Sul licenziamento, preceduto da inattività, di un dirigente dell'ENI

Tribunale di Roma – Sezione Lavoro sentenza n. 8338 del 25 giugno 2008 – causa r.g. 203600/2007 - Est. Di Sario

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ritualmente notificato F.P. conveniva in giudizio l’E. S.p.A. chiedendo al giudice del lavoro di condannare la convenuta al risarcimento del danno da demansionamento (consistito nella irregolare applicazione del sistema di incentivazione economica e di sviluppo del personale e nella successiva totale inattività) in misura pari al 100% della retribuzione dal 1997 e sino al licenziamento ovvero per il diverso periodo di giustizia il tutto assumendo come parametro la retribuzione lorda mensile di € 18.871,45 ottenuta riparametrando a 12 anziché a 14 mensilità l’importo di cui alla relazione peritale allegata; al risarcimento del danno all’immagine e del danno morale per ciascuna posta di danno dal 1997 sino al licenziamento ovvero per il diverso periodo ritenuto di giustizia in misura pari al 100% delle retribuzioni mensili, il tutto assumendo lo stesso parametro economico sopra indicato; al risarcimento del danno patito a causa della mancata erogazione degli incentivi per gli anni 1997-2006 da determinarsi nella misura di € 264.361,55 ovvero la diversa somma ritenuta di giustizia, nonché al risarcimento del danno pensionistico in relazione alla minore contribuzione ed importo della pensione nella misura di € 418.131,65; di accertare la nullità, annullabilità, inefficacia, illegittimità del licenziamento e per l’effetto condannare la società convenuta alla reintegra nel posto di lavoro ex art. 18 dello statuto dei lavoratori , salva l’opzione per le 15 mensilità, nonché al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del recesso comprensive del bonus per il posticipo del pensionamento assumendo il parametro economico sopra indicato, oltre al versamento dei contributi, ovvero condannare la società convenuta alla riammissione in servizio e/o ricostituzione del rapporto di lavoro nonché al risarcimento del danno patito in misura pari alle retribuzioni perdute come sopra quantificate, aumentate del danno da forzata inattività nella misura pari al 100% delle medesime mensilità; in via gradata di accertare la nullità, annullabilità, inefficacia illegittimità del licenziamento e per l’effetto condannare l’E. S.p.A. al pagamento dell’indennità supplementare di cui all’art. 19 ccnl dirigenti aziende industriali nella misura massima di 22 mensilità dell’indennità di preavviso, assumendo il già indicato parametro economico nonché al risarcimento del danno per ogni giorni di forzata inattività, e sino ad integrare i 12 mesi di preavviso non essendo consentita la lavorazione del preavviso in misura pari al 100% della retribuzione mensile come già determinata, oltre al pagamento della somma di € 21.242,95 a titolo di incidenza sul tfr dei mancati premi del sistema incentivante e di sviluppo di cui all’allegata relazione peritale, nonché l’importo di € 82.262,34 pari al bonus per il posticipo del pensionamento che sarebbe stato percepito in assenza del licenziamento ed in applicazione del sistema incentivante come riconosciuto dall’Inps sino al 31 dicembre 2007; di condannare l’E. S.p.A., stante il carattere ingiurioso del licenziamento, al pagamento dell’importo di 22 mensilità della retribuzione lorda globale come sopra determinata, vinte le spese di lite. A sostegno delle avanzate domande il ricorrente, premesso di avere lavorato alle dipendenze dell’E. S.p.A. dall’1 aprile 1974 all’8 giugno 2006 data in cui era stato licenziato senza che gli fosse consentito di prestare la propria attività durante il preavviso, deduceva: che era stato vittima di mobbing con totale demansionamento dal marzo 2004 e gravi irregolarità nell’applicazione nei suoi confronti del sistema di valutazione e incentivazione economica delle risorse umane in uso nonché per i comportamenti tenuti dalla società in prossimità del recesso; che non sussistevano le ragioni del licenziamento, che comunque era discriminatorio, perché posto in essere in violazione dell’art. 15 dello statuto dei lavoratori e dell’art. 4 della legge n. 604/1966 nonché nullo per violazione degli artt. 1343, 1344 e 1345 c.c. in relazione all’art. 1324 c.c.; che doveva trovare applicazione la tutela ex art. 18 dello statuto dei lavoratori o in subordine quella di cui all’art. 19 del ccnl dirigenti; che il recesso era comunque ingiurioso con diritto al risarcimento del danno; che aveva altresì diritto a prestare la propria opera durante il periodo di preavviso, mentre ciò gli era stato impedito dalla società con diritto al risarcimento del danno. Fissata l’udienza di discussione si costituiva in giudizio l’E. contestando integralmente il ricorso di cui chiedeva il rigetto. Esperito inutilmente il tentativo di conciliazione, assunto il libero interrogatorio delle parti, escussi i testi indotti, autorizzato il deposito di note, la causa veniva discussa e decisa come da separato dispositivo pubblicamente letto.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è solo in parte fondato e deve essere accolto nei limiti di seguito esposti. F.P. ha prestato la propria opera alle dipendenze della convenuta dal 1 aprile 1974 (il rapporto è sorto e per diversi anni si è svolto alle dipendenze di alcune società del gruppo e e da ultimo in A.P. S.p.A. fusa per incorporazione dal 1 gennaio 2003 in E. S.p.A.), inquadrato dal 1 luglio 1991 come dirigente, ed è stato licenziato con lettera dell’8 giugno 2006 con esonero dal preavviso e corresponsione dell’indennità sostitutiva. Risulta provato che a decorrere dal 4 dicembre 2002 al ricorrente è stata affidata la posizione di responsabile unità di controllo partecipate (COASP), nell’ambito della direzione raffinazione, alle dirette dipendenze della struttura gestione industriale (GEIND). L’unità COASP (successivamente denominata COPRAF) curava l’assistenza ed il controllo industriale delle partecipate estere del gruppo E. S.p.A., sia negli investimenti che nella promozione o supporto di nuove attività produttive e progetti volti alla ottimizzazione delle performance ed al miglioramento delle raffinerie all’estero. Il F. ha ricoperto il suddetto ruolo sino al marzo 2004, quando la detta posizione è stata affidata all’Ing. C.A., assegnazione formalizzata con comunicazione n. 67 del 24 novembre 2004, ma già in precedenza operativa (la non contestata e-mail del 31 agosto 2008 del ricorrente documento n. 20 e le altre risultanze istruttorie dimostrano che già dal marzo precedente il F. era stato privato del suddetto incarico). Le ragioni della sostituzione sono state chiarite in giudizio dalla teste B. la quale ha riferito che: c’é stata una riorganizzazione della direzione raffinazione intorno al 2003/2004, periodo in cui in quella struttura il F. non trova più collocazione in quell’area, perché a seguito della riorganizzazione si erano ridotte le posizioni manageriali, solitamente occupate dai dirigenti, sia in termini numerici sia sul piano qualitativo erano cambiati i requisiti richiesti per poter supportare la struttura per come rivisitata (sia in termini comportamentali che professionali): F. per l’attività che aveva svolto in precedenza, si decise di individuare una risorsa più giovane, l’Ing. A. F. si era occupato di coordinamento delle raffinerie estere, ambito industriale e quando andammo a valutare il candidato da porre in quella posizione (responsabile del coordinamento industriale partecipate estere), oltre la competenza di tipo tecnico occorreva porre attenzione anche alle caratteristiche manageriali, quali: visione strategica e capacità relazionale, perché in queste raffinerie occorre stabilire relazioni di un certo tipo con le altre società petrolifere che siano di collaborazione, integrazione ed anche presa in carico di problemi nel loro complesso. Il direttore dell’area raffinazione non riteneva F. adatto a tale ruolo. Il teste S., responsabile della struttura GEIND dal quale dipendeva il ricorrente, ha confermato la fase di riorganizzazione in atto nel periodo in esame precisando che i risultati del F. erano inferiori alle attese. Rientra nel potere organizzativo del datore di lavoro la scelta del personale più idoneo a ricoprire una certa posizione lavorativa, potere che assume particolare rilievo con riferimento alle posizioni dirigenziali, essendo le stesse connotate da specifici profili di responsabilità, autonomia e discrezionalità. La scelta, ampiamente discrezionale e non giudizialmente sindacabile, in assenza di un obbligo contrattuale non necessità di specifiche motivazioni né di alcun procedimento comparativo con altri lavoratori, come invece sembra ritenere il ricorrente nelle proprie deduzioni (confronta pagina 23 note). Tale discrezionale potere è riconosciuto dall’art. 41 Cost. e dall’art. 2103 c.c., e dallo jus variandi da quest’ultimo sancito, con l’unico obbligo di assegnare al lavoratore rimosso da un precedente incarico altre mansioni, che salvaguardino il livello professionale acquisito e che garantiscano lo sviluppo e l’accrescimento delle capacità professionali. Pertanto nessuna contestazione può essere mossa alla scelta della società di sostituire il ricorrente con altro collega, ritenuto più idoneo a ricoprire la posizione di direzione dell’Unità COASP, considerata anche la riorganizzazione che aveva interessato l’intera divisione Refining & Marketing, al cui interno era posta la direzione raffinazione, cui faceva capo la gestione industriale e quindi la COASP. Successivamente a tale sostituzione, però, il ricorrente è rimasto senza alcun incarico sino alla data del licenziamento, intervenuto oltre due anni dopo, mentre non ha trovato alcun positivo riscontro probatorio la deduzione difensiva secondo la quale il F. sarebbe stato adibito alla definizione di talune attività pendenti relative al precedente incarico. Tale situazione, così descritta, sembrerebbe integrare una violazione del disposto dell’art. 2103 c.c. di particolare gravità per avere la datrice di lavoro lasciato inoperoso un dipendente per così lungo tempo, tale da legittimare il massimo risarcimento, per come invocato in ricorso. L’esperita istruttoria ha, però, evidenziato come la stessa sia si addebitabile alla società, per non avere assegnato al F. alcuna mansione, anche eventualmente mediante un ordine perentorio, come pure era nei suoi poteri, violando il disposto dell’art. 2103 c.c., ma va altresì considerato l’atteggiamento non pienamente collaborativo del ricorrente, che non può non assumere giuridico rilievo ai sensi dell’art.1227 c.c.. Ed invero la società ha proposto al F. alcune soluzioni alternative trovando nel ricorrente una disponibilità che si dimostra più apparente che reale, perché sempre condizionata alla messa in discussione ed alla riconsiderazione delle valutazioni di professionalità intervenute anni prima, che certamente non hanno rassicurato e confortato vertici societari nell’affidare al predetto incarichi rilevanti nell’organizzazione aziendale. Ed invero il F. per come riferito dalla teste B., non ha dato la disponibilità a recarsi all’estero. Al medesimo sono stati proposti incarichi nell’ambito della Direzione Raffinazione, per come emerge anche dal tenore della e-mail datata 31 agosto 2004 (documento 20), la quale contestualmente però, conferma come il ricorrente condizionasse la propria disponibiltà ad assumere detti incarichi sempre che sia chiarita la mia situazione aziendale. Di analogo tenore è la successiva e-mail datata 19 luglio 2005, nella quale nuovamente vengono messi in discussione i precedenti giudizi valutativi con un tono solo di apparente disponibilità, per come si desume anche dalla contestuale comunicazione della propria intenzione di fruire immediatamente di tutti i giorni di ferie maturati. La e-mail in questione si riferisce all’offerta rivolta al ricorrente, di ricoprire, presso E.T., la posizione di responsabile di un progetto sul fotovoltaico (teste B.) ben in linea con la professionalità dallo stesso maturata. Rilevante sul punto è la disposizione del teste C., responsabile dello sviluppo prodotti ed attività fotovoltaica, il quale ha riferito siccome cercavamo un responsabile per lo stabilimento di Nettuno e sapevo che F. in quel momento non aveva incarico, siccome lo conoscevo e lo stimavo, ho proposto al mio superiore ed al responsabile del personale di E.T. di contattare informalmente F. per sapere se era disponibile ad assumere una tale posizione. Ci siamo incontrati personalmente e F. mi disse che da un punto di vista di tipologia di lavoro era interessato, ma che riteneva opportuno mettermi al corrente del fatto che aveva avuto una cattiva valutazione dalla sua precedente linea gerarchica e che aveva richiesto chiarimenti formali su quanto avvenuto e sulla valutazione negativa, chiarimento non ancora fornito, che pertanto l’accettazione di tale incarico non doveva significare di mettere una pietra sopra e rinunciare a detti chiarimenti. Riferii al mio superiore ed al capo del personale e tutti e tre convenimmo che il ricorrente non aveva la serenità per affrontare il ruolo proposto che richiedeva molto impegno e motivazioni solide per gli obiettivi che ci eravamo dati. La società anziché imporre autoritativamente un altro incarico, ha scelto di mantenerlo inoperoso fino a che non ha maturato i requisiti per accedere alla pensione, procedendo quindi al licenziamento, previo l’inutile tentativo di trovare un accordo bonario con lo stesso. Di fatto la convenuta ha posto in essere e protratto una situazione contraria al già richiamato art. 2103 c.c. e tale illegittimità non può ritenersi esclusa solo dall’atteggiamento a tratti polemico e non pienamente collaborativo del ricorrente, che pur sempre reclamava legittimamente – e fondatamente per quanto di seguito esposto – chiarimenti sul percorso professionale.La stessa non può ritenersi esclusa neppure da una ritenuta benevolenza per non avere proceduto immediatamente al licenziamento, consentendo invece al F. di poter accedere al trattamento pensionistico. Delle due l’una: o sussistevano i presupposti per il recesso (quello del dirigente deve pur sempre essere sorretto da giustificatezza) e la società si determinava ad esercitare la facoltà riconosciutale dalla legge e dal contratto collettivo oppure decidendo, così come ha fatto, di mantenere in essere il rapporto di lavoro era obbligata al pieno rispetto delle norme che lo regolano, anche imponendo al lavoratore determinati compiti. Tertium non datur. E’ vero che nel caso di specie viene in rilievo una posizione dirigenziale e che l’assegnazione delle mansioni non può non tenere conto della specificità della stessa, richiedendo una fattiva collaborazione del dipendente e tendenzialmente una condivisione del ruolo assegnato, ma è anche vero che il dirigente è pur sempre lavoratore subordinato per il quale vi è un obbligo di trovare una adeguata collocazione nell’ambito della organizzazione aziendale a cui è comunque correlato il dovere di adempiere agli incarichi individuati. Come anticipato, però, la condotta del ricorrente non può non assumere giuridico rilievo ai fini risarcitori. Può, infatti, fondatamente affermarsi che se il F. avesse dimostrato assoluta disponibilità ad assumere gli incarichi proposti, senza frapporre il descritto atteggiamento, scoraggiando i superiori e ingenerando la convinzione che i proposti incarichi non sarebbero stati espletati con il necessario impegno, nessun danno alla professionalità il predetto avrebbe patito, considerando che le posizioni individuate erano pienamente rispondenti alle precedenti esperienze lavorative ed al bagaglio professionale maturato nonché di rilievo nell’organizzazione aziendale. Non vuol dirsi che il F. avrebbe dovuto rinunciare al diritto di richiedere ed ottenere chiarimenti in ordine alle schede di valutazione relative agli anni precedenti, ma questo ben avrebbe potuto essere esercitato, e tutelato in sede giudiziaria, senza frapporlo sempre quale imprescindibile condizione all’accettazione dei compiti proposti, facendo venir meno quella piena collaborazione richiesta ad un dirigente. Grava sul danneggiato un obbligo di diligenza di evitare i danni conseguenti all’inadempimento delle obbligazioni e di ciò occorre tenere conto nella determinazione del risarcimento rivendicato in questa sede. Pertanto, non può condividersi la prospettazione attrice che, limitandosi a dedurre la durata dell’inadempimento e l’assoluta assenza di incarichi nel periodo dedotto, utilizza quale parametro l’intera retribuzione (anche in un importo superiore a quella di fatto percepita, parametro non condivisibile per quanto di seguito esposto). Va innanzitutto osservato che la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che il risarcimento del danno non può coincidere con l’intera retribuzione mensile, ma deve essere commisurato a quella parte della capacità professionale effettivamente pregiudicata secondo criteri equitativi (Cass. 13299/92, Cass. n. 9228/2001, Cass. n. 13033/2001, Cass. 14199/2002; Cass. 2763/2003; Cass. n. 7980/2004, Cass. n. 11045/2004 e numerose altre) e tali principi non sono stati scalfiti dalla nota pronuncia delle Sezioni Unite n. 6572/06. Quest’ultima ha ritenuto che il danno professionale può ravvisarsi in diversa guisa potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance ed a questo può aggiungersi un danno non patrimoniale conseguente alla lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro tutelato dagli artt. 1 e 2 Cost., considerata la forte valenza esistenziale del rapporto di lavoro, per cui allo scambio di prestazioni si aggiunge il diretto coinvolgimento del lavoratore come persona (nel caso di specie non viene in rilievo, perché non dedotto il danno biologico). La S.C. ha, altresì, delineato l’onere probatorio gravante sul danneggiato, che pur potendo fare ricorso a presunzioni ed, ex art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, ha comunque l’onere di specifica allegazione della natura e delle caratteristiche del pregiudizio. Il ricorso, pure nella sua consistenza, di fatto finisce per proporre formule alquanto standardizzate, con il semplice richiamo a principi interpretativi affermati dalla giurisprudenza che però era necessario contestualizzare rispetto alla fattispecie concreta, non essendo sufficiente il richiamo ad alcune affermazioni contenute nel manuale dei sistemi di valutazione, che appaiono piuttosto inspirate ad una certa retorica aziendalistica, assai diffusa. Ed allora se è vero che nella determinazione del risarcimento del danno da demansionamento ben possono assumere rilievo la durata e l’entità dell’inadempimento, nonché il bagaglio professionale già acquisito dal lavoratore – nel caso di specie assolutamente qualificato per come desumibile dalla storia professionale del F. dedotta e documentata in ricorso -, quali indiscutibili indizi del pregiudizio patito alla professionalità, nonché la perdita di opportunità come ad esempio il concorrere a sistemi incentivanti legati alla professionalità, è anche vero che null’altro è stato specificamente dedotto e provato, come ad esempio la conoscibilità ed i concreti riflessi all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, la frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale (e non generiche supposizioni), gli effetti negativi dispiegati su abitudini di vita puntualmente indicate e non solo rimesse a generali e generiche valutazioni. Soprattutto, però, deve tenersi conto dell’atteggiamento di resistenza frapposto dal F. alla disponibilità della società a trovare un’altra utile, qualificata e condivisa sistemazione. In ragione di quanto esposto, pertanto, si stima equo determinare il risarcimento nella misura del 40%, tenendo conto dell’ultima retribuzione mensile goduta dal F., moltiplicata per i mesi di protrazione dell’accertata illegittima situazione (da marzo 2004 a giugno 2006) e conseguentemente liquidare a detto titolo la complessiva somma di € 83.587,24 (€ 7.739,56 x 27 mesi= € 208.968,12 x 40%). Detta quantificazione è operata sulla base della retribuzione lorda mensile, documentata dalle buste paga, di € 6.633,92 x 14: 12, non potendo condividersi il diverso importo proposto in ricorso (18.871,45), ottenuto riparametrando a 12 anziché a 14 mensilità l’importo indicato nella relazione peritale di parte. Innanzitutto non è dato comprendere perché la proposta riparametrazione debba essere effettuata su dodici anziché quattordici mensilità, pur essendo pacifica la percezione di una retribuzione fissata su tale ultima misura. Ciò che, però, non può essere decisamente condiviso, per le ragioni che andranno ad esporsi, é il calcolo proposto dal consulente di parte nella relazione allegata al ricorso, fondato sulla applicazione di una crescita media della retribuzione pari al 14,60% annuo, come conseguenza della dedotta violazione del sistema di valutazione dei risultati e della lamentata perdita economica, questione che consente di passare all’esame delle ulteriori ed ampie deduzioni contenute in ricorso e delle molteplici domande risarcitorie avanzate. Il F. lamenta l’omessa ed irregolare applicazione del sistema di valutazione del personale direttivo applicato dalla convenuta. Per come riconosciuto da quest’ultima sin dal 1995 la politica del Gruppo E. ha previsto una valutazione delle performance dei dirigenti, con una procedura già elaborata ed applicata da A.P. della quale il ricorrente era dipendente, procedura successivamente modificata nel 2001. Dalla deposizione del teste C. e dall’ampia documentazione prodotta dal ricorrente risulta provato, per come dedotto in ricorso, che il sistema originariamente applicato prevedeva ad inizio anno una stesura congiunta tra il responsabile ed il collaboratore di una scheda di valutazione con indicazione degli obiettivi assegnati, dei parametri e dei comportamenti da valutare ed a fine anno la verifica della scheda e colloquio feedback, con valutazione e comunicazione al collaboratore da parte del responsabile dei risultati. Le schede relative agli anni 1995 e 1996, prodotte in giudizio dalla società, provano indiscutibilmente il pieno rispetto di detta procedura nei confronti del F. Per il periodo successivo va innanzitutto evidenziato che la convenuta non ha prodotto la scheda valutativa relativa all’anno 1997, dichiarando che la stessa non è stata reperita. Il teste C., all’epoca diretto superiore del F., ha dichiarato di avere provveduto alla redazione della stessa, senza averla però discussa con il ricorrente (dovrebbe esserci anche quella del 1997. Io la preparai ma non la discussi perché andai via dal servizio a fine 1997). Per quanto attiene alle schede relative agli anni 1998, 1999 e 2000 (doc. 19, 20 e 21 convenuta), va innanzitutto rilevato che il ricorrente tardivamente, solo nelle note autorizzate, ha dedotto che le stesse sarebbero state redatte a posteriori, presumibilmente nel 2004 a fronte della richiesta dallo stesso avanzata. A prescindere da una tale inammissibile deduzione, violativa del contraddittorio, deve però evidenziarsi come dette schede appaiono redatte su un modello diverso da quello precedente, per come emerge dal raffronto con quelle relative agli anni 1995 e 1996, pur persistendo all’epoca la stessa procedura. Le stesse inoltre non contemplano alcuno spazio per le osservazioni del collaboratore, tant’è che non sono sottoscritte dal ricorrente a differenza delle precedenti, contemplando tre livelli di valutazione anziché quattro, vertono sulle aree di responsabilità e prevedono un punteggio non corrispondente ai parametri all’epoca vigenti (100/400). La circostanza che, però, assume specifico rilievo è che dette schede non sono state correttamente redatte, non contenendo la completa valutazione della attività svolte dal F. nei periodi di riferimento. Ed invero per come esattamente evidenziato dal ricorrente le schede contengono le seguenti irregolarità: fanno riferimento ad attività mai assegnate (scheda del 2000 – basic automazione Gela, attività svolta direttamente dalla raffineria di detta città); fanno riferimento ad attività che il F. non ha portato a compimento per essere stato nel frattempo assegnato ad altro incarico (scheda 2000 – preparazione preventivo e documentazione EPC da completarsi entro dicembre 2000, mentre il ricorrente nel maggio 2000 è stato assegnato al diverso incarico di responsabile sviluppo studi tecnologie raffinazione; scheda 1999 modifiche FCC e Merox raffineria di Gela e progetto benzine di qualità raffineria di Gela, quando il ricorrente nel luglio del 1999 è stato al progetto di gassificazione della raffineria di Sannazzaro); omessa valutazione di attività effettivamente svolte quali quelle relative al progetto di gassificazione di Sannazzaro ed al ruolo di responsabile sviluppo, studi e tecnologie con specifico riferimento alla nuova centrale di Priolo. Le rilevate lacune ed inesattezze emergono dal raffronto tra le suddette schede e l’attività del ricorrente per come descritta e documentata in atti. Le stesse fanno pertanto ragionevolmente dubitare della correttezza del punteggio assegnato al ricorrente negli anni di riferimento (rispettivamente 70, 79 e 74), frutto non certo di una completa valutazione dell’operato del dirigente in linea con i criteri fissati dal sistema applicato. Analogo giudizio può essere espresso con riferimento alle schede relative agli anni 2001 e 2002. Per come già evidenziato per detto periodo trova applicazione il nuovo sistema di valutazione introdotto dalla normativa e metodologie per lo sviluppo delle risorse umane, in base al quale annualmente viene assegnata a ciascun dirigente dal diretto responsabile una scheda di performance che contiene obiettivi di tipo quantitativo e fattori di tipo qualitativo/comportamentale. Tale metodologia prevede una comunicazione dei risultati da parte del capo al responsabile, e non una condivisione del processo valutativo, con attribuzione di un punteggio da 0 a 130. Pertanto, mentre non può assumere rilievo la lamentata diretta partecipazione del dirigente alla procedura valutativa, non è giustificata l’omessa considerazione di attività effettivamente svolte dal ricorrente (ad esempio quelle relative alla nuova centrale di Priolo nella prima metà dell’anno 2001). Per l’anno 2003 non risulta, poi, redatta alcuna scheda, così come per gli anni successivi fino al licenziamento. Mentre per l’anno 2003 non è stata fornita alcuna giustificazione a tale omissione, nonostante il F. si sia occupato in detto periodo del progetto di razionalizzazione delle raffinerie tedesche, per gli anni successivi l’omissione può fondatamente essere ricondotta, in assenza di altri elementi da parte della società, all’assenza di incarichi, per come sopra già illustrato. Accertato l’inadempimento contrattuale della società, che non ha fornito la prova di avere rispettato con puntualità la procedura di valutazione da lei stessa imposta, occorre passare all’esame delle eccessive, perché ingiustificate, pretese risarcitorie avanzate. Innanzitutto va disattesa la tesi attrice secondo la quale la condotta della società integrerebbe gli estremi di un demansionamento. A prescindere da una certa confusione tra istituti diversi, vale l’assorbente rilievo che, nonostante le non brillanti valutazioni contenute nelle schede contestate, il F. non ha patito alcuna dequalificazione né alcun demansionamento, anzi, per come dallo stesso riconosciuto, sino al marzo 2004 gli sono stati affidati incarichi di rilievo e significativi (pagina n. 65 delle note), così come pacificamente indicati in atti, che fanno escludere qualsiasi pregiudizio alla professionalità. Da quanto esposto consegue che deve essere totalmente respinta la domanda volta ad ottenere un risarcimento del danno dal 1997 al licenziamento, parametrato all’intera retribuzione mensile indebitamente quantificata in € 18.871,45, nonché il risarcimento per lo stesso periodo del danno all’immagine e del danno morale, invero privi di alcuna specifica allegazione. Dall’accertato inadempimento consegue esclusivamente il diritto del F. al risarcimento del danno patrimoniale da perdita di chance e limitatamente agli anni 1998, 1999 e 2000. Ed invero dallo stesso prospetto contenuto nella memoria di costituzione emerge che negli anni dal 1994 al 1997 sono stati riconosciuti al ricorrente degli aumenti ad personam e della somma una tantum negli importi indicati nella moneta corrente e non contestati. La società ha affermato che dette attribuzioni economiche non deriverebbero dal sistema di valutazione ed incentivazione, bensì dalla politica retributiva dell’E. che seguirebbe, a livello individuale, le singole posizioni adeguando le retribuzioni ai livelli di mercato, ma la tesi non trova adeguato supporto nelle risultanze processuali. Ed invero non sono stati chiariti, nemmeno dai testi indotti, i criteri economici applicati e neppure specificato l’andamento dei livelli di mercato avuti come riferimento per il computo degli indiscussi riconoscimenti retributivi. Le deposizioni assunte, diversamente da quanto dedotto dal F., hanno escluso che a valutazioni positive dell’operato del dirigente conseguissero automatici incentivi economici (testimone P. al risultato positivo non conseguiva un riconoscimento economico), sebbene abbiamo evidenziato una certa tendenza a detti riconoscimenti (testimone C. sulla base delle valutazioni ci poteva essere una proposta economica. Questa non c’era sempre anche perché potevano rilevare questioni di budget. Era difficile che un dirigente non ricevesse riconoscimenti economici in caso di valutazione positiva. La società aveva la possibilità di dare aumenti o una tantum).Gli importi indicati dalla stessa società per gli anni precedenti al 1998, in assenza di diversi decisivi riscontri, valutati l’entità degli stessi ed i titoli di imputazione nonché il tenore delle risultanze testimoniali, consentono di ritenere che al F. sino al 1997 (compreso) sono stati riconosciuti incentivi economici conseguenti ai positivi risultati del proprio operato e ciò in applicazione del sistema di valutazione all’epoca applicato dalla società. Successivamente a tale data l’esame delle retribuzioni annue depone nel senso del riconoscimento esclusivamente di adeguamenti contrattuali, confermando l’assenza di qualsiasi altro riconoscimento economico. Le risultanze processuali, pertanto, consentono di ritenere altamente probabile che qualora le schede fossero state correttamente redatte, senza le omissioni e gli errori già evidenziati, e quindi l’attività del F. fosse stata valutata con completezza, quest’ultimo avrebbe potuto aspirare al riconoscimento di incentivi economici, non risultando che sia venuto meno ai compiti assegnatigli. In ordine al quantum si stima equo liquidare per detto titolo l’importo complessivo di € 34.615,28, ottenuto applicando alle retribuzioni degli anni in contestazione (1998, 1999 e 2000), per come indicate dalla stessa società (pagina 27 della memoria), la percentuale del 14,60% individuata nella relazione contabile allegata al ricorso quale crescita media annua (€ 73.164,00 + € 81.277,00 + € 82.650,00 = € 237.091,00 x 14,60%), esclusivamente quale criterio equitativo. Analogo risarcimento non può essere riconosciuto per gli anni successivi, non essendo stati forniti elementi sufficienti per fondare il giudizio probabilistico che supporta il risarcimento da perdita di chance. Ed invero, come già evidenziato, dal 2001 è stato introdotto un sistema di valutazione delle performance dei dirigenti, ben più restrittivo nel riconoscimento degli incentivi economici. Per come confermato anche dai testi escussi (confronta il testimone B.) il nuovo sistema fissa il punteggio di 85 per accedere al piano di incentivazione, ma tale soglia minima non garantisce automaticamente il riconoscimento dell’intervento retributivo. Esiste, infatti, un coverage, definito annualmente sulla base dei punteggi di chiusura della scheda del direttore generale, che tiene conto dell’andamento più o meno positivo della divisione e/o della singola società del gruppo. Di fatto, per come riconosciuto dallo stesso ricorrente (pagina 51 delle note), si tratta di un sistema di premiazione selettivo. Infatti, a fronte del massimo punteggio del direttore generale, vi è comunque un coverage (trattamento di copertura massimo) del 70% per i dirigenti che hanno riportato un punteggio di 130; lo schema di riferimento allegato alla comunicazione del 7 febbraio 2002 chiarisce, inoltre, che la percentuale dei potenziali beneficiari cresce dal 40 al 70% in relazione alla percentuale di valutazioni superiori alla soglia di 85, così come puntualizzato nella memoria di costituzione. In tale contesto non è stato fornito alcun utile elemento per ritenere che se anche le schede degli anni 2001, 2002 e 2003 fossero state redatte correttamente (quest’ultima manca completamente) al F. sarebbe stato riconosciuto un incentivo economico in forma di una tantum. Il ricorrente si è limitato a dedurre l’inadempimento della società, applicando nella indicazione del danno un automatismo che non trova alcun riscontro ed anzi smentito dagli atti. Per quanto attiene agli anni successivi, dal 2004 al licenziamento, per gli stessi è stato già accertato l’operato demansionamento ed è già stato riconosciuto il risarcimento del danno a detto titolo, che assorbe ogni altra pretesa, essendosi tenuto conto nella liquidazione anche della mancata possibilità di concorrere al riconoscimento di incentivi legati alla produttività. Da quanto esposto consegue, per come già anticipato, la non correttezza delle prospettazioni contabili contenute nella perizia di parte allegata al ricorso. La somma riconosciuta in questa sede, notevolmente inferiore a quella rivendicata, è stata liquidata, come già evidenziato, a titolo di risarcimento danno patrimoniale da perdita di chance e pertanto non può determinare lo stabile incremento della retribuzione mensile, del trattamento pensionistico e del tfr, così come invece ritenuto nella consulenza di parte, che finisce per trattare la questione in esame alla stregua di un mancato riconoscimento di trattamenti retributivi spettanti per contratto, impostazione giuridicamente non corretta e che innesca un meccanismo a catena non rispondente ai criteri di liquidazione del danno fissati dal codice. Nelle esposte considerazioni rimangono assorbite tutte le altre questioni e le ingenti pretese avanzate dal ricorrente e resta definitivamente accertata quale retribuzione mensile quella indicata nelle buste paga e già utilizzata per la liquidazione del danno da demansionamento. Con lettera dell’8 giugno 2006 l’E. S.p.A. ha comunicato al ricorrente il licenziamento con la seguente motivazione: «l’avviato processo di riorganizzazione delle strutture aziendali che ha interessato la divisione refining & marketing attraverso l’accorpamento di uffici e attività, impone un’ottimizzazione del settore e della struttura in cui Lei presta la Sua attività e non consente l’ulteriore impiego della Sua professionalità. Peraltro, dopo attenta verifica, condotta sia in azienda che a livello di gruppo, dobbiamo anche prendere atto dell’impossibilità di reperire altra posizione di lavoro che sia professionalmente equivalente a quella da Lei fin qui ricoperta». Difetta, però, nel caso di specie quella giustificatezza che deve comunque sorreggere il licenziamento del dirigente. La società ha invocato, a sostegno del recesso, l’intervenuta riorganizzazione della divisione refining & marketing, che avrebbe interessato anche la direzione raffinazione cui faceva capo la struttura cd Geind, in cui era inserita l’unità Coasp ed affidata alla direzione del ricorrente nel 2002. A prescindere da una certa genericità sui tempi e modi di tale riorganizzazione, comunque, confermata in parte dai testi, vale l’assorbente rilievo che sin dal marzo 2004 il F. era stato rimosso dall’incarico ricoperto presso la Coasp e che, per come già accertato, lo stesso è rimasto successivamente privo di incarichi. Difetta pertanto qualsiasi collegamento causale tra la dedotta riorganizzazione e la posizione del ricorrente. La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che la specialità della posizione assunta dal dirigente nell’ambito dell’organizzazione aziendale impedisce una identificazione tra la nozione di giustificatezza del licenziamento, ai fini dell’indennità supplementare spettante alla stregua della contrattazione collettiva del dirigente, e quella di giusta causa o giustificato motivo del licenziamento del lavoratore subordinato ex legge 15 luglio 1966 n. 604. Consegue che fatti o condotte, non integrabili una giusta causa o un giustificato motivo con riguardo al rapporto di lavoro in generale, ben possono legittimare il licenziamento del dirigente con il disconoscimento dell’indennità supplementare di cui alla contrattazione collettiva. In questa prospettiva il criterio su cui parametrare la legittimità del licenziamento del dirigente è dato dal rispetto da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto e nel divieto di licenziamento discriminatorio ex art. 3 della legge n. 108 del 1990 o per motivo illecito (confronta ex plurimis Cass. 13 gennaio 2003 n. 322, in una fattispecie in cui la Suprema Corte ha escluso la sussistenza di vizi di motivazione nella sentenza di merito, che aveva ritenuto legittimo il licenziamento a fronte di una effettiva ristrutturazione aziendale che aveva comportato la smobilitazione della struttura a cui era preposto il dirigente licenziato, cui adde, in precedenza, Cass. 4 gennaio 2000 n. 22). Il principio di buona fede e correttezza – il cui rispetto deve presidiare tutta a vita del contratto (art. 1175 e 1375 c.c.) e che deve, come si è detto, costituire il dato parametrico su cui misurare anche la giustificatezza del licenziamento – deve essere letto in relazione all’art. 41 Cost., ed interpretato alla stregua di detta disposizione che, pur nel rispetto della utilità sociale, garantisce la libertà dell’iniziativa economica privata. Detta libertà verrebbe negata in radice se, a fronte di razionali e non arbitrarie riorganizzazioni e ristrutturazioni, aziendali, si impedisse all’imprenditore di scegliere liberamente le persone ritenute idonee a collaborare con lui ai più alti livelli nella gestione dell’impresa, e se allo stesso imprenditore si frapponessero ingiustificati ostacoli di qualsiasi genere al recesso anche a fronte delle suddette riorganizzazioni e ristrutturazioni volte ad accorpare due o più posizioni dirigenziali, in precedenza contraddistinte da propria autonomia (confronta Cass. 12365/2003). Come emerge chiaramente dai principi interpretativi richiamati, i principi di correttezza e buona fede possono ritenersi rispettati solo in presenza di riorganizzazioni aziendali che vanno ad incidere direttamente sulla posizione occupata dal dirigente e non certo quando, come nel caso di specie, le stesse interessano un settore dal quale il dirigente è stato allontanato da oltre due anni. Quanto esposto è sufficiente a ritenere ingiustificato il recesso, rimanendo assorbita ogni altra questione. In ordine alle conseguenze deve trovare applicazione la tutela contrattuale e, rilevato che il ricorrente ha già percepito l’indennità sostitutiva del preavviso, compete allo stesso l’ulteriore indennità risarcitoria, che appare equo liquidare nella misura massima di 22 mensilità, tenuto conto soprattutto della durata ultratrentennale del rapporto di lavoro e del positivo svolgimento dello stesso. Pertanto va riconosciuta la somma di € 170.270,61, tenuto conto dell’entità della retribuzione mensile come sopra determinata (€ 7.739,57 x 22). Deve disattendersi la tesi attrice che vorrebbe fosse applicata alla fattispecie la tutela reale ex art. 18 dello statuto dei lavoratori, esclusa invece per legge. Sul punto appare sufficiente richiamare la giurisprudenza di legittimità, che questo giudice condivide integralmente, secondo la quale la dequalificazione, unilateralmente operata dal datore di lavoro, del dirigente apicale a dirigente riconducibile alla media o bassa dirigenza, mentre – costituendo inadempimento contrattuale – consente al dipendente la tutela risarcitoria e può costituire giusta causa di dimissioni, non muta il regime giuridico del licenziamento ad nutum proprio dei dirigenti di vertice dell’azienda, essendo la dequalificazione nulla ex art. 2103 codice civile conseguentemente, non trovano applicazione la disciplina limitativa dei licenziamenti, prevista dall’art. 10 della legge n. 604 del 1966. L’invocata tutela ex art. 18 dello statuto dei lavoratori non può trovare applicazione neppure in relazione alla prospettata natura discriminatoria del licenziamento in esame. Nel caso di specie non solo non ricorre, perché neppure dedotta, alcuna delle ipotesi contemplate espressamente dall’art. 3 della legge n. 108/90, ma il recesso non può nemmeno essere qualificato come ritorsivo né determinato da motivo illecito. Parte attrice richiama insistentemente la parte della comunicazione di recesso in cui si fa riferimento a varie proposte di incentivazione ad una risoluzione consensuale ed alle trattative che l’hanno preceduta. La tesi innanzitutto fornisce, non correttamente, una lettura parziale della comunicazione, in cui la società, in modo assolutamente trasparente, richiama dette proposte di esodo incentivato nell’ambito di un programma aziendale finalizzato ad adeguare la dirigenza al nuovo contesto operativo dando conto, altrettanto correttamente, della non adesione del F. Il ricorso a tale forme di risoluzione consensuale incentivate appartiene da anni alle prassi di grandi gruppi industriali, come quello convenuto, e spesso vengono inserite anche in accordi con le organizzazioni sindacali, ma di ciò parte ricorrente non tiene alcun conto. Nel caso di specie, poi, le trattative sono state portate avanti in modo chiaro, offrendo al ricorrente un importo pari a 30 mensilità, effettuando anche un incontro con i suoi legali, dopo avere proposto alcune posizioni lavorative alternative ed avere verificato certe resistenze del F. (come sopra già accennate), nonché avere atteso che quest’ultimo maturasse i requisiti per accedere alla pensione di anzianità, pur ponendosi in una situazione di illegittimità, per come accertata, determinata dalla mancata assegnazione di incarichi. In tale contesto appare veramente infondato ritenere il licenziamento ritorsivo, discriminatorio o dettato da motivo illecito e le richiamate circostanze sono sufficienti a disattendere le deduzioni contenute in atti, comprese quelle in ordine ad un asserito carattere ingiurioso o addirittura odioso del recesso. Conseguentemente vanno respinte le ulteriori pretese risarcitorie avanzate dal ricorrente, compresa quella relativa alla lamentata illegittimità dell’esonero dal preavviso. A quest’ultimo riguardo ritiene questo giudice sufficiente richiamare, perché assolutamente condivisibile, la recente giurisprudenza di legittimità secondo la quale alla stregua di una interpretazione letterale e logico sistematica dell’art. 2118 del codice civile, nel contratto di lavoro a tempo indeterminato il preavviso non ha efficacia reale, che comporta, in mancanza di accordo tra le parti circa la cessazione immediata del rapporto, il diritto alla prosecuzione del rapporto stesso e di tutte le connesse obbligazioni fino alla scadenza del termine, ma efficacia obbligatoria, con la conseguenza che nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti, a meno che la parte recedente, nell’esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l’efficacia sino al termine del periodo di preavviso. Tale interpretazione corrisponde non solo all’assetto ordinamentale dell’epoca in cui è entrata in vigore la normativa codicistica, nella quale mancava un articolato sistema di tutela della stabilità del posto di lavoro, ma anche a quello attuale, caratterizzato, ogni qualvolta il legislatore ha avuto di mira l’assimilazione di un rapporto di lavoro ad un rapporto stabile ed efficace, dalla previsione di un apparato di misure idonee allo scopo (Cass. n. 11740/07). Esclusa, pertanto, la natura reale del preavviso, si palesa infondata la pretesa del ricorrente di ottenere, oltre all’indennità sostitutiva già percepita, il risarcimento in misura pari al 100% della retribuzione mensile (peraltro non correttamente determinata) per ogni giorno di forzata inattività. Unico ulteriore danno risarcibile come conseguenza del recesso è quello connesso alla perdita del bonus già riconosciuto dall’Inps, a decorrere dall’aprile 2006 e sino al 31 dicembre 2007, in applicazione delle disposizioni di cui all’art. 1, comma dodicesimo della legge n. 243/2004. Tale bonus, per come emerge dallo stesso conteggio allegato al ricorso, ammonta ad € 2.512,50 mensili (mentre è errata la diversa quantificazione operata dal consulente di parte per le ragioni già sopra indicate) e pertanto, moltiplicato detto importo per 19 mensilità (da giugno 2006 a dicembre 2007), compete al ricorrente la complessiva somma di € 47.737,50. Il ricorrente nell’amplissimo atto introduttivo invoca anche il mobbing, ma a disattendere la tesi attrice sono sufficienti due osservazioni. La prima è che la Suprema Corte di Cassazione ha fornito una definizione del fenomeno in questione, affermando che l’illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore consistente nell’osservanza di una condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente (cd. mobbing), rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 del codice civile e può essere realizzata con comportamenti materiali o provvedimentali dello stesso datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata – procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi – considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato (cass. 4774/20006). La seconda è che nei fatti come sopra accertati non si rinvengono le caratteristiche individuate dalla Suprema Corte. La violazione dell’art. 2103 del codice civile e la non giustificatezza del recesso non integrano di per sé il mobbing, mentre nella condotta della società, per come ricostruita, non è certo ravvisabile un atteggiamento persecutorio ai danni del F., anche considerata l’infondatezza di alcune deduzioni (in particolare quelle relative all’asserito carattere discriminatorio ed ingiurioso del recesso) e la condotta tenuta dallo stesso ricorrente a fronte della offerte di nuovi incarichi da parte della società, rimanendo assorbita ogni altra deduzione e respinta ogni pretesa risarcitoria, invero neppure avanzata chiaramente. In conclusione l’E. S.p.A. deve essere condannata a corrispondere al F. la somma di € 170.270,61, quale indennità da licenziamento ingiustificato, nonché l’ulteriore complessiva somma di € 160.940,02 (€ 83.587,24 + € 34.615,26 + € 47.737,50) quale risarcimento per i titoli sopra indicati, il tutto maggiorato di rivalutazione monetaria ed interessi dalla maturazione al saldo. Il parziale accoglimento delle numerose pretese avanzate in ricorso e la condotta processuale del ricorrente che ha anche rifiutato l’offerta conciliativa avanzata dalla società sin dalle prime udienze per € 242.427,20, giustificano la comnpensazione delle spese di lite in ragione della metà, con condanna della società parzialmente soccombente al pagamento delle rimanenti spese liquidate come in dispositivo. Va infine rilevato che per mero errore materiale nella parte precettiva del dispositivo è stato indicato quale nome proprio del ricorrente G. anziché P. come invece correttamente indicato nella intestazione dello stesso dispositivo, che pertanto deve ritenersi corretto in tal senso.

P.Q.M.

ogni diversa istanza, eccezione e deduzione respinta dichiara l’ingiustificatezza del licenziamento intimato al ricorrente e conseguentemente condanna l’E. S.p.A. a corrispondere a F. G. la somma di € 170.270,61 nonché l’ulteriore somma di € 165.940,02 quale risarcimento per i titoli indicati in motivazione, il tutto maggiorato di rivalutazione monetaria ed interessi; dichiara compensate in ragione di metà le spese di lite con condanna dell’E. S.p.A. al pagamento delle rimanenti spese liquidate in € 5.500,00 oltre iva e cpa.

Roma, 13 maggio 2008

Il Giudice del lavoro
Dott.ssa Vittoria Di Sario
Depositato in cancelleria in data 25 giugno 2008

(Torna alla Sezione Mobbing)