- RIFORMA
DEL MERCATO DEL LAVORO
- LEGGE BIAGI
- Precarietà del lavoro e
precarietà esistenziale
- ( Un filosofo ed un
operatore del diritto sulla legge Biagi)
-
- Intervento
di Fabio Bentivoglio
-
- Che
cosa c’entra la filosofia in un dibattito sulla
Legge 30, cioè sul tema della
riforma del mercato del lavoro? La domanda è legittima, perché la
filosofia non si occupa di questioni che riguardano
direttamente il mondo dell’esperienza sociale. Il suo specifico
oggetto di studio sono i significati permanenti dell’esistenza umana:
attraverso la loro definizione, però,
la filosofia illumina indirettamente anche ciò che nel mondo
dell’esperienza sociale assume una particolare importanza per la vita
degli uomini.
- L’essere
di cui parla la filosofia è l’essere dell’uomo in quanto tale,
indipendentemente dall’epoca storica in cui è calato. Ciò non
significa che la riflessione filosofica si sviluppi
fuori dalla storia, ma piuttosto che essa cerca di cogliere in ogni
epoca storica ciò che appartiene alla dimensione immutabile e
all’orizzonte di valore della vita dell’uomo. E tutti gli uomini,
sempre, si sono interrogati
sul senso della loro esistenza: a questa domanda di senso la religione ha
risposto e risponde con i linguaggi derivati dalle rivelazioni di un dio,
la filosofia con i linguaggi propri del pensiero, quindi con i mezzi
razionali della ragione.
- Ma
proprio perché nel cielo della filosofia
si tematizza e si custodisce
il significato e il valore dell’esistenza umana, tutte le volte che
nella dimensione storica e sociale si sono determinate situazioni di vita
collettiva i cui effetti hanno prodotto una sorta di oscuramento del
significato dell’esistenza, similmente agli effetti di oscuramento del
cielo prodotti da un’eruzione vulcanica, anche
il cielo della filosofia ne
è stato coinvolto. Quello che intendo dimostrare è che i modi e i tempi
del lavoro così come sono
stati fissati nel quadro
della Legge 30 sono una di queste eruzioni
vulcaniche che avrà pesanti ricadute
in termini esistenziali sulla vita delle persone. Non si tratta, è ovvio,
solo di una legge, ma del momento conclusivo di un processo più che
decennale di deregolamentazione del lavoro,
e di svuotamento della sua funzione sociale così come
si era storicamente determinata nelle società occidentali. Questa
è la ragione di fondo per cui la filosofia, oggi, si incrocia con le
problematiche poste dall’attuale riforma.
- Per
la nostra analisi prendiamo le mosse da una situazione che ci è
familiare: in quali occasioni diciamo di “avere un buon lavoro” o di
“essere soddisfatti del nostro lavoro”? Una componente è
la retribuzione, che è condizione necessaria, ma non sufficiente:
se ci fosse assicurato un reddito
accettabile per un lavoro che consistesse
nel sostituire ogni giorno, da mattina a sera,
le persone in coda ai più diversi sportelli, potremmo disporre dei
mezzi necessari per le spese della vita ordinaria, ma non saremmo certo
soddisfatti.
- Quel qualcosa in più che
ci fa giudicare buono un
lavoro, oltre alla retribuzione, è
la gratificazione e la soddisfazione personale, che proviamo
quando il nostro fare ha il doppio predicato dell’utilità
sociale e del riscontro positivo nel quadro delle relazioni entro cui
operiamo. All’interno di queste coordinate emerge la parte migliore di
noi, quella creativa e dell’impegno, che mobilita con generosità
le nostre risorse fisiche e psichiche, e che fa avvertire di meno
anche la fatica propria di tutti i lavori.
- Ma
il riscontro positivo e l’utilità sociale del mio fare chiama
in causa gli altri, le relazioni con gli altri.
Ciascuno può
sperimentarlo nell’ambito del proprio lavoro: il valore e la qualità
del mio impegno lo vedo
riflesso nell’immagine che gli altri hanno di me. Intendendo per
“altri” il mondo delle relazioni entro cui opero: non potrei avere la
misura del mio valore di medico se fossi l’unico abitante di
un’isola deserta. E’ nel quadro delle relazioni concrete con
gli altri che troviamo e definiamo il profilo della nostra identità. Nel
sentimento immediato della gratificazione o della delusione, o comunque di
tutti quegli stati emotivi che accompagnano la nostra attività
lavorativa, troviamo operante una dinamica intersoggettiva
che rimanda al principio costitutivo e fondativo dell’identità:
il principio del riconoscimento.
Questo è uno dei punti in cui la questione del lavoro incrocia la
filosofia.
- In
alcune memorabili pagine della Fenomenologia
dello Spirito (1806), Hegel ha dimostrato come
la nostra identità si costituisca attraverso un processo regolato
dal principio del riconoscimento. Il discorso hegeliano è denso, e non è
questa la sede per affrontarlo nella sua complessità, però nella
sostanza esso mostra come
nessuna persona possa riconoscersi in un’identità che abbia
valore e significato, se questo valore e significato non sono riconosciuti originariamente da altri. E’ una dinamica che
vediamo operante in forma immediata nel bambino, che costruisce la propria
immagine sulla base dell’immagine che gli riflettono i genitori: il
bambino si sentirà buono ed educato se questo gli verrà riconosciuto
dalle figure preponderanti con le quali ha sviluppato le sue relazioni.
Tradotto nel linguaggio filosofico ciò significa che l’identità,
ovvero l’immagine nella quale ci riconosciamo, ha la sua genesi
immediatamente fuori di sé, cioè nel
contesto storico-sociale in cui nasciamo e nel più ridotto
contesto delle relazioni con gli altri entro cui cresciamo ed operiamo.
L’immagine che originariamente ci viene
riflessa nello stretto ambito privato, a sua volta si è formata
attraverso una catena
infinita di riconoscimenti che ci rimandano alla storia. Per fare un solo
esempio, si pensi alla consuetudine di chiedere ai futuri genitori se
desiderano di più il maschio o la femmina: la domanda sottintende
aspettative diverse rispetto al nascituro per cui solitamente
si attribuiscono a priori alle femmine caratteristiche più idonee
ad assolvere determinati ruoli sociali (assistenza, educazione,
famiglia…), mentre altre sono le aspettative nei confronti dei maschi.
Si tratta di aspettative e ruoli definiti non dalla natura ma dalla storia
e dalle tradizioni culturali, che poi agiscono nel plasmare le
individualità concrete. E’
solo un esempio per porre in evidenza
come il valore e il
senso in cui ciascuno si riconosce, si costituisce sempre in un quadro di
relazioni con gli altri di natura storico-sociale. La costituzione
dell’interiorità, questa è la lezione di Hegel,
nasce come fatto sociale e non come vicenda meramente individuale,
per cui se il lavoro, in cui si condensa il fare sociale, non riflette
alcun riconoscimento di significato e di valore dell’individuo che lo
compie, esso lede l’individuo nella sua più profonda interiorità.
- A
questo punto si potrebbero avanzare alcune obiezioni. Assumendo questo
concetto filosofico del lavoro, non si sovraccarica di troppe valenze la
sua funzione? Fuori dall’utopia, non ci basterebbe e non ci avanzerebbe
un lavoro che, pur faticoso, non appagante e volto all’altrui profitto,
fosse però legalmente protetto dagli eccessi dello sfruttamento, in modo
da consentire una vita personale creativa e dignitosa, fuori dalla sfera
lavorativa? E ancora: la
funzione umanamente positiva del lavoro non dovrebbe essere individuata
nella possibilità che esso fornisce, come fonte di reddito, di occuparsi
di altro, della vita affettiva, intellettuale, spirituale, più che
dell’attività di cui consiste?
- La
filosofia suggerisce che la risposta a queste osservazioni deve tener
conto di una considerazione di ordine più generale, e cioè che la
desertificazione spirituale del lavoro impoverisce, sia pure
inconsciamente, in base all’universalità del principio del
riconoscimento, le sorgenti stesse della creatività fuori del lavoro; la
persona è “una”, e le componenti che sostanziano questa unità non
costituiscono una somma di parti isolabili l’una dall’altra,
ma un tutto che interagisce dialetticamente.
- L’osservazione
empirica della realtà sociale ci mostra che, quando un lavoro non è più
socialmente riconosciuto come valorizzante della figura di chi lo compie,
diventa più agevole deprimerne la retribuzione e i diritti. I tranvieri,
per riferirci a un caso di attualità, costituivano fino a pochi decenni
fa un’aristocrazia operaia, ma quando il trasporto pubblico ha cessato
di essere socialmente percepito come un bene collettivo che rendeva
prestigiosa e tutelata la capacità di compierlo con spirito di servizio,
la loro situazione economica e lavorativa è precipitata verso il basso.
In un recente servizio televisivo un tranviere in pensione di Milano
ricordava un episodio significativo della sua gioventù e cioè la
gratificazione e l’orgoglio che una volta aveva provato, mentre
camminava in città, nel
vedere la sua immagine in divisa da autista riflessa nelle vetrine dei
negozi. Anche oggi le vetrine riflettono l’immagine dell’autista in
divisa che passa, ma nell’attuale contesto il nostro autista non può
trarne analoga gratificazione
ed orgoglio, perché il valore della funzione
del trasporto pubblico è socialmente decaduto nella coscienza
collettiva. Risulta difficile pensare che il venir meno di un
riconoscimento sociale del proprio lavoro, non abbia una ricaduta
complessiva sulla persona , impoverendola non solo nella retribuzione e
nelle tutele, ma anche nell’identità e nella sorgente stessa della sua
creatività spirituale.
- Queste
considerazioni inducono a ritenere che il contributo della filosofia nella
comprensione della condizione attuale del lavoro, sia quello di includere
la nozione economica e giuslavoristica del lavoro in un più ampio
concetto, in grado di meglio illuminarla. E qui torna di nuovo utile Hegel,
che, quando parla di lavoro, intende non
soltanto il lavoro in senso strettamente economico, ma la generale
attività intersoggettiva di formare le cose nell’ambito della dialettica del riconoscimento.
- Nel
formare le cose con durevolezza,
il soggetto lascia la propria impronta, quindi deposita in qualche
modo un segno di sé che altri raccolgono e che poi gli riflettono. Non ogni “fare” garantisce però un
riconoscimento, ma solo quello che ha i connotati della creatività che si esplica nel tempo, quindi nel futuro. Incontriamo così il
futuro, cioè un'altra dimensione
ontologica dell’esistenza, che le appartiene
strutturalmente.
- Il
concetto di futuro non va
confuso con quello che accadrà tra un ora o domani mattina. Nel suo
significato più proprio il futuro si
identifica con gli scopi che
ci poniamo; scopi che hanno la funzione di orientare il presente e di
conferirgli un significato, quindi di arricchirlo. Chiarisco il discorso
con un esempio tratto dalla personale esperienza di lavoro. La mia
carriera di insegnante, come quella di altre migliaia di insegnanti, è
iniziata con supplenze brevi e brevissime in scuole a volte distanti anche
cento chilometri da Pisa, città dove risiedo: entrare in una classe per
un tempo che non consentiva di impostare alcunché, era frustrante perché
si trattava di un fare che non poteva lasciare traccia. Questa condizione
di lavoro, frustrante, subita
per anni da migliaia di insegnanti che attendevano l’indizione di
concorsi pubblici, era tollerata per un solo
motivo (il mio ricordo in merito è vivissimo, e per questo mi si
stringe il cuore di fronte a leggi come quella in oggetto):
lo scopo di vita che mi ero dato, quello cioè di poter diventare
un giorno professore di filosofia, implicava che si accettasse l’idea di
un presente caratterizzato dall’instabilità e da condizioni di lavoro
che al momento, e forse anche per anni,
non avrebbero consentito di realizzare la propria professionalità,
ma che davano la ragionevole certezza di poterla esprimere, in un futuro
prevedibile e raggiungibile attraverso itinerari predeterminati, in un
ruolo stabile e strutturante. La precarietà
di quegli anni, dunque, era del tutto diversa da quella che oggi viene
imposta per legge: era un tempo sì precario rispetto alla temporalità
della supplenza o dell’incarico, ma non si disperdeva, perché
sedimentava nel punteggio che, accumulato, immetteva in un incarico
stabile. Ecco una situazione
in cui il futuro, inteso come scopo che orienta il
fare (scopo reso socialmente possibile)
retroagisce positivamente sul presente: quel presente, infatti, per
quanto faticoso e poco gratificante, si rendeva sostenibile in funzione di
ciò che avrebbe dovuto essere.
- Nel
quadro definito dalla Legge 30 il lavoro, frammentato quanto alla sua
utilizzabilità e temporalizzato solo sull’immediato presente, cessa di
essere momento di integrazione sociale e luogo di definizione di sé,
perché vengono meno le condizioni che rendono possibile un riconoscimento
durevole del fare del lavoratore; un fare svuotato di significato, perché
su di esso non può retroagire positivamente la proiezione nel futuro.
Parlare di futuro nel perimetro disegnato dalla Legge 30 è veramente una
sciocchezza: sul piano esistenziale merita la dizione di futuro
solo quell’arco temporale innestato sulle esigenze dell’uomo.
Oggi si pretende di chiamare futuro solo il
tempo innestato sulle convenienze aziendali, quando logicamente si
tratta invece di un tempo che è meccanica reiterazione del presente.
- Gli
effetti di chiamare e declinare il futuro sulla base delle convenienze
aziendali sono sotto gli occhi di tutti. Il guaio, però, è che
gli occhi di quasi tutti oggi vedono soltanto tali convenienze.
Diversamente, in più occasioni, dovremmo assistere a
reazioni collettive indignate. Si pensi ad esempio alla naturalezza
con la quale i maggiori responsabili dei catastrofici effetti causati
dall’inquinamento planetario ( Stati Uniti, Russia ed altri
paesi) si permettono di non sottoscrivere o comunque di non rispettare il
pur modesto Protocollo di Kyoto, perché, dicono,
“limita la crescita
dell’economia”! Il futuro delle prossime generazioni cade fuori
dalla temporalità circoscritta dalle convenienze aziendali. Oppure: noti
esponenti del mondo politico e della finanza (e purtroppo anche sindacale)
ci ripetono con indifferenza che l’economia non può crescere con il
lavoro a tempo indeterminato, e quindi
per ridurre il costo del lavoro e rendere l’economia più competitiva
ecco l’invenzione del lavoro ad intermittenza, a progetto, a chiamata
ecc… . Il futuro del
lavoratore intermittente cade fuori dalla temporalità circoscritta dalle
convenienze aziendali.
- Un
lavoro che non consenta la costruzione autonoma della propria vita,
intrecciandosi con la vita stessa e con la strutturale proiezione umana
verso il futuro, diventa esclusivamente
distruttivo per la persona.
- Costruirsi
un’esistenza autonoma sul presupposto del lavoro non significa che il
lavoro deve assorbire interamente il nostro tempo. Tutt’altro: la
funzione del lavoro è anche quella
di garantire alla persona la
possibilità di disporre del tempo necessario per dispiegare altrove il
ventaglio delle proprie potenzialità. E’ un fatto incontrovertibile che il
lavoratore utilizzato nei modi e nei tempi previsti dalla Legge 30, abbia
le energie psichiche e fisiche sequestrate dall’idea di come potersi
garantire una retribuzione, una volta conclusa la
“missione” temporanea. E’ una situazione angosciante che
riduce la dimensione umana della persona alla sua utilizzabilità.
L’avere ridotto il lavoro a mera utilizzazione di un individuo
spersonalizzato, averlo quindi sradicato dalla sua naturale connessione
con le esigenze materiali e spirituali dell’uomo è un evento di portata
storica, su cui davvero si riflette poco.
- Non
si perda di vista che questo perimetro non è stato tracciato da questa
legge o da questo governo, ma dalle politiche neoliberiste che dalla fine
degli anni Settanta sono state imposte su scala planetaria, da gigantesche
concentrazioni di potere economico-finanziario, dagli organismi
internazionali appositamente creati ed infine
dai governi locali. Nel
quadro politico attuale gli
opposti schieramenti, non solo in Italia, al di là delle dispute
contingenti, sono abilitati a governare a condizione di rendere operative
queste politiche. Le polemiche anche feroci che attraversano il mondo
della politica, improvvisamente calano di tono fino ad evaporare, quando
si discute di lavoro e di potere d’acquisto dei lavoratori.
- Opporsi
a questa legge ha un senso e una prospettiva a condizione che si comprenda
da un lato la logica generale che l’ha prodotta, dall’altro che non la
si trasformi nell’ennesima occasione di scontro strumentale, interno
alle dinamiche di schieramento. Il dibattito deve essere autentico, cioè
consapevole che il confronto è anche su
ragioni profonde, non contingenti, che chiamano in causa le
fondamentali strutture dell’essere dell’uomo. Sono questioni che vanno
ben al di là degli scenari del potere politico. In questa prospettiva di
riflessione a più ampio raggio, la filosofia può essere di aiuto.
-
- Intervento
di Fausto Nisticò
- Con l’enunciato proposito – in realtà solo suggestivo – di
dover modernizzare il mondo del lavoro, il secondo governo Berlusconi esordisce,
nell’ottobre del 2001, con la diffusione del c.d. Libro
Bianco sul mercato del lavoro, un documento di molte pagine nel quale
si preannuncia una vera e propria rivoluzione culturale nel settore.
- Gli osservatori, tuttavia,
rilevarono subito come non si trattasse di una novità. Qualche mese prima
Marco Biagi (coautore con Maurizio Sacconi del Libro Bianco) aveva reso a
Confindustria una relazione su quanto e come si sarebbe dovuto fare( si
legge in Rivista Italiana di diritto
del lavoro, 2001).
- Fra i due testi (l’uno
commissionato da Confindustria e l’altro dal Ministro del lavoro) vi è
coincidenza assoluta, alle volte fino alla materiale trasposizione di
interi brani. Ed anche se il Libro Bianco non si risparmia nel dotarsi di
grafici e prospetti (che difettano nella relazione Biagi) e si correda di
una serie di neologismi anglosassoni (secondo l’antico vezzo tutto
nostrano di utilizzare l’inglese per
addolcire la pillola), il documento ministeriale può – senza
tema di smentita – definirsi una mera elaborazione della relazione resa
a Confindustria.
- Con questo vizio di
origine, il Libro Bianco si pone all’attenzione del lettore per la secca
affermazione di alcuni assiomi nel preannunciare – con toni quasi
sinistri – l’imminente ripudio dell’intero sistema lavoristico
e del suo stesso impianto costituzionale.
Il documento, infatti, nella sua sistematicità,
enuncia le sue linee guida, affermando la vetustà
dell’aspettativa individuale del posto
di lavoro, il primato del mercato sul rapporto, il declino dello
schema normativo sulla subordinazione, la valorizzazione di tipi
contrattuali alternativi ( o flessibili),
la marginalità dell’intervento
giudiziario, il consueto senso di diffidenza per i giudici del lavoro
(definiti l’anno precedente nel corso di una convention
di Pubblitalia come “infiltrati
dal partito comunista”). Il progetto, dunque, si muove su due
fronti: l’uno è l’alleggerimento delle regole ( soft
law ), la loro derogabilità; l’altro la rimozione del processo,
come unico strumento di tutela.
- Richiamare, ora, il
sistema previgente e le regole costituzionali che lo sorreggevano può
apparire mera operazione di resistenza culturale, se non addirittura
generazionale. Chi opera nel diritto (ed in special modo nel diritto del
lavoro) non può perdere di vista l’evoluzione ed ignorare i mutamenti
che, nei fatti e nelle tendenze, modificano
i sistemi. E dunque non può
ignorare che il mondo del lavoro è
stato interessato da fenomeni – senz’altro globali – che
comportano la indubbia necessità di rivedere le regole.
- Osserviamo, per esempio,
le nuove dinamiche occupazionali. Intorno al mondo occidentale ( o, se si
vuole, intorno al mercato occidentale) premono inesauribili risorse di
manodopera dai paesi poveri
od in via di sviluppo. L’evoluzione dei sistemi comunicativi e
telematici ed il perfezionarsi
dei sistemi di circolazione dei beni consentono oggi all’imprenditore
occidentale di confezionare il suo prodotto in oriente a costi enormemente
inferiori rispetto a quelli imposti dal mercato occidentale. Un operaio
specializzato medio in Europa costa circa 49 dollari al giorno, mentre un
suo collega cinese, disposto a lavorare molto di più, costa appena 4
dollari.
- Osserviamo, ancora, le
conseguenze della immigrazione dai paesi poveri: qui il mercato può
utilizzare, in special modo ai livelli professionali meno qualificati,
soggetti disposti a non sottilizzare sulla paga, sulla previdenza, sulla
sicurezza e dunque , ancora una volta, a costi certamente più appetibili
rispetto ad un lavoratore comunitario.
- Di queste circostanze –
oramai connotate da irreversibilità – occorre prendere atto e quindi
rimodulare gli equilibri, a meno di non favorire operazioni di trasloco
imprenditoriale che finiscano per coincidere con forme più o meno palesi
si antico sfruttamento.
- Una buona regola
giuridica, dunque, non può prescindere dal considerare il contesto nel
quale è destinata ad operare. Ed il contesto, per chi oggi intenda
mettere mano al mondo del lavoro, è caratterizzato dalla indispensabile
necessità di realizzare equilibri non facili. La scelta, in tale
complicato contesto, è , dunque, sempre politica, forse filosofica,
perché occorre decidere alcune
priorità.
- Nell’organizzare la sua
impresa, l’imprenditore utilizza, come è noto, capitale, strumenti e
persone. Per quanto si voglia far leva sulla evoluzione industriale e
nonostante tutti i mutamenti strutturali che sono propri della nostra
epoca (in vertiginoso progress ),
questa regoletta fondamentale è sempre di attualità. L’imprenditore,
poi, facendo il suo mestiere, cura
di combinare le sue componenti al fine di ottenere il massimo risultato
con la minore spesa. Anche questo – benché sappia di culture ripudiate
fino ad apparire, oggi, quasi impronunciabili - è un dato fuori
discussione. Lo scopo è il profitto (anche questa espressione risulta
oggi impronunciabile). Poco importa rilevare se il conseguimento del
profitto abbia una ricaduta anche su chi concorre, con il suo lavoro, a
realizzarlo: non è, infatti, la
ricaduta che muove l’imprenditore. L’impresa genera opportunità di
lavoro, ma lo scopo dell’imprenditore non va confuso con i suoi effetti,
poiché nessuno impegna capitali e strumenti per creare posti di lavoro,
bensì organizza i suoi mezzi per conseguire un guadagno, al contempo
fornendo opportunità reddituali ai suoi collaboratori.
- L’ordinamento conosce
questo meccanismo e sa che ad esso appartiene una componente
che, a differenza delle altre (capitale e strumenti) ha una sua
connotazione, trattandosi di persone
e trattandosi , quasi sempre, di soggetti che si presentano nel mercato ed
al contratto in condizione di fisiologica debolezza. E siccome le persone hanno un loro percorso di vita che preesiste all’impresa
ed al mercato, ogni ordinamento progredito si preoccupa di costruire
intorno al loro ruolo di lavoratori un pacchetto minimo di garanzie –
patrimoniali ed esistenziali – che ne consenta l’utilizzazione
nel rispetto della loro dignità
umana.
- Il lavoro – al di là
delle interessate
enfatizzazioni mediatiche di grande attualità – è fatica, dispendio di
energie finalizzato quasi sempre a procurare una utilità ad altri. In tal
senso, il lavoro è attività solo strumentale al personale percorso di
vita. Non è qui possibile approfondire: ed in particolare della ragione
per la quale da sempre c’è chi lavora e chi utilizza il lavoro altrui e
probabilmente all’origine vi è una prepotenza, olim
con la spada oggi con la finanza. Il dato fattuale, però, è
incontestabile, perché molti, forse i più, lavorano perché sono
costretti a farlo, difettando la fatica , come appare del tutto ovvio, di
ogni connotato teleologico. Nessuno, penso, può ragionevolmente sostenere
di essere al solo scopo d
procurarsi quanto sia indispensabile avere per esistere.
- E questa la ragione per la
quale più su ho affermato che la scelta di sistema è una scelta
filosofica o, se vogliamo, politica. Perché si tratta di capire se in
questo meccanismo immanente abbia priorità la persona od il mercato, ed
in definitiva l’essere o l’avere: il prodotto interno lordo o
l’individuo, il benessere materiale più che il benessere etico;
alla fine, il
supermercato più che l’ agorà.
- La scelta politica del
nostro ordinamento appariva inequivoca. Il lavoro è addirittura parte
delle definizione della nostra comunità nazionale (art. 1 Cost.) ed al
lavoro, nelle indispensabili forme di tutela, è dedicata parte dei
principi generali della Carta Fondamentale (art. 2 , sulla solidarietà,
art. 3 sul principio di eguaglianza sostanziale, art. 4 sulla specifica
tutela del lavoro). Ma vi è una disposizione di principio che rappresenta
la vera e propria chiave di lettura dell’intero sistema, che indica la
scelta di fondo: all’art. 41 della Costituzione, infatti, si dice che
l’imprenditore è libero di fare l’imprenditore ma con il limite della
tutela dell’integrità della persona e del rispetto della dignità
umana. Così anche l’art. 36 si prevede che la retribuzione debba
essere tale da assicurare una esistenza
libera e dignitosa e dunque una partecipazione alla vita sociale senza
il peso della sopravvivenza.
- Nello stesso codice civile
– che, come è noto, - risale
al 1942, è previsto (art. 2087) che il datore di lavoro debba tutelare
l’integrità fisica del lavoratore e la sua personalità
morale.
- In definitiva , non ci
sono dubbi sul fatto che la nostra Carta fondamentale abbia stabilito una
netta priorità del ruolo esistenziale dell’individuo rispetto al ruolo
della persona-lavoratore e che, nel contempo, per la persona-lavoratore
siano stati approntati – direttamente od in via programmatica –
strumenti di tutela reddituale destinati a rimuovere la disuguaglianza ed
ad assicurare un percorso di vita indipendentemente dall’apporto
lavorativo (art. 38 Cost.).
- In continuità e coerenza
con l’impianto costituzionale si era mossa tutte la legislazione
protettiva adottata negli anno dal 1960 al 1970:
mi riferisco alle norme sui licenziamenti individuali (1966), a
quelle sul divieto di intermediazione (1960), a quelle sul divieto di
contratto a termine salvo casi eccezionali (1962), infine allo Statuto dei
lavoratori (1970), testo normativo, quest’ultimo, ricco di disposizioni
direttamente dettate a tutela della personalità individuale del
lavoratore.
- Al contempo, nel corso di
quegli anni e successivamente, di fatto o per legge, si valorizzava il
ruolo della dimensione collettiva, mediante il conferimento alle
organizzazioni sindacali di strumenti operativi sempre più incisivi, sul
presupposto della intrinseca
debolezza della contrattazione individuale e della indispensabile necessità
del lavoratore di presentarsi al contratto con la garanzia di un patto
stipulato in sede collettiva ( si pensi a tutte le disposizioni di legge
che hanno subordinato alcuni benefici all’impresa a condizione che siano
rispettate le regole derivanti dai contratti collettivi di lavoro).
- Si era rafforzata con il
tempo anche la normativa in materia di tutela fisica del lavoratore,
mediante la ricezione di alcune direttive comunitarie e soprattutto
mediante interventi
giurisprudenziali ispirati alla massima severità ( c.d. criterio della massima
sicurezza tecnicamente fattibile).
- In definitiva la legge ( e
la contrattazione collettiva) avevano costruito intorno al lavoratore un
pacchetto minimo esistenziale e
retributivo che consentiva di ritenere attuate, in gran parte, le
regole costituzionali.
- Alla obiezione – oggi
ricorrente – della vetustà ed inattualità della nostra Costituzione (
cui oggi si è aggiunta anche una inquietante diffidenza revisionistica
sulle regioni storiche delle scelte ) potrebbe rispondersi
agevolmente richiamando i principi dettati a livello di normativa
Comunitaria e subito sollecitare l’attenzione
sui contenuti della Carta di Nizza (2001),
che al lavoro ed alla tutela della dignità del lavoratore dedica
un terzo delle sue enunciazioni, in sostanza attualizzando tutti i
principi contenuti nella nostra costituzione. E la cosa potrebbe finire
qui ed essere utilizzata
“tecnicamente” per sollecitare,
al momento opportuno, la Corte Costituzionale a valutare la compatibilità
della riforma del mercato del lavoro.
- Ma in realtà non è qui
il problema né è questo il
modo di affrontarlo fuori dalle aule di giustizia.
- La c.d. legge Biagi (d.lgs.
n. 276/2003) inverte le
priorità. La sua matrice, cioè il Libro Bianco sul mercato del lavoro,
infatti, non dedica una sola parola alla
persona del lavoratore realizzando una vera e proprio inversione di
prospettiva. Il mercato del
lavoro non ha bisogno di regole eteroimposte: esso se le crea da sé. Chi
ha bisogno di regole è quel soggetto che alle dinamiche del mercato
partecipa nel suo ruolo marginale di collaboratore dell’impresa, perché
come tale è potenzialmente soggetto a tutti i i rischi, diretti od
indiretti, che le medesime dinamiche possono comportare avuto riguardo
alla sua condizione esistenziale.
- Nel trascurare il ruolo
esistenziale della persona del lavoratore, la legge Biagi assegna priorità
al mercato, modulando la sorte del lavoratore alle sue esigenze, sul
presupposto, tutto da verificare, che il mercato stessa contenga in sé
gli strumenti di riequilibrio necessari
a salvaguardare l’individuo. La tutela del lavoratore – pensata
e realizzata nel nostro ordinamento come prioritaria rispetto alle
esigenze dell’impresa – diventa tutela per
ricaduta, quasi eventuale.
- Il mutamento di
prospettiva si realizza attraverso la
enunciazione di una serie di strumenti di flessibilità.
Flessibilità è una parola-contenitore, come alcune trasmissioni
televisive della domenica. Letta da una prospettiva diversa essa equivale
a precarietà, poiché tanto più
è flessibile il contratto di lavoro, tanto più è precaria la condizione
del lavoratore.
- Non ci sono dubbi sul
fatto che la flessibilità (così
come la esternalizzazione) giovi all’impresa: è interesse indiscusso
dell’imprenditore il poter modulare il costo del lavoro alle
fluttuazioni del mercato. Se l’imprenditore intende guadagnare venti
avendo investito cento e se il mercato in un dato momento gli
consente di guadagnare solo quindici, non c’è dubbio sul fatto che gli
torni comodo poter ridimensionare anche il costo del lavoro perché i
quindici diventino nuovamente venti. Essere parte in un contratto
flessibile per l’imprenditore vuol dire assicurarsi la necessaria
duttilità per mantenere costante il suo guadagno.
- Ma se questo è il
vantaggio diretto, non è certamente il solo.
- Fra l’imprenditore ed il
lavoratore (nella sua dimensione collettiva) esiste una fisiologica
conflittualità: il primo mira a contenere i costi, il secondo ad ottenere
una retribuzione più vantaggiosa. Vi è, però, una conflittualità
diversa, poiché all’imprenditore non è gradita la dimensione
collettiva, posto che è più semplice spuntare condizioni vantaggiose se
la parte debole del contratto si presenta alla negoziazione nella sua
dimensione individuale. E, dunque, immanente interesse datoriale quello di
scardinare il più possibile la dimensione collettiva. Vi è, ancora, una
conflittualità più sottile, spesso latente o sottointesa e riguarda
l’interesse imprenditoriale alla fedeltà
o quantomeno alla contiguità.
- La flessibilità ,allora,
e quindi la precarietà, a parte
i vantaggi contrattuali, finiscono per favorire l’imprenditore anche in
altri conflitti, agevolando l’opera di destrutturazione della dimensione
sindacale ed avvicinando sempre di più il lavoratore – lasciato in
solitudine nel contratto – alle esigenze del suo datore di lavoro. La
precarietà, dunque, genera la perdita della dimensione solidaristica ed
alimenta la competizione individuale. Se io sono parte di un contratto a
termine ( o di un contratto flessibile che escluda
la garanzia della stabilità) e se so che il rinnovo dipende
dal mero arbitrio del mio datore di lavoro, certamente curerò di
allentare il conflitto, di mostrarmi
più contiguo e soprattutto di mostrarmi più contiguo del mio compagno di
lavoro (se e vero che il mantenimento del mio posto può derivare dalla
soppressione del suo). E’ in questa assoluta destrutturazione della
dimensione solidaristica e nella incentivazione alla competizione
individuale che si
realizza in senso intimo della riforma Biagi. E non solo,
perché la condizione di precarietà comporterà un mutamento che
non esiterei a definire antropologico: la tensione
continua rivolta al mantenimento del posto di lavoro, alla competizione
spietata con i compagni di lavoro, alla indispensabile contiguità
culturale con l’imprenditore, finirà per conferire al lavoro – cioè
alla fatica – quel ruolo telelogico che non è proprio della natura
umana, realizzando una identificazione mortificante fra il percorso
di vita ed il percorso lavorativo e privando l’individuo di
quanti altri spazi possano appartenere
alla sua agenda.
- Valga il vero: la riforma
Biagi, nell’individuare forme di collaborazione flessibile (intendo con
flessibilità sul tipo contrattuale) autorizza sostanzialmente variegate
ipotesi di intermediazione di manodopera, seppure prevedendo che il
vecchio caporale assuma le vesti di società per azione ed offra alcune garanzie ( così nel contratto di somministrazione di
manodopera, oggi in mano a poche società
con capitale estero); autorizza il c.d. lavoro a progetto, cioè
una camuffata forma di lavoro subordinato che però tale non è (
con la conseguenza della inapplicabilità delle regole proprie
della subordinazione) ; autorizza il lavoro a tikets,
assegnando ad agenzie di intermediazione lo smercio di buoni per servizi
domestici o di assistenza ( qui essendo ipotizzabile addirittura il
possibile sviluppo di illeciti commerci).
Autorizza, ancora, la certificazione e cioè una sorta di
qualificazione concordata del tipo contrattuale che sottrae al giudice la
qualificazione del rapporto. In sostanza realizza una tale
parcellizzazione del rapporto,
che, a parte
consentire guadagni per chi si occupi solo di fare da mediatore fra
domanda ed offerta ( ovviamente in danno del lavoratore che finisce per
ricevere una paga decurtata del guadagno del suo collocatore) , comporta
una vera e propria dispersione del sistema di sicurezza, divenendo del
tutto problematico, nel meccanismo di appalto, somministrazione o comando,
individuare il centro di imputazioni di eventuali responsabilità.
- La auspicata sottrazione
al giudice della qualificazione del rapporto di lavoro, poi, realizza
una definitiva destrutturazione del sistema protettivo: è nelle
cose che ad ogni forma di tutela sostanziale debba corrispondere una
analoga forma di tutela processuale, perché le regole le applicano i
giudici ed i giudici del lavoro hanno una loro formazione culturale
non esattamente liberista. Coerentemente, dunque, la legge Biagi si occupa
– in più disposizioni – addirittura di enunciare quali siano i poteri
interpretativi del magistrato quando si debba occupare delle nuove figure
flessibili (limitando – quantomeno nelle intenzioni – i margini del
sillogismo giudiziario).
- Per questo, come
accennavo, la scelta è filosofica (o, più modestamente, politica). Non
conta tanto parametrare la riforma alle regole costituzionali: questa è
operazione tecnica che – a
parte i tempi e la intrinseca complessità – non è sufficiente alla
riflessione. Occorrerà, al contrario, verificare quanto la scelta di
fondo possa essere condivisa, poiché le regole – anche quelle
costituzionali - contano poco
se non convincono la collettività. E la collettività oggi si deve
interrogare se conti più il mercato o la persona, se valga la pena
immolare ad un maggior benessere complessivo, al prodotto interno lordo,
la personale agenda di vita; se sia utile, od anche se sia etico,
consentire che il percorso esistenziale si identifichi con il percorso
lavorativo , come già succede per gli
sfortunati destinatari della normativa sulla immigrazione
(c.d. legge Bossi-Fini) la cui
sopravvivenza dipendente esclusivamente dal mantenimento di un
posto di lavoro, dunque dall’ altrui arbitrio.
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