di voler trasporre
nell’ordinamento nazionale una normativa europea che non è affatto destinata ad
esservi recepita. La direttiva n. 2001/23, infatti, costituisce una sorta di
testo unico, meramente riepilogativo dei contenuti delle due precedenti
direttive comunitarie in materia, già entrambe recepite nel nostro ordinamento
interno. Una direttiva del genere non deve, né può essere trasposta nei singoli
ordinamenti nazionali: tant’è vero che essa non fissa alcuna data entro la
quale provvedere al recepimento, limitandosi semplicemente a richiamare, nel
suo art. 12, “gli obblighi degli Stati
membri relativi ai termini d’attuazione” delle due precedenti direttive sulla
stessa materia.
Il pasticcio, se proprio non si vuol pensare ad un gioco
delle tre carte, aveva cominciato ad essere preparato con l’ultima legge
comunitaria (legge 1 marzo 2002, n. 39), nella quale la direttiva n. 2001/23
era stata inopinatamente inclusa fra quelle destinate ad essere recepite
mediante decreto legislativo. Ciò non toglie che la relativa delega resti priva
di oggetto (in quanto, come si è detto, riguardante una direttiva che non
dev’essere recepita) e quindi non possa essere esercitata: sempre che il
governo, con un colpo solo, non voglia, more solito, porsi in rotta di
collisione con il diritto costituzionale (per la forma) e con quello
comunitario (per la sostanza).
Quanto ai sindacati
firmatari del Patto per l’Italia, sarebbe fuor di luogo esasperare i toni della
polemica. Ce lo impedisce un pregiudizio favorevole al sindacalismo confederale
in tutte le sue espressioni e la speranza che alla fine le ragioni profonde
dell’unità sindacale tornino a prevalere: gli stessi sentimenti che oggi ci
portano ad immaginare che forse anche Cisl ed Uil non vorranno fare mancare il
loro contributo a scoprire le carte truccate con le quali governo e
Confindustria intendono giocare la partita della deregolazione del mercato del
lavoro.
Massimo
Roccella, ordinario di diritto del lavoro Un. di Torino
(*) Pubblicato ne l’Unità del 2 settembre 2002 con il titolo Trucchi contabili e diritti dei cittadini
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