Confermata la sentenza
d'appello che aveva condannato 11 persone dello stabilimento siderurgico
di Taranto per aver confinato 60 lavoratori nella ex palazzina Laf
TARANTO - La sesta sezione penale della
Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di appello di Taranto
che aveva condannato undici persone, fra titolari, dirigenti e quadri
dello stabilimento Ilva, per la vicenda di mobbing riguardante 60
lavoratori che nel 1998 vennero confinati nella ex palazzina Laf del
siderurgico.
Gli imputati rispondono di tentata violenza privata e, tre di loro, fra
cui il presidente del consiglio di amministrazione dell’Ilva, Emilio
Riva, e il direttore dello stabilimento di Taranto, Luigi Capogrosso,
anche di frode processuale. Fra due mesi per i reati sarebbe intervenuta
la prescrizione.
L’unica riduzione di pena - da un anno e dieci mesi ad un anno e sei
mesi di reclusione - è stata concessa ad Emilio Riva; confermata invece
la condanna a un anno e otto mesi per Capogrosso. In primo grado, il 7
dicembre 2001, i giudici avevano condannato entrambi a due anni e tre
mesi di reclusione ciascuno. Per gli altri imputati le pene variano tra
i quattro mesi e un anno e tre mesi di reclusione (pena sospesa).
La Cassazione ha inoltre confermato la condanna degli imputati al
risarcimento dei danni in separata sede in favore della Uil e di nove
lavoratori all’epoca 'mobbizzati' (assistiti dagli avvocati Carlo
Petrone, Adelaide Uva, Franco De Feis, Luca Balistreri e Stefano Sperti),
che si erano costituiti parte civile.
Secondo la ricostruzione dell’accusa (l’inchiesta fu condotta dal
procuratore aggiunto Francesco Sebastio e dal sostituto procuratore
Alessio Coccioli), la dirigenza dell’Ilva collocò nella ex palazzina Laf,
senza alcune mansione, i lavoratori maggiormente sindacalizzati; una
situazione che provocò ad alcuni di loro anche conseguenze sul piano
psichico. Scattata l’inchiesta della Procura dopo la denuncia degli
stessi lavoratori, dodici persone finirono sotto processo per tentata
violenza privata e frode processuale. Ipotesi di reato, quest’ultima,
legata ad una ispezione della magistratura nella palazzina Laf prima
della quale l’Ilva mutò lo stato dei luoghi per far sembrare il reparto
più vivibile.