MOBBING CONSEGUENTE A VESSAZIONI PER FERIE FORZATE, TRASFERIMENTI E LICENZIAMENTO

 

Corte d'Appello di Firenze 29 ottobre 2004 - Pres. Drago - Est. Amato - Rossi (avv. Palla e Giaconi) c. Rainbow Scrl (avv. Colombo e Cecchini).

 

Mobbing - Nozione - Sussistenza dì più condotte vessatorie riconducibili a un intento unitario -Responsabilità del datore di lavoro - Fondamento - Art 2087 c.c. - Natura contrattuale – Sussistenza - Accertata situazione di sofferenza psichica - Risarcimento del danno esistenziale - Spetta - Assenza di lesioni all'integrità psicofisica – Irrilevanza - Licenziamento - Riconducibilità a un disegno vessatorio di mobbing - Illegittimità -Sussiste.

 

Sussistono gli estremi del mobbing qualora una serie di condotte vessatorie (nella specie l'uso abnorme della prerogativa di individuazione del periodo feriale dei dipendenti, del potere di trasferimento, nonché del potere disciplinare) siano riconducibili a un disegno unitario e progressivo.

In ipotesi di mobbing la responsabilità del datore di lavoro deve essere ricondotta alla disposizione generale dell'art. 2087 c.c. e ha quindi natura contrattuale.

La sofferenza psichica subita nei mesi di sottoposizione a comportamenti vessatori, anche nel caso in cui non abbia dato luogo a lesioni della integrità psicofìsica quantificabili sotto il profilo del danno biologico, comporta il risarcimento del ed. danno esistenziale.

È illegittimo, anche qualora non contrasti con specifiche disposizioni, il licenziamento disposto a conclusione di un percorso vessatorio di mobbing.

 

(omissis) 2. Fondata appare anche la doglianza in ordine alla legittimità della messa in ferie forzata per quasi tutto il mese di aprile 2001, seguita immediatamente dai trasferimento a centinaia di chilometri di distanza presso la struttura di Sesto San Giovanni. Infatti, è certamente vero che l'art. 2109 c.c. assegna al datore di lavoro in via generale la scelta di individuazione del periodo feriale dei lavoratori, ma questa facoltà va estrinsecata anche con determinate limitazioni rintracciabili in primo luogo nella stessa indicazione del 2° comma dell’art. 2109, ossia anche negli «interessi del prestatore di lavoro» e, in secondo luogo nell'ulteriore prescrizione dei 3° comma circa la (tendenziale) preventiva comunicazione del periodo stabilito per il godimento delle ferie (tra le tante v. Cass. 1557/2000). Ne consegue che, sebbene appunto l’esatta determinazione di tale periodo - nella comparazione delle diverse e contrapposte esigenze - spetti al datore di lavoro, comunque al lavoratore compete la facoltà di indicare il periodo di sua preferenza anche nelle ipotesi in cui accordi sindacali o prassi aziendali stabiliscano particolari tempi e modalità di godimento (v. Cass. 7951/01). Sotto questo profilo osserva il Collegio come il contratto collettivo di settore (art. 59) ribadisca sì che l'epoca delle ferie va stabilita dalla direzione aziendale, ma altresì precisa che per due settimane di ferie da godere nel periodo giugno/settembre occorre tenere conto - previo esame congiunto in sede aziendale - del desiderio dei prestatori (oltre che ovviamente delle compatibilità di esso con le esigenze dell'azienda). In altri termini, anche alla fonte collettiva di settore non è estranea una particolare attenzione all'interesse del lavoratore per la determinazione del periodo di ferie coerente con le aspettative e le scelte extralavorative dei prestatori.

Nella fattispecie al vaglio della Corte, inoltre, emerge con nettezza un quadro comportamentale dell'azienda decisamente emulativo nei riguardi della Rossi a partire proprio dalla decisione di porre la stessa forzatamente in ferie. Infatti, già la sbrigativa comunicazione della Rainbow in data 2/4/01 (doc. 5 fasc. Rossi), nel mero richiamo dell'art. 59, fa parziale e non corretta applicazione della disposizione su cui ritiene di poggiare la legittimità delle ferie d'ufficio, giacché nulla dice (e nulla in effetti era stato azionato) sul meccanismo di valutazione - prima congiunta e quindi ragionata e comparata - sopra indicato, peraltro per le due settimane di ferie accordate forzatamente in un periodo diverso da quello preso in esame dalla disciplina del Ccnl. Anche i prolungamenti delle ferie appaiono una sorta di apodittico e perentorio «editto» che non dà neppure per presupposte quelle valutazioni che rappresentano il substrato in generale della disposizione del codice del 1942. L'ulteriore migliore leggibilità dell'atteggiamento datoriale in senso certamente non benevolo o compiacente verso Claudia Rossi si ha attraverso il richiamo - ampiamente operato dal primo giudice, sebbene in chiave del tutto diversa (v. infra) - alle dichiarazioni del nuovo responsabile sanitario della struttura di Lammari, dr. Gavazza. Costui, nell'ambito istruttorio della controversia sulla legittimità del trasferimento seguito alla fine delle ferie forzate, ha fornito dichiarazioni per motivare l’allontanamento della Rossi dalla struttura di Lammari - senza alcun riferimento alle giustificazioni di ordine oggettivo richiamate in primo grado dalla società (ristrutturazione dell'organizzazione e della gestione della Comunità di Lammari, come richiesto dall’Asl di Lucca e dal Comune di Capannori) e ribadite in questa sede d'appello - tutte incentrate sull'inottemperanza a sue direttive e sulla discutibilità dei comportamenti terapeutici della Rossi nei riguardi dei soggetti seguiti dalla struttura. La stessa Cooperativa in sede di costituzione davanti al Tribunale, a giustificazione del trasferimento, ha esplicitamente fatto riferimento alle dichiarazioni del Gavazza circa il grave pregiudizio per l'attività terapeutico-educativa verso i minori ospiti della Comunità di Lammari.

La Coop. Rainbow, in realtà, ha omesso di porre in essere l’unico strumento utile a verificare ed eventualmente sanzionare condotte scorrette o indebite della Rossi, ossia l'avvio di una procedura disciplinare, anche con eventuale ricorso alla sospensione cautelare dal servizio della lavoratrice. Condotte, peraltro, negate decisamente dalla lavoratrice e sfornite di ogni elemento probatorio, anche in considerazione dell'assenza di qualsiasi istanza istruttoria sul punto formulata dalla convenuta in primo grado.

Ne discende, ad avviso del Collegio, in maniera piana e inoppugnabile, un utilizzo abnorme sia della prerogativa (interpretata dalla cooperativa, si è visto sopra, in termini decisamente autoritari e indiscutibili, contrari all'interpretazione corrente dell'art. 2109 c.c.) dell'individuazione del periodo feriale dei dipendenti, sia dello jus variandi, del potere organizzatorio del datore di lavoro in termini di trasferibilità del lavoratore, azionato nella specie per una sorta di sopravvenuta incompatibilità della permanenza nella sede di lavoro a causa della violazione delle regole di comportamento e della mancata accettazione delle direttive del superiore gerarchico.

3. Questa considerazione introduce la breve disamina da parte del Collegio della questione dei due reiterati e ravvicinati trasferimenti di Claudia Rossi a Sesto San Giovanni. Si è già rilevato che del tutto superfluamente la sentenza gravata ha ripercorso l'esame circa la legittimità nel merito di tali provvedimenti datoriali. La Corte non è, dunque, chiamata a verificare ex se la (in)congruenza di tale affermazione giuridica del primo giudice. Il Collegio, peraltro, è chiamato, per espressa domanda proposta fin dal ricorso di primo grado sul punto dalla Rossi, a valutare come detti provvedimenti di trasferimento si inseriscano in un denunciato percorso di vessazioni poste in essere dalla Rainbow nei confronti dell'appellante.

Si è detto che il primo trasferimento è stato - si potrebbe dire, lealmente - motivato, dai vertici aziendali (il componente del CdA Boniardi e il citato dr. Gavazza), sentiti dal giudice dell'urgenza alle udienze del 4 e del 10/7/01, per la necessità di eliminare dalla struttura di Lammari una lavoratrice ritenuta (a torto o a ragione non ha rilievo nella specie, attesa l'inesistenza di un'istruttoria compiuta sull'argomento e considerato il petitum della controversia in esame) inidonea emotivamente e dal punto di vista comportamentale all'attività di educatrice verso i soggetti ivi assistiti. Dunque, al di là della già acclarata inefficacia del provvedimento di trasferimento, risulta per tabulas il ricordato utilizzo abnorme della prerogativa datoriale circa la discrezionalità (vincolata, quindi non arbitraria) nell'organizzazione della complessa e articolata struttura aziendale.

Il secondo trasferimento poggia su elementi verosimilmente analoghi ed è stato, successivamente all'impugnazione giudiziale di esso, revocato in maniera peraltro obliqua (non attraverso una diretta comunicazione della Cooperativa alla Rossi) tramite missiva del legale della Rainbow al procuratore di Claudia Rossi.

La questione nel suo insieme mostra con significativa pregnanza la mordace volontà aziendale di evitare a ogni costo il ritorno e la permanenza di Claudia Rossi a Lammari. Volontà, peraltro, chiaramente manifestata già nell'immediatezza della messa in ferie forzata della Rossi attraverso l'esclusione della medesima dai turni di presenza a Lammari nel mese di aprile 2001 (cfr. il fax in data 5/4/02, ore 14.52, doc. 4 fasc. Rossi, inviato da Como dalla Coop. Rainbow a Costina Pandolci, altra addetta alla Comunità di Lammari).

Preliminarmente va rilevata nel materiale di causa l'assenza di ogni denuncia di precedente situazione di rilevante contrasto tra le parti, sebbene il già intervenuto trasferimento da Cargnano a Lammari fosse stato preceduto da accuse alla Rossi per presunti ammanchi di cassa (v. dichiarazione Rossi nel procedimento d'urgenza), ma questa circostanza non ha impedito l'assegnazione alla stessa del rilevante incarico di coordinatrice. Pertanto, risulta agevole ricostruire nell'arco temporale dei mesi tra aprile e settembre 2001 l'esistenza di una pluralità di atti del datore di lavoro mirati pertinacemente al definitivo allontanamento della Rossi dalla Comunità di Lammari. Questa acquisizione di fatto - che si basa non soltanto sulle condotte ratificate come illegittime (le ferie forzate e i due trasferimenti a Sesto San Giovanni), ma anche su comportamenti astrattamente «neutri» (l'esclusione dai turni del mese di aprile e il mancato ripristino tempestivo dell'inserimento della Rossi a Lammari) - valutato anche il complessivo tono sempre ultimativo e mai discorsivo delle relative comunicazioni aziendali verso la Rossi (il mezzo prescelto del telegramma non impedisce necessariamente minori stringatezza e perentorietà dei contenuti del messaggio, ma dà verosimilmente conto della inflessibile tenacia con cui Rainbow e i suoi rappresentanti hanno condotto l’affaire), permette, da un canto, di unificare in un tratto unico e progressivo i singoli aspetti della vicenda. Dall'altro, consente anche di rinvenire nella fattispecie la presenza di una «afflittività composita», ossia di un effettivo intento emulativo verso la Rossi, al di là delle singole scorrette determinazioni e insito nelle diverse espressioni della volontà datoriale, caratterizzate tutte da quella che può essere definita una progressione sanzionatoria abnorme, volta proprio, ad esempio, a fiaccare la resistenza della Rossi nella sua scelta di non lasciare la zona di residenza a causa dei notevoli (e pacifici) oneri familiari (separata dal coniuge e affidataria dei tre figli, all'epoca tutti minorenni).

Questo, come si vedrà al § 5, riverbera i suoi effetti anche a livello di ulteriore risarcimento da riconoscere al soggetto vittima dei comportamenti e degli atti vessatori dei datore di lavoro.

4. In questo contesto, anche la revoca del secondo trasferimento è avvenuta - si è già accennato - con modalità meno trasparenti e dirette rispetto anche al solito costume aziendale: da un lato, l'assenza di ogni canale di comunicazione da parte della presidente Poletti, che pure ha regolarmente sottoscritto tutti i telegrammi che hanno scandito ripetutamele i mesi da aprile in avanti; dall'altro, il lasso temporale di quasi un mese e mezzo dalla rinnovata intimazione di presentarsi a Sesto S. Giovanni all'invio al difensore di Claudia Rossi della lettera dell’avv. Colombo a nome della cooperativa, con sottoscrizione di conferma della Presidente della Rainbow, con la quale missiva - ammesse violazioni formali - il trasferimento è stato ritirato.

La lavoratrice ha presentato certificazione di malattia contestualmente alla data del primo trasferimento e tale stato è durato dal 24/4/01 ininterrottamente fino al 15/11/01 per l'affermata esistenza di uno stato depressivo ansioso, come si legge nelle fotocopie dei modelli di certificazione destinati all’Inps e prodotti dall'appellante.

Il licenziamento di Claudia Rossi è stato quindi determinato dalla contestazione di assenza ingiustificata maturatasi a partire dal 16/11/01; il telegramma di addebito è del 7/1/02, mentre quello di risoluzione del rapporto di lavoro è datato 15/1/02. Nelle giustificazioni presentate con telegramma del 9 gennaio Claudia Rossi ha lamentato a sua discolpa la mancata indicazione già al momento della revoca del secondo trasferimento della sede di lavoro cui presentarsi, una volta che era stata estromessa dalla struttura di Lammari.

Osserva la Corte come in linea generale - la questione è nota - rappresenti preciso onere del lavoratore, che voglia dimostrare l'inadempimento del datore di lavoro all'obbligazione primaria di farlo lavorare, allegare e provare di avere posto a disposizione del secondo le energie lavorative da utilizzare nell'esercizio dell'intrapresa. Altrimenti, conseguenza inevitabile risulta ritenere l'omessa prestazione (sotto il profilo dell'assenza ovvero della mancata presentazione sul luogo di lavoro) impeditiva delle tutele dal primo invocate. Nella specie è incontroverso che dal 16 novembre in poi la mancata prestazione dell'attività da parte della Rossi non risulta «coperta» da certificazione medica di malattia.

Tuttavia, l'ambito della vicenda in cui si inserisce la fattispecie e le stesse modalità d'inflizione della sanzione espulsiva per «assenza ingiustificata» consentono di riconoscere nel provvedimento di recesso l'illegittima conclusione delle illegittime condotte tenute dalla Coop. Rainbow nei confronti dell'appellante.

L'uso distorto del potere organizzatorio e/o disciplinare, l'abuso vessatorio di strumentali trasferimenti, la sopra ricostruita volontà di allontanare Claudia Rossi dalla Comunità di Lammari - scansioni evidenti di una gestione afflittiva verso la lavoratrice del rapporto della Rossi - hanno certamente prodotto in costei, oltre che uno stato di prostrazione e di estremo disagio (emergente dalle certificazioni mediche), anche un'oggettiva incertezza riguardo alle «mosse» da compiere e all'evolversi della situazione. D'altro canto, a seguito dell'accoglimento in sede di reclamo da parte del Tribunale di Lucca del ricorso cautelare avverso il primo trasferimento, il legale della Rossi, con missiva del 6/9/01, ha invitato formalmente la cooperativa a reinserire negli organici di Lammari la lavoratrice. E - come già si è indicato - Claudia Rossi ha ottenuto come unica risposta a tale sua disponibilità a riprendere il lavoro il provvedimento di rinnovato trasferimento a Sesto S. Giovanni «nel primo giorno utile dal termine della sua malattia» (v. telegramma 14/9/01, doc. 17 fasc. Rossi). È già stata valutata la palese emulatività di siffatta presa di posizione della cooperativa, che anche in seguito nulla ha risposto e nulla ha disposto in relazione anche alla successiva revoca unilaterale del trasferimento medesimo.

Se a tale già conclamata situazione di «mancata collaborazione creditoria» si collegano sia la confermata esclusione della Rossi dai turni di presenza presso la Comunità di Lammari (giustificata, è vero, dalla perdurante malattia della lavoratrice, ma iniziata in contemporanea con la messa in ferie forzata e mai sostituita da una volontà ripristinatoria anche soltanto provvisoria e/o fittizia), sia la pervicacia con cui si è proseguito nell’intenzione di allontanare la Rossi dalle strutture toscane, sia infine la modalità temporale (sicuramente da interpretare in termini di «maliziosità», visti i precedenti comportamenti datoriali) con cui l'assenza dal lavoro è stata contestata alla Rossi, ossia non nell'immediatezza della realizzazione della massima sanzionabilità delle assenze ingiustificate (3 giorni secondo la lett. e dell’art. 42 Ccnl) e nemmeno in termini ragionevolmente idonei a decidere sull'argomento, ma oltre 50 giorni dopo l'inizio della «scopertura» dell'assenza a causa del termine di durata della certificazione medica, appare evidente non soltanto l'inquadramento anche della risoluzione del rapporto di lavoro nel disegno complessivo diretto all'allontanamento della Rossi da Lammari, ma anche di conseguenza la strutturale illegittimità di questo licenziamento perché punto d'arrivo di una serie di condotte che - per comodità espositiva e secondo le indicazioni dell'appellante - vanno ritenute nell'insieme unitario di esse vessatorie e mobbizzanti.

L'intimazione del licenziamento per la dedotta mancanza della lavoratrice costituita da assenze ingiustificate, in altri termini, si pone radicalmente fuori dalla previsione generale dell’art. 2106 c.c. e manifesta altresì ampi margini di oggettiva e soggettiva sproporzione rispetto alla (meramente ipotetica) condizione di inadempimento addebitabile alla Rossi.

5. Va accolto, pertanto, il capo dell'appello che ascrive a responsabilità della Coop. Rainbow tali provvedimenti e comportamenti illegittimi e persecutori. Da tanto discende la risarcibilità dei danni che siano derivati alla lavoratrice.

In primo luogo, va risolta la questione della natura giuridica della responsabilità per i danni che si è riconosciuto essere stati subiti dalla lavoratrice. È nota l'ondivaga interpretazione giurisprudenziale (contrariamente alla dottrina civilistica e giuslavoristica) che sul punto del danno da condotte datoriali di vario genere e spessore hanno fornito le Corti di merito e di legittimità, che a volta a volta hanno fatto riferimento alla responsabilità contrattuale dell’art. 2087 c.c. e a quella extracontrattuale di cui all'art. 2043 c.c.

Ritiene la Corte che l'inquadramento maggiormente corretto e aderente alla complessiva e specifica disciplina del rapporto di lavoro non possa che essere la riferibilità di ogni questione generatrice di danno alla persona del lavoratore alla disposizione generale dell'art. 2087 e quindi alla natura decisamente contrattuale della responsabilità del datore di lavoro. Anche la recente Cass. sez. un, 8438/04 ha continuato a ritenere ammissibili entrambe le azioni, contrattuale ed extracontrattuale, ma giudicando in sede di riparto di competenza (assegnando alla cognizione del giudice del [rapporto] di lavoro la controversia del dipendente [pubblico] che azioni la responsabilità contrattuale e a quella del giudice civile ordinario laddove sia azionata una responsabilità extracontrattuale) ha quindi precisato che, qualora venga fatto valere un danno da mobbing con denuncia di violazione di specifici obblighi contrattuali, deve in ogni caso ritenersi proposta un'azione per responsabilità contrattuale, in quanto - appunto - la tutela invocata attiene (come nella fattispecie portata alla cognizione di questa Corte territoriale) a diritti soggettivi derivanti direttamente dal rapporto di lavoro, indipendentemente dalla natura dei danni subiti.

Con ogni probabilità questa autorevole decisione del giudice di legittimità ha risolto la querelle attorno alla natura della responsabilità datoriale nell'intricato campo delle discriminazioni e dei comportamenti vessatori; nella vicenda in esame questo comporta che responsabilità e risarcimento vadano enucleata ed elaborato secondo lo schema previsto per la responsabilità contrattuale in ordine: a) alla prova del danno da inadempimento; b) alla risarcibilità dei danni soltanto ai sensi dell’art. 1225 c.c.; c) alla prova del nesso causale tra inadempimento e danno.

Riguardo alle questioni sub a) e c) la trattazione della controversia fin qui svolta ha dimostrato l'intervenuto inadempimento plurale da parte del datore di lavoro e la conseguente esistenza di danni specifici, risalenti a condotte particolari prese in esame dall’ordinamento anche per quanto concerne le conseguenze risarcitorie e anche di tipo specifico. Questo vale certamente per i due provvedimenti di trasferimento e per il licenziamento (per gli effetti concreti dell’illegittimità del licenziamento intimato a Claudia Rossi v. infra § 6).

Di converso, nessuna valutazione risarcitoria particolare è stata chiesta dall'appellante in relazione all'illegittima messa in ferie forzate, mentre gli altri danni, di cui è stato chiesto ristoro, attengono alla conseguenza sullo stato di salute della lavoratrice (in sostanza, il danno biologico da stress post-traumatico) e all'eventuale profilo «esistenziale» del danno scaturente da quella che il Collegio ha definito l’afflittività composita (e aggiuntiva) determinata dall'unitario complesso di comportamenti e atti persecutori messi in campo dalla Rainbow nei confronti di Claudia Rossi nei circa nove mesi dall'aprile 2001 ai gennaio 2002.

La pretesa risarcitoria deve infine - come detto - essere limitata ai soli danni prevedibili; nella specie, tuttavia, nessuna conseguenza negativa in via indiretta viene lamentata dalla Rossi e posta nella responsabilità della cooperativa.

Venendo alle singole «poste» di danno e alla quantificazione complessiva proposta in via equitativa dall'appellante (€ 50.000,00), occorre precisare che siffatta quantificazione appare decisamente eccessiva e per alcuni aspetti priva di ogni riscontro e riscontrabilità concreta.

In primo luogo, infatti, riguardo ai trasferimenti illegittimi e al licenziamento pure reputato privo di giusta causa e di giustificato motivo, neanche l'appellante Rossi ha dedotto danni specifici di tipo patrimoniale ulteriori rispetto a quanto previsto dalla legislazione lavoristica circa le conseguenze per l'esercizio di tali prerogative datoriali in carenza delle oggettive e soggettive condizioni per la corretta esplicazione delle facoltà.

In secondo luogo, concretamente la pretesa al risarcimento del danno alla professionalità non viene suffragata da indicazioni di fatto che possano palesare l'effettiva lesione di questo «bene» del soggetto-lavoratore. È indubitabile - come riaffermato da Cass. 10157/04 - che il danno alla professionalità attiene alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto e avente a oggetto il diritto fondamentale del lavoratore alla piena esplicazione della sua personalità «nel» luogo di lavoro con le mansioni e la qualifica di pertinenza e che i provvedimenti del datore che minano tale diritto ledono l'immagine professionale, la dignità personale e la vita di relazione anche in termini di perdita di chances successive. Tuttavia, nella specie nessun particolare profilo di lesione dei beni sopra indicati è stato allegato congruamente dall'appellante e, inoltre, la pur prolungata inattività causata in massima parte dalle scelte gestionali della cooperativa non sembra essere stata in grado di comportare perdite effettive di professionalità in un soggetto, come Claudia Rossi, che vanta esperienze teoriche e pratiche di «educazione professionale» (documentate dalle certificazioni prodotte) di svariati lustri. Pur se dedotta ad altri fini da parte dell'appellata Rainbow, la circostanza di una collocazione lavorativa pari alla precedente, trovata successivamente alla risoluzione del rapporto da parte della cooperativa, conferma l'assenza di un reale nocumento professionale.

In terzo luogo, diverso appare il discorso per il danno biologico e per le altre fattispecie di danno (morale ed esistenziale) rivendicato dall'appellante. È consapevole il Collegio dell'ampio ripensamento in corso nell’interpretazione della giurisprudenza di legittimità circa le differenti categorie del danno alla persona, l'inquadrabilità di esse e la stessa realistica emersione di un distinto danno esistenziale. Non è questa la sede per avventurarsi nella difficile discussione, né per ripercorrere le fasi del dibattito in corso. È sufficiente, allo scopo di rendere una plausibile risposta alla domanda della lavoratrice, esaminare nel concreto la vicenda e desumere le reali conseguenze subite dalla Rossi.

Costei ha dedotto la manifestazione di uno stato di prostrazione psicologica che ha comportato un lungo periodo di malattia. Da quanto indicato dalla lavoratrice si deve arguire che lo stato in questione e la malattia non siano più attuali e che nessuna particolare cronicizzazione del disagio psichico si sia realizzato attualmente. Ora, questa circostanza, sebbene non possa portare a escludere la sussistenza in passato della patologia e delle sue ricadute negative anche riguardo alla «qualità» della vita del soggetto, rende all'evidenza modesta l'incidenza che possa avere avuto in ogni caso sulla vita relazionale della Rossi. La medesima diagnosi del medico curante di sussistenza di uno stato depressivo ansioso non è in grado di specificare grado e misura della prostrazione psichica e dà conto al massimo di un disagio assolutamente non risoltosi nelle più gravi forme patologiche di natura psicologica. La richiesta di Ctu medico-legale sul punto appare meramente esplorativa, in carenza di altra documentazione idonea a palesare l'esistenza all'epoca di qualificati disagi psicosomatici, e in buona sostanza superflua, giacché il danno alla salute che concreta questa forma di danno presuppone pur sempre una lesione dell'integrità psicofisica, di cui il peggioramento della «qualità» della vita configura soltanto la conseguenza (sul punto v. Cass. 1637/2000; Cass. 8827/03) e pertanto in carenza d'attualità della lesione non resta spazio per un approfondimento dei suoi effetti. Di conseguenza, seppure è vero che comunque la pratica ed. mobbizzante - secondo un'arguta affermazione della dottrina - «fa saltare i nervi», questo non autorizza a sussumere nella categoria-danno biologico ogni danno psichico puro. Ad avviso del Collegio, infatti, con il supporto di parte autorevole della dottrina ma la consapevole presa di distanza di importanti arresti della Corte di legittimità (v. Cass. 8827 e 8828/03, ma contra Cass. 12124 e 16946/03), la dedotta sofferenza psichica - cui appare congruo riferire la malattia e il disagio sofferto dalla Rossi per le illegittime condotte della Coop. Rainbow - più che fonte di danno biologico ha realizzato il cd. danno morale soggettivo, da un lato, mentre, dall'altro, la ricostruita afflittività composita delle plurali condotte persecutorie ha ingenerato un quid pluris di danno, consistente proprio - per utilizzare il lessico della SC - nella lesione di interessi e posizioni di rilievo costituzionale coinvolgenti in ultima analisi il metaprincipio del rispetto della dignità personale del soggetto. Qualcosa che si situa, dunque, «oltre» il danno biologico e morale e che consiste nella modificazione peggiorativa dell'insieme delle capacità realizzatrici di una persona, in quella che autorevole dottrina ha definito l’agenda attraverso cui l'individuo costruisce la sua identità, la sua esistenza. Questa categoria di danno è stata definita come «esistenziale» proprio per dare conto di questa lesione «ulteriore» all'esistenza del soggetto, senza che necessariamente venga violata o danneggiata questa o quella specifica posizione soggettiva presidiata dalle regole comportamentali stabilite dall'ordinamento giuridico. La tutela della dignità del lavoratore, sotto questi profili, esula pertanto da altre (eventuali) forme risarcitone per i singoli attentati a distinte e determinate garanzie del soggetto.

La difficoltà concreta - presente anche nella fattispecie - di rintracciare gli elementi necessari per la risarcibilità di lesioni del tipo ora ricordato non deve giungere a negare il ristoro di pregiudizi ingiusti, sebbene riverberi i suoi effetti nell'effettiva quantificazione della posta risarcitoria.

Ad avviso del Collegio va considerato che, come dimostra il tabulato Inps aggiornato al marzo 2004 prodotto in questo grado dalla Rossi (sub doc. 3), successivamente al novembre 2001 le assenze per malattia sono state ampiamente contenute nel limite fisiologico di pochi giorni l’anno e che, nella permanente carenza di altra documentazione medica, dunque nessuna concreta ricaduta nello stato palesato per molti mesi del 2001 si è verificata in seguito. Ne consegue che la determinazione equitativa dei danni morale ed esistenziale, in via astratta ammessi al risarcimento, può essere riferita ai circa dieci mesi di disagio e sofferenza psichica e di lesione della dignità personale che le condotte aziendali hanno procurato a Claudia Rossi. Appare congrua in concreto la misura risarcitoria complessiva della somma attualizzata di circa un milione di vecchie lire per ogni mese, per cui in totale a complessivo titolo risarcitorio, esclusi danni alla professionalità e di ordine biologico, vanno attribuiti all'appellante Rossi € 5.000,00.

6. Occorre, infine, a corredo del risarcimento ora indicato, affrontare le questioni concernenti l'illegittimità del licenziamento. E segnatamente quella relativa all'applicabilità dell'art 18 SL. Prima di verificare la soluzione giuridica va ricordato, da un canto, che la Rossi era socia-lavoratrice della cooperativa e non risulta abbia instaurato

con la medesima esclusivamente un rapporto di lavoro subordinato; dall'altro, che la fattispecie ratione temporis trova quindi regolamentazione nella disciplina della L. 142/01 e non nella successiva modifica introdotta dall’art. 9, L. 30/03. Com'è noto, con il primo provvedimento legislativo si è affermata la piena sussistenza di quella che risalente e autorevole dottrina ha chiamato la «concezione dualistica» del rapporto del socio-lavoratore, individuando in esso l'esistenza, l'uno a fianco dell'altro, di un rapporto mutualistico-associativo e del classico rapporto di scambio tra prestazione di lavoro e sua remunerazione, tipico delle forme di lavoro (subordinate o autonome) conosciute dall'ordinamento lavoristico. Questa duplicità di causa, nella L. 142 e soprattutto nell’interpretazione della dottrina e della giurisprudenza anche precedente alla disciplina del 2001 e inseritasi nel primo parziale intervento dell'art. 24, L. 186/97, ha avuto come conseguenza la separazione di fatto del regime giuridico del rapporto di lavoro rispetto a quello associativo che del primo è stato ritenuto solo il mero presupposto.

Tra gli effetti ulteriori - come afferma lo stesso art. 2, L. 142/01 - vi è quello significativo dell'applicabilità ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato della L. 300/70, con esclusione dell'alt. 18 soltanto nell'ipotesi in cui venga a cessare con il rapporto di lavoro anche quello associativo.

Le questioni da vagliare, dunque, sono due.

La prima riguarda, in carenza di una specifica allegazione sul punto, se effettivamente nella specie possa ritenersi affiancato al rapporto associativo un rapporto di lavoro subordinato. Si tenga peraltro conto che il rapporto era in atto ben prima della vigenza della L. 142 e che quest'ultima - innovativa sul punto della duplicità dì rapporti - ha esplicitamente previsto (art. 6) che soltanto a seguito dell'approvazione dei regolamenti interni (per la quale è stato previsto inizialmente un termine di nove mesi, poi prorogato) le cooperative di produzione e lavoro dovessero definire una disciplina interna in cui anche dettare disposizioni in ordine alla qualificazione giuridica e al regime dei diversi rapporti di lavoro dei soci. Di conseguenza, ad avviso della Corte, appare evidente che la formalizzazione della natura del rapporto di Claudia Rossi non è potuta di fatto intervenire. Nel contempo, tuttavia, la stessa dinamica gestionale dei rapporto emersa dagli aspetti di cui alla presente controversia rassicura ampiamente l'interprete sul concreto svolgi­mento di un rapporto di natura squisitamente subordinata sia per la continuità della prestazione sia per le modalità di espressione dei poteri datoriali sia per l'applicazione pacifica al rapporto de quo della quasi totalità degli istituti tipici del lavoro subordinato per il tramite della contrattazione di settore, ivi compresa - come s'è visto in precedenza - la disciplina delle sanzioni. Nemmeno la cooperativa ha dedotto allegazioni in senso con­trario e, dunque, la circostanza può darsi per acquisita.

La seconda questione riguarda la condizione d'inapplicabilità della tutela reale garantita dall'art. 18 SL avverso i licenziamento accertati illegittimi.

Innanzitutto va rilevato che in sede d'appello la cooperativa nemmeno ha reiterato l’eccezione circa l'effettiva consistenza dell'organico della struttura di Lammari ov'era addetta la Rossi, mentre ha segnalato l'intervenuta cessazione a iniziativa della lavoratrice del rapporto associativo. Tale circostanza, ai sensi della L. 142 potrebbe essere in grado d'impedire la reintegrazione della Rossi, sebbene la disciplina dell’art 2 citato mostra di regolare le fattispecie di contestuale soluzione del doppio rapporto, mutualistico e di lavoro.

A prescindere dall'inapplicabilità della regola dell'esonero alle fattispecie di successiva risoluzione anche del rapporto associativo, come la presente, tuttavia, ritiene il Collegio che la circostanza della «duplice» risoluzione costituisce senza dubbio l'oggetto di un'eccezione di fatto in senso stretto; il dato di fatto impeditivo della tutela reale, in altri termini, non rappresenta una condizione, un requisito per l'azione reintegratoria del socio-lavoratore, bensì è soltanto l'elemento fattuale che esonera la coperativa dalla più gravosa conseguenza per l'illegittimo esercizio del potere solutorio. Pertanto, rientra in pieno nel potere dispositivo delle parti e, dunque, la conclamata tardività della costituzione in appello della Rainbow rende inammissibile la proposizione dell'eccezione e la produzione documentale che l'accompagna e, pertanto, il fatto della risoluzione del rapporto sociale non deve venire esaminato dal Collegio. (omissis)

 

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