Obbligo
di ricollocazione in altre mansioni del lavoratore
colpito da sopravvenuta inidoneità
1.
Premessa
2.
Il vecchio orientamento assertore del libero
recesso ex art. 1464 c.c.
3.
Il nuovo orientamento delle sezioni unite
civili della Cassazione affermato con la sentenza n. 7755 del 7 agosto 1998,
preceduto dalle sentenze nn. 5961 e 7908 del 1997 della sezione lavoro
4.
Le fattispecie esaminate dal nuovo
orientamento ed i conseguenti principi asseriti
5.
Precedenti giudiziari e dottrinali e
considerazioni finali
1. Premessa
Prendiamo
atto, con una non dissimulata soddisfazione, del nuovo orientamento affermato
autorevolmente dalla decisione n. 7755 del 7 agosto 1998 delle sezioni unite
civili della Cassazione (1) che ha
confermato e valorizzato le precedenti, conformi, statuizioni della sezione
lavoro della stessa Suprema corte, di cui rispettivamente alla sentenza 3
luglio 1997, n. 5961 (2) ed alla successiva e quasi coeva del 23 agosto 1997,
n. 7908 (3), entrambe precedute da Pret. Roma 2 dicembre 1996 (4). E’ infatti
da quasi 15 anni – a partire dal nostro commento a Cass. n.140/1983, titolato “Un’opinabile inversione di valori: il
diritto dell’impresa di adibire il lavoratore a mansioni diverse per esigenze
produttive, non corrisposto per il lavoratore in caso di sopravvenuta
menomazione dello stato di salute” (5) - che chi scrive sta sostenendo,
pressoché isolatamente, l’opinione
secondo cui al lavoratore che, durante
lo svolgimento del rapporto, sia incorso in una condizione di inidoneità psico/fisica
parziale (quand’anche definitiva e non temporanea) alle mansioni di assunzione
(o di successiva assegnazione, nei termini ex art. 2103 c.c.), va accordato il
diritto di svolgere mansioni diverse, sempre che siano sussistenti in azienda.
Con la conseguenza che grava sul datore
di lavoro un obbligo di reperimento e di assegnazione delle mansioni più
consone al mutato stato di salute, legittimandosi la risoluzione del rapporto,
per giustificato motivo oggettivo, solo nel caso in cui risulti provato dal datore di lavoro che in azienda non
sussistono, per il lavoratore aggravato in salute, mansioni idonee a tutelare
il suo interesse alla conservazione dell’occupazione (fondato sull’art. 4
Cost.) e il suo diritto, ex art. 2087 c.c., alla salvaguardia dell’integrità
psico/fisica.
Da
ultimo abbiamo riproposto la nostra opinione
in un articolo aggiornato, titolato “Il
diritto alla flessibilità delle mansioni accordato dall’art. 2103 c.c.
all’impresa e negato ai lavoratori colpiti da sopravvenuta inidoneità
psico/fisica”(6), al quale rinviamo il lettore interessato ad
approfondimenti in ordine alla
trattazione della tematica, addizionali agli scarsi accenni che effettueremo in questo breve articolo.
2. Il vecchio orientamento assertore del
libero recesso ex art. 1464 c.c.
La
decisione n. 7755 delle sezioni unite civili (e le precitate, antecedenti,
della sezione lavoro) accolgono la nostra impostazione radicata nel sociale e
nel diritto vivente piuttosto che nell’arido diritto privato delle obbligazioni,
verso il quale hanno mostrato la loro propensione gli estensori della
steorotipata massima sinora imperante – ed attualmente rifiutata dall’odierno
nuovo orientamento che ha inaugurato un nuovo corso giurisprudenziale più
aderente alla scala di prevalenza interna ai diversi valori accolti e tutelati
dalla nostra Costituzione – massima che era divenuta espressione di
sintesi di un vecchio quanto
consolidato principio (che riproponiamo perché se ne colga anche tutta l’intrinseca iniquità) che così
si esprimeva: “La sopravvenuta
impossibilità del lavoratore, per
condizioni fisiche o psichiche, di svolgere le mansioni per le quali è stato
assunto e alle quali è stato in concreto destinato, secondo le esigenze
dell’impresa, costituisce, ove non sia ricollegabile a casi di sospensione
legale del rapporto (art. 2110 c.c.) e si prospetti di durata indeterminata o
indeterminabile, giustificato motivo di recesso per il datore di lavoro ai
sensi della seconda ipotesi dell’art. 3 L. 15/7/1966 n. 604, ancorché il datore
di lavoro medesimo abbia nella propria azienda attività con mansioni confacenti
alle condizioni del lavoratore; invero, salvo il caso di espressa previsione di
legge o di contratto, non ricorre, in via generale, un diritto del lavoratore
al mutamento delle mansioni pattuite, in relazione alle sue condizioni di
salute; la legittimità di tale licenziamento può essere esclusa solo qualora il
lavoratore ne deduca e dimostri la pretestuosità, per avere il datore di lavoro
profittato di quella situazione al fine di recedere ingiustificatamente dal
contratto” (7).
3. Il nuovo orientamento delle sezioni
unite civili della Cassazione affermato con la sentenza n. 7755 del 7 agosto
1998, preceduto dalle sentenze nn. 5961 e 7908 del 1997 della sezione lavoro
Il nuovo orientamento delle sezioni unite
che di seguito illustreremo così, invece, si esprime : “La sopravvenuta infermità permanente e la conseguente
impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di
recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato (artt.1 e 3,
legge n. 604 del 1966 e 1463, 1464 del codice civile), non è ravvisabile nella
sola ineseguibilità dell’attività attualmente svolta dal prestatore, ma può
essere esclusa dalla possibilità di altra attività riconducibile – alla stregua
di un’interpretazione del contratto secondo buona fede – alle mansioni
attualmente assegnate o a quelle equivalenti (articolo 2103 del codice civile)
o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purchè questa attività sia
utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente
stabilito dall’imprenditore”(Cass. sez. un. n. 7755/1998).
Il principio soprariferito può essere più
chiaramente compreso se correlato e “tradotto” dalle tre seguenti massime di
conformi decisioni:
a)
“La sopravvenuta
inidoneità fisica del lavoratore a svolgere le mansioni assegnategli autorizza
il datore di lavoro a recedere dal rapporto, a condizione che egli dimostri, a
norma degli artt. 1464 c.c. e 3 l. n. 604/1966, di non aver alcun interesse
apprezzabile a utilizzare il proprio dipendente in mansioni equivalenti a
quelle precedentemente svolte e compatibili con lo stato di salute del
medesimo; tale onere probatorio si
estende fino alla dimostrazione dell’inesistenza di altra possibile collocazione
equivalente in azienda”(così Pret. Roma, 6.12.1996, cit.);
b)
“Nell’ipotesi di
sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore alle mansioni affidategli,
determinante una parziale impossibilità della prestazione, il datore di lavoro
può, a norma dell’art. 1464 c.c., risolvere il rapporto, ove non abbia un
apprezzabile interesse all’adempimento parziale; tale opzione datoriale,
tuttavia, concretandosi nell’esercizio del potere di licenziamento, va
esercitata nel rispetto dei principi della l. n. 604 del 1966, con particolare
riferimento agli artt. 1 e 3. Ne
consegue che può ritenersi legittimo il recesso del datore di lavoro solo
quando sia provata l’impossibilità di adibire il lavoratore, la cui prestazione
sia divenuta parzialmente impossibile, a mansioni equivalenti e compatibili con
le sue residue capacità lavorative, senza che ciò comporti una modifica
dell’assetto aziendale” (così Cass. n. 7908/1997, cit.);
c)
“E’ soggetto a
responsabilità risarcitoria per violazione dell’art. 2087 c.c. il datore di
lavoro che, consapevole dello stato di malattia del lavoratore, continui ad
adibirlo a mansioni che sebbene corrispondenti alla sua qualifica siano
suscettibili – per la loro natura e per lo specifico impegno (fisico e mentale)
- di metterne in pericolo la salute.
L’esigenza di tutelare in via privilegiata la salute del lavoratore alla
stregua dell’art. 2087 c.c. e la doverosità di una interpretazione del
contratto di lavoro alla luce del principio di correttezza e buona fede, di cui
all’art. 1375 c.c. – che funge da parametro di valutazione comparativa degli
interessi sostanziali delle parti contrattuali – inducono a ritenere che il
datore di lavoro debba adibire il lavoratore, affetto da infermità suscettibili
di aggravamento a seguito dell’attività svolta, ad altre mansioni compatibili
con la sua residua capacità lavorativa, sempre che ciò sia reso possibile
dall’assetto organizzativo dell’impresa, che consenta un’agevole sostituzione
con altro dipendente nei compiti più usuranti. Quando ciò non sia possibile, il
datore di lavoro può far valere l’infermità del dipendente quale titolo
legittimante il recesso ed addurre l’impossibilità della prestazione per
inidoneità fisica – in applicazione del generale principio codicistico dettato
dall’art. 1464 c.c. – configurandosi un giustificato motivo oggettivo di
recesso per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di
essa, e restando in ogni caso vietata la permanenza del lavoratore in mansioni
pregiudizievoli al suo stato di salute” (così Cass. n. 5961/1997,
cit.).
Va
invero detto che non erano mancate marce di avvicinamento dei giudici della
Cassazione verso l’orientamento da noi prospettato e sostenuto sia sulla base del richiamo ad un immanente
dovere dell’impresa, quale comunità intermedia ex art. 2 Cost., di farsi carico
per la sua parte dei problemi che si attualizzano al suo interno (piuttosto che
delegarli alla collettività o allo Stato) ovvero sulla base del dovere morale
di cooperazione affinché, ex art. 4 Cost.,
per ogni cittadino il diritto/dovere al lavoro si attualizzi con un
disimpegno o svolgimento “secondo le
proprie possibilità…”, ovvero ancora invocando una prevalenza dell’art. 32
Cost. in tema di “tutela dello stato di salute”- attualizzato nell’art. 2087
c.c. - sul diritto costituzionale di iniziativa economica e organizzativa
dell’impresa, ex art. 41 Cost., fonte del riconosciuto ius variandi datoriale, per esigenze organizzativo produttive, che
non può che arrestarsi a fronte dei valori della “sicurezza, libertà e dignità umana”(cfr. art. 41 Cost., 2° co.) dai
quali è permeata la fattispecie della sopravvenuta inidoneità incolpevole del
lavoratore ad esplicare le mansioni d’assunzione.
In
particolare la Cassazione avreva lasciato intravedere un obbligo aziendale di
reperimento di mansioni ( o di modalità di disimpegno delle stesse) più consone
al mutato stato di salute, richiamandosi prudentemente al dovere di
cooperazione nell’adempimento della prestazione, secondo buona fede e correttezza
ex artt. 1175 e 1375 c.c., cui è obbligato il creditore-datore di lavoro,
tenuto ad evitare o eliminare gli effetti di eventuali ostacoli nell’esecuzione
dell’obbligazione del lavoratore.
Al
riscontro di questi, ancor prudenti e timidi segnali, nel commento ad una
sentenza (8) concludemmo “auspicando ed
attendendo maggiori e più coraggiose progressioni della magistratura di
legittimità…affermando al tempo stesso che le idee ispirate al reale
solidarismo e rispetto dell’uomo, si fanno strada nella coscienza dei giusti e
si affermano, sia pure con lentezza e gradualità apparentemente eccessiva per
le menti più aperte e sensibili, ma in realtà in tempi corrispondenti al
processo di maturazione culturale delle componenti strutturali della nostra
società”(9).
4. Le fattispecie esaminate dal nuovo orientamento ed i conseguenti principi asseriti
Possiamo
dire che le decisioni della Cassazione, sezione lavoro, n. 5961/1997 e n. 7908/1997 (e di Pret. Roma 2.12.1996,
cit.) e infine quella del 7 agosto
1998, n. 7755 della Cassazione, sezioni unite, rispondono al sopracitato
auspicio.
Nella prima decisione (n. 5961/1997) riguardante una
fattispecie relativa ad un lavoratore, in età non più giovanile, colpito, in
dipendenza da stress causato dall’impegno lavorativo e dalle condizioni di
espletamento della prestazione -
dipendenza o causalità accertata da consulenza tecnica d’ufficio - da infarto miocardico, la Cassazione ha
asserito che l’art. 2087 c.c., che tutela, nell’ambito dell’organizzazione
dell’impresa, il bene della salute psico/fisica protetto dall’art. 32 Cost., fa
si che, anche nel caso in cui la sopravvenuta inabilità non sia riconducibile
ad infortunio sul lavoro (che postula la c.d.”causa violenta” che determini una
brusca rottura dell’equilibrio organico e non un evento lesivo costituente
l’effetto lento e progressivo di condizioni gravose di lavoro che abbiano
minato gradualmente l’organismo del prestatore, come nella fattispecie
esaminata), sorga a carico del datore di lavoro una responsabilità risarcitoria per c.d. “danno biologico”, nel caso in cui
non provveda ad adibire il lavoratore (cioè a spostarlo) a mansioni più
confacenti con il suo minorato stato di salute, tali da precludere un
aggravamento della salute medesima.
L’obbligo datoriale
sussiste compatibilmente con la sussistenza di posizioni di lavoro
confacenti in azienda per il lavoratore
inabile – ivi inclusa la sostituzione nei compiti più usuranti con altro
lavoratore più idoneo dal punto di vista dello stato salute - senza naturalmente
che la stessa azienda sia costretta a creare
per l’inabile una posizione non necessaria dal punto di vista
organizzativo e produttivo.
E la Suprema corte giunge a queste conclusioni adducendo che
“i principi di correttezza e di buona
fede che devono presiedere all’esecuzione del contratto di lavoro ai sensi
dell’art. 1375 c.c., richiedono – in ossequio a quanto imposto dall’art. 2087
c.c. – che il datore di lavoro, a conoscenza di un’infermità del lavoratore
incompatibile con le mansioni affidategli, deve mettere in atto tutte e misure
a tutela dell’integrità psico/fisica del suo dipendente, incorrendo
conseguentemente in responsabilità per danni alla salute che il dipendente
stesso abbia subito per essere stato indotto a continuare un’attività lavorativa
che, per la sua natura e le concrete modalità di svolgimento, sia suscettibile
di determinare un aggravamento delle sue già precarie condizioni di salute”.
La decisione n. 7908 dell’agosto 1997, è pervenuta alle stesse conclusioni – in
altra fattispecie di operaio addetto
alle mansioni di carico e scarico cui era divenuto inidoneo – argomentando
dallo “obbligo di salvaguardia del posto
di lavoro che trova il suo fondamento nei principi basilari della Costituzione
(artt. 1, 3, cpv.4, 35) – di cui la regola della collocazione alternativa del
lavoratore (c.d. repechage, n. d. r. ) non
più utilizzabile nel ruolo svolto è diretta applicazione – che rimane eguale,
sia che il potere risolutorio derivi da scelte imprenditoriali, sia che tragga
origine da un evento attinente alla capacità produttiva del lavoratore. Naturalmente l’obbligo di ricollocazione
rimane limitato al concreto assetto aziendale non imponendo, per il suo
adempimento, anche un obbligo di modifica dello stesso” (assetto aziendale,
n.d.r.).
Infine le sezioni unite hanno ricomposto tutti tasselli dell’intero mosaico argomentativo
asserendo che l’art. 3 della L. n. 604/1966 è una specificazione – e non una
deroga - nel campo del diritto del
lavoro, degli artt. 1463 e 1464 c.c. afferenti, rispettivamente,
all’impossibilità totale e parziale di adempiere. Specificazione che ha
comportato l’obbligo di repechage (ovverosia
di reperimento in ambito aziendale di posizioni di lavoro o mansioni
alternative) nel caso in cui il datore di lavoro intenda procedere al
licenziamento per giustificato motivo oggettivo (cioè per “ragioni inerenti
all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare
funzionamento di essa”). E, nel caso del lavoratore colpito da sopravvenuta
inidoneità psico/fisica parziale, tali mansioni andranno ricercate
primariamente tra quelle equivalenti a quelle di ultima assegnazione, in
conformità all’art.2103 c.c., ma – in carenza – anche tra quelle inferiori,
legittimandosi l’assegnazione ad esse in ragione della prevalenza del bene
dell’occupazione su quello della conservazione di una professionalità (oramai
vanificata dalla menomazione o dall’infermità) non più sussistente. Solo in
caso di inesistenza reale in azienda di mansioni utili per l’impresa nelle
quali occupare il lavoratore minorato, il datore di lavoro avrà titolo e
legittimazione per la risoluzione del rapporto di lavoro, inesistenza della cui
prova il datore di lavoro è
onerato a fronte di
contestazioni del prestatore di lavoro. Le sezioni unite giungono a queste
conclusioni, fondandosi sul seguente ‘nocciolo’ argomentativo: “Nel rapporto di lavoro subordinato la tutela
dell’interesse del lavoratore all’adempimento trova il suo fondamento nei
richiamati artt. 4 e 36 della Costituzione e serve quale criterio di
interpretazione e di determinazione secondo buona fede degli effetti del
contratto, il quale dà luogo non solo ad un rapporto di scambio ma inserisce il
prestatore nella comunità d’impresa e destina la sua prestazione
all’organizzazione produttiva. Ne discende che l’evento impeditivo, quale la
sopravvenuta inidoneità ad una certa attività, deve
essere valutato, quanto alle
sue conseguenze, in relazione agli obblighi di cooperazione dell’imprenditore-creditore, così tenuto non
soltanto a predisporre gli strumenti necessari all’esecuzione del lavoro ma
anche ad utilizzare appieno le capacità lavorative del dipendente nei limiti
dell’oggetto del contratto, ossia nei già detti limiti posti dall’art. 2103 del
codice civile.
Ciò induce a non
accogliere la tesi secondo cui, divenuta parzialmente impossibile la
prestazione lavorativa, il residuo interesse all’adempimento debba essere
apprezzato soggettivamente – senza alcuna possibilità di controllo da parte del
giudice, interprete del contratto – dall’imprenditore-creditore, a cui
spetterebbe perciò un diritto potestativo di recesso, con la corrispondente
situazione di mera soggezione del lavoratore. Ammesso che l’infermità dia
sempre luogo ad un’impossibilità parziale e non anche, talora, ad un semplice
mutamento qualitativo della prestazione, è da osservare che la tesi
dell’apprezzamento soggettivo di tale interesse è stata seguita in
giurisprudenza con riferimento a contratti di scambio, quale la vendita…, ma
non è sostenibile per il contratto di lavoro, ove l’oggetto della prestazione
coinvolge la stessa persona umana ed ove i già richiamati valori costituzionali
impongono una ricostruzione dei rapporti d’obbligazione nell’ambito
dell’organizzazione dell’impresa e secondo la clausola generale di buona fede,
tale da attribuire con diversi criteri gli obblighi di cooperazione all’imprenditore.
Sarà perciò il
giudice di merito che, avuto riguardo alle residue capacità di lavoro del
prestatore ed all’organizzazione dell’azienda come definita
insindacabilmente dall’imprenditore,
valuterà la persistenza dell’interesse alla prestazione lavorativa, secondo
buona fede oggettiva”.
Sono le medesime conclusioni cui eravamo giunti – sebbene
con differenti argomentazioni - - noi
stessi (nei citati articoli del 1983 e del 1996) quando, criticando il vecchio
orientamento, asserimmo che “Le
conclusioni raggiunte dall’orientamento rigorista, su di un piano di stretto
diritto privato, vanno pertanto armonizzate con i principi pubblicistici in
tema di promozionalità e difesa dell’occupazione (art. 4 Cost.), di non
emarginazione e di integrazione sociale, di non colpevolizzazione delle
minorazioni e delle flessioni dello stato di salute, principi tutti implicanti
l’adattamento della prestazione – nei limiti di un riscontro organizzativo –
alle mutate condizioni di salute del lavoratore. Il che significa che l’azienda
non dovrà certo creare – per mero assistenzialismo – posizioni superflue ma
che, al verificarsi dell’evento della “inabilità parziale”, essa dovrà
verificare al suo interno se sussistono
effettive incombenze o posizioni di lavoro compatibili con la menomazione ove
egualmente impiegare, con apprezzabile proficuità, il lavoratore medesimo e,
correlativamente dimostrare, nel caso di ricorso al licenziamento per
g.m.o., che esso si è imposto, quale
extrema ratio, per l’assenza di alternative. In tal modo – e secondo noi
correttamente – viene inserita una così delicata fattispecie nell’orientamento
postulante il repechage, prima dell’estromissione
dall’azienda, orientamento consolidatosi …per legittimare, in caso di
ristrutturazioni aziendali, il licenziamento per l’identica causale del
giustificato motivo oggettivo”.
In buona sostanza sarà l’azienda a dover dimostrare, come in
tutti i casi di licenziamento per g.m.o., l’impossibilità di riutilizzo del
lavoratore in altre mansioni - primariamente equivalenti ex art. 2103 c.c. e,
secondariamente, attesa l’oramai intervenuta legittimazione (10) di pattuizioni
di “declassamento concordato o consensuale” (al solo scopo di evitare il
licenziamento) - in mansioni anche non equivalenti ed inferiori ma suscettibili
di salvaguardare il bene dell’occupazione
(più che lo stato di salute), potendo l’imprenditore – secondo le
sezioni unite – rifiutare l’assegnazione a mansioni equivalenti (o anche
inferiori) quando ciò “comporti aggravi organizzativi ed in particolare il
trasferimento di singoli colleghi dell’invalido”, precisazione quest’ultima che
non inficia assolutamente la posizione della sezione lavoro che aveva suggerito
lo spostamento dell’invalido da attuarsi anche secondo turn-over nelle mansioni di colleghi meno usurati (così Cass. n.
5961/1997).
Le sezioni unite, richiamando ed aderendo ad una prevalente
giurisprudenza in tema di “dequalificazione consensuale”, implicitamente sembrano
richiedere che l’assegnazione a mansioni inferiori dell’invalido avvenga previo
consenso del lavoratore (o anche dietro assegnazione unilaterale seguita
tuttavia da esplicita accettazione). Da parte di uno dei primi commentatori della decisione in questione (11) si è
obiettato che:” In questa maniera,
tuttavia, richiamando l’importanza dell’accordo del lavoratore sulla
dequalificazione, le Sezioni unite giungono ad abrogare direttamente una
precisa disposizione di legge, secondo la quale (articolo 2103 del codice
civile, ultimo capoverso) ‘Ogni patto contrario è nullo’. Una via più diritta
per giungere a superare quello che, ancor oggi, costituisce un vero sbarramento
alla condivisione della soluzione delle sezioni unite, sarebbe stata quella di
denunciare questa disposizione dell’art. 2103 del codice civile (interpretata
rigidamente) alla Corte costituzionale come sospetta di incostituzionalità (in
relazione agli articoli, 1,3,4,35,36, della Costituzione). In tale denuncia di
incostituzionalità, si sarebbe potuto opportunamente sottolineare come una
interpretazione rigida della norma, approvata per tutelare le condizione del
lavoratore, finirebbe – seppure solo in qualche caso – per tradursi in una
disposizione contraria alle esigenze di dignià e libertà che la legge del 1970
intendeva originariamente tutelare”.
L’osservazione è in parte condivisibile, ma solo in parte
giacchè il ricorso alla Core costituzionale va praticato quando il magistrato
non riesce a trovare un’interpretazione plausibile della norma che si sottragga
al vizio di incostituzionalità. Anche noi stessi, in via subordinata, in
carenza di una soluzione quale quella prospettata dalle sezioni unite (ed in
precedenza dalla sezione lavoro) avevano prospettato l’ipotesi della denuncia
di incostituzionalità dell’art. 2103 c.c., sebbene per motivi leggermente
diversi (o complementari) rispetto a quelli suggeriti dal precitato autore.
Avevamo infatti ipotizzato – negli articoli del 193 e del 1996, già citati - il
contrasto con l’art. 3 Cost. da parte dell’art. 2103 c.c. che, se interpretato
rigidamente nel senso di accordare solo
al datore di lavoro lo ius variandi
per esigenze produttive negandolo al prestatore di lavoro infirmato nello stato
di salute ed impossibilitato a permanere nelle ultime mansioni, avrebbe comportato l’effetto di “privilegiare un
cittadino(datore di lavoro) titolare del diritto di libertà ed iniziativa
economica (ex art. 41 Cost.) a danno di un altro cittadino (prestatore di
lavoro) parimenti titolare di altri diritti di rango costituzionale, quale
quello “al lavo secondo le proprie possibilità…” (ex art. 4 Cost.) e alla
“tutela della salute” (ex art. 32 Cost.), inibendo ( o non contemplando) per
quest’ultimo la corrispondente sperimentazione di soluzioni di mobilità in altre
mansioni su richiesta individuale fondata sull’infirmazione dello stato di
salute”.
5. Precedenti giudiziari e dottrinali e
considerazioni finali
Le soprariferite affermazioni di principio sono peraltro
conclusioni che, sia pure isolatamente, si erano potute reperire:
a)
in talune vecchie
decisioni del Tribunale di Milano (12) che avevano rispettivamente affermato
che “il datore di lavoro – a tutto
concedere – ha l’obbligo di adibire il dipendente divenuto inabile a mansioni confacenti che siano esistenti,
non quello di creare un posto insistente”, e che “è da ritenersi legittimo il licenziamento per sopravvenuta
impossibilità della prestazione per inidoneità fisica, ove non esista in
azienda una tipologia di mansioni compatibili con l’infermità fisica e col
livello professionale del lavoratore”;
b)
nonché nella più
recente decisione del 30.4.1996 del
medesimo Collegio (13), secondo cui: “Per
valutare l’interesse all’adempimento, la cui mancanza giustifica il recesso ai
sensi dell’art. 1464 c.c.(per la sopravvenuta invalidità parziale, n.d.r.) si deve tener conto in particolare della
speciale tutela che la legge n.604/66 garantisce al lavoratore. Tale norma
impone la verifica della giustificatezza del recesso non solo sotto il profilo
delle obiettive esigenze tecnico produttive dell’impresa, ma altresì sotto il
profilo della sua adeguatezza, nel contemperamento degli opposti interessi;
fino a rendere doverosa la dimostrazione da parte del datore di lavoro delle
ragioni ostative a un utile impiego del lavoratore in mansioni diverse da
quelle parzialmente divenute impossibili”.
Riteniamo che non sarà davvero facile per le
imprese di medio-grandi dimensioni dimostrare di non aver la possibilità del
riutilizzo confacente del lavoratore divenuto inidoneo in corso di rapporto -
per malattia o infortunio in congiunzione con la progressione in età - alle
mansioni da ultimo disimpegnate. Ma,
d’altra parte, anche questi sono i prezzi di un’operazione di coerenza – in
ordine all’obbligo di repechage prima
di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo – che non
poteva ulteriormente tardare, considerata l’incongruenza del previgente assetto
(legittimata dal vecchio orientamento in tema di libero recesso per
sopravvenuta inidoneità) correttamente denunciata anche dal Presidente del
Tribunale del lavoro di Milano, Dr. Mannacio (14) secondo il quale:”non è rilevabile una plausibile ragione per
trattare diversamente le varie ipotesi di giustificato motivo oggettivo quanto
al repechage: dunque sembrerebbe più razionale o escludere sempre tale obbligo
o ammetterlo sempre”. Con ciò mostrando altresì di considerare illogica e
insuscettibile di giustificare trattamenti discriminatori – a differenza di
quanto lumeggiato da taluno –
quell’impostazione che vorrebbe
differenziare il giustificato motivo
oggettivo che trova origine nell’ambito dell’impresa (esubero di personale o
soppressione di posto di lavoro) da quello che si attualizza per situazioni
incolpevoli verificatesi nella sfera del lavoratore (inidoneità fisica),
giacché finalisticamente entrambi confluiscono nell’unitario concetto legale di
cui all’art. 3 L. n. 604/’66 che contempla il licenziamento per “ragioni
inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare
funzionamento di essa”.
Va dato altresì conto, a conclusione, di un recente orientamento della Cassazione, manifestato nella decisione del 5 agosto 2000, n. 10339 ( inedita allo stato) secondo cui: "Il lavoratore certificato parzialmente inidoneo alla mansione - nella fattispecie di operatore unico aeroportuale, caratterizzata intrinsecamente e principalmente dal carico e scarico bagagli e zavorra - non può pretendere di permanere nella stessa mansione venendo esonerato dal compito principale e gravoso del carico e scarico, eventualmente eliminabile dall'azienda con l'adozione, non già di mezzi in dotazione, ma di strumenti ad hoc offerti dalle nuove tecnologie, non essendo configurabile un obbligo dell'imprenditore di acquistarli ed adottarli per porsi in condizione di cooperare all'accettazione della prestazione lavorativa di soggetti affetti da infermità, che vada oltre il dovere di garantire la sicurezza imposta dalla legge (d.lgs. n. 626/'94). In caso di impossibilità sopravvenuta parziale della prestazione, sussiste invece - come affermato da Cass. sez. un. n. 7755/'98, di cui si condivide l'orientamento - il diverso diritto di assegnazione a mansioni diverse ed equivalenti (sempreché sussistenti in azienda) ed anche inferiori, dietro manifestazione di consenso del lavoratore alla dequalificazione finalizzata alla salvaguardia del superiore interesse dell'occupazione, per la cui richiesta al datore di lavoro anche il lavoratore deve attivarsi precisando le residue attitudini professionali tali da rendere possibile all'azienda una diversa collocazione all'interno".
(pubblicato,
senza gli attuali aggiornamenti, in Lav.
prev.oggi 1998, n. 11,
p.2059 come nota a Cass. sez. un. 7 agosto 1998, n.
7755)
NOTE
(1) In Lav.prev.oggi
1998, pag. 2012.
(2) In Lav. prev. oggi, 1997, 2375 con commento di M. Meucci a p. 2398.
(3)
In Mass. giur. lav. 1997, 871 con nota di Riccardi
(4) In Riv. it. dir. lav. 1997, II, 817, con
nota di Caro.
(5) In Giust. civ. 1983, I, 3037.
(6) In D&L, Riv. crit. dir. lav. 1996, 35.
(7) Così Cass. n.1556/1976, e, recentemente,
conf. Cass. 20.3.1992 n. 3517, in Mass.
giur. lav. 1992, 210; Cass. 18.3.1995, n. 3174, in Giur. it. 1995, I, 1, 1635 e in Lav
giur. 1995, 860; Cass.2.4.1996, n. 3040, in Not. giurisp. lav. 196, 618; Cass. 6.11.1996 n. 9684, in Mass. giur. lav. 1996,768 ed ora anche
in Riv. it. dir. lav. 1997,I, 612 con
nota di Campanella, dal titolo Sul
licenziamento per sopravvenuta inidoneità psico-fisica del lavoratore,
nella quale l’autrice, nell’esaustiva riproposizione della problematica, si
affianca a noi nell’evidenziare la contraddizione del pregresso, dominante,
orientamento inspiegabilmente negatore dell’obbligo datoriale di repechage alla
fattispecie del licenziamento per g.m.o. dell’inabile per sopravvenuta
infermità.
(8) Trattavasi di
Cass. n. 8152/ 1993, in Mass. giur. lav.
1994, 63.
(9) Così in D&L, Riv. crit. dir. lav. 1996, 42 e ss.
(10) Cfr., ex
plurimis, Cass. 7.9.1993, n.9386, in Mass.
giur. lav. 1993, 639 con nota di Riccardi.
(11) C. Filadoro,
“Repechage” del lavoratore:le sezioni
unite risolvono il contrasto?, in Guida
al lavoro 1998, n.39, 32 e ss.
(12) Vedi Trib Milano 27.3.1979, in Not. giurisp. lav. 1979, 388 e
30.1.1982, in Or. giur. lav. 1982,
457.
(13) Vedi Trib.
Milano 30. 4. 1996, in Lav. giur.
1996,764.
(14) Nell’articolo “Malattia e inidoneità permanente alle mansioni” in Dir. prat. lav. 1992, 1518.
(15)
Così Mammone, nella sottonota 1) della nota titolata “Riduzione della capacità lavorativa e accertamento dello stato di
inidoneità fisica”, in Riv.
it.dir.lav. 1998, II, 532:
(16)
Vedi P.Scognamiglio, “Sopravvenuta
inidoneità fisica del lavoratore e mutamento delle mansioni”, in Mass. giur. lav. 1998,438.
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