Cosa non funziona nelle leggi sul lavoro

 

Riferendosi alla legge 30 sul mercato del lavoro, il presidente di Confindustria Montezemolo ha affermato giorni fa che «tutte le norme che hanno introdotto flessibilità hanno dati eccellenti risultati in termini di sviluppo e di occupazione». Di conseguenza la legge non va toccata. Da parte sua il ministro del Lavoro Cesare Damiano ha ribadito, in varie occasioni, di non avere mai pensato di cancellare o abolire la legge 30. Intende semmai eliminare quegli articoli del suo decreto attuativo, il numero 276 del 2003, che hanno introdotto tipologie di lavoro poco utilizzate o fortemente precarizzanti, quali il lavoro a chiamata e l'affitto di interi gruppi di lavoratori (il cosiddetto staff leasing) da un'agenzia somministratrice ad un'impresa utilizzatrice. Se queste sono le posizioni sui due fronti, il confindustriale e il governativo, viene agevole fare una previsione. Una legge complessiva sul lavoro, di cui i lavoratori non meno delle imprese e della pubblica amministrazione avrebbero estremo bisogno, non vedrà la luce in questa legislatura, in cui poteva essere una grande meta politica e sociale dell'Unione. E molto probabilmente nemmeno nella prossima, che l'Unione potrebbe perdere per vari motivi, compreso quello di non aver fatto una legge sul lavoro capace di scaldare nuovamente i suoi intiepiditi elettori. Una simile legge dovrebbe esser volta a rimettere ordine nella congerie di interventi normativi susseguitisi negli ultimi quindici anni, moltiplicatori di lavori flessibili, di cui la legge 30 è soltanto l'ultimo; a ridare maggior dignità e tutele al lavoro subordinato nel momento in cui esso registra in Italia e nel mondo la massima espansione storica; ma, soprattutto, volta a invertire la concezione stessa del lavoro cui detti interventi si sono ispirati.

L'affermazione per cui una maggior flessibilità del lavoro accelera lo sviluppo e aumenta l'occupazione ricorre da almeno vent'an-ni, impermeabile a qualsiasi obiezione contraria. Di fatto, in Italia come in altri paesi europei la flessibilità in tale periodo, ma soprattutto nell'ultimo decennio, è molto aumentata. Essa, in sostanza, ha voluto dire attribuire alle imprese la facoltà di utilizzare e retribuire la forza lavoro "giusto in tempo", come si fa con i componenti di un'auto; cioè solo quando serve, e solo fintanto che serve. Da cui la moltiplicazione dei contratti a termine di breve durata, dei lavori a tempo parziale, dei lavoratori obbiettivamente subordinati ma formalmente autonomi, come si rileva nel caso di tre quarti almeno delle vecchie collaborazioni continuative, riverniciate dalla legge 30 come lavori a progetto. Intanto che le ricadute effettive sul volume dell'occupazione dipendente, quando si misurino con metodi seri, appaiono prossime a zero. Nel Regno Unito, massimo incubatore di lavoro flessibile sin da tempi dei governi Thatcher, l'occupazione è risultata sì in aumento, ma soprattutto perché i criteri di definizione della condizione di occupato, disoccupato, persona non attiva ecc. sono stati manipolati decine di volte finché le cifre non hanno dimostrato quel che si voleva: l'aumento degli occupati registrati sul totale (manipolato) delle forze di lavoro. Quanto all'Italia, il favoloso aumento di oltre un milione di occupati tra il 2001 e il 2006 vantato dal governo Berlusconi è ascrivibile, dati alla mano, per oltre l'ottanta per cento alla regolarizzazione degli immigrati che già lavoravano come clandestini.

Mentre i suoi effetti sull'occupazione sono a dir poco dubbi, di sicuro la legislazione sulla flessibilità ha prodotto un forte aumento dei lavori recanti a vario titolo una data di scadenza, che gli interessati non sanno mai se e quando verranno rinnovati. Grazie ai quali il reddito individuale e familiare è incerto; le pensioni, in prospettiva, di entità offensiva; cosicché la flessibilità si è trasformata - per parecchi milioni di persone, non per le poche centinaia di migliaia di cui talora si legge - in precarietà dell'esistenza. Se lo sviluppo si misurasse mai non con gli ottusi decimi di Pil, bensì con indicatori più attenti allo sviluppo umano, avrebbe segnato in questi anni un robusto passo indietro. Di fronte alla reale situazione del mondo d'oggi del lavoro subordinato, proporsi di eliminare dal decreto attuativo della legge 30 il lavoro a chiamata e lo staff leasing appare, duole dire, un intervento a corto raggio. Va detto, a giustificazione del ministro del Lavoro, che questo potrebbe anche essere il massimo cui gli è consentito arrivare, data la composizione politica del centrosinistra nella quale l'ideologia neo-liberale, in tema di lavoro e altro, ha un peso non lieve. Ed è anche vero che i due tipi di lavoro in questione, oltre ad essere utilizzati pochissimo, sono tra i più lesivi della dignità, delle tutele sindacali e perfino della libertà personale, nel novero di quelli che le leggi sul lavoro in vigore prevedono. Ma ciò che non va nella legge 30, come in molte leggi precedenti sul lavoro - tra le quali la legge 196 del 1997 (il cosiddetto "pacchetto Treu"), che ha introdotto il lavoro in affitto, e il decreto legislativo 368 del 2001, che ha liberalizzato il lavoro a termine - è la concezione che essa incorpora del lavoro come merce. Tutte queste leggi rientrano infatti in un processo pluridecennale che, con un nome un po' ingombrante ma preciso, viene chiamato rimercificazione del lavoro. È un processo che si osserva a livello europeo, mirante a sovvertire il principio che nel 1944 aveva trovato posto in cima alla Dichiarazione di Filadelfia dell'Organizzazione internazionale del lavoro: «Il lavoro non è una merce». Nei successivi trent'anni, la legislazione sul lavoro dei paesi europei si è impegnata con successo per affermare tale principio. Per contro nei decenni seguenti, in nome della de-regolazione del mercato del lavoro, ha ovunque imboccato la strada opposta, quella che procede appunto verso una ri-mercificazione del lavoro.

Le conseguenze di tale inversione di percorso delle leggi sul lavoro sono sostanziali, sul piano etico, politico, economico e dottrinale (si vuol dire giuslavoristico). Ove si riconosca che il lavoro non è una merce, qualunque intervento legislativo verta su di esso dovrebbe fondarsi sul presupposto che il lavoro è inseparabile dalla personalità, dall'identità, dalla posizione sociale, dalle relazioni familiari e comunitarie, dal diritto alla sicurezza economica e sociale, dal futuro dell'individuo che lo presta. Per contro, se il lavoro è una merce paragonabile a un tavolo, un frigo o un cellulare, che liberamente si vende, si scambia, si affitta, o si getta, tutti codesti predicati della persona, dell'essere umano, diventano irrilevanti, agli occhi del legislatore come per la politica e per l'impresa. Al massimo, se proprio gli va male, si può pensare di aiutarlo a lenire le conseguenze - a ciò servono quelli che con espressione orrenda si chiamano ammortizzatori sociali. Al pari di quella opposta contenuta nella Dichiarazione di Filadelfia, anche questa è un'opzione etico-politica. Si poteva sperare - qualcuno vorrebbe ancora sperare - che il centrosinistra scegliesse di muoversi, nel campo dell'elaborazione di leggi sul lavoro più che del loro ritocco, al lume della prima opzione

 

Luciano Gallino

(fonte: la Repubblica, 19.6.2007, p. 20)

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