Mobbing e straining come fattispecie determinative di danno
Mobbing e straining come fattispecie determinative di danno: utile un intervento normativo?[1]

 

1. A fronte della crescente attenzione con cui i giuristi guardano al fenomeno del mobbing (antico, ma percepito e studiato in tutta la sua complessità solo in epoca relativamente recente) inteso come fattispecie determinativa di danno (essenzialmente) non patrimoniale alla persona del lavoratore, non di rado ci si domanda se l'ordinamento e, soprattutto, la giurisprudenza giuslavoristica siano già ora attrezzati rispetto a esso in termini di capacità di prevenzione, di riconoscimento e di repressione -sempre che la sua trasposizione in un concetto giuridicamente rilevante sia di effettivo beneficio[2]- o se a tali scopi siano auspicabili interventi legislativi da affiancare alle tecniche di tutela già disponibili o, meglio, se non sia il caso di aggiornare queste ultime soprattutto sul piano processuale.

La risposta presuppone che si provi brevemente a fare il punto - ovviamente senza alcuna pretesa di esaustività - sugli esiti cui, a oggi, si è pervenuti a vari livelli, verificando se le potenzialità dell'ordinamento danno, almeno nel breve o medio termine, affidamento sufficiente per un adeguato ed efficace trattamento delle varie forme di conflittualità interpersonali afl'interno dei luoghi di lavoro.

Preliminarmente sarà opportuno precisare che il discorso che segue, riferito in modo precipuo alla figura del mobbing, può in linea di massima estendersi anche a quella dello straining, considerato che di fatto la giurisprudenza, fatte salve rare eccezioni, non distingue la prima dalla seconda[3] sebbene quest'ultima sia statisticamente più frequente e di ben più agevole utilizzo in sede processuale, giacché consiste in una situazione di sfrcss forzato sul posto di lavoro dovuta anche a un solo atto discriminatorio i cui effetti negativi si ripercuotono, però, per tempo lungo e costante sulla sfera lavorativa della vittima.

Accantoniamo invece ogni riflessione sul cd. stalking occupazionale - fattispecie peraltro assai meno frequente - in quanto in tal caso le azioni persecutorie, pur originate da motivazioni provenienti dall'ambiente lavorativo, vengono attuate esclusivamente nella sfera di vita privata della vittima[4].

 

2. Sul piano della prevenzione è innegabile in via di principio la centralità della contrattazione collettiva, che però - allo stato - comincia solo a muovere i primi passi per lo più a livello di comitati paritetici per la raccolta di dati sul fenomeno del mobbing, sulle sue cause e sulla formulazione di proposte di azioni positive per prevenirlo[5], senza che siano ancora emerse soluzioni concrete e adeguatamente sperimentate.

Certamente la sede naturale di prevenzione è quella sindacale, perché solo una pronta negoziazione quanto più vicina possibile alle parti può evitare la degenerazione del conflitto e ciò rispetto tanto alla forma di mobbing più diffusa, quella ed. verticale (detta anche bossing), quanto a quella ed. orizzontale.

Per quanto concerne, invece, la tutela davanti al giudice, per entrambe le forme di mobbing si possono già ora ritagliare vari spazi con sufficiente coerenza ricostruttiva, anche se nell'esperienza giurisprudenziale emergono poche ipotesi di mobbing orizzontale e ciò per l'ovvio motivo che è ben difficile che un intero ambiente voglia e/o riesca a emarginare un collega senza l'assenso più o meno esplicito del datore di lavoro, così come è infrequente un mobbing verticale che non si avvalga anche dell'apporto (fattivo od omissivo) dei colleglli di lavoro della vittima. In un'evenienza del genere è preferibile, dal punto di vista terminologico, mantenere la dizione di mobbing verticale ogni qual volta siano i vertici aziendali, da soli o insieme con i dipendenti, a porre in essere azioni ostili nei confronti d'un lavoratore al solo scopo di emarginarlo e costringerlo alle dimissioni e/o al fine di predisporre il contesto adatto a muovergli contestazioni disciplinari idonee a giustificarne il licenziamento.

Benché l'esperienza concreta tenda a far sfumare l'una forma nell'altra, nondimeno dal punto di vista concettuale possono esaminarsi partitamente le due ipotesi.

Il mobbing verticale costituisce da sempre una forma illecita di governo dell'impresa atta a penalizzare il personale a vario titolo «sgradito» per costringerlo - appunto -alle dimissioni o per ritagliargli addosso una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento (in tal caso si parla anche di ed. mobbing strategico) o per soggiogarlo annichilendone le capacità di reazione.

In questi termini il mobbing propriamente verticale è solo una variante più articolata e insidiosa di forme di controllo dei dipendenti affinché accettino supinamente ogni decisione aziendale e rinuncino a far valere i propri diritti, pena l'emarginazione.

In sintesi, prevalentemente è un'espressione dei rapporti di forza tra capitale e lavoro che si estrinseca in una pluralità di azioni ostili provenienti essenzialmente dal datore di lavoro e accompagnate dalla collaborazione, se non fattiva, almeno omissiva di altri suoi dipendenti (i cd. side mobbers), nel senso che - quanto meno - costoro si astengono da ogni solidarietà con la vittima.

Le molteplici possibilità di tutela rispetto al mobbing verticale (come si è detto) hanno fatto sì che l'approccio in sede giurisdizionale alla relativa tematica appaia frantumato in relazione a singole condotte proprie della strategia del mobber, il che, per quanto giudicato da taluni insufficiente perché privo d'una visione d'insieme del fenomeno[6], presenta almeno il vantaggio di non distogliere l'attenzione del giudice da quegli atti di gestione illeciti e/o illegittimi già autonomamente reprimibili e suscettibili dì essere configurati come fattispecie determinative di danno, semplificando l'attività istruttoria e con essa riducendo i tempi dell'accertamento giudiziario.

Secondo altra visuale, invece, il ricorso al concetto di mobbing può costituire un valore aggiunto ove consenta di sanzionare un complesso di azioni ostili che, valutate atomisticamente, potrebbero anche non essere illecite, ma che assumono tale connotato se lette in un contesto unitario, sempre che siano plurime e si protraggano nel tempo[7], indipendentemente dal fatto che integrino inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato e/o violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato[8].

In tal caso il mobbing verticale si esprime attraverso azioni ostili che, pur non traducendosi in quelle tradizionali sopra ricordate e pur non costituendo - eventualmente - inadempimenti contrattuali, nondimeno sono ingiuste e lesive dell'altrui diritto alla dignità personale e professionale, riconducibili pur sempre a una responsabilità ex art. 2043 cc.

In proposito la giurisprudenza attribuisce al danno da mobbing natura al tempo stesso contrattuale ed extracontrattuale quasi sempre in virtù del concorso di azioni promosse dal lavoratore, il che rende oggettivamente meno urgente e rilevante distinguere tra le due forme di responsabilità e determina affermazioni a largo spettro con inevitabili approssimazioni dogmatiche.

In presenza di mobbing di natura prettamente contrattuale, attuato cioè mediante dequalificazioni, demansionamenti, trasferimenti vessatori e/o discriminatori ecc. (anche se, in caso di atti omogenei o non ripetuti, ma a effetti permanenti, è preferibile parlare di straining), v'è da notare che la descrizione d'un generale contesto di aggressività nei confronti del singolo lavoratore, sebbene non necessaria per reprimere illegittimi atti di gestione, tuttavia può smascherare i veri intenti datoriali e smentirne i pretesti organizzativo/produttivi eventualmente addotti.

Per converso, proprio l'accertamento del contesto generale può servire a distinguere, il mobbing da mere situazioni di disagio nei rapporti interpersonali non ascrivibili a una data organizzazione aziendale.

In ordine a quest'ultima viene in rilievo una seconda categoria di azioni ostili attraverso le quali può realizzarsi il mobbing, anche esse individuate nella circolare n. 71/03 dell'Inail sotto la dizione di «costrittività organizzative»: ci si riferisce ad azioni che - a differenza di quelle intimidatorie, vessatorie e discriminatorie agite in dinamiche puramente interpersonali - coinvolgono direttamente e in modo esplicito una data organizzazione del lavoro specificamente finalizzata a collocare il dipendente in una posizione lavorativa per più versi insostenibile. Sono azioni più sfuggenti, ma rispetto alle quali già oggi soccorre comunque la giurisprudenza della SC, anch'essa concorde nell'attribuire all'area dell'art. 2087 cc. la tutela da mobbing[9] laddove ha affermato che l'illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore consistente nell'osservanza di una condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087[10].

Il mobbing propriamente orizzontale - che, invece, esclude qualsiasi istigazione datoriale nell'attuazione della pluralità di azioni ostili - nasce da quella che potremmo addirittura definire una sorta di malattia sociale diffusa negli ambienti di lavoro, in cui la crescente precarizzazione dei rapporti lavorativi e di quelli umani tende a sostituire alla solidarietà sindacale la ricerca di soluzioni individuali per accaparrarsi possibilità di carriera o anche soltanto di rinnovo d'un contratto a termine.

A buon diritto lo si può descrivere come il «paradigma di una psicopatologia del lavoro», riprendendo l'icastico titolo di un'opera collettiva ad approccio multidisciplinare sul tema[11].

In casi del genere, a parte la tutela sul piano penale (denuncia per molestie o altri reati) o meramente civile (azione di risarcimento ex art. 2043 ce. nei confronti dei singoli mobbers), in sede giuslavoristica la ricostruzione concettuale dell'azione da esperire nei confronti del datore di lavoro - che, per definizione, nel mobbing orizzontale non è il mobber - deve agganciarsi a un criterio di imputazione di responsabilità del datore di lavoro per azioni ostili che invece provengono da altri soggetti, criterio che - allo stato - non sembra lasciare alternative all'utilizzo dell'art. 2087 cc. in via contrattuale o dell'art. 2049 cc. in via extracontrattuale.

In entrambi i casi possiamo ritenere che l'approccio applicativo sia sufficientemente lineare.

Non a caso il riferimento all'art. 2087 cc. compare ormai da tempo in quasi tutta la giurisprudenza[12] (talvolta, fuori luogo, anche in ipotesi di mero protratto demansionamento[13] e, perciò, in casi non realmente qualificabili come mobbing orizzontale, ma - più probabilmente - come straining).

A ogni modo è chiaro che al datore di lavoro si impone l'obbligo di adottare misure idonee ad assicurare la tutela della salute anche psichica dei propri dipendenti grazie all'art. 2087 cc. che, letto in combinato disposto con il diritto alla salute di cui all'art. 32 Cost., è norma di chiusura del sistema di sicurezza per la prevenzione degli infortuni e per l'igiene sul lavoro, la cui operatività non è esclusa, ma rafforzata dalla sussistenza di disposizioni speciali sull'adozione di particolari cautele[14].

In effetti il danno da mobbing opera essenzialmente sul piano psichico, con possibili ripercussioni in termini di danno biologico (su cui l'interprete dispone d'una sconfinata elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale) nell'evenienza dell'instaurarsi di vere e proprie patologie psichiche - anche di carattere multifattoriale - e/o di loro somatizzazione, patologie risarcibili mediante azione nei confronti del datore di lavoro[15] anche in caso di mobbing orizzontale, considerata la vigenza nel nostro ordina­mento del principio dell'equivalenza causale di cui all'art. 41 c.p. (notoriamente applicabile anche in sede civilistica) secondo cui le cause concorrenti sono tutte e ciascuna causa dell'evento (sempre che quest'ultimo rientri nella sfera di prevedibilità e dominabilità del soggetto attivo).

In virtù del richiamo alla tutela della personalità morale del lavoratore l'art. 2087 cc. consente anche il ristoro del mero danno ed. esistenziale, per definizione privo di riscontro immediato sul piano della salute e perciò estraneo all'aggancio con l'art. 32 Cost.: esso si propone invece in connessione diretta con altro parametro costituzionale (l'art. 2). Anche a tale riguardo l'interprete dispone d'una corposa elaborazione da parte della giurisprudenza giuslavoristica già maturata - ad esempio - in casi di dequalificazione o demansionamento[16]. Infatti non sembra che vi siano state eccessive difficoltà nel riconoscere il danno esistenziale da mobbing[17].

Ovviamente, poiché l'art. 2087 ce. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva non può esservi criterio di imputazione che prescinda dall'individuare la condotta dovuta e omessa, giacché nel mobbing orizzontale il comportamento del dato­re di lavoro che viene in rilievo è di tipo necessariamente omissivo (violazione del dovere di evitare l'evento). Escluso che possa essere doveroso mettere insieme lavoratori fra loro caratterialmente compatibili, l'unica condotta dovuta potrebbe essere quella di organizzare le posizioni lavorative in modo da prevenire conflitti e/o di sanzionare i mobbers e/o di allontanarli dalla vittima, il che però rischia di collidere con l'insindacabilità del merito imprenditoriale nell'organizzazione dei fattori produttivi in generale e, in specie, del personale, senza trascurare, poi, la pratica impossibilità di separare fra loro mobbers e mobbed in aziende di modeste dimensioni.

Non meno chiaro si presenta il ricorso alla responsabilità aquiliana ex art. 2049 cc. - sempre in caso di mobbing orizzontale - atteso che per la sua applicazione ci si accontenta della prevedibilità e prevenibilità dell'evento dannoso. Pertanto, non appena si provi l'avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro delle azioni dei mobbers all'interno dell'azienda, egli avrà il dovere di impedire il protrarsi di tali azioni, pena una sua eventuale responsabilità - appunto - ex art. 2049 cc. (e, nel caso di pubblica amministrazione, anche ex art. 28 Cost. per gli atti compiuti in violazione di diritti da funzionari e dipendenti dello Stato e degli altri enti pubblici).

Le considerazioni sopra svolte valgono in linea di massima anche per lo straining, ma con la puntualizzazione che, poiché esso presuppone solitamente un dislivello di tipo gerarchico e non una generica situazione di inferiorità (come può verificarsi anche tra pari grado differenziati solo in via di sovra-ordinazione funzionale), la sua figura meglio si apparenta a quella del mobbing verticale.

3. Le osservazioni che precedono lasciano ritenere che l'ordinamento e la giurisprudenza siano potenzialmente abbastanza attrezzati, fermi restando spazi ulteriori di affinamento concettuale.

Ma - e qui proviamo ad accennare a qualche possibile risposta agli interrogativi da cui siamo partiti - disporre di buone fonti di riferimento e di tecniche applicative di tutela è ovviamente cosa diversa dall'essere in grado di assicurarne adeguata ed effet­tiva eseguibilità, già oggi ampiamente in crisi così come accade - ad es. - in rapporto all'ordine di reintegra nel posto di lavoro e al concreto pagamento dei danni conseguenti, discorso che coinvolge in generale il (troppo) sofferto rapporto del giurista italiano con la tutela in forma specifica e che si sposta su un piano molto più ampio, che esula dalla tematica in oggetto.

Non solo: quel che appare in ritardo è, a monte, la capacità stessa di riconoscimento del fenomeno, ritardo dovuto vuoi all'assenza d'un concetto pacifico e condiviso in via interdisciplinare[18], vuoi alla carenza in proposito di specifiche conoscenze da parte della maggioranza dei giuristi.

Nondimeno l'idea che a ciò possa ovviarsi con interventi normativi arti ad agevolarne il riconoscimento mediante tipizzazione è, in realtà, del tutto suggestiva e impraticabile. Il mobbing è un insieme sinergico di azioni ostili di molteplice provenienza e natura che possono esprimersi attraverso atti giuridici o meri comportamenti materiali[19], di guisa che pensare di ingabbiarne la definizione all'interno d'una fattispecie normativa significa esporsi al più che concreto rischio di predisporre uno strumento tanto anelastico quanto inutile.

Troppi perseverano nell'errore di ritenere che il proliferare delle discipline, anche di dettaglio (e, quel che è peggio, delle fonti di produzione) costituisca una garanzia contro i pericoli connessi alla discrezionalità del giudice. In tal modo si continua a coltivare - da Voltaire in poi - l'equivoco che considera le leggi sempre più democratiche e affidabili del giudizio del magistrato, nonostante che l'eccesso e la contraddittorietà delle prime finisca, per eterogenesi dei fini, con il rafforzare il rischio di arbitrio da parte del secondo, per tacere, poi, della patologica ambivalenza della società italiana, che quanto più interiorizza come valore l'anomia tanto più indulge a un'incontrollata proliferazione di regole (o, se si preferisce, è l'inflazione delle regole a svalutarne la vincolatività).

L'inutilità d'una tipizzazione normativa del concetto di mobbing si rivela ancor più se si pensa alla difficoltà d'un suo accertamento processuale: le rigidità istruttorie che continuano a governare il processo civile, nonostante la maggior elasticità del rito speciale, sono ancora tante e la loro azione, combinata con gli inevitabili limiti introdotti da una nozione normativa (per quanto, in ipotesi, a fattispecie aperta) sarebbe una miscela esplosiva nel peggiorare il tasso di effettività di tutela.

Per di più, il tradizionale accento che il nostro ordinamento processuale ancora oggi pone sulla prova dichiarativa aggrava le difficoltà di riconoscimento e di emersione in sede giurisdizionale d'una fattispecie come quella del mobbing. Poiché ex art. 111 Cost. anche le prove del processo civile devono formarsi in contraddittorio fra le parti e la prova che meglio si forma in contraddittorio è quella storica o dichiarativa da assumere in udienza, va da sé che ancora oggi si tende largamente a privilegiare (tanto nel processo penale che in quello civile e del lavoro) la prova testimoniale. Infatti, l'udienza poco si addice a prove di natura tecnica o anche soltanto alla pazien­te ricostruzione d'un complesso di singoli indizi che nella narrazione discontinua d'una deposizione testimoniale divengono di percezione difficile, se non proibitiva.

Se non si va lontano dal vero quando si afferma l'esistenza d'un intuitivo nesso fra principio di formazione della prova in contraddittorio e prevalenza della prova storica - è questo l'argomento «nobile» (o, almeno, apparentemente tale) della predilezione verso la prova dichiarativa, la più adatta al contraddittorio fra le parti e, quindi, al giusto processo -, è però altrettanto vero che la centralità della prova storica ha ben altri motivi, meno nobili, se non addirittura impresentabili. Infatti la prova dichiarativa è la più vantaggiosa sotto molteplici aspetti: conviene economicamente perché costa meno di tutte; conviene al giudice che in poche battute può limitarsi a dare per acquisito un fatto se così riferisce la prova dichiarativa o a escluderlo tout court se la prova è invece incerta o contraddittoria; conviene alla parte disonesta, giacché la prova storica è in assoluto la più facilmente manipolabile.

A un problema di affidabilità si aggiunge, in tema di mobbing, quello di attendibilità d'una prova che gioco forza deve provenire da quelle stesse persone che con la vittima (mobbed) hanno condiviso l'ambiente lavorativo, vale a dire - per lo più - dagli stessi (co)autori di quella pluralità di azioni ostili che del mobbing costituiscono l'essenza.

Né va dimenticato che l'ammissibilità della loro testimonianza può divenire problematica ove il datore di lavoro, adducendo la propria estraneità alle azioni ostili concretatesi in mobbing provenienti da altri dipendenti, ne chieda e ottenga la chiamata in causa.

D'altro canto, come incanalare in una prova testimoniale la percezione dell'ostilità persecutoria (che costituisce la cifra del fenomeno) data da singole frasi, silenzi, atteggiamenti personali, forme minacciose o provocatorie di comunicazione non verbale, ostentato disinteresse ecc.?

Su queste premesse proviamo a immaginare qualche scenario: in un primo, più collaudato, l'attenzione si presenta focalizzata sui singoli atti di gestione illeciti, che non a caso compaiono nelle classificazioni generali delle attività mobbizzanti elaborate dalla psicopatologia del lavoro e recepite dalla sopra citata circolare n. 71 del 17/12/03 dell'Inail concernente le modalità di trattazione delle pratiche di riconoscimento di malattia professionale in caso di disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro, compresi quelli generati dal ed. mobbing strategico: ad es., demansionare e marginalizzare il lavoratore fino a svuotarne le attribuzioni e ridurlo a totale inoperosità o costringerlo a svolgere lavori inutili o cambiargli continuamente le mansioni, trasferirlo immotivatamente, arrecargli molestie sessuali, farlo lavorare in ambienti malsani, precostituirgli ad arte occasioni di responsabilità disciplinare, discriminarlo nella progressione in carriera, nell'assegnazione delle ferie, nell'accesso a iniziative formative di riqualificazione e aggiornamento professionale, nonché nell'esercizio di vari diritti contrattuali.

Altre forme - uso esasperato del potere di controllo, aggressioni verbali dirette, diffamazioni, derisioni, minacce, isolamento dagli altri colleghi, eccessivi carichi di lavoro o carichi di lavoro esorbitanti rispetto al bagaglio professionale del lavoratore o in relazione a eventuali sue condizioni di handicap psicofisico, mancata attribuzione degli strumenti di lavoro, sistematico impedimento all'accesso alle informazioni concernenti l'ordinaria attività e, più in generale, tutte le forme rientranti nella cd. costrittività organizzativa - appaiono invece più elusive e meno suscettibili di essere ricondotte a fattispecie determinative di danno giuslavoristicamente sperimentate e reprimibili. Tuttavia v'è da ricordare che è improbabile che non sfocino poi in concreti e rilevanti atti di gestione del tipo sopra ricordato e/o in violazioni di diritti previsti dal contratto collettivo: si tratta, infatti, di azioni solitamente prodromiche a dequalificazioni, demansionamenti, trasferimenti, sanzioni disciplinari, discriminazioni nelle ferie e nell'orario di lavoro, licenziamenti, dimissioni estorte ecc.

In tal caso parlare di mobbing può tornare utile come mera espressione di sintesi per meglio illuminare il quadro complessivo, per evitare una parcellizzazione della vicenda in singoli eventi facilmente sottovalutabili, nonché - cosa non da poco - per giustificare una maggior entità del risarcimento (i danni punitivi «premono alle porte») a fronte di atti datoriali già da lungo tempo reprimibili, a seconda dei casi, attraverso un'ampia strumentazione normativa[20], utilmente integrabile - se del caso - dall'uso combinato degli artt 1175 e 1375 cc. e di apposite clausole di contratto collettivo.

In breve, ci si può accontentare di reprimere le azioni ostili nella misura in cui si concretizzino in dequalificazioni o demansionamenti, trasferimenti, discriminazioni nell'assegnazione di premi aziendali e/o nei turni e negli orari di lavoro e/o nella ripartizione delle ferie ecc.; in tal senso concetti come mobbing o straining risultano utilizzati solo come una delle possibili chiavi interpretative del contesto generale in cui vengono posti in essere gli atti di gestione del rapporto per smascherarne l'intento persecutorio, ferma restando l'autonoma perseguibilità (anche in ulteriori sedi) di comportamenti altrimenti illeciti (molestie sessuali, ingiurie, minacce ecc.).

In un secondo scenario possiamo supporre invece che il concetto di mobbing si consolidi in una nozione di prevalente (se non esclusiva) matrice giurisprudenziale, id est divenga sempre più «pretorio» perché esso stesso oggetto diretto dì accertamento[21] in quanto considerato come autonoma e sufficiente fattispecie determinativa di danno, tale potenzialmente da prescindere dalla repressione del singolo atto gestionale illegit­timo.

Naturalmente si deve essere consapevoli delle controindicazioni: quando la causa petendi prescinde dall'allegazione di singoli atti gestionali illegittimi si perdono i punti di riferimento giuridicamente più significativi e sperimentati in termini concettuali, si rischia di confondere la conduzione istruttoria della causa e si mettono a nudo tutte le inefficienze del processo civile.

Ad esempio, la difficile praticabilità della consulenza tecnica (se non per accertare lo stato clinico della vittima, che può far emergere il danno, ma di per sé non ne prova automaticamente la causa) può suggerire il ricorso all'apporto di psicologi non più quali Ctu ma, durante l'escussione dei testi, in generica veste di ausiliari ex art. 68, 1° comma, c.p.c. (vista l'ampia portata della norma, ingiustamente negletta): resta a ogni modo la seria difficoltà di come trasfonderne le osservazioni all'atto della motivazione della sentenza, nel presupposto d'uno scambio di osservazioni fra giudice e suo ausiliario, senza che ciò leda il contraddittorio fra le parti.

Nel fatale riproporsi dell'eterno dilemma tra formalismo delle garanzie e giustizia del caso singolo possono mettersi a profitto accertamenti indiziari valorizzando anche in ambito civilistico il principio di atipicità della prova e sfruttando l'occasione offerta dal mobbing per rompere, pure ad altri fini e in differenti fattispecie di contenzioso, il monopolio della prova dichiarativa[22].

Sempre per restare nell'ambito delle peculiarità del mobbing, idonea prova atipica può ricavarsi attraverso l'acquisizione di statistiche su un dato tipo di problemi verificatisi nell'azienda interessata (spesso i grandi numeri svelano quel che il singolo caso nasconde), ma ciò richiede agli avvocati un investimento, in termini di tempo e di costi, poco compatibile con l'attuale (disorganizzazione della gran parte degli studi professionali (ancora oggi prevalentemente unipersonali - o quasi - in numerose realtà territoriali) e con le possibilità economiche dei loro assistiti che, proprio perché vittime di mobbing, si collocano in una fascia di utenti assai debole sotto più profili.

In alternativa si possono sollecitare i poteri istruttori d'ufficio, ma a patto che l'art. 421, 2° comma, c.p.c. superi la crisi applicativa di cui soffre e che deriva anche dall'incremento esponenziale del numero delle controversie, che spesso induce il giudice del lavoro a un approccio istruttorio sempre più ripetitivo e burocratico che è l'esatto con­trario di quel che servirebbe per accertare vicende così sfaccettate come quelle di mobbing.

D'altronde è proprio l'eccesso di regolamentazione legislativa a massificare i ricorsi, deresponsabilizzare il giudice e invogliare le parti a forzare la realtà per ricondurla all'alveo tranquillizzante d'una data fattispecie normativa, a tutto detrimento del rispetto del vero.

Non a caso è da tempo che gli storici del diritto cercano, in generale, di porre all'ordine del giorno il problema d'un recupero della dimensione sapienziale del diritto che attenui lo strapotere legislativo nella produzione normativa, a vantaggio della creatività del giurista[23]: ma sarà - questo - un valido percorso per sfuggire, nello specifico del diritto del lavoro, al circolo vizioso di leggi che tanto affannosamente quanto vanamente rincorrono le contingenti richieste del mercato?

Bisognerà riparlarne.

Antonio Manna, magistrato

(pubblicato in D&L, Riv. crit. dir. lav. n.3/2006, 705)

 


 

[1] In massima parte il presente scritto riprende e sviluppa osservazioni già svolte in occasione d'un breve intervento nel corso del convegno su «Il danno alla persona del lavoratore» tenutosi a Napoli il 31/3-1/4/06 e organizzato dall'Aidlass.
[2] Su ciò cfr. Occhipinti, «Sull'utilità giuridica del concetto di mobbing», in questa Rivista 2004, 7. Espressamente contro la necessità di specifici interventi sul mobbing v. Oliva, in Monateri, Bona e Oliva, Mobbing, Milano 2000, p. 132; in senso contrario cfr. Cimaglia, «Il mobbing? Attentato alla sfera psichica. Ma ora serve una definizione normativa», in Diritto e Giustizia 2005, 26.
[3] A quanto consta, solo in Trib. Bergamo 20/6/05, in questa Rivista 2005,808 si dà atto che l'ipotesi denunciata come mobbing in realtà andava meglio inquadrata come straining.[4] Per una distinzione tra le varie figure cfr. Ege, Oltre il mobbing, Milano 2005, p. 70, cui si devono le definizioni di stalking occupazionale e di straining.
[5] V. ad es. l'art. 8 ipotesi accordo 9/6/05 dirigenti pubblici regionali, sostanzialmente analogo all'art. 19 Ccnl 16/2/05 per Accademie e Conservatori, l'art. 10 Ccnl 2/2/05 per il personale non medico di case di cura private, l'art. 20 Ccnl 27/1/05 comparto Università, l'art. 6 Ccnl 21/6/04 Coni Servizi, art. 8 Ccnl 28/5/04 per le agenzie fiscali, l'art. 31 Ccnl 27/5/04 per dirigenti delle aziende del settore terziario, l'art. 7 Ccnl 26/5/04 per aziende autonome dello Stato, l'art. 8  Ccnl 17/5/04 per il personale dipendente del comparto della Presidenza del Consiglio dei Ministri e numerose altre fonti collettive.
[6] In tal senso Bona e Oliva, in Mobbing, cit, p. 26.
[7] V. ad es. App. Venezia 20/9/03, in Not. giur. lav. 2004, 35.
[8] In questi termini cfr. Cass. 6/3/06 n. 4774.
[9] V. Cass. 6/3 /06 n. 4774, cit.
[10] In termini analoghi v. anche Cass. 23/3/05 n. 6326, in Dir. e Giust. 2005, 26, con nota di Cimaglia, cit.
[11] II lavoro perverso. Il mobbing come paradigma di una psicopatologia del lavoro, a cura di Blasi e Petrella, Napoli 2005.
[12] V. ad esempio Trib. Torino 16/11/99, in Lavoro e previdenza oggi 2000,154, seppure in maniera del tutto apodittica.
[13] Cfr. Trib. Tempio Pausania 10/7/03, in Riv. it. dir. lav. 2004, II, 304, nonché in Trib. Campobasso 16/1/04, in questa Rivista 2004,107.
[14] Giurisprudenza assolutamente costante: cfr., ad esempio, Cass. 7/3/06 n. 4840; Cass. 19/8/03 n. 12138; Cass. 30/7/03 n. 11704, in Not. giur. lav. 2004, 170; Cass. 23/5/03 n. 8204, in Arch. civ. 2003,1281; Cass. 22/3/02 n. 4129, in Riv. giur. lav. 2003,312, con nota di Gaeta, «La duttilità applicativa dell'art 2087 ce», nonché in Lav. e prev. oggi 2002, 950; Cass. 29/12/98 n. 12863; Cass. 9/5/98 n. 4721, in Orientamenti 1998, 651; in Giust. civ. 1999, I, 539; Cass. 20/4/98 n. 4012, in Orientamenti 1998, 520; in Riv. it. dir. lav. 1999, II, 326, con nota di Mautone, «Sul contenuto specifico dell'obbligo di prevenzione delle rapine a carico dell'Istituto di Credito e sulle conseguenze del suo inadempimento»; in Resp. civ. e prev. 1999, 440, con nota di G. De Fazio, «Art. 2087 cod. civ.: obblighi di protezione e responsabilità d'impresa», in Foro. it. 1999,1, 969; Cass. 19/8/96 n. 7636, in Riv. infortuni e malattie professionali 1996, 85; Cass. 29/3/95 n. 3738, in Not. giur. lav. 1995, 405; Cass. 17/11 /93 n. 11351, in Resp. civ. e prev. 1994,689, con nota di Angiello, «Osservazioni sul debito di sicurezza del datore di lavoro»; Cass. 5/4/93 n. 4085; Cass. 6/9/88 n. 5048; Cass. 1/12/86 n. 7098.
[15] Salvo che non siano in concreto configurabili spazi di esonero da responsabilità ex art. 13 D. Lgs. 38/2000.
[16] In proposito, le Sezioni unite della SC hanno escluso (con sentenza 24/3/06 n. 6572, in questa Rivista 2006,473, con nota di Huge, «Prova della dequalificazione e prova del danno da dequalificazione: quale scenario dopo gli interventi della Suprema Corte?», nonché in Giur. it. 2006,1359, con nota di Bordon, «L'imprimatur delle Sezioni unite al danno esistenziale»; in Riv. giur. lav 2006, 253, con nota di Fabbri, «Le Sezioni unite, lo ius variandi dell'imprenditore e il danno esistenziale da demansionamento»; in Dir. & pratica lav. 2006, 1057, con nota di Mannacio, «Danno da dequalificazione e privazione del lavoro»; in Mass. Giur. lav. 2006,478, con nota di Vallebona, «L'edonismo d'assalto di fronte alle Sezioni unite: il danno alla persona del lavoratore»; in Lav. e prev. oggi 2006, 379) che il danno da demansionamento e dequalificazione possa prescindere dalla prova, ma hanno ammesso che di quest'ultima si possa dare dimostrazione anche mediante massime di comune esperienza e presunzioni, ad esempio attraverso la valutazione di caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno e all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto ecc.; per una critica a tale impostazione v., Meucci, «La prova del danno da demansionamento: un epilogo apparente», in questa Rivista 2006,369.
[17] Trib. Pisa 6/11 /01, in questa Rivista 2002,126; Trib. Milano 2/11/99, ivi 2001,373.
[18] Sulla nozione, in termini di psicologia del lavoro, di mobbing e di altre figure affini di conflittualità endoaziendali come stalking occupazionale e straining v. diffusamente Ege, Oltre il mobbing, cit.
[19] Cfr. Cass. 6/3/06 n. 4774, nonché, in motivazione, anche Corte Cast 10/12/03 n. 359, in Foro It. 2004,1, 2320, con nota di Cosio, «Il mobbing: alcune riflessioni sul disegno di legge n. 5122», sentenza emessa in sede di risoluzione di conflitto di attribuzioni.
[20] Basti pensare, ad esempio, agli artt. 1418,2103, 2109 cc., a tutta la disciplina sull'orario di lavoro, al D. Lgs. 216/03, all'art 15 SL, all'art. 4 L. 604/66, agli artt. 1 e 3 L. 9/12/77 n. 903, l'art. 4 L. 10/4/91 n. 125, alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10/12/48), alle Convenzioni OIL n. Ili e 117 (ratificate rispettivamente con L. 6/2/63 n. 405 e L. 13/7/66 n. 657), all'art. 7 del Patto internazionale relativo ai diritti economia, sociali e culturali (ratificato con L. 25/10/77 n. 881), al patto di New York 16-19/12/66, all'art. 69 del Trattato istitutivo della Ceca reso esecutivo in Italia con L. 25/6/52 n. 766, all'art 119 del Trattato istitutivo della Cee del 25/3/57, reso esecutivo con L. 14/10/57 n. 1203, alla Carta sociale europea, approvata il 18/6/61 e resa esecutiva con L. 3/7/65 n. 929, alla normativa di tutela della lavoratrici madri (frequentemente vittime di mobbing) e così via.
[21] Accertamento che - ipotizziamo - non passi necessariamente attraverso i sette parametri di riconoscimento elaborati da Ege (in La valutazione peritale del danno da mobbing, Milano 2002, passim; cfr. altresì lo stesso Autore in Oltre il mobbing, cit., p. 21).
[22] In generale sul tema delle prove atipiche v., ad es. Ricci, «Atipicità della prova, processo ordinario e rito camerale», in Riv. trim. dir. e proc. civ. 2002, fase. 2, 409; Proto Pisani, «Appunti sulle prove civili», in Foro it. 1994, V, 49-83; Montesano, «Questioni attuali su formalismo, antiformalismo e garantismo», in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1990, fase. 1,1-14; Ricci, «Le prove illecite nel processo civile», ivi 1987, fase. 1,34-87.
   [23] All'interno dell'ampia bibliografia sul tema mi piace segnalare, in particolare, Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano 2005.
 
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