Mobbing della giornalista

Repubblica 13 aprile 2005
LA STORIA/ Giornalista vince causa con la Mondadori: io, discriminata in redazione. Il mobbing da 300mila euro

di LUCA FAZZO 

E' il risarcimento più alto della storia italiana dei processi per mobbing, un precedente che rischia di innescare una reazione a catena di cause-gemelle e di creare il panico nelle direzioni del personale delle aziende. Una giornalista di un settimanale del gruppo Mondadori ha fatto causa all' azienda sostenendo di essere perseguitata e discriminata senza motivo dai suoi capi. Risultato: il tribunale di Milano ha ordinato il suo reintegro nelle mansioni e ha cancellato i provvedimenti disciplinari assunti a suo carico. E soprattutto ha condannato la Mondadori a versarle un risarcimento da trecentomila euro. Una botta senza precedenti. Le motivazioni della sentenza, emessa dal giudice Pietro Martello della sezione Lavoro del tribunale milanese, si conosceranno solo nei prossimi giorni.

Il dispositivo si limita a dichiarare «accertata l'illegittimità della dequalificazione professionale subita dalla ricorrente a far data del gennaio 1995» e far scattare con effetto immediato la condanna di una pesantezza senza precedenti. Ma la giornalista si guarda bene dall' annunciare pubblicamente la propria vittoria, anzi - interpellata da Repubblica - chiede di mantenere l' anonimato dicendo semplicemente «questa è una storia che mi ha devastato». E anche questo è probabilmente un segno della pesantezza della situazione. La storia della persecuzione di Lucia, così come l' hanno ricostruita i suoi difensori nel ricorso accolto dal giudice, è lunga e dettagliata. Si parla di inchieste mai pubblicate, di incarichi che si assottigliano sempre di più, di colleghi che le vengono regolarmente preferiti. Lamentele che fanno parte della vita di molte re dazioni. Ma che, con poche modifiche, si possono ritrovare nella vita di ogni azienda media o grande di tutti i settori produttivi. Ma in questo caso, ha sostenuto il giudice, si è andati aldilà della normale dialettica aziendale e delle sue inevitabili asprezze.

La storia professionale di Lucia è quella di una giornalista di successo: professionista dal 1980, redattrice prima di quotidiani locali veneti e poi di una serie di periodici milanesi, quasi tutti del gruppo Mondadori. Fino all'assunzione a Sorrisi e canzoni Tv da parte del direttore di allora, Gigi Vesigna, e alla promozione due anni dopo ad inviata speciale. Anche nel passaggio a Noi, effimera testata del gruppo di Segrate, Lucia sostiene di avere continuato a lavorare molto e bene, muovendosi da inviata all' Italia e all' estero. L' elenco dei suoi servizi è quello di una giornalista eclettica, in grado si spaziare da temi leggeri come il matrimonio di Sergio Castellitto, a interviste impegnative come quella al premier albanese Fatos Nano, a articoli drammatici come il racconto di Rosaria Schifani. Ma, nel 1995, Lucia passa a un altro settimanale di evasione nato quell' anno. E qui - senza motivo apparente, secondo Lucia - il meccanismo si rompe. E la giornalista viene «progressivamente privata del ruolo di inviata, venendole affidati servizi di sempre minor importanza». In sette anni, dal 1995 al 2002, Lucia scrive 122 articoli, una media di uno al mese. Molti di questi non superano le venti righe di lunghezza. Lucia chiede l'intervento dell' Ordine dei giornalisti, che condanna il comportamento del settimanale, ma nulla cambia. E lo scontro finale avviene quando Lucia si rifiuta di scrivere due articoli: accusando il primo di essere «smaccatamente pubblicitario», il secondo una ricopiatura pedissequa di un articolo di un giornale inglese. A quel punto è la rottura, l'azienda fa scattare i provvedimenti disciplinari, mentre Lucia va dall' avvocato e firma la citazione per mobbing della Mondadori. Poi arriva la sentenza record.

(fonte: https://www.odg.mi.it/docview.asp?DID=1828)

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Mobbing in redazione

"Un'arma contro la professionalità"

"Una delle sue caratteristiche  più gravi è l'irriconoscibilità"

"Annientare un professionista, indebolendolo sul piano dell'immagine e della sua credibilità, è l'arma più sottile e facile per quell' editore che abbia scelto di continuare a portare avanti il progetto di un giornalismo cattivo sotto il profilo dell'informazione autentica e non rispettoso del patto di fiducia che dovrebbe reggere il rapporto tra lettori e giornalisti. Un giornalismo che é invece ottimo sotto il profilo economico, grazie all'aumento dei proventi pubblicitari. Ma per fare questo gli editori hanno dovuto trasformare anche gli articoli in spazi pubblicitari e lo hanno fatto grazie alle citazioni di marche, prodotti, aziende e alle volte personaggi all'interno degli articoli stessi". 

di Paola Pastacaldi

(consigliere dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia)

Vorrei mettere in risalto alcuni risvolti del mobbing così come viene messo in essere oggi dalle aziende editoriali, cioè quelle aziende responsabili dell'informazione in Italia.

Nei casi editoriali questi risvolti di azioni di mobbing sono fortemente mascherati e, proprio per questo loro aspetto, vanno annotati e considerati come parte integrante del danno, cioè la non visibilità e la non consapevolezza della vittima. Il non essere consapevole è la parte più complessa, in quanto riguarda la possibilità per i soggetti colpiti da azioni di mobbing di potersi difendere. Va anche fatta questa precisazione. Il soggetto mobbizzato non è passivo tout court, ma è caso mai ancora una volta la sua non consapevolezza del problema a renderlo una vittima passiva contro la sua volontà.

Una delle caratteristiche più gravi del mobbing è, infatti, come sappiamo, la sua irriconoscibilità. Prima che il soggetto si renda conto di essere vittima di una qualche forma di mobbing, passano molti mesi, alle volte anni. Soprattutto quando l'azienda e/o il direttore e i capi  non manifestano ufficialmente elementi di critica verso il giornalista, non forniscono motivi chiari della mancanza di un accordo lavorativo. Non si confrontano, insomma, con il lavoratore. Anzi, fingono che tutto sia normale. Su questa finta normalità si innesca il processo del mobbing.

Analizziamo il caso in cui il giornalista venga emarginato lavorativamente, cioè non utilizzato o sotto utilizzato, impegnato e/o in servizi che non appartengono alle sue competenze specifiche. Sembrerà questo un vecchio problema di natura squisitamente sindacale. Certamente lo è, ma ha risvolti nuovi che ne ampliamo l'area di considerazione. Alla luce della crisi del giornalismo di qualità, uno dei mezzi che gli editori utilizzano, più o meno consapevolmente, a seconda dei casi, è quello di emarginare il professionista attraverso azioni di mobbing, cioè di attacco alla sua personalità con l'intenzione di indebolirlo in senso morale e, infine, eliminarlo in senso materiale con la minor spesa possibile. Annientare un professionista, indebolendolo sul piano dell'immagine e della sua credibilità, è l'arma più sottile e facile per quell' editore che abbia scelto di continuare a portare avanti il progetto di un giornalismo cattivo sotto il profilo dell'informazione autentica e non rispettoso del patto di fiducia che dovrebbe reggere il rapporto tra lettori e giornalisti. Un giornalismo che é invece ottimo sotto il profilo economico, grazie all'aumento dei proventi pubblicitari. Ma per fare questo gli editori hanno dovuto trasformare anche gli articoli in spazi pubblicitari e lo hanno fatto grazie alle citazioni di marche, prodotti, aziende e alle volte personaggi all'interno degli articoli stessi. La pubblicità soffre di una crisi dovuta all'eccesso di prodotti. Il consumatore é sovraesposto e bombardato da troppa pubblicità. Le aziende  e i committenti pubblicitari cercano modi più incisivi di promozione dei prodotti: l'articolo che contenga messaggi pubblicitari è molto più appetibile perché considerato efficace sul consumatore. Questo in contrasto con l'accordo deontologico che vincola l'operato dei giornalisti. Ma vedremo cosa si intende con questo discorso relativo alla citazione pubblicitaria.

Crisi del giornalismo di qualità e mobbing. Il mobbing è diventato un' arma in mano agli editori per rendere inoffensivi i giornalisti. Come sappiamo il giornalismo di qualità sta subendo un attacco gravissimo da parte del marketing e della pubblicità. I giornalisti, come scrive Franco Abruzzo, presidente dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia, nel testo di introduzione al volume di commento al Nuovo Contratto, sono stati sviliti e trasformati in "operai del tondino". Una metafora dura. Ma la verità rimane. I giornalisti oggi passano carte, riprendono articoli da altri giornali, rubano notizie da Internet. Non vanno sui fatti, non controllano le fonti. E, quello che è più grave, mescolano le notizie con citazioni pubblicitarie. Non sono, dunque, al servizio della realtà, ma di una costruzione "interessata" della realtà, il tutto per un meccanismo distorto imposto anche dall'invadenza del mezzo televisivo.

La crisi della professione è profonda. I giornalisti soffrono di un grave malessere fisico e psichico che si materializza in assenze dal lavoro, malattie continue di vario genere, ansie, depressioni e persino attacchi di panico denunciati al pronto soccorso.

La mancanza di identità professionale ha provocato un aumento pesante dei disturbi psichici e fisici della categoria dei giornalisti che andrebbero maggiormente analizzati e studiati, sotto due profili, quello professionale e quello della salute.

Molti dei nuovi giornali che affollano le edicole sono "prodotti editoriali". Gli articoli devono contenere pubblicità o citazioni pubblicitarie, questo è il nuovo diktat dell'editoria italiana. I lettori sono soltanto obiettivi o target del marketing o più semplicemente consumatori. L'informazione italiana, ben supportata da una pessima televisione nazionale, ha al suo interno il cancro della pubblicità, e non rispetta più il patto di credibilità tra lettore e giornalista. L'informazione  non è più la struttura nervosa della società, ma un contenuto manipolato e stravolto.

Il giornalista inglese Tobias Jones nel suo libro " Il cuore oscuro dell'Italia" (Rizzoli, Milano, 2003), dopo aver monitorato per qualche mese la tv italiana per contro del quotidiano "The Financial Times" che gli chiedeva di spiegare perché un popolo simpatico e intelligente e creativo come quello italiano avesse la tv più volgare d'Europa, ha osservato che: "...la televisione cerca per quasi tutto il tempo di vendermi qualcosa. Persino le notizie dei telegiornali sono state ridotte a pettegolezzi e battute sulle celebrità". Cosa che possiamo osservare anche noi tutti e tutte le sere.

Sappiamo che le sue osservazioni sui media hanno provocato lettere riservate di consenso da parte di una fetta del mondo giornalistico italiano, anche se espresso in forma riservata, per ovvi motivi di sicurezza da eventuali ritorsioni sul piano professionale.

Per rendere inabili più giornalisti possibile, gli editori hanno usato una sorta di emarginazione condotta con una metodologia "di corridoio": far lavorare sempre meno alcuni giornalisti senza giustificazioni o motivazioni apparenti. È stato facile a questo punto costringerli ad accettare di copiare le notizie da altri giornali, di inventare e, alla fine, quando il giornalista era distrutto sul piano psicofisico, proporgli articoli con la pubblicità all'interno, costringendoli a citare aziende e prodotti. Un giornalista fiaccato moralmente e fisicamente da mesi e anni di non lavoro, di solito si riduce ad accettare, pur di uscire dal malessere che provoca questa emarginazione non motivata. Perché un conto è scontrarsi con un direttore un capo o un editore per consapevoli motivi di disaccordo, politico o sindacale o lavorativo o anche più banalmente di simpatie o antipatie personali. Situazione ben più seria e difficile è quella nella quale non si sa perché si è attaccati o emarginati. Il mobbing, appunto.

Per realizzare giornali che siano contenitori pubblicitari - il problema ormai investe anche i quotidiani - bisogna limare le coscienze. Le coscienze si indeboliscono con gli attacchi subdoli, fiaccando il morale e il fisico soprattutto dei giornalisti di mezza età che hanno alle spalle una formazione deontologica pratica. Obiettivo degli editori è isolare queste coscienze.

Forse per questo a molti giornalisti oggi viene pagata la macchina, il telefonino anche per spese private senza limitazioni di sorta, per questo alcuni prepensionamenti sono dorati come i tempi non permetterebbero. Meglio non avere intorno giornalisti testimoni scomodi di un cambiamento di rotta durissimo. Se si continuerà così, la stampa non si occuperà più di informazione, ma fingerà di farlo, propagandando al posto delle notizie solo messaggi di indottrinamento all'acquisto.

Molti  avvisi disciplinari che arrivano oggi all'Ordine dei Giornalisti della Lombardia riguardano situazioni di grave attacco alla professionalità, con conseguente stress diagnosticato da medici, sino ad attacchi di panico, esaurimenti nervosi lunghi mesi che costringono il giornalista a stare lontano dal lavoro per rimetersi in sesto. La crisi del giornalismo italiano si substanzia in crisi di fisica del corpo giornalistico. Il malessere, lo stato di salute generale della stampa andrebbe analizzato più profondamente per capirne le origini.

La crisi della stampa nel mondo. Vorrei inserire il discorso del mobbing e della cambio di rotta dell'informazione, facendo una piccola digressione. La crisi della stampa di qualità è un fatto mondiale. Il caso recente del "New York Times" che ha visto un suo giornalista inventare per quattro anni notizie di serie "a", fingendo di essere andato sul posto, in realtà senza mai muoversi da casa, è esemplare. Il "New York Times" ha scelto di mettere in prima pagina il suo problema, facendo una inchiesta e denunciando apertamente tutte le bugie dal giornalista inserite nei suoi articoli, vagliandoli uno per uno. Ha deciso che il cattivo giornalismo si vince puntando sul giornalismo di qualità e sulla trasparenza. Naturalmente il direttore è stato licenziato assieme al giornalista. La credibilità e la reputazione del "N Y Times" nel mondo sono stati considerati un patrimonio professionale, dunque, ma anche economico.

Pochi mesi prima, in Europa, un giornale molto stimato come "Le Monde" ha subito un grave attacco da parte di altri giornalisti francesi che in un libro intitolato "La face cachée du Monde" (Pierre Péan e Philippe Cohen, Document Mille et une Nuits)  denunciavano gli interessi dei giornalisti e del direttore di "Le Monde" sotto il profilo personale e politico. "Le Monde", anche se in modo più leggero del "New York Times", ha affrontato il problema, realizzando un dossier su ottanta giornali nel mondo e parlando dell'emergenza di una cattiva stampa e della discussione deontologica in atto in molte redazioni, anche nella sua.

In breve, il mobbing in Italia è un modo indolore per gli editori di liberarsi degli ultimi giornalisti che non hanno ceduto alle pressioni del marketing e del cattivo giornalismo, perché forse ancora credono in una etica dell'informazione.

Il mobbing, un'arma contro la professionalità. Ma veniamo al mobbing che ha l'obiettivo di emarginare i giornalisti. La vittima di un attacco di mobbing tende a minimizzare, tende a cercare una soluzione in proprio convinta che gli incidenti lavorativi siano casuali e passeggeri oppure che dipendano da una sua momentanea mancanza di buona organizzazione. Solo dopo molti attacchi si rende conto di essere soltanto una vittima di cattive intenzioni. Più l'intenzione del giornalista è onesta, più egli tarderà a comprendere la sua reale situazione perdendo anni di lavoro e di benessere. Trovandosi alla fine fiaccato nel morale e, dunque, nella sua sostanziale capacità produttiva.

Il non far lavorare un giornalista è un modo tra quelli principali utilizzati per dequalificare e, alla fine, far scomparire la figura professionale dell'inviato speciale, di colui cioè che è il testimone principale degli avvenimenti, figura ormai considerata dagli editori ingombrante e scomoda, soprattutto per il nuovo giornalismo aggressivo del marketing perché non permette la manipolazione delle informazioni.

Nonostante le recenti guerre abbiano apparentemente riproposto questo ruolo come interessante, se ne analizziamo a fondo le caratteristiche, scopriamo che l'inviato in guerra è oggi un funzionario al seguito. Una figura di copertura, un volto in tv, un passaparola di notizie create e messe insieme da altri, la cui fonte è di solito scarsamente controllabile.

L'inviato vive dietro le truppe o dentro una stanza d'albergo, la sua fonte rimane la tv. I giornalisti inviati, invece, sono considerati dei bersagli privilegiati per la propaganda di guerre o di messaggi politici di altri Paesi. Perciò, paradossalmente, come ha sottilineato l'associazione "Reporters sens Frontieres", sono vittime di deliberate uccisioni come è accaduto a Daniel Pearl.

Ma questo è un altro problema.

Quando il giornalista non viene fatto lavorare in una redazione, accade di solito questo: nessuno si è lamentato, nessuno ha avuto da ridire sul suo operato; eppure gli vengono commissionati sempre meno servizi, alcuni servizi richiesti e realizzati non vengono pubblicati, le proposte rifiutate, i servizi di specifica competenza vengono dati ad altri senza spiegazioni. E poi cominciano la malevolenza, le chiacchiere, le insinuazioni e le critiche anche personali non solo  professionali. E' un circolo vizioso. La situazione si cronicizza.

E il danno professionale diventa grave e alle volte irreversibile.

Per una ovvietà perversa, ma comprensibile, qualche collega o superiore penserà o vorrà far credere ad altri che alla fine è colpa dell'interessato, è lui che non ha voglia di lavorare. Il mobbing ha già raggiunto il suo risultato.

Nel giro di un arco di tempo lento il vuoto lavorativo si configura come una responsabilità del giornalista, i capi non tarderanno a guardarlo male quando arriva in redazione, a farlo oggetto di critiche sussurrate, il giornalista d'altro canto si sentirà sempre più inutile e fuori posto, ogni volta che mette piede in redazione, penserà con sempre più imbarazzo alla sua giornata. Sarà sempre più timido nel fare proposte, insicuro, pensando che non vanno mai bene, sempre meno deciso nel chiedere perché i suoi articoli non vengono pubblicati. Diventerà debole e incapace di gestire il suo ruolo professionale. Pronto ad essere prono alla verità dei fatti che si preferisce inventare nelle redazioni dominate dalla pubblicità. Questi condizionamenti non risparmiano più alcun campo: sono passati dalle tradizionali rubriche di bellezza e di moda, ai viaggi, alle auto, sino ai segmenti più importanti come l'economia o la salute.

La dequalificazione diventa un dato di fatto.

Il giornalista alle volte decide di chiedere civilmente perché non lo fanno lavorare, ma nessuno gli risponderà, il giornalista scriverà al direttore, alla direzione del personale. Ma come sappiamo, ormai nessuno si prende la responsabilità della gestione umana delle risorse. Nessuno dirà mai che è colpa di qualcuno, nessuno getterà mai la prima pietra contro di lui, permettendogli così di difendersi. Il silenzio della direzione del personale e del direttore sono a questo punto già un atto di mobbing, perché mettono in lavoratore in una situazione di debolezza: nessuno gli dirà nulla, nessuno ammetterà di avergli fatto alcunché.

Così il lavoratore/giornalista non potrà difendersi. Questa è la passività cui allude la definizione di mobbing.

Ma io direi che più che passività è non consapevolezza artificiosamente mantenuta dagli attori del mobbing.

A questo punto la situazione diventa come una spirale, si avvita su se stessa. Tutti ormai pensano, anche se non lo dicono, che quel lavoratore non ha voglia di lavorare. Anzi forse sono le stesse direzioni del personale a far girare questa voce, avvallandola in via riservata o lasciando che altri lo dicano.

Ora non è più un giornalista costretto all'emarginazione da un  cattivo comportameno dell'azienda,  ma è piuttosto uno soggetto "lavativo" che non vuole lavorare, di cui l'azienda farebbe bene a sbarazzarsi. Sarà bene anche capire che a questo punto la "vittima" del mobbing non è solo un capro espiatorio, quindi ci potranno essere più casi di mobbing nella stessa redazioni. L'idea che il mobbing colpisca colui che è fuori dal gruppo è giusta, ma quando le regole virano così fortemente dalle loro origini come è accaduto nei giornali in questi vent'anni, il mobbing serve per colpire più persone, cioè tutte le persone che ancora resistono al cambiamento o meglio allo stravolgimento delle regole.

Il malessere psicofisico da mobbing. Il mobbing con il suo attacco crea uno stato di debolezza psichica e fisica ancora più forte nel lavoratore che è professionale e onesto. Questo stato di prostrazione  provoca, come sappiamo, varie problematiche a livello psichico e fisico, ancora allo studio.

Un esempio di quelle fisiche che considero particolarmente calzante con la figura del giornalista.

Questo stato di guerra interna che provoca il mobbing è, come abbiamo visto, latente e diffuso. Perché quando un giornalista non scrive, cade in disgrazia e prova un senso di colpa, misto a imbarazzo, nel trovarsi in un posto di lavoro dove tutti corrono e si danno da fare. E si guadagnano lo stipendio con il lavoro. Ecco che tutti potranno parlare male di lui. I colleghi potranno dire che lavorano troppo perché lui non fa niente, altri colleghi potranno pensare che non sa lavorare, altri ancora che è uno che non ha voglia di lavorare. I capi inevitabilmente troveranno più errori o saranno portati a sottolinearli. Guerra diffusa, dunque. La tensione nervosa diventa un elemento permanente del suo stare in redazione, ma anche fuori della redazione, a casa, nei momenti di tempo libero, sarà per lui una ossessione, perché penserà sempre al suo problema, apparentemente sempre più irrisolvibile e incomprensibile.

Questo minerà la sua fiducia.

Ogni momento si aspetterà un richiamo, vivrà nell'angoscia di sbagliare, nel timore di peggiorare con le sue mani la sua situazione. Sempre alla ricerca di una motivazione che non ha. Tensione nervosa significa sostanzialmente nervi tesi, cioè muscoli tesi. E', ovviamente, la paura che determina questo stato angoscioso. Possiamo anche immaginare questo soggetto come un essere che ogni volta che entra in ufficio è un po' come se mettesse piede in una giungla. Non sa, perché nessuno gli ha mai detto nulla, dove sbaglia, non sa dunque da dove gli potrà arrivare l'attacco. Si guarderà intorno, emotivamente parlando, come un  animale da preda. Il suo stato d'animo è l'angoscia. Più cade in uno stato di prostrazione meno è in grado di reagire all'attacco. Così reagirà male all'escalation di sottrazioni che subirà, riduzione dei mezzi concessi ad altri, telefono, computer portatile con le scuse più varie, verrà sottratto progressivamente al suo ruolo. Non deciderà più nulla perché, senza che gli sia fornita alcuna  giustificazione, gli sarà sottratta giorno per giorno la sua autorità, cioè la sua responsabilità, come previsto dal contratto.

Con il risultato che la sua tensione muscolare potrà provocargli dolori permanenti che non tarderanno a passare dai muscoli alle ossa. Dolori che lo perseguiteranno anche di notte. A nulla serviranno le visite mediche: pochi medici di base sono oggi di fatto in grado di risolvere e capire dolori così forti che, dopo una diagnostica tradizionale, non risulteranno avere una origine biologica. Sappiamo che questi dolori, se protratti per anni in un individuo ansioso, possono essere simili a quelli di un diabetico.

Solo metodi fisici o di movimento che coinvolgano anche il sistema nervoso potranno risolvere questa situazione. I dolori alle ossa sono quasi invalidanti. Difficoltà a camminare, dolori sotto i piedi, a scendere dalla macchina, a stare seduti, al collo, alle gambe causa problemi di circolazione, dolori anche di notte. Muscolarmente parlando la vittima di un mobbing durato anni può ritrovarsi invecchiato precocemente, sempre meno capace di articolare i movimenti più elementari.

La scarsa conoscenza da parte del personale sanitario delle modalità del mobbing fa sì che molti medici di base oggi scelgano di prescrivere ad un lavoratore che vive questa situazione un anno di terapia antidepressiva, negando l'evidenza di un attacco di mobbing,  creando nel soggetto una dipendenza da farmaci.

Su questo problema le terapie tradizionali legate alle ginnastiche di varia disciplina non danno risultati. Uno dei metodi capaci di affrontare alla radice questa tensione muscolare e ossea invalidante, è il metodo di Moshé Feldenkreis, medico ebreo, nato in Russia nel 1904 e morto in Israele nel 1984, laureato in ingegneria meccanica, che collaborò con Joliot Curie sulla fissione nucleare, il quale ha avuto geniali e intuitive idee sulle relazioni tra il corpo e la mente, per stimolare il sistema nervoso attraverso movimenti inusuali (tra i suoi allievi Leonard Bernstein, Margareth Mead, David Ben Gurion, Moshe Dayan).  In Italia è stato Michele Forte (1943 - 1997), insegnante Isef alla scuola di ballo della Scala di Milano, impegnato in vari ambiti dell'handicap anche grave, con saggi e ricerche sulla riabilitazione, a  portare con successo il metodo, aprendo le porte ad una sua diffusione.

Non a caso questo metodo si avvale dell'idea fondamentale che il nostro movimento è legato all'immagine che noi abbiamo di noi stessi, come si legge nel libro  di M. Feldenkrais "La conscienze du corps" (Marabout, Verviers Belgique, 1967).

Un lavoratore mobizzato si trova inevitabilmente costretto a combattere sul piano della sua immagine, in quanto viene spinto dagli eventi a disistimarsi o ad avere una debole immagine di sé, con conseguente indebolimento della sua struttura muscolare, sino a provare gravi dolori che ledono la sua integrità fisica e la sua autonomia di movimento. Il Feldenkrais aiuta il paziente a ritrovare il suo movimento e quindi la sua salute psicofisica. 

Ma per concludere potremmo, infine, dire che il danno umano più grave e non quantificabile è quello di uccidere nel lavoratore la sua energia produttiva o creativa. Il lavoro giornalistico è ancora oggi un lavoro creativo, che si fonda su metodiche artigianali. È lavoro dell'intelletto molto ambito, nonostante il degrado di cui soffre e ormai si parla. Impedire a una persona di dare quello che sa dare ogni qualvolta mette piede in un ufficio o in una redazione significa uccidere le sue energie vitali. Impedire alla persona di porsi in maniera positiva rispetto al suo futuro, impedirle di "essere" nel senso più ampio del termine nel luogo di lavoro, costringendolo per buona parte della giornata, composta di almeno otto ore, in una condizione di non esistenza crea un abbassamento delle difese e dunque un insorgere di malesseri che lentamente diventano malattia. Questo significa mortificare la persona stessa e possiamo ipotizzare che il danno si estenda a tutto l'organismo.

Gli esposti disciplinari che arrivano all'Ordine dei Giornalisti della Lombardia sempre più parlano di questo malessere diffuso e poco chiaro. Gli attacchi di panico non sono affatto rari tra i giornalisti.Come si fa a non avere paura di un attacco che non si sa da dove viene? Immaginiamo i soldati del Vietnam. Con la differenza che la guerra è psicologica. Ma vorremmo spiegare che ormai è senza quartiere. E anche sotto il profilo squisitamente umano la decadenza del rispetto reciproco nella relazione giornaliera aggrava la situazione: è diffusa la maleducazione, il linguaggio infarcito di parolacce, le aggressioni verbali violente, le offese e il pettegolezzo regna sovrano. Come se alcune redazioni si fossero trasformate in caserme dell'Ottocento di bassa lega. Il mobbing ha un'area vastissima di intervento. Può essere la critica costante del giornalista su questioni professionali, l'orario, il modo di scrivere, la qualità delle proposte. Ma può essere l'arroganza di un direttore che non sopporta che il suo giornalista scriva libri, può essere infine la sua colpa una sola, quella di essere un giornalista che ha ancora una tensione deontologica.

Il marketing nelle redazioni. Il nuovo padrone dei giornali. Il mobbing è un modo per rendere inabili persone "non affidabili", inaffidabili cioé sotto il profilo del marketing. Chi non accetta di scrivere articoli pubblicitari è inaffidabile e viene punito, non lo si fa lavorare, lo si critica, sui servizi, sugli orario, su tutto. Ma il vero motivo è il rifiuto (o la mancata collaborazione) di una tentata corruzione. Il mobbing è un alleato prezioso. L'ufficio del personale finge di preoccuparsi, chiama il lavoratore, ma non fa niente per cambiare la situazione. Il lavoratore è solo e non sa capire che gli accade: non ha nessuno che lo difenda se non i suoi principi etici, se ancora sopravvivono in lui. Ma la legge è ancora dalla sua parte, se avrà il coraggio di farla rispettare. Il codice deontologico dei giornalisti è molto chiaro a proposito e ciò che fanno gli editori è fuori legge.

Alla fine il giornalista ha perso ogni velleità di ribellione, accetta tutto. Cambio di ruolo, dequalificazione, demansionamento, umiliazioni verbali. Perché, senza saperlo, ha messo piede nella palude del mobbing. Anticamera della fine della professione. E, come ci dicono medici e psicologi, anche di malattie che da psichiche diventano fisiche.

(fonte:www.diritto.it)

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