Omicidio Biagi / La
testimonianza
Fossi qui davanti a me ti direi: “caro Marco,
prima Massimo ora tu, per non parlare delle morti naturali, come quella di
Federico. Ma che ci succede?”. So come mi avresti risposto e so che avremmo
concluso la chiacchierata con un gesto scaramantico e una risata esorcizzante.
Con Marco era così. Potevamo non sentirci per molto tempo, ma quando ci
parlavamo il colloquio era diretto. Se dovessi ricordare la sua dote migliore
direi questo: Marco non andava per perifrasi, era uno che parlava di fronte.
Per questo in una delle nostre ultime conversazioni ci trovammo come al solito
d’accordo sul dire male di quegli uomini invece obliqui che popolano anche il
nostro piccolo ambiente giuslavorista.
Perciò, proprio come parlassi ancora con lui
farò con Marco un discorso franco, leale. Glielo devo perché so che tra i suoi
difetti non c’era quello del gusto per l’ipocrisia e per l’intrigo.
Caro
Marco, sai che da ultimo eravamo in dissenso sulla politica del diritto del
lavoro. Non sui dettagli, ma sulla impostazione di fondo. Ce lo dicemmo oltre
che in privato in due occasioni pubbliche: lo scorso novembre al Cnel e poi a
dicembre a Firenze, al convegno giuslavorista. Dopo il mio intervento ti dissi:
“non sono stato troppo duro, vero?”. Tu mi rispondesti, con quella piega un po’
amara delle labbra che a volte ti era caratteristica: “nei toni no, ma nella
sostanza sì”. Avrei voluto risponderti: “e tu, non ti sei visto?”, ma fummo
entrambi travolti dai convenevoli delle pause dei convegni.
Marco, anche e soprattutto dopo la tua morte
ti devo la stessa coerenza che tu hai dimostrato in vita. Proprio per rispetto
a te. In onore a te.
Parliamo quindi un momento ancora delle
politiche del lavoro. Il tuo “libro bianco”, lo sai, non mi è piaciuto. Mi
sembra sbagliata, e persino avventurista, la scelta di liquidare la
concertazione, che nel bene e nel male è stata un pilastro della coesione
sociale di questo paese, scegliendo il metodo dell’accordo “con chi ci sta” e
perseguendo quindi la divisione dei sindacati. Dissento profondamente dall’idea
che l’europeismo sul versante sociale consista in una armonizzazione al
ribasso. Mi sembra assurda l’interpretazione che in quel testo si dà del
federalismo, in termini di regionalizzazione del diritto del lavoro. Non
condivido l’idea che a fronte delle trasformazioni del lavoro e del modo di
produrre si debbano moltiplicare all’infinito le figure flessibili, id est
precarie, di lavoro: lavoro a termine, a part-time, di formazione-lavoro, di
apprendistato, interinale, a cui aggiungere il lavoro “a chiamata”, il
contratto di somministrazione di lavoro ecc. Penso che si dovrebbe fare il
contrario: accorpare in tre-quattro figure essenziali le forme flessibili di
impiego e su quelle fare forti investimenti sul piano della formazione, in
funzione di una politica di stabilizzazione dell’impiego. E poi la questione
dell’art.18, della disciplina dei licenziamenti. Io penso che in questo
contesto fare leva su una misura di monetizzazione del potere di licenziamento
sia un intollerabile cedimento al mercantilismo dilagante, alla logica per cui
tutto si compra e si vende, tutto ha un prezzo. Alla modifica dell’art.18 dello
Statuto dei lavoratori oggi sono contrario anzitutto per una questione di
principio, prima ancora che per una questione pratica, come mostra l’evidenza
del fatto che a parità di disciplina nel nord c’è il pieno impiego, e anzi si
chiede manodopera d’immigrazione, e nel sud, evidentemente per altre ragioni,
ci sono tassi altissimi di disoccupazione.
Tu, Marco, se non ricordo male, non eri un
cultore dell’idea a volte ossessiva anche in ambienti della sinistra secondo
cui la modifica della disciplina dei licenziamenti è la chiave della riforma
del diritto del lavoro. Non voglio qui richiamare colloqui personali. Faccio
parlare te. In uno dei tuoi ultimi articoli c’era una frase finale, che
stranamente l’edizione del Resto del Carlino del 20 marzo 2002 ha espunto.
Dicevi così: “ci sono questioni ben più importanti che incombono: bisogna
rendere il part time più accessibile, occorre regolare le collaborazioni
personali e continuative, è necessario riformare il collocamento…Queste ed
altre sono le priorità. Un governo che dichiara di operare nell’arco di una
legislatura non dovrebbe temere di affrontare i problemi uno alla volta”. Non
era questo un modo prudente di chiedere il famoso “stralcio” dell’art.18? So
che tu pensavi, esattamente come lo pensa il giuslavorista a cui sei stato più
collegato nel tempo (Tiziano Treu), che aver messo nel disegno di legge delega
sul mercato del lavoro la questione dell’art.18 fosse un errore. Ti stavano più
a cuore altre questioni, appunto quella della regolazione delle collaborazioni
e della partecipazione su cui, come hai dichiarato pubblicamente proprio qui a
Bologna, a gennaio, hai ricevuto strali feroci dalla Confindustria nonostante
tu fossi un suo consulente.
Eppure sei stato assassinato forse proprio
per questo. Da chi? Da una frangia residua di terroristi “rossi”, gli stessi
che uccisero Massimo D’Antona? E perché mai queste bande, se esistono, non
sono state sgominate? Se di Brigate rosse si tratta, certo non siamo di fronte
alla “geometrica potenza” di via Fani, ma a piccoli gruppi privi di radici. Ti
hanno ucciso facilmente come si sacrifica un agnello. Perché eri lì inerme,
sotto casa tua, esattamente come Massimo, con la stessa borsa per terra. Perché
non eri scortato? Ho un rimpianto, tra i tanti. Mi venne un dubbio, la sera di
un giorno di febbraio quando scendemmo a Bologna dal treno e chiacchierando
andammo entrambi verso i taxi. Avrei voluto dirti: “dov’è la tua
scorta?”. Questa domanda mi è rimasta appesa alle labbra, e me la ripongo
di continuo. Come è possibile che proprio nel momento della tua massima
esposizione il governo e in particolare il ministro del lavoro di cui tu facevi
il consigliere “tecnico”, e a cui non avevi conferito nessuna adesione politica
in senso generale, ti abbiano lasciato lì inerme, alla mercè del facile
assassinio di un gruppo di vigliacche canaglie?
Caro Marco, devo dirti ancora due cose.
Sai come ho saputo la notizia del tuo
assassinio? Eravamo alla Sirenella, in San Donato, luogo storico della sinistra
bolognese, in una assemblea convocata per discutere di “diritti del lavoro,
diritti di libertà” centrata sulla frase “nei diritti del lavoro è iscritta la
radice più profonda dei diritti di libertà”. Stava per intervenire Susanna
Mancini, la figlia di Federico. Lì è arrivata la notizia del tuo assassinio. E’
come se fosse caduta una coltre nera. Pensa che avevo in mente di proporre,
alla conclusione dell’incontro, che dopo la manifestazione del 23 marzo e lo
sciopero generale si facesse un confronto proprio con te. Vedi come il destino
si diverte a giocare con le nostre deboli e precarie esistenze.
L’ultima cosa che volevo dirti, Marco, è che
la sera che ti hanno ucciso sono riuscito ad andare da Marina, con Marcello.
Lei ci ha detto: “aiutatemi a difendermi dalla stampa e a proteggere i nostri
figli”. Ti prometto che faremo tutto il possibile.
Quanto a noi, ci rivedremo forse un giorno
nel paradiso improbabile dei laici, sulla cui esistenza ho qualche fiducia, o
nel paradiso dei credenti, di cui tu eri quasi sicuro. Ciao.
(23 marzo 2002)
(fonte: www.rassegna.it)
*********