Un’incredibile (ma purtroppo vera) storia di mobbing
per effetto convergente delle esiziali “solidarietà” para-ecclesiastiche e
accademico-baronali: il caso dell’oncologo G. Bigotti del Policlinico Gemelli
di Roma
Il 22 e il 23 luglio 2000, "Il Manifesto" pubblicò questa storia di mobbing raccontata dal giornalista Massimo Giannetti. Il protagonista è un medico del Policlinico "Gemelli" di Roma. Ancora una volta colpisce la noncuranza con cui i potenti schiacciano i deboli . Sembra quasi che la vittima del mobbing e dei mobbers sia sola e che anche l'apparato della Giustizia non stia quasi mai dalla sua parte. Naturalmente si tratta di considerazioni sommarie e verosimilmente superficiali, in quanto - non conoscendo direttamente la terribile vicenda - ci siamo limitati (usando l'accorgimento dell'omissione dei nominativi dei due maggiori imputati di mobbing) a riproporre il contenuto dei due articoli del giornalista Massimo Giannetti de "Il Manifesto"che ci attesta averli redatti sulla base di documentazione giudiziaria incontestata. Nel merito, considerata la pesantezza degli addebiti, la crudezza dello scontro ed il livello delle persone fisiche e giuridiche, direttamente o indirettamente coinvolte o toccate, l'Autore del sito declina ogni responsabilità in ordine al contenuto della vicenda, semmai risalente esclusivamente in capo al giornalista Giannetti che l'ha descritta - e si dichiara sin d'ora disponibile a pubblicare ogni e qualsiasi eventuale rettifica o contestazione di parte, nell'ottica di prevenzione di equivoci, polemiche o strumentalizzazioni pretestuose e di ricerca esclusiva della verità.
(Roma)
A un certo punto vi verrà in mente Philadelphia, un bel film dei primi
anni ‘90 sulla discriminazione di un brillante avvocato gay licenziato dal
prestigioso studio legale in cui lavora, formalmente «inadempienza
professionale», in realtà perché malato di Aids.
Nella storia che segue l’Aids però non c’entra niente. E non c’entra
niente neppure la fiction. E’ una storia ancora in corso, che nessun
produttore cinematografico trasformerà in film. Si svolge al Policlinico
Gemelli di Roma, prestigioso ospedale del Vaticano con annessa Università
Cattolica del Sacro Cuore. Il protagonista, suo malgrado, è un giovane medico
di belle speranze. temuto dal suo direttore, condannato alla gogna dalla
potente lobby universitaria con la benedizione della Santa Sede. La sua
promettente carriera di oncologo e ricercatore di Anatomia patologica,
cominciata alla Columbia University di New York, finisce in una piovosa mattina
di marzo di dieci anni fa quando - accortosi da tempo che nell’istituto tumori
in cui lavora vengono ripetutamente commessi gravi errori di diagnosi sui
pazienti - decide di fare quello che la coscienza gli suggerisce: segnalare gli
esami sospetti ai suoi superiori, sollecitandone la ripetizione. È l’inizio
della sua odissea umana, quindi giudiziaria.
Giorgio Bigotti, il ricercatore in questione, evidentemente poco
pratico del codice di comportamento della casta baronale, da quel giorno non
potrà più mettere piede nell’istituto di anatomia patologica diretto dal
professor A. C. Gli verrà impedito anche fisicamente. Colpevole di
aver rotto il clima di omertà che avvolge la rinomata istituzione sanitaria del
papa, verrà prima sospeso dal reparto degli strumenti di ricerca, tenuto
lontano dalle aule didattiche, dunque punito con l’isolamento in una stanza
attigua all’obitorio, trattato insomma alla stregua di «un monatto di
manzoniana memoria», come scriverà uno dei tanti giudici che si occuperanno del
caso.
Schernito e perfino picchiato dai suoi colleghi, il medico
«indisciplinato» sarà processato da una sorta di tribunale dell’inquisizione
composto da tutti i presidi di facoltà della Cattolica. Senza defezione alcuna,
avalleranno una strategia che mira a distruggerlo psicologicamente. La
punizione del senato accademico avrà l’autorevole sigillo del consiglio di
amministrazione della cristianissima Università di cui fanno parte personaggi
vaticani del calibro di Camillo Ruini, cardinale vicario di Roma, e politici
italiani come l’ex presidente della repubblica, Oscar Luigi Scalfaro.
«Mi hanno massacrato, rovinato la vita e la professione solo perché ho
cercato di salvare degli esseri umani», si sfoga Giorgio Bigotti mostrandoci un
voluminoso pamphlet pieno di ordinanze e sentenze di tribunali amministrativi
civili e penali che di volta in volta, anno dopo anno, faranno perdere la
faccia alla Cattolica. Ha l’aspetto di una persona che ha sofferto molto per la
sua disavventura in terra santa. Sposato e padre di tre figli, mostra più dei
suoi 40 anni. Ne aveva dieci di meno quando «il mondo mi è crollato addosso»,
racconta «Segnalando quegli errori credevo di aver fatto il mio dovere morale e
professionale. Cercare di curare persone malate è il mio mestiere. In quel
reparto c’erano uomini e donne sotto terapie sbagliate. Non era la prima volta
che accadeva. Sollecitai il direttore a ripetere le analisi collegialmente, per
il bene dei pazienti. E invece sono cominciati i miei guai».
E’ sconvolto quando viene fatto fuori, ma è abbastanza testardo per non
crollare ai piedi dei suoi superiori. Ha davanti a sé una superpotenza, quella
vaticana appunto, ma ha la fortuna di incontrare avvocati disposti a «lavorare
gratis» per la sua causa. La Cattolica, forse essa stessa vittima dei poteri
forti del Gemelli, farà di tutto per «coprire» il suo direttore, anche contro l’evidenza
dei fatti. Altrettanto determinato è però Bigotti nel rivendicare il suo posto
di lavoro. Lo scontro, nelle aule dei tribunali, sarà durissimo. Contro il
ricercatore «impertinente», il primario sotto accusa, che ricopre anche altre
importanti cariche universitarie, attivamente sostenuto dagli altri medici del
reparto, organizzerà una durissima campagna di stampa per screditarlo
pubblicamente. Lo accuserà di essere contemporaneamente «raccomandato,
arrogante, mitomane e ricattatore». Ma Bigotti, diranno altri giudici, non è
niente di tutto questo: segnalando quegli errori «ha scrupolosamente osservato
il giuramento di Ippocrate», secondo cui «la missione del medico è quella di
salvare le vite umane». Dà forse l’impressione di essere un po’ presuntuoso
quando rimprovera il primario di essere di fatto un «incompetente» sul lavoro,
ma ha le terribili prove dei vetrini dalla sua parte.
È convinto che molte delle diagnosi del caporeparto siano sbagliate, e
per dimostrarlo chiamerà in causa i più importanti esperti internazionali di
ricerca sul cancro: quelle diagnosi diranno illustri scienziati, sono
effettivamente errate. Ma queste conferme risulteranno una vana consolazione
per il medico inquisito. Anzi, saranno un aggravante in più per tenerlo lontano
dal reparto, «in condizioni di non nuocere».
La Cattolica, accusato il colpo della scienza d’oltreoceano, va avanti
per la sua strada, non cede di un millimetro. Teme che riammettendo Bigotti nel
reparto, questi possa scoprire altri «scheletri dentro l’armadio». Si guarda
bene dal licenziarlo. Non ha argomenti per farlo. Se lo facesse scoppierebbe
uno scandalo ancora peggiore. Quindi lo tiene a bada. «Come un vigilato
speciale», dirà il Tar del Lazio, che ne ordinerà inutilmente il reintegro
nelle sue funzioni. I tribunali saranno l’altra grande soddisfazione di
Bigotti, vincitore fino ad ora di molte battaglie sul fronte giudiziario.
L’ultima, in ordine di tempo, forse la più importante, l’ha scritta la corte di
Cassazione il 30 aprile scorso (ne parliamo qui sotto), confermando le sentenze
di condanna per «omicidio colposo» del primario C., inflittagli nei
processi di primo e secondo grado per aver «cagionato, o comunque accelerato la
morte» di una paziente, per «imperizia» nel fare la diagnosi istologica. La
vicenda riguarda il decesso di una bambina di 9 anni colpita da un tumore
maligno, alla quale C. aveva diagnosticato una “patologia benigna” alla
vescica. L’«errore macroscopico» ravvisato dai sette periti del tribunale era
uno dei tanti «sbagli» imputati dai ricercatore al suo primario.
Era il mese di marzo del 1991, l’inizio di questa «storia allucinante».
Giorgio Bigotti, laureato a 23 anni in Anatomia patologica alla Sapienza di
Roma, e specializzatosi in oncologia in America, lavora al Policlinico Gemelli
già da qualche anno, dall’84, come vincitore di concorso. Arnaldo C., già
preside della facoltà di medicina a Chieti, sostenuto dall’allora boss politico
democristiano Remo Gaspari, arriva a dirigere il reparto del Sacro Cuore nell’87.
Gli anni successivi tra i due saranno anni di normali rapporti professionali.
Poi, i primi screzi. Visionando i vetrini nell’archivio dell’istituto, Bigotti,
che svolge anche attività di assistenza al pari degli altri medici, ha la
sventura di imbattersi su due diagnosi sospette: una di queste su una donna
colpita da un tumore benigno, alla quale stava per essere asportata una
mammella. «Feci le mie rimostranze al primario chiedendo che venissero fatte
ulteriori analisi. Gli esami quella volta furono ripetuti all’istituto tumori
di Milano e alla Columbia University di New York, che confermarono entrambi
l’errore diagnostico». Il caso controverso si risolve senza problemi fisici per
la paziente. Così avvenne anche per altro caso di un paziente al quale era stato
erroneamente diagnosticato un tumore maligno sul viso. «Se non si fosse
proceduto alla verifica della diagnosi, il paziente avrebbe rischiato, senza
motivo, l’asportazione di una parte di tessuti facciali. Il suo tumore era
infatti benigno».
Sbagliare è umano, perseverare è delittuoso, pensa a questo punto Bigotti, che di «casi sospetti», rianalizzando altri vetrini istologici, successivamente ne aveva contati 113, tutti relativi al 1988. Troppi per stare tranquilli. Ne parlò con i suoi colleghi. «La percentuale di errori era di oltre il 60%. Pensai che fosse quindi opportuno promuovere delle conferenze per ridiscutere insieme quelle diagnosi. C’erano persone sotto terapie sbagliate. Bisognava intervenire con urgenza. Chiesi l’appoggio dei medici del reparto, che però mi risposero di no, non se la sentivano di mettere in discussione il direttore. Mi dissero di parlarne direttamente con C. Così feci. Chiesi e ottenni un incontro con il primario. Al colloquio esternai i miei sospetti, dissi al direttore di aver ravvisato altre diagnosi errate, sollecitandone la correzione. Alcuni pazienti, mandati a casa con cure a base di antibiotici, avrebbero dovuto ricevere la radioterapia o chemioterapia, che in certi casi, se il male è preso in tempo, consentono la guarigione del malato». C. lo ascolta infastidito. «Mi sta a sentire con le mani davanti agli occhi. Poi, improvvisamente si alza, livido in volto, e urlando mi dice di cercarmi uno psichiatra e di trovarmi un altro lavoro».
È il preludio della guerra totale, i cui esiti saranno imprevedibili
dentro e fuori dal Gemelli, dentro e fuori dalle aule giudiziarie. Colpi di
scena non mancheranno, fino all’ultimo. Ci saranno magistrati che archivieranno
indagini e altri che le riapriranno. A un certo punto interverrà anche l’FBI
americano. Ma tutti questi episodi avverranno molti anni dopo da quel
drammatico faccia a faccia che dà il via alla persecuzione del ricercatore,
vittima di una raffinata forma di mobbing in chiave cattolica. «Dopo
quell’incontro mi aspettavo un provvedimento disciplinare. Ma non mi diedi per
vinto. Credevo di aver ancora delle chances. C’erano di mezzo pazienti
sotto terapie sbagliate. Così decisi di scrivere al rettore dell’Università,
Adriano Bausola (morto di recente) mettendolo al corrente della situazione nel
reparto. Chiesi anche a lui ufficialmente di far ripetere tutte le diagnosi di
C. Ero convinto che la Cattolica, così attenta al valore della vita,
avrebbe preso provvedimenti nei suoi confronti». Ingenuità di un dilettante. Il
rettore, sentito prima il primario, prende carta e penna e anziché rispondere
alle sue richieste, gli comunica la data dell’udienza a cui dovrà presentarsi
per difendersi dalle accuse mossegli da C.
I «capi di incolpazione», segnalati da relative lettere di
C. al
rettore, sono quattro e si riferiscono ad altrettante «infrazioni disciplinari»
che Bigotti avrebbe commesso nel periodo immediatamente successivo al suo
allontanamento dal reparto. Primo: il ricercatore «ha interrotto una lezione
del professor C. entrando nell’aula con una radiolina accesa». Secondo:
«Bigotti ha asportato dall’archivio dell’istituto di anatomia patologica i
vetrini» delle diagnosi istologiche. Terzo: ha «apostrofato con epiteti» il
direttore del reparto.
Quarto: si è rivolto con «toni di voce alterati» ai colleghi.
L’imputato contesterà punto per punto le accuse. Ma pochi giorni prima
dell’udienza vola a New York. Ha poco tempo. Porta con sé 27 vetrini, una
piccola parte delle diagnosi che secondo lui dovevano essere riesaminate, e li
consegna agli esperti della Columbia University e del Memorial Sloan Kettering
(ritenuti tra i più importanti ospedali oncologici del mondo) chiedendone per
ognuno una contro perizia. Queste danno risultati opposti a quelli del primario
del Gemelli. Là dove C. aveva diagnosticato tumori benigni, gli esperti
Usa dicono che sono maligni. E viceversa. Confortato dalle «prove» americane,
torna in Italia giusto in tempo per il processo. E’ convinto di avercela fatta.
Vive momenti di tensione altissima fino al giorno dell’incontro con i senatori
del Sacro Cuore. L’incontro si svolge a porte chiuse, in un’aula a semicerchio
nella sede milanese dell’Università Cattolica. E’ martedì 4 giugno 1991.
Bigotti viene fatto sedere al centro dell’aula. «La seduta durò pochissimo.
Dissi ai docenti che C. aveva sbagliato molte diagnosi, che gente
innocente era stata uccisa. Misi in risalto proprio il caso della bambina morta
per errore. Cercai insomma di andare all’origine dei problemi sorti nel
reparto. Loro mi dissero che dovevo solo rispondere dei capi di imputazione.
Feci anche questo. Mi assunsi le mie responsabilità circa i toni della voce
alterati che potrei aver usato in qualche circostanza, ma ne spiegai i motivi,
contestando le altre accuse. Poi me ne andai, lasciando sul tavolo la cartella
con gli esami di C. e le contro analisi degli americani».
La sentenza dei presidi era già scritta. Bigotti però ancora non ci
crede, è convinto dell’onestà intellettuale dei docenti. Tant’è che torna a
Roma rilassato, «sicuro che sarebbe finito il mio incubo». “Dopo molte notti
insonni, quella sera feci una dormita colossale». Qualche giorno dopo riceve a casa una nuova lettera
di convocazione dal rettore, questa volta per comunicargli l’esito
dell’«adunanza» del senato accademico, ratificata dall’eminentissimo Consiglio
di amministrazione della Cattolica. Oltre al cardinale di Roma Ruini e
all’onorevole Scalfaro (diventerà presidente della repubblica successivamente),
ne fanno parte sua Eccellenza monsignor Dionigi Tettamazzi, il professore e
monsignore Pietro Zerbi, lo stesso rettore Bausola, l’onorevole Emilio Colombo
(ex ministro Dc), il professore Giuseppe Segni (fratello di Mario, figlio di un
altro ex capo dello Stato), l’avvocato e il direttore amministrativo della
Cattolica, Raffaele Cananzi e Domenico Lofrese e altri illustri professori.
Qualcuno è «assente giustificato». Il verdetto dei presenti è una doccia gelata
per Bigotti: altri sei mesi di sospensione dal servizio e decurtazione dello
stipendio da 3.700.000 a 900.000 lire. Quanto alla clamorosa bocciatura del
primario C., la Cattolica non ha niente da dire. Le controanalisi degli
americani vengono ritenute «ininfluenti sulla condotta indisciplinata» di
Bigotti. Che viene inoltre denunciato alla procura per aver sottratto i vetrini
istologici e per aver «offeso con epiteti» il primario. Al processo, qualche
anno dopo, Bigotti sarà assolto «perché il fatto non sussiste».
Ma torniamo alla sentenza opposta della Cattolica «Mi sembrava di
vivere in un mondo di favole. I richiami del papa al Vangelo, gli appelli per i
deboli, alla salvezza dei malati. Tutto questo per me, trattato come un
criminale, scacciato come un lebbroso, erano diventate parole al vento». Per
Bigotti saranno altri mesi forzati a casa, con uno stipendio ridotto al minimo
vitale. Scaduti i sei mesi di «sospensione cautelare», torna al Gemelli. Ma la
macchina bellica della Cattolica è ormai in pieno svolgimento. Al suo rientro è
già pronto un altro ordine di servizio. C., vietandogli tassativamente di
avvicinarsi al reparto, lo colloca fuori dalla struttura sanitaria, nella «sala
settoria», dove farà esclusivamente autopsie. «Disse che dovevo avere a che
fare solo con i cadaveri».
Comincia così la guerra psicologica, che sarà maniacale e andrà oltre
i confini del Gemelli. Qualsiasi suo movimento è controllato a vista. Ogni suo
gesto segnalato al Senato accademico. E in questo periodo che Giulio Bigotti,
colpevole di aver rotto il clima di omertà che avvolge la rinomata Università
del Sacro Cuore, viene anche picchiato. «Volevo andare in archivio per del
materiale di ricerca. Era il mio lavoro. Ma fui aggredito da un tecnico che poi
si vantò pubblicamente di averlo fatto. Mi disse che aveva l’ordine del primario
di non farmi entrare nell’istituto». C. segnala l’episodio al rettore,
sostenendo che Bigotti ha «sputato» al tecnico, omettendo però l’aggressione di
quest’ultimo. Il direttore segnala inoltre che Bigotti si «è allontanato dalla
sala settoria in orario di lavoro».
Quest’ultima accusa, più delle altre, tra l’assurdo e il patetico,
rasenta il ridicolo. «La stanza delle autopsie veniva chiusa tutti i giorni
alle 10 per la disinfestazione. Di conseguenza mi obbligavano ad uscire, ma
poiché non mi era consentito di andare in nessun’altra struttura dell’ospedale,
ero costretto a bivaccare nei prati». Senato accademico e Cda della Cattolica —
di cui fanno parte eminentissime personalità vaticane del calibro di Camillo
Ruini — in ogni caso non perdonano. Vanno avanti senza pietà. In una successiva
«adunanza» condannano nuovamente il ricercatore «indisciplinato». Stavolta la
pena è ancora più severa: dieci mesi di sospensione dal servizio, senza
stipendio. Giulio Bigotti è di nuovo fuori gioco: la sua attività di ricerca
ormai è ferma da un anno. «Da tre pubblicazioni al mese, il mio lavoro
scientifico si era ridotto a niente». Ma non impazzisce. Scrive altre lettere
al rettore, ai presidi, allo stesso C. Ma nessuno lo sta a sentire.
Parte a questo punto la
controffensiva dei suoi avvocati. Il pool è composto dalla penalista Tina
Lagostena Bassi, e dal civilista Carlo Rienzi del Codacons, ai quali si
aggiungerà Michele Lioi, anche lui del Coordinamento delle associazioni dei
consumatori e degli utenti. Presenteranno querele a raffica. Ogni atto della
controparte nei confronti del ricercatore sarà oggetto di denuncia alla
magistratura.
Il caso Bigotti diventa
pubblico. I suoi legali ne danno notizia con una conferenza stampa.
Sull’«allucinante vicenda» che sta accadendo alla Cattolica, il
Codacons, contemporaneamente al ricorso al Tar contro la sospensione di Bigotti
da Anatomia patologica, scrive anche una «supplica» al papa e alla segreteria
di stato vaticana. La missiva, inviata per conoscenza a ministri, parlamentari
e al procuratore della repubblica di Roma, è violentissima. Parla senza mezzi
termini di «logica di mafia e di copertura che sta portando grave discredito,
per oscuri motivi, alla stessa istituzione sanitaria, al fine di salvaguardare
il ruolo e la professione di un singolo individuo (C.)... Non riusciamo
inoltre a comprendere — scrive l’associazione dei consumatori — come si possa,
con spirito e coscienza cristiani, pensare di punire un soggetto (Bigotti) per
una colpa non sua, ma semmai dell’Università, senza incorrere in pesanti
sanzioni morali prima che giuridiche».
Interviene anche il Movimento
federativo democratico, con i suoi tribunali del malato, chiedendo al rettore
della Cattolica di «nominare un collegio medico-legale di specialisti e
riesaminare tutte le diagnosi — ben 80 mila — fatte nell’Istituto di anatomia
patologica dall’88 (anno in cui arriva C. a dirigerlo) al ‘92, giacché i
casi di errori gravi segnalati da Bigotti e accertati anche dalla scienza USA
riguardano soltanto un periodo dell’88. Né l’appello del Codacons né la
richiesta del Mfd ottengono risposte.
Il 13 maggio del ‘93 arriva
invece la prima sentenza del Tar del Lazio, che ordina all’azienda vaticana il
reintegro di Bigotti alle sue funzioni originarie: gli ordini di servizio di C., ratificati dalla Cattolica sono ritenuti «illegittimi, frutto di un
manifesto sviamento di potere e di violazione di legge». Inoltre, aggiunge il
Tar «impediscono l’espletamento del compito primario del ricercatore universitario
che è quello di contribuire allo sviluppo della ricerca scientifica». Ma
l’Università dichiara di non essere obbligata a dare seguito a tale ordinanza,
e fa ricorso al Consiglio di Stato.
Sul tavolo della magistratura intanto sono finite le 113 diagnosi tumorali
che secondo il ricercatore sono sbagliate. Un giudice archivia. Ma altri aprono
indagini. Vengono però presi in considerazione solo i 27 casi in cui gli
esperti americani della Columbia University e del Memorial Sloan Kattering di
New York hanno confermato gli errori. E’ in questa fase che la magistratura
chiede l’intervento dell’Fbi. I medici della Columbia, pur avendo messo per
iscritto che furono commessi gravi errori di diagnosi, avevano trattenuto i
vetrini a loro consegnati da Bigotti per le controanalisi. Trattandosi di prove
medico legali delicatissime, si erano rifiutati di consegnarle ai suoi
avvocati, considerati come dei privati qualsiasi. Li cederà solo dietro
richiesta ufficiale della magistratura italiana, che li ottiene attraverso l’intervento
del Federal Bureau Investigations Usa e dell’Interpool.
C. finisce sul banco degli imputati per le diagnosi errate più
gravi (quelle in cui ci sono persone morte di cancro) ma solo nei casi in cui
vi siano denunce di parte o parenti delle vittime ai quali la magistratura ha
potuto notificare l’avvio del procedimento giudiziario. In tutto sono una
dozzina di «decessi sospetti», cinque dei quali, essendo nel frattempo intervenuta
la nuova legge che trasferisce le competenze sul reato di omicidio colposo,
vengono trasmesse alla pretura. La magistratura rinvia a giudizio C. anche
per abuso di ufficio aggravato e continuato nei confronti di Bigotti.
Facciamo un piccolo passo indietro, al mese di luglio del ‘92. Sul
Gemelli si accendono i riflettori internazionali per la presenza di un paziente
eccellente. Papa Wojtyla è malato e viene ricoverato alla Cattolica, che
prepara l’evento con molta cura mediatica. Nei confronti del pontefice si
sospetta un tumore ma non si sa di che entità. Le analisi vengono eseguite nel
reparto diretto da Arnaldo C. Ma i vetrini istologici vengono portati
fuori dall’ospedale, all’Università La Sapienza, verificati
dall’anatomopatologo Vittorio Marinozzi. In altre parole viene seguita la
procedura (negata) sollecitata da Bigotti per le diagnosi sospette effettuate
nei confronti di decine di pazienti comuni.
Intanto il «monatto di
manzoniana memoria», dal suo esilio forzato adiacente alla camera mortuaria, ha
modo di prepararsi per il concorso di medico associato indetto dalla stessa
Cattolica. Ma il suo tentativo non ha storia: viene bocciato con la motivazione
che negli ultimi due anni la sua «produzione scientifica si è interrotta».
Nella commissione esaminatrice
c’è Arnaldo C., nientemeno che l’artefice dell’azzeramento della sua
attività professionale. Il Tar, successivamente, accogliendo anche in questo
caso il ricorso di Bigotti, annullerà il concorso sostenendo che C., visti
i rapporti che corrono tra lui e il ricercatore, si sarebbe dovuto quanto meno
astenere dal giudizio
L’ennesima figuraccia della Cattolica avverrà, anche in questo caso,
molti mesi dopo. Bigotti è ancora interdetto. Ma non si scoraggia, e partecipa
a un altro concorso, questa volta bandito da un altro ospedale romano, il Santo
Spirito, che sta proprio a due passi da San Pietro, ma non è struttura
vaticana. E’ ospedale laico. Vince il posto da anatomopatologo distanziando di
molti punti il secondo classificato. È l’inizio del ‘94. L’anno delle buone
notizie per Bigotti. Arriva infatti anche la sentenza del Consiglio di Stato,
che rigetta il ricorso della Cattolica contro l’ordinanza di reintegro del
ricercatore emessa un anno prima dal Tar. La sentenza è definitiva,
inappellabile.
Bigotti in teoria dovrebbe tornare nel reparto dal quale è stato
ingiustamente cacciato. Ma ormai ha già preso l’aspettativa dal Gemelli per
andare al Santo Spirito, dove ha davanti a sé un periodo di prova di sei mesi
prima di essere assunto ufficialmente. Ma nel nuovo posto di lavoro, come
vedremo, il suo dramma si trasformerà in farsa.
Al Santo Spirito, dopo un primo periodo di relativa tranquillità,
succedono cose turche. Il primario del reparto di Anatomia patologica, L. A., comincia a lamentarsi del suo comportamento. A un certo punto lo
querela accusandolo di trattarla male pubblicamente, di «sputare» ai colleghi.
La A. muove sostanzialmente a Biagotti le stesse accuse che gli
rivolgeva C. al Gemelli. Le lamentele del primario, accompagnate da
relativi ordini di servizio, si intensificano man mano che si avvicina la
scadenza del periodo di prova. Terminato questo Bigotti vive forse il periodo
peggiore della sua vita: viene licenziato per «incompetenza professionale».
Insomma, bocciato sul campo. E’ un caso unico in Italia. Di solito le conferme
per i vincitori di concorso sono automatiche. Bigotti chiede e ottiene altri
sei mesi di prova, previsti per legge. I suoi avvocati, visto che c’è una
querela di parte della A. contro Bigotti, chiedono al direttore
sanitario dell’ospedale la ricusazione del primario per il giudizio finale
sull’attività svolta dal loro assistito. Non la ottengono. Il giudice di
Bigotti resterà A. Terminato il secondo semestre di prova, il
risultato non cambia: il ricercatore è licenziato una seconda volta per
«incompetenza professionale».
Le cose a questo punto sono due: o il genio Bigotti è improvvisamente
impazzito, oppure c’è qualcosa che non va in quei giudizi così drastici della
A. I suoi avvocati sentono odore di bruciato. Ma la chiave di volta
non sta nelle loro mani. Denunciano il primario alla magistratura, ma la
querela sarà archiviata. A loro insaputa, ma neanche il figlio ne sa nulla, è
entrata in scena la mamma di Bigotti. La quale, contemporaneamente ai legali
del figlio, aveva inviato la stessa identica denuncia contro la A.
alla procura di Milano. Non ha molta fiducia in quella di Roma, perché già in
passato aveva archiviato una querela contro C. per gli ordini di servizio
di sospensione del figlio dal reparto. Era la stessa querela che, sempre
attraverso la procura di Milano (incompetente a indagare), finita poi nelle
mani di altri magistrati romani (il pm è Maria Cordova) diede vita al rinvio a
giudizio (il gip è Augusta Iannilli) del primario della Cattolica, quindi al
processo che lo condannerà per abuso d’ufficio aggravato e continuato. E’ per
questo precedente che si rivolge di nuovo al pool di Saverio Borrelli. Milano
però, così come fece nella precedente occasione, rinvia il fascicolo Bigotti a
Roma, questa volta arricchito da quel licenziamento sospetto al Santo Spirito.
Il caso finisce sul tavolo del pm Giuseppe De Falco. Il magistrato apre
un’indagine che durerà quasi quattro anni. La conclusione è di queste
settimane ed è clamorosa: sul licenziamento di Bigotti dal Santo Spirito,
secondo De Falco, ha interferito la longa manus del potente primario
della Cattolica A. C., nei cui confronti pende ora una ennesima
richiesta di rinvio. Insieme al primario del Santo Spirito L. A. è
accusato di falso ideologico e abuso d’ufficio. Entrambi «hanno agito con più
azioni esecutive del medesimo disegno criminoso».
Nel corso delle indagini, i periti della polizia scientifica,
esaminando il lavoro di Bigotti nell’anno di prova al Santo Spirito,
riscontrano che la sua attività è stata svolta perfettamente: le sue diagnosi
sono definite «ineccepibili». Molti medici della struttura, interrogati dagli
investigatori, smentiscono inoltre che il suo comportamento sia stato
«arrogante e irrispettoso», come aveva sostenuto il primario nei suoi ordini di
servizio. Durante le perquisizioni delle abitazione di A. e C.,
la polizia scopre un singolare carteggio avvenuto tra i due primari. Tra le
carte sequestrate anche documenti processuali, coperti peraltro dal segreto istruttorio, relativi al caso
Bigotti. Infine vengono trovate copie degli ordini di servizio che C. faceva a suo tempo al ricercatore e che l’astuta dottoressa
A.,
secondo il pm, ricopiava a stralci per rendere credibili le sue denunce sui
presunti «atteggiamenti indisciplinati» di Bigotti. In questo modo il primario
rendeva un servizio a C. il quale, successivamente, al processo in cui è
imputato di abuso di ufficio, si difenderà mostrando come riprova delle sue
ragioni, proprio gli ordini di servizio della collega A.
L’udienza dei due primari davanti al gip, che dovrà decidere se
mandarli alla sbarra o meno, è fissata per il 19 ottobre prossimo.
Il complotto, se di questo si tratta, viene svelato anche in questo
caso molti anni dopo dalla messa in scena. Siamo infatti alla fine del 1995.
Bigotti è dunque licenziato dal Santo Spirito perché «non sa fare il
suo mestiere». Al Policlinico Gemelli i suoi avversari salutano il clamoroso
evento stappando bottiglie di champagne. Ma i vertici della Cattolica – si
apprende sempre dalle carte degli investigatori – sapevano già che sarebbe
finita nel peggiore dei modi per il ricercatore. Durante le indagini
preliminari sulla vicenda al Santo Spirito, un giornalista, citato dalla
difesa, rivela una conversazione avuta con l’allora capo ufficio stampa
dell’Università del Sacro Cuore il quale le aveva annunciato, tre mesi prima
che avvenisse il licenziamento, che Bigotti avrebbe perso il posto di lavoro.
Sconfitto e umiliato, Bigotti
torna al Gemelli, dove la Cattolica sarebbe obbligata a dar seguito alla
sentenza, inappellabile, del Consiglio di stato che lo ha reintegrato
nell’istituto diretto da C. Ha vinto l’ennesima battaglia al tribunale
amministrativo, ma il suo stato d’animo, dopo il licenziamento dal Santo
Spirito, è ulteriormente peggiorato. Al Gemelli, nonostante Tar e Consiglio di
stato, non tornerà nel suo vecchio reparto. «Mi venne proposto di andare alla
Columbus, succursale del Gemelli. Pur di lavorare accettai il trasferimento per
fare attività assistenziale e di ricerca». A parole nei suoi confronti c’è
un’attenuazione della persecuzione. Nei fatti non sarà cosi. E’ solo l’effetto
della sentenza del Consiglio di stato. C., che è direttore anche della
Columbus, continua a impedirgli ogni attività di ricerca e di fare didattica.
Cestina tutte le sue richieste di fondi e per l’utilizzo di materiale
d’archivio.
Vengono intanto al pettine anche alcuni processi penali e civili. La
Cattolica è difesa dagli avvocati Giorgio Fini e dallo studio Vitaliano e Fabio
Lorenzoni. Il rettore Bausola (deceduto non molte settimane fa), nei cui
confronti era stato chiesto il rinvio a giudizio per concorso in abuso
d’ufficio, è difeso da Giovanni Maria Flick (ministro di grazia e giustizia
durante il governo Prodi). I legali di fiducia di C. sono invece Enzo
Gaito e Giuliano Dominici.
Una delle prime sentenze della
magistratura è sulla vicenda in cui il primario della Cattolica è imputato per
la morte della bambina di 9 anni. E’ il ’96: il primario viene condannato a sei
mesi per “omicidio colposo” e a risarcire 200 milioni ai genitori della bambina
deceduta per errore diagnostico. C. fa appello. Ma il tribunale di secondo
grado, nel ‘97, conferma la condanna, che diventa definitiva nell’aprile di
quest’anno in Corte di Cassazione. Il reato di omicidio colposo è però nel
frattempo caduto in prescrizione. Ma la sentenza non lascia dubbi: i giudici
della suprema corte «hanno ritenuto che sussistevano serie e apprezzabili
probabilità di guarigione della bambina, tali da consentire di affermare la
sussistenza del necessario nesso causale con la condotta del medico che omise colposamente
di formulare la corretta diagnosi, impedendo la instaurazione della corretta
terapia post-operatoria». C. resta in ogni caso al suo posto. Quanto agli
altri dieci casi sospetti indagati da tribunale e pretura, i periti confermano
gli errori segnalati da Bigotti quella mattina di marzo, del 1991 e
successivamente controfirmati dagli esperti americani. Le diagnosi vengono
ritenute errate, ma non viene accertato il cosiddetto «nesso di causalità»,
ovvero se la morte dei pazienti, ai quali C. aveva erroneamente
diagnosticato «patologie benigne», poteva essere evitata in presenza di
diagnosi esatte. Alcuni erano molto anziani e altri erano malati di tumore
maligno in stato avanzato.
Si celebra, con la stessa
lentezza, anche il processo contro Bigotti per i suoi presunti atteggiamenti
irrispettosi nei confronti di C. e sul presunto furto dei vetrini dal
reparto. La querela era stata sporta dal primario e dalla Cattolica.
L’assoluzione del ricercatore è piena. L’azione di Bigotti «non costituisce
reato», in quanto da parte sua «c’è stata solo la volontà di protesta e di
opporsi all’atteggiamento degli organi accademici di estrometterlo da ogni
attività e di esercitare il suo diritto di critica e di libera manifestazione
del proprio pensiero». Due dipendenti, la segretaria dell’Istituto di anatomia
patologica e un preparatore di vetrini istologici testimoniano di aver subito
forti pressioni e minacce affinché deponessero contro il ricercatore, in
particolare denunciavano di essere stati «puniti» sul lavoro per non aver
accettato di dire il falso. La donna dice ai giudici anche di aver subìto un
tentativo di investimento con l’automobile da parte del tecnico che picchiò
Bigotti. Scagionano insomma in pieno il ricercatore, giurando che tutti i suoi
guai sono cominciati proprio quando segnalò gli errori diagnostici ai superiori
chiedendone la ripetizione. Alla causa contro l’isolamento di Bigotti nella
«stanza dei morti», la magistratura è durissima nei confronti dell’azienda
vaticana il cui «grado elevato della colpa, l’intensità del dolo e il
complessivo comportamento post delictum non è indicativo di elevata
consapevolezza morale».
Si conclude anche il processo
di primo grado nei confronti di C., imputato di abuso di ufficio
continuato e aggravato. Il primario viene condannato a un anno di reclusione
(pena sospesa) e al pagamento di una provvisionale di 100 milioni a Bigotti per
i danni subiti dal ricercatore a causa dell’interruzione della sua attività. Il
direttore di Anatomia si appella anche a questa sentenza. Il processo di
secondo grado si è concluso il 27 aprile scorso. La sentenza viene capovolta. C. è assolto. Ma la motivazione lascia di stucco. L’ha scritta il giudice
Vittorio Bucarelli, presidente della I sezione della Corte di appello dì Roma,
lo stesso che sette anni fa, in qualità di gip, archiviò la querela di Bigotti
per diffamazione a mezzo stampa contro lo stesso C. che lo aveva accusato
di «ricattarlo per fare carriera».
«C. — si legge nella sentenza d’appello, alla quale gli avvocati
di Bigotti hanno annunciato ricorso in Cassazione — è assolto perché l’origine
della sua condotta è da ravvisarsi nella finalità di evitare la scoperta di
errori diagnostici (dolo specifico) e, cioè, nel conseguimento del vantaggio
(non patrimoniale) di perpetuare la copertura di essi». In altre parole il
giudice Bucarelli dice che C. ha sospeso Bigotti dal reparto per impedire
che questi potesse scoprire altri «scheletri dentro l’armadio» di Anatomia
patologica. Questo movente però non aveva come obiettivo il raggiungimento di
un vantaggio patrimoniale, quindi il primario va «assolto perché il fatto non
costituisce reato». Amen
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