Il fenomeno cosiddetto mobbing - qualche rilessione, anche giuridica

 

Mentre in Europa si contano circa 12 milioni di mobbizzati pari all’8% degli occupati, secondo l’Ispesl (l'Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro), nel nostro Paese, sono probabilmente un milione e mezzo su 21 milioni di lavoratori, di cui ben oltre il 70% opera nella pubblica amministrazione. Il fenomeno del mobbing apparentemente è più presente al Nord (65%) e la categoria più esposta risulta essere quella degli impiegati (79%). Sembra, inoltre, che colpisca maggiormente la sfera femminile (52%), finché non si scopre che l’orgoglio maschile ha una potente azione frenante che porta le vittime a nascondere frustrazioni e sofferenze anche molto gravi! Certo è che i danni, di ogni ordine e grado, ad esso addebitabili, sono davvero incalcolabili e segnano in modo indelebile l’individuo, i congiunti e l’intera collettività: è sufficiente limitarsi a stimare i costi complessivi in ambito socio-sanitario e giudiziario. Secondo l'Ispesl, il mobbing comporta un danneggiamento rilevante per ogni datore di lavoro, se si pensa che la produttività del lavoratore cala almeno del 70%, sebbene, e ciò costituisce l’aspetto più assurdo, tale strategia persecutoria sia promossa, avviata e/o avvallata proprio dal superiore.

 

In tutte le epoche storiche, le società naturali hanno tollerato vari livelli di marginalizzazione umana, considerandoli connaturati all’esperienza della collettività, che implica la difficile convivenza tra persone differenti, con caratteristiche diverse più evidenti (es. razza) o più nascoste (es. credo politico). Oggigiorno, soprattutto nell’ambiente di lavoro, vengono poste in essere vere e proprie strategie persecutorie allo scopo di espellere ipotetici estranei, considerati spesso veri e propri nemici da eliminare per difendersi. Questo comportamento, che può definirsi solo tribale, relega in soffitta il concetto di valore universale proprio della persona umana, incentrato sui diritti inviolabili dell’uomo, eredità della civiltà. Questo imbarbarimento dei costumi è stato consacrato nella nostra società con la codificazione dello spoil system, grazie al quale in caso di cambiamento al vertice di una determinata gerarchia può essere lecito, in casi particolari, la sostituzione dei collaboratori più stretti, a causa del rapporto fiduciario necessariamente esistente in alcuni contesti lavorativi. Tale sistema, astutamente male interpretato per indebolire o annientare “nemici” politici, è stato applicato in vari ambienti nel settore pubblico come in quello privato, producendo danneggiamenti molteplici all’intera società. Così in questi ultimi decenni è stato congegnato un nuovo termine “scientifico”, mobbing, che indica appunto questo fenomeno davvero drammatico: infatti sfogliando il vocabolario della lingua inglese si può comprendere l’idoneità di tale scelta in quanto il vocabolo ha avuto origine dal verbo to mob che significa ledere, anzi più propriamente accerchiare, e rimanda al comportamento concertato di più individui, cioè del cosiddetto branco ai danni di una determinata vittima ben identificata, al fine di costringerla alla fuga. Il primo ad utilizzare il termine mobbing è stato Lorenz nel 1963 nell’ambito dell’etologia, per indicare il comportamento di alcuni animali, quando si coalizzano tra loro per escludere un animale indesiderato dal gruppo. Nel 1986, poi, Leymann, psicologo tedesco, illustrò per primo, in un libro, le conseguenze del mobbing in ambito lavorativo, soprattutto nell’ambito della sfera della neuropsichiatria. A riprova della complessità di tale fatto, basta analizzare le tipologie che le discipline più diverse hanno coniato nel corso degli ultimi anni per spiegare alcuni comportamenti simili, invasivi e dannosi (es. lo stalking, che identifica la sindrome del molestatore assillante, o il bossing, che riguarda il caso in cui il mobber occupi una posizione gerarchicamente dominante rispetto al perseguitato).

 

Il termine mobbing, quindi, identifica un coacervo di sistematiche azioni persecutorie, spesso lecite, se analizzate singolarmente, che possono avere luogo in un arco di tempo molto lungo e sono tutte finalizzate al raggiungimento del medesimo obiettivo condiviso, cioè l’isolamento di un determinato soggetto, ben individuato, fino all’espulsione dal contesto umano in cui questo è inserito. Questo fenomeno si realizza alla presenza di un gruppo di cui la vittima è parte (o candidata ad entrarvi) e dal quale riceve, direttamente e/o indirettamente, maltrattamenti di varia origine e natura, non in modo sporadico o saltuario, ma continuativo: si tratta di azioni sempre causate o tollerate da persone poste in posizione di superiorità gerarchica o che la vittima percepisce come poste a tale livello rispetto a lei. Mentre talune condotte aggressive provocano ferite quasi impercettibili a livello inconscio, sebbene siano comunque gravissime, altre causano lacerazioni profonde evidenti, di cui la vittima è ben consapevole. Viene perpetrata, infatti, con tutti i mezzi una vessazione sistematica finalizzata a svilire e distruggere una persona sul piano psicologico, sociale e professionale: pertanto la vittima subisce drammatici danni psicofisici, con sicuri risvolti economici: perde progressivamente la stima e la fiducia in se stessa e negli altri, sia colleghi che familiari; somatizza il proprio malessere con stati depressivi e ansiosi, sviluppando tensioni e nevrosi incontrollate; muta le abitudini, non esce più con gli amici e tende continuamente a isolarsi (anche perché non può più sostenere certe spese); la sua capacità lavorativa crolla e talora si giunge persino al suicidio (una rilevazione sindacale datata 2006 ha evidenziato che in Italia sembra che il mobbing causi il 15% delle morti sul lavoro). Lo stress accumulato sul posto di lavoro ha ripercussioni indubbie nella vita quotidiana, che apparentemente, fuori dal contesto mobbizzante, può scorrere inalterata almeno per un certo periodo, in relazione alle capacità di reazione e finzione (fisiche e psichiche) proprie dell’individuo, ma col passare del tempo, quando l’esperienza diventa pluriennale, è più difficile celare in famiglia la propria tragedia.

 

Per molti soggetti palesare la propria precaria condizione lavorativa a familiari/amici/colleghi comporterebbe il rischio reale di perdere il proprio posto di lavoro, soprattutto qualora ciò sia causato dall’insofferenza politica del datore di lavoro, pubblico o privato che sia, nei confronti del credo, in senso lato, professato dal dipendente. Talora certe strategie persecutorie vengono colposamente tollerante addirittura dal sindacato, per cui il lavoratore si sente completamente isolato. Non è raro che i più colpiti siano proprio coloro che occupano posizioni elevate (dirigenti o funzionari) e che, maggiormente consci dei propri diritti, grazie al livello culturale raggiunto, non accettino passivamente di essere assegnati a mansioni inferiori per consentire ad altri, i cosiddette fiduciari del capo, illegittimi passaggi di carriera. Se poi l’interessato incomincia a opporsi, potrebbero essere utilizzati per convincerlo strumenti nefandi (es. calunnie e attribuzioni orchestrate di errori  di altri ecc… ) e se il malcapitato dovesse resiste nella sua determinazione, i casi sono rarissimi, verrebbe sicuramente fortemente penalizzato con una riduzione drastica a livello mansionale e una privazione progressiva di contatti umani, fino al completo esautoramento di ogni potere, cioè con l’assegnazione esclusiva di compiti inconsistenti-inesistenti-fittizi. Esiste anche l’eventualità che la vittima si rifiuti di espletarli, ed allora le vessazioni senz’altro aumenterebbero e si verificherebbe una vera e propria escalation di sanzioni disciplinari, ricorrendo alla recidiva, proprio allo scopo di pervenire all’estromissione del dipendente dal luogo di lavoro, cioè al suo licenziamento.

 

In sostanza il mobbizzato è sovraoccupato o, più frequentemente, sottooccupato, cioè declassato, dequalificato, demansionato fino all’esautoramento completo di ogni attività: qualunque sia la strategia persecutoria inflitta, il rifiuto di svolgere prestazioni comandate, umilianti sul piano umano e professionale, si presenta spesso quasi come una via obbligata al fine di tutelare al contempo professionalità e dignità umana. D’altro canto risulta, invece, priva di fondamento o comunque non avvalorata da dottrina e giurisprudenza, la tesi di chi concepisce la persecuzione perpetrata addirittura dal sottoposto nei confronti del superiore, prefigurando in tal modo un vero e proprio paradosso in cui la vittima sarebbe anche assurdamente corresponsabile del proprio danno! Purtroppo una fotografia esatta di questo fenomeno è praticamente impossibile, perché le vittime di tali soprusi, per evitare ulteriori umiliazioni, tendono a nascondersi o a palesare solo parzialmente le sofferenze subite, rifugiandosi nella “tana” costruita per loro dai membri del gruppo, così da diventare perfetti “sepolti vivi” (rif. esempio sottostante).

 

 

ESEMPIO DI ESAUTORAMENTO MANSIONALE DI UN FUNZIONARIO AMMINISTRATIVO PUBBLICO

 

Non svolgo alcun ruolo pertanto nessun collega o persona esterna all’ente mi interpella per un qualche motivo; non uso l’auto di servizio perché non devo recarmi da nessuna parte; non è richiesta la mia firma su documenti o lettere o atti di alcun genere; non telefono e non mi chiamano al telefono; non sono mai interpellata per alcunché; non spedisco lettere e non ne ricevo; non spedisco messaggi di posta elettronica e ne ricevo pochissime (solo alcune comunicazioni d’ufficio dalla segreteria del Settore oppure qualche newsletter con aggiornamenti in materia giuridica da alcuni siti internet); non scrivo nulla;  non viene pubblicato alcunché da me scritto, né on line né su carta; non faccio ricerche/indagini né telefoniche, né su carta, né on line; non sono invitata a incontri e non ne promuovo, anche perché non ci sarebbe alcun motivo; non gestisco banche dati, né cartacee né informatizzate; non uso il terminale; non redigo alcun tipo di atto, nemmeno amministrativo, e alcuna lettera; non mi occupo di alcuna pubblicazione del Servizio, né cartacea né on line; non predispongo alcun progetto di lavoro e non realizzo alcun progetto di lavoro; non vengono acquistati libri per la mia formazione/aggiornamento; non gestisco il personale, quindi non lo seguo né mi occupo della formazione, anzi ho esclusivamente incontri casuali lungo il corridoio con i colleghi del mio Servizio e con gli altri colleghi che vedo nel piano per ragioni varie; non ho alcun sottoposto; non posso avvalermi della collaborazione di alcun collega; non gestisco risorse finanziaria e non svolgo alcun compito correlato (come budgets, proiezioni, impegni di spesa, atti vari); non sono impegnata in alcuno degli obiettivi illustrati nel PDO, sebbene sia stata inserita nuovamente nominalmente in più di uno, tutti alieni dalla mia professionalità e dal mio livello; non sono coinvolta nella predisposizione dei documenti programmatici dell’Ente (es. RPP, PEG, PDO) e di quelli consuntivi (es. Rapporto di Gestione); non ho contatti con alcun Dirigente e nemmeno con l’Assessore: non ho alcun rapporto con i colleghi degli altri Settori comunali; non ho alcun rapporto con fornitori e/o clienti dell’ente; ogni settimana uno/due colleghi del Servizio entrano nel mio ufficio per un saluto o la consegna di un giornale; quotidianamente ricevo Italiaoggi e leggo anche Il Sole24ore, oltre a una rivista giuridica settimanale, anche se non mi viene mai chiesto alcunché in merito; trascorro l’intero orario di servizio dedicandomi ad un’autoformazione in campo giuridico, che nessuno mi chiede e che non è finalizzata, utilizzando solo testi di mia proprietà; non svolgo alcuna mansione eccettuata l’autoformazione; non frequento alcun corso formativo idoneo al posto di lavoro che occupo; nessun collega può rendersi conto se sono in ufficio o meno, perché sono isolata e ho immediato accesso al pianerottolo; non posso “sforare” con i minuti, perché è già successo che il capo non abbia voluto firmare alcune ore fatte in più e sono state tempestivamente decurtate; non avverto quando mi assento dall’ufficio (per il break nella mattinata, pranzo o a conclusione giornata) perché non serve; sono esclusa dai rapporti che intercorrono tra il terzo e il quinto piano, ove risiedono il Dirigente del Settore, l’Assessore, la segreteria del Settore, l’ufficio amministrativo e la commessa, eccettuate quelle operazioni inevitabili: es. comunicazioni relative al cartellino marcatempo disposte dal Settore Personale; non conosco affatto il lavoro che stanno svolgendo i colleghi del mio Servizio, con cui non posso collaborare; non è accreditabile alcuna mia parola né all’interno del mio Servizio, né all’interno dell’Ente, né all’esterno, infatti non  detengo alcuno dei poteri che mi spetterebbero in relazione al ruolo e alla qualifica da me posseduta; non utilizzo mai la mia esperienza professionale pregressa e la mia preparazione accademica, perché non richiesta; non frequento mostre, convegni, saloni; sono sempre fisicamente in ufficio; insomma, sono sempre, tutto il tempo, completamente isolata nel mio ufficio; situazione che tutti conoscono: colleghi, dirigenti, amministratori, sindacati.

 

Per risolvere il problema mobbing sarebbe sufficiente prendere avvio dalla Carta Costituzionale in cui si legge, all’art.1, che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.”, oppure ancora all’art.2, in cui si afferma che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo....”, oppure ancora all’art.32, ove il diritto alla salute viene riconosciuto come proprio di ogni soggetto e dell’intera comunità. Questi assunti enunciano con chiarezza che nella nostra penisola l’uomo ha una sua dignità, che deve essere tutelata come tale sempre, anche sul posto di lavoro, ora, una normativa specifica sul mobbing non esiste, tuttavia molti si augurano che i disegni di legge giacenti in Parlamento rimangano lettera morta, per non ingessare in tipologie uniformate i comportamenti vessatori, che sono spesso così variegati e multiformi, che solo applicando disposizioni generali, possono essere riconosciuti, interpretati e condannati. In questi anni dottrina e giurisprudenza analizzando tali condotte illegittime e applicando le norme codicistiche correlate, hanno posto in rilievo alcune problematiche con esiti non sempre uniformi e omogenei. C’è chi ha per certi aspetti interpretato questo fenomeno alla luce della normativa penale e vi ha ricavato interessanti osservazioni: nella maggior parte dei casi, infatti, potrebbero trovare applicazione sia le leggi sulla sicurezza del lavoro (D.Lgs.626/94 e successive), per violazione del dovere in capo al datore di lavoro di realizzare e mantenere un clima di benessere lavorativo aziendale nel rispetto dell’ordinamento giuridico vigente, sia la norma ex art.323 CP relativa alla condanna del comportamento abusante. Oggigiorno le azioni legali riguardanti il mobbing sono state promosse nella maggior parte dei casi in campo civilistico, ove sono fioriti studi assai interessanti, sebbene si siano registrati tempi vergognosamente lunghi, che hanno comportato pericolose ripercussioni sulle vittima e sui congiunti: tempi lunghi comportano spese maggiori, anche dal punto di vista umano. Il malcapitato, inoltre, convive con un’autostima bassissima, lottando quotidianamente per difendersi innanzitutto da se stesso, poi dagli altri (spesso giudicati erroneamente amici). Tutti questi dati confermano che non ha trovato ancora applicazione in Italia il D.Lgs.216/03 “Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro” proprio contro le discriminazioni di ogni genere. Eppure, questa legge avrebbe dovuto prevenire e combattere tutte le  discriminazioni, per realizzare pari trattamento a persone differenti per tanti motivi, tra cui anche le convinzioni personali, dando quindi legittima cittadinanza, anche doverosamente sul posto di lavoro, alle opinioni politiche diverse. Purtroppo, i fatti hanno messo in luce che l’oppresso raramente promuove azioni giudiziarie, per molteplici ragioni spesso compresenti: non tutti possono e vogliono intraprendere un’impresa così rischiosa (anche per il proprio posto di lavoro), così onerosa e così piena di incognite; gioca altresì a sfavore la sfiducia che tutti nutrono per il sistema giudiziario italiano, che non dà certezze nemmeno sui tempi dell’espletamento del processo; inoltre, i lavoratori sono rarissimamente consci dei propri diritti e si limitano quasi sempre a porre in atti azioni inconsistenti e inutili, isolate e spontanee, di tipo reattivo senza alcun impianto strategico. La carenza o, nei casi più gravi, la mancanza assoluta di tale consapevolezza, avvallata dall’interesse dei datori di lavoro, rende impervia la relazione del lavoratore con il legale di fiducia, che necessariamente richiede lunghe e  dolorose narrazioni dei fatti, con la dettagliata illustrazione delle angherie subite e dei danni sofferti sul piano professionale e su quello umano (proprio e dei familiari). Si tratta di un’operazione penosa che può avere anche risvolti pregiudizievole per la salute psicofisica della vittima, generalmente fatta oggetto di oppressioni psicologiche miranti spesso efficacemente proprio allo svilimento, alla disistima e al disprezzo di sé, all’interno del proprio contesto sociale già ben predisposto a tale azione di rigetto: si potrebbe dire che, in certo qual modo, questo venga educato alla realizzazione degli intenti criminosi del mobber, che, in dispregio delle leggi contro la discriminazione, riesce a creare un clima lavorativo freddo e indifferente, persino chiaramente ostile.

 

Di fronte a questo drammatico scenario, molti ancora chiudono gli occhi e c’è chi, addirittura, ignora il mobbing consapevolmente e colpevolmente anche nelle aule dei tribunali, dove sono richieste prove assai ardue che difficilmente il mobbizzato può procurarsi (es. testimoni a suo favore), derubando così le vittime anche della speranza del giusto riscatto d’immagine. Di seguito vengono indicati alcuni articoli tratti dal Codice Civile, di grande rilievo in materia, corredati con brevissime didascalie tratte da sentenze note, mentre più oltre sono richiamate delle massime importanti del periodo 2001/2007.

        Art.1176 CC “Diligenza nell’adempimento”
La diligenza costituisce un concetto molto importante in diritto civile e si sostanzia nell’obbligo imposto alle parti di non ledere con la propria attività interessi di altri soggetti giuridicamente tutelati dall’ordinamento. Si tratta di un imperativo che fonda sull’adempimento di quei doveri di attenzione, cautela e perizia che si accompagnano all’esercizio di qualsiasi attività. La legge dispone che il debitore deve usare la diligenza dell’uomo medio, cioè quella propria del buon padre di famiglia, offrendo in tal modo all’interprete un criterio generale di valutazione per tutte le prestazioni. Strettamente collegato al concetto di diligenza sta quello di colpa, che sussiste ogni qualvolta venga violato appunto l’obbligo in oggetto.
        Art.1218 CC “Responsabilità del debitore”
Conseguenza della violazione di un dovere giuridico nell’ambito dei rapporti interprivati è la nascita di un’obbligazione risarcitoria, volta alla riparazione del pregiudizio economico subito dal soggetto danneggiato. Tale norma addossa al debitore le conseguenze dell’inadempimento in mancanza della prova dell’impossibilità di adempiere dovuta a causa a lui non imputabile, prova che esige la dimostrazione dello specifico impedimento, che ha reso impossibile la prestazione. La forza maggiore, al pari del caso fortuito, è caratterizzata da un evento dovuto a causa non imputabile al debitore e si risolve quindi nell’assenza di colpa nell’inadempimento. In tema di azione di danni, il diritto al risarcimento nasce con il verificarsi di un pregiudizio effettivo e reale che incida nella sfera patrimoniale del contraente danneggiato, il quale deve provare la perdita economica subita: spetta al danneggiato fornire la prova dell’esistenza del danno lamentato e della sua riconducibilità al fatto del debitore, dando la prova sia dell’inadempimento che del pregiudizio subito, anche se è in grado di fornire solo elementi indiziari idonei a fondare presunzioni.
    Art.1226 CC “Valutazione equitativa del danno”
In tema di liquidazione del danno, poiché il ricorso al criterio equitativo è rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito che può procedere alla liquidazione equitativa anche senza la domanda di parte, qualora la determinazione del danno sia impossibile o particolarmente difficoltoso, il giudice non è tenuto a indicare le ragioni della mancata adozione del metodo equitativo, a meno che non vi sia stata una richiesta della parte al riguardo oppure, trattandosi di procedimento di appello, il giudice abbia abbandonato il criterio equitativo di liquidazione seguito in primo grado. La liquidazione equitativa del danno può ritenersi legittima nel solo caso in cui il danno stesso non sia meramente potenziale, bensì certo nella sua esistenza ontologica, pur non essendo suscettibile di prova del quantum. Il ricorso alla valutazione equitativa del danno da parte del giudice di merito se da una parte presuppone che non sussistano elementi utili e sufficienti per determinare il preciso ammontare del pregiudizio, dall’altro è consentito soltanto quando dall’esame del materiale probatorio acquisito al processo sia possibile pervenire ad una quantificazione che non si discosti in misura notevole dalla sua reale entità, fermo l’obbligo del giudice di indicare almeno sommariamente i criteri seguiti nella propria determinazione.  
     Art.1453 CC “Risolubilità del contratto per inadempimento”
L’inadempimento contrattuale è costituito dall’inesecuzione di una prestazione per effetto della mancata attuazione da parte dell’obbligato dell’impegno di cooperazione richiesto secondo il singolo tipo di rapporto obbligatorio per la realizzazione dell’interesse del creditore nel presupposto che la prestazione sia oggettivamente possibile. Nel valutare la sussistenza o meno di un inadempimento contrattuale, occorre interpretare le clausole contrattuali e valutare il comportamento delle parti nell’esecuzione del contratto anche in relazione al rispetto da parte dei contraenti dei doveri di correttezza e buona fede. La dichiarazione del debitore di non volere adempiere equivale a inadempimento e giustifica la risoluzione del contratto, l’immediatezza della quale evita un aggravio della posizione del debitore stesso.
     Art.1460 CC “Eccezione d’inadempimento”
Il principio di autotutela sancito da tale disposizione codicistica in forza del quale, nei contratti a prestazioni corrispettive, afferma che ciascun contraente può rifiutare la propria prestazione in costanza di inadempimento della controparte. Si configura quindi, con questa norma, un vero e proprio diritto di autodifesa per mezzo dell’eccezione inadimplenti non est adimplendum. Tale principio va circoscritto dal limite posto dalla suddetta disciplina e cioè dalla condizione che il rifiuto della propria prestazione da parte del contraente in bonis non sia contrario alla buona fede. L’inadempimento della parte viene valutato solo nell’ottica della realizzazione del sinallagma contrattuale al fine di considerarlo o meno giustificato in dipendenza dell’inadempimento dell’altra. L’eccezione si fonda, quindi, su due presupposti: l’esistenza dell’inadempimento anche dall’altra parte e la proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti da valutare non in rapporto alla rappresentazione soggettiva che le parti se ne facciano, bensì in relazione alla situazione oggettiva. L’eccezione di adempimento con le sue peculiarità di corrispettività, proporzionalità e interdipendenza mira a conservare l’equilibrio sostanziale e funzionale tra le contrapposte obbligazioni.
     Art.2043 CC “Risarcimento per fatto illecito”
Quando viene violato il principio del neminem laedere colposamente o dolosamente provocando un danno ingiusto occorre procedere al risarcimento da parte dell’agente, poiché la collettività non può tollerare che tale sofferenza permanga in capo alla vittima. In tema di responsabilità extracontrattuale, cosiddetta aquiliana, il rapporto di causalità al quale deve aversi riguardo, enunciato dall’art.40 CP, è quello esistente tra condotta dell’agente ed evento, nel senso che tale nesso deve sussistere in relazione al fatto inteso nella sua accezione naturalistica comprensiva del danno. Il caso fortuito è un elemento imprevisto ed imprevedibile che, inserendosi in un determinato processo causale e soverchiando ogni possibilità di resistenza e di contrasto da parte delle forze dell’uomo, rende inevitabile il compiersi dell’evento. L’attività della pubblica amministrazione anche nel campo della pura discrezionalità deve svolgersi nei limiti posti non solo dalla legge, ma anche dalla norma primaria del neminem laedere, sicché in considerazione di principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione dettata dall’art.97 Cost., la pubblica amministrazione stessa è tenuta a subire le conseguenze stabilite dall’art.2043 CC atteso che tali principi si pongono come limiti esterni alla sua attività discrezionale, ancorché il sindacato di questa rimanga precluso al giudice ordinario. È ipotizzabile il concorso tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale quando in capo ad una stessa persona danneggiata sussiste una molteplicità di situazioni protette sia ad un precedente obbligo relativo, sia a divieti generali e assoluti.
     Art.2059 CC “Danni non patrimoniali”
Poiché il danno biologico quale danno alla salute rientra a pieno titolo per il disposto dell’art.32 Cost. tra i valori della persona umana considerati inviolabili dalla Costituzione, la sua tutela è apprestata dall’art.2059 CC e non dall’art.2043 CC che attiene esclusivamente alla tutela dei danni patrimoniali. Il danno morale che attiene alla lesione dell’integrità morale della persona è ontologicamente autonomo rispetto al danno biologico e pertanto non può essere considerato un minus rispetto ad esso, con la conseguenza che la quantificazione automatica del danno morale come quota del danno biologico al quale il primo si accompagna è illogica e potenzialmente riduttiva.
     Art.2087 CC “Tutela delle condizioni di lavoro”
Sul datore di lavoro gravano sia il generale obbligo di neminem laedere espresso dall’art.2043 CC, sia il più specifico obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore sancito dall’art.2087 CC ad integrazione ex lege delle obbligazioni nascenti da contratto di lavoro. Per la proposizione dell’azione di responsabilità contrattuale occorre che la domanda sia espressamente fondata sull’inosservanza da parte del datore di lavoro di una precisa obbligazione contrattuale, ossia occorre una qualificazione espressa della domanda e non la semplice prospettazione dell’inosservanza del precetto dell’art.2087 CC o delle altre disposizioni legislative strumentali alla protezione delle condizioni di lavoro dipendente.
     Art.2103 CC “Prestazione del lavoro”
L’esercizio dello ius variandi rientra nella discrezionalità del datore di lavoro, che non è di per sé sottratta all’osservanza dei doveri di correttezza e buona fede e, per il caso di violazione, al rimedio del risarcimento dei danni. Il giudice valuta l’equivalenza in relazione alla competenza richiesta al livello professionale raggiunto e all’utilizzazione del patrimonio professionale acquisito nella pregressa fase del rapporto e nella precedente attività svolta. Il lavoratore deve essere adibito a funzioni confacenti alle proprie qualità, nell’ottica di un costante loro affidamento e di una progressiva evoluzione delle stesse. Il rifiuto del lavoratore di espletare le nuove mansioni a lui affidate dal datore di lavoro nel legittimo esercizio dello ius variandi qualora ciò non integri un demansionamento costituisce inadempimento contrattuale e può costituire giusta causa di licenziamento. Il demansionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all’art.2103 CC ma ridonda lesione del diritto fondamentale da riconoscere al lavoratore anche in quanto cittadino alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro con la conseguenza che il pregiudizio correlato a siffatta lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell’interessato ha un’indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa ex art.1226 CC.
Alcune massime interessanti
 
T.A.R. Lazio Roma, 17 aprile 2007, n. 3315
È possibile proporre azione risarcitoria, per lesione di interessi legittimi, entro gli ordinari termini di prescrizione quinquennale, anche senza previa impugnazione dell'atto lesivo; tale orientamento è di particolare rilievo in situazioni - riconducibili a mobbing - normalmente connesse a vizi che interessano non un singolo provvedimento, ma una serie di atti, la cui illegittimità, complessivamente considerata, riveli intenti persecutori e sia fonte di danno per la salute del dipendente.
 
T.A.R. Lombardia Milano Sez. III, 8 marzo 2007, n. 403
Il mobbing si manifesta in una durevole serie di reiterati comportamenti vessatori e persecutori rivolti nei confronti del dipendente all'interno dell'ambiente di lavoro in cui egli opera, capaci di provocare in suo danno una situazione di reale, serio ed effettivo disagio, che si concreta dunque in un danno ingiusto, incidente sulla persona del lavoratore, ed in particolare sulla sua sfera mentale, relazionale e psicosomatica. L'illecito si può potenzialmente concretare con una pluralità di comportamenti materiali ovvero anche di provvedimenti, del tutto a prescindere dall'inadempimento di specifici obblighi previsti dalla normativa regolante il rapporto (Trib. Milano, sez. lav., 20 maggio 2000 e 11 febbraio 2002; Cass. civ., sez. lavoro, 6 marzo 2006 n. 4774). La sussistenza di una simile situazione deve essere desunta attraverso una complessiva analisi del quadro in cui si esplica la prestazione del lavoratore: gli elementi identificativi sono stati di volta in volta individuati nella reiterazione di richiami e sanzioni disciplinari ingiustificati o nella sottrazione di vantaggi precedentemente attribuiti, che devono registrarsi con carattere di ripetitività, sulla base di un intento sistematicamente perseguito da parte del datore di lavoro al fine di creare una situazione di seria e non transeunte sofferenza nel dipendente (T.A.R. Lazio III, 25 giugno 2004, n. 6254). Analogamente a quanto ricorre per i reati collegati fra di loro dalla continuazione il mobbing si deve dunque esprimere, oltre che nei singoli atti o comportamenti del datore di lavoro individuabili in concreto, nel nesso che li lega strettamente fra di loro: essi, infatti, non pervengono alla soglia del mobbing, pur restando se del caso atti illegittimi o comportamenti ingiusti, se non raggiungono la soglia della continuità e della loro particolare finalizzazione, requisiti che dimostrano la sussistenza di un disegno unitario volto a vessare il lavoratore ed a distruggerne la personalità e la figura professionale (cfr. Cassazione, Sez. lavoro 6.3.2006, n. 4774; TAR Lombardia Milano, Sez. I, 21 luglio 2006, n. 1844; idem, n. 1861/2006).
 
Trib. Roma Sez. XII, 22 settembre 2006
In caso di richiesta di risarcimento danni derivati da mobbing incombe, in capo al richiedente, l'onere di provare l'esistenza dei presupposti dell'art. 2043 c.c., ovvero la sussistenza dell'elemento soggettivo e del nesso di causalità tra i danni asseritamene riportati all'immagine ed alla salute nonché la condotta. I caratteri identificativi del fenomeno del mobbing sono pacificamente rappresentati da una serie ripetuta e coerente di atti e comportamenti che trovano una ratio unificatrice nell'intento di isolare, emarginare e di espellere la vittima dall'ambiente di lavoro.
 
T.A.R. Lombardia Milano Sez. I, 21 luglio 2006, n. 1861
Il cosiddetto "danno da mobbing" consiste in una condotta del datore di lavoro sistematica e protratta nel tempo, con le caratteristiche della persecuzione, finalizzata all'emarginazione del lavoratore e che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell'integrità fisica e alla personalità morale del prestatore di lavoro; tale illecito, che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto dall'art. 2087 c.c. a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
 
T.A.R. Calabria Reggio Calabria Sez. I, 20 luglio 2006, n. 1259
In tema di risarcimento del danno per mobbing occorre verificare la pluralità di comportamenti e di azioni a carattere oggettivamente persecutorio, prolungatamente dirette contro il dipendente (Cass. Civ., sez. lavoro, 23.3.2005, n.6326; Trib. Marsala, 5.11.2005); l'evento dannoso; il nesso di causalità tra la condotta e il danno; la prova dell'elemento soggettivo. L'onere dell'allegazione e della prova ricade sul ricorrente, alla stregua degli ordinari principi processuali, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare l'integrità psico-fisica del dipendente.
 
Trib. Milano, 30 giugno 2006
Uno dei requisiti dal quale non si può prescindere per la sussistenza del fenomeno mobbing è che l'aggressione psicologica - sia essa effettuata con comportamenti atipici che con atti tipici dell'imprenditore (o dei superiori gerarchici) o con gli uni e gli altri insieme - deve essere sistematica, ripetuta e compiuta per un apprezzabile periodo temporale.
 
App. Milano, 21 giugno 2006
Il mobbing, ravvisabile anche in forma collettiva, richiede una condotta sistematica e protratta nel tempo rivolta ad estromettere il lavoratore dal luogo di lavoro. Gli scontri, talora anche sgradevoli, che avvengono tra colleghi di ufficio non sono atti rivelatori di una vera e propria persecuzione e rientrano, piuttosto, nella normale fisiologia dei conflitti lavorativi, restando, con ciò, giuridicamente irrilevanti.
 
Cass. civ. Sez. Unite (Ord.), 12 giugno 2006, n. 13537
In tema di lavoro pubblico cosiddetto privatizzato, ai sensi della norma transitoria contenuta nell'art. 69, settimo comma, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nel caso in cui il lavoratore-attore, sul presupposto dell'avverarsi di determinati fatti, riferisca le proprie pretese (nella specie, accertamento del diritto ad una superiore qualifica e alle conseguenti differenze retributive) ad un periodo in parte anteriore ed in parte successivo al 30 giugno 1998, la competenza giurisdizionale non può che essere distribuita tra giudice amministrativo in sede esclusiva e giudice ordinario, in relazione ai due periodi. Tale regola del frazionamento della domanda trova temperamento in caso di illecito permanente: qualora la lesione del diritto del lavoratore abbia origine da un comportamento illecito permanente del datore di lavoro (ad esempio, dequalificazione, comportamenti denunciati come "mobbing"), si deve fare riferimento al momento di realizzazione del fatto dannoso e, quindi, al momento della cessazione della permanenza, con la conseguenza che va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario allorché tale cessazione sia successiva al 30 giugno 1998. (Dichiara giurisdizione)
 
Cass. civ. Sez. lavoro, 25 maggio 2006, n. 12445
Deve affermarsi la responsabilità del datore di lavoro per danno da "mobbing" allorché si accerti che un dipendente ha subito sul luogo di lavoro rilevanti conseguenze sul piano morale e psico-fisico a causa delle vessazione di altro dipendente ed il datore di lavoro non sia stato in grado di provare di aver adottato misure idonee a prevenire il dedotto evento dannoso.
 
Cass. pen. Sez. VI, 8 marzo 2006, n. 31413
Il compimento di atti e comportamenti (violenza, persecuzione psicologica), posti in essere dal datore di lavoro con carattere sistematico e duraturo e miranti a danneggiare il lavoratore al fine di estrometterlo dal lavoro, può travalicare i confini meramente civilistici o giuslavoristici della condotta di mobbing ed integrare ipotesi di reato.
 
Cass. pen. Sez. VI, 8 marzo 2006, n. 31413
Può esservi condotta molesta e vessatoria o, comunque "mobbing", anche in presenza di atti di per sé legittimi cosicché non ogni demansionamento così come non ogni altro atto illegittimo dà luogo, a cascata, a "mobbing". Affinché ciò avvenga è necessario che le diverse condotte, alcune o tutte di per sé legittime, si ricompongano in un "unicum", essendo complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l'equilibrio psico - fisico del lavoratore. Ciò non toglie che tali condotte, esaminate separatamente e distintamente possano essere illegittime e anche integrare fattispecie di reato.
 
Trib. Agrigento, 1 febbraio 2005
Al lavoratore «mobbizzato» vanno risarciti i danni patrimoniali e non patrimoniali: alla lesione della professionalità si fa fronte con la categoria del danno patrimoniale, risarcibile sulla base dell'art. 2043 c.c.; per le lesioni della salute, dello stato d'animo e della sfera relazionale-sociale, si apre la categoria del danno non patrimoniale nel suo triplice aspetto del danno biologico, morale e esistenziale, sulla base dell'art. 2059 c.c. e art. 2 Cost..
 
Trib. Trieste, 10 dicembre 2003
La coscienza e volontà del mobber si pone rispetto al fatto non solo come elemento essenziale e costitutivo dell'illecito, ma come elemento idoneo persino a darvi significato: in altri termini, senza il dolo specifico del mobber gli atti potrebbero tutti apparire legittimi e leciti.
 
Trib. Tempio Pausania, 10 luglio 2003
La nozione di "mobbing", che trae origine dall'elaborazione della sociologia e psicologia del lavoro, va intesa quale forma di comunicazione ostile ed immorale diretta in maniera sistematica da uno o più individui (mobber o gruppo di mobber) verso un altro individuo (mobbizzato) che si viene a trovare in una posizione di mancata difesa; ovvero, costituisce "mobbing" un processo di comunicazioni e di azioni conflittuali tra colleghi o tra superiori in cui la persona attaccata e messa in una posizione di debolezza e mancanza di difese, aggredita direttamente e indirettamente, da una o più persone con aggressioni sistematiche, frequenti e protratte nel tempo il cui fine consiste nell'estromissione, reale o virtuale, della vittima dal luogo di lavoro.
 
Trib. Roma, 28 marzo 2003
La condanna del datore di lavoro per mobbing non può prescindere dall'accertamento dell'elemento soggettivo del dolo del c.d. mobber, il quale coincide con la specifica intenzione di discriminare e vessare il mobbizzato sino ad esercitare nei suoi confronti una vera e propria forma di violenza morale.
 
Trib. Como, 22 maggio 2001
Il mobbing aziendale è collettivo e comprende l'insieme di atti ciascuno dei quali è formalmente legittimo ed apparentemente inoffensivo. Sotto l'aspetto soggettivo il mobbing deve contenere il dolo nell'accezione di volontà di nuocere, o infastidire, o svilire un compagno di lavoro. La fattispecie è inoltre caratterizzata dal dolo specifico, volto all'allontanamento del mobbizzato dall'impresa.
 
Trib. Forlì, 15 marzo 2001
Il mobbing - riconducibile a quel comportamento reiterato nel tempo da parte di una o più persone, colleghi o superiori della vittima, teso a respingere dal contesto lavorativo il soggetto mobbizzato che a causa di tale comportamento in un certo arco di tempo subisce conseguenze negative anche di ordine fisico - deve individuarsi in base ai requisiti richiesti dalla psicologia del lavoro internazionale e nazionale. Tale fenomeno può dar luogo ad un danno esistenziale o danno alla vita di relazione, di natura sia contrattuale che extracontrattuale, che si realizza ogniqualvolta il lavoratore venga aggredito nella sfera della dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria. Il predetto danno da liquidarsi in via equitativa, ai sensi degli art. 1226 e 2056 c.c., può essere rapportato alla durata della condotta pregiudizievole e ad una percentuale della retribuzione percepita.

Dott. Simonetta Delle Donne

agosto 2007

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