Il dramma del lavoro (che non c’è) tra disoccupazione vera e provocazioni intellettuali

 

Sommario:

1.      Storie di disoccupazione vera

2.      Provocazioni intellettuali

3.      Lavoro interinale:gli entusiasmi scriteriati dei neofiti

4.      Il reale significato ed i sottostanti obiettivi del lavoro interinale

5.      Conclusioni

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1. Storie di disoccupazione vera

Abbandoniamo per un momento il terreno strettamente giuridico per svolgere talune considerazioni d’attualità – o come si direbbe, sociologiche – sul tema della disoccupazione (e degli scarsi rimedi approntati dai nostri tecnici entrati in politica), disoccupazione che attanaglia i nostri giovani, mai entrati nelle aziende ed i meno giovani espulsi dal loro ciclo produttivo nell’attuale situazione di recessione. Per comodità e documentazione del lettore, prendiamo spunto da talune missive comparse, nel mese di marzo 1998, sul quotidiano «La Repubblica», nella rubrica «Lettere» a cura di Barbara Palombelli, costituenti veri e propri appelli drammatici contro il morso della disoccupazione giovanile che affligge il nostro Paese. La prima (titolata «Aiutateci a uscire dalla disoccupazione», comparsa il 1 marzo ‘98 nella citata rubrica) scritta e inviata da Francesca di Mattia, di cui riferiamo per significatività, i passi più salienti, afferma: «Cara Barbara… è già passato un anno…dall’urlo lanciato in queste pagine contro la disoccupazione. Cosa è accaduto? Sono ancora senza lavoro, come le persone che mi hanno contattato, numerose e arrabbiate quanto me. Ci siamo incontrati, scontrati sfogati. Abbiamo speso  tempo, soldi, energie per uscire in modo costruttivo da questa assurda ingiustizia; ci siamo dati da fare con il ministero del lavoro, i comuni, le regioni…ed il risultato è che per adeguarci ad un sistema che ci vuole manichini in affitto e acrobati della precarietà, ci siamo trovati di fronte ad un muro invalicabile, una burocrazia feroce, un’ipocrisia spudorata. Siamo stanchi, Barbara, di sentirci in colpa per non avere un lavoro che sarebbe nostro diritto (oltrechè un dovere). Siamo stanchi di veder esibiti miliardi per la formazione – mai spesi, tra l’altro – quando oramai non abbiamo più bisogno di essere formati…ma di lavorare e guadagnarci il pane. Siamo stanchi di sentirci dire che dobbiamo diventare  degli imprenditori quando il nostro iter formativo e il nostro modo di essere - nella maggior parte dei casi – non lo consentono. Siamo stanchi di continuare a lavorare gratis presso aziende, ministeri, biblioteche e università. Siamo stanchi di rischiare la salute psichica e fisica per doverci confrontare ogni giorno con il vuoto, con un che di intangibile e sfuggente che annichilisce anche i più forti. Siamo stanchi di vedere assunti i soliti noti. Siamo stanchi di sentirci chiamare mammoni da tuttologi pronti per l’uso, quando non  abbiamo la possibilità di scegliere fra uscire di casa o no: è tutto un grande equivoco, un comodissimo alibi per farci star zitti e non pensare in modo serio alla cultura del lavoro. Solo che i responsabili di questa situazione ci fanno credere il contrario. Ma adesso basta.

Un’ultima cosa ho da dire ai responsabili di questo sfacelo: state massacrando un’intera generazione ( e forse più d’una), ma non è finita qui. Oggi urlo ancora, e voglio che mi sentiate bene: dopo un anno continuo a essere disoccupata, ma mio malgrado e a volte contro la mia stessa volontà, ancora viva “.

La seconda (titolata «Ammalati di disoccupazione a trent’anni», apparsa il 5 marzo ‘98) è di Federica Ciuchi e recita: «Spesso leggo le lettere che compaiono su  ‘Repubblica’ e rimango colpita soprattutto da quelle che riguardano persone laureate, in alcuni casi con dottorato di ricerca, che non trovano lavoro o comunque devono affrontare una situazione di precariato…Ho alcune amiche che come me hanno scelto…l’Università e vivono nell’incertezza. Spesso si deve accettare di  andare  all’estero e separarsi dalle persone care. Io sono sempre in treno (con i disagi che questo comporta) ed almeno due volte al mese saluto qualcuno che parte. Con chi non riesco a vedere mi mantengo in contatto tramite e-mail. Assurdo? Vedo gente strutturata che si permette di non fare nulla tutto il giorno e quando provo a lamentarmi delle integrazioni che vengono loro date, mi sento rispondere che hanno famiglia. Quasi noi potessimo permettercela una famiglia! Ma quello che mi fa arrabbiare ancora di più sono certi articoli che compaiono sui giornali, che descrivono i trentenni di oggi come dei molli che non sanno rendersi indipendenti da casa…Io per mia fortuna vivo fuori casa, però arrivo al punto a volte di decidere di non comprare alcune cose cui tengo (tipo il giornale) per risparmiare».

La terza (titolata «Una laurea, tante ricerche, nessun lavoro», comparsa l’11 marzo ‘98), scritta da Paola Grillotti, asserisce: «Gentilissima Barbara, dopo aver letto la lettera di Federica Ciuchi…mi sono decisa a scrivere. Anch’io sono una laureata…che incontra grandi difficoltà a trovare un lavoro. Soltanto che ormai ho 34 anni ; da una parte mi sento dire che posso scordarmi il posto fisso poiché l’orientamento del mondo del lavoro è cambiato: ben venga il cambiamento, dico io, purchè si lavori! D’altra parte mi sento anche dire che, oramai a 34 anni, non posso certo pretendere di trovare lavoro. Non parliamo poi di quanti ‘curricula’ ho inviato per posta, rispondendo alle inserzioni pubblicate sui giornali, spesso con grandi sacrifici dal momento che molti inserzionisti richiedono l’invio del curriculum per espresso o via fax. Come diceva Federica, ci si trova a dover risparmiare su tutto, alcune volte anche su ciò che si mangia. E anche a me manda in bestia sentire che noi giovani trentenni ci possiamo permettere di non andare a vivere da soli, invece di vivere con mamma e papà; ebbene, io non ho neanche questa fortuna, dal momento che la vita ha portato via mio padre all’età di 49 anni e mia madre all’età di 56 anni. Così adesso sono ospite di una sorella, ma non so per quanto. Alla morte di mia madre ho bussato a non so quante porte. E questa maledetta situazione compromette anche la vita sentimentale, la possibilità di farmi una famiglia e avere dei figli. Ma quando riuscirò ad avere figli? Forse a 80 anni? Alcune volte riesco a stupirmi di quanta energia ancora, nonostante tutto, riesco ad avere, anche se non mancano dei periodi di depressione; d’altronde penso che nella mia situazione non ci si può permettere neanche di stare male, altrimenti non si può lavorare.»

Una quarta di Vega Bruni (titolata "Ecco il mio calvario per un lavoro", pubblicata l'8 settembre 1999), così recita: " Non ho mai scritto una lettera ad un personaggio importante, sono sempre stata pressoché certa che è inutile, perché le parole di cui sono capace non sono adeguate ad esprimere il mio profondo disagio di persona "flessibile", che lavora in schiavitù ottenendo una paga sì e no solo per tre mesi l'anno e per il resto fa la fame perché non sia mai avere i requisiti per l'indennità di sopravvivenza! Dal '92 conduco questa vita, anno "disgraziato"(ma per chi?), anno nel quale, con gravosi sacrifici dei miei genitori e miei,  ho ottenuto una inutile laurea in scienze geologiche…che anziché aprirmi le porte al mondo dell'indipendenza mi ha solo segato le gambe avendomi fatto perdere del tempo prezioso. Ho fatto tremila lavori, naturalmente anche in campi diversi dal mio, tutti "a termine" e quasi tutti con retribuzioni da fame. Nessuno si è sognato mai di versarmi i contributi, trincerandosi, al limite, dietro una ritenuta d'acconto. Leggo i giornali e mi sento tacciare per la trentenne mammona che sta ancora a casa perché è comodo, mentre per necessarissime ragioni personali vivo da sola da anni con terribili difficoltà (e non sono assolutamente la sola). Passa il tempo e ho superato i fatidici 32 anni, età dopo la quale ti "crocifiggono" le aziende private perché non possono farti il famigerato contratto "formazione lavoro"; passa il tempo e sbuca fuori la legge che sì, non ci sono più limiti di età nei concorsi, ma a parità di punteggio passa il più giovane! Cerco di riconvertirmi (33 anni!) e scopro che i corsi gratis per i disoccupati sono quasi tutti under 25! Che fatica trovarne uno! Potrei andare avanti ma evito. Sono tutte conseguenze del fatto che sono costretta a dovercela fare da sola con le forze mie (cioè non ho"padrini") e metà della mia vita se ne va così, tutta la mia potenzialità resta sprecata e mi sento dire "abbi pazienza, vedrai". Nessuna frase di compatimento, non voglio nessun incoraggiamento, voglio che lo Stato adotti delle vere misure urgenti senza uscirsene più con lavori socialmente utili e affini, ma, tanto per incominciare, concedendo sgravi fiscali alle aziende che assumono i disoccupati a lunga durata punto e basta, senza guardare l'età, perché è giusto così! Notizia fresca: oggi ho scoperto che se voglio ottenere l'abilitazione all'insegnamento (che diventerà obbligatoria per accedere alle scuole private e che serve da morire se vuoi essere chiamato nelle scuole statali), a parte il concorsone al quale accederanno milioni di persone, è finalmente partito un corso di specializzazione universitario, a numero chiusissimo, per accedere al quale c'è la solita selezione, ma al costo di £. 100.000! Quando mai si fa pagare così salata una selezione? Mica te le restituiscono se non ti ammettono. E due milioni l'anno per due anni da dove li tiro fuori?. Ma lei di tutto questo che ne pensa?"

Altri  giovani invece (come si desume dalla lettera di Enzo Onofri «Mi ha per l'economia italiana inno chiesto il sangue…» pubblicata sulla rubrica «lettere» del periodico ‘Lavorare’ del 16 marzo ‘98) vengono  ignobilmente raggirati e strumentalizzati con la prospettiva di un lavoro per conseguire obiettivi diversi. Racconta Enzo: «Sul vostro settimanale, verso la fine di ottobre, venne pubblicato un annuncio in cui veniva richiesta la figura professionale di un impiegato amministrativo contabile, da parte di una società (di cui viene indicato il nome e l’indirizzo, n.d.r.). Spedita la domanda, venni contattato telefonicamente per concordare la data del colloquio…prima di concludere la conversazione mi viene chiesto se ero donatore di sangue. Risposi di sì (lo sono realmente) anche se la domanda mi lasciò perplesso…Quando venni ricevuto dalla titolare di quella società, la signora L.F.N. volle prima la conferma del fatto che fossi donatore, poi mi parlò superficialmente della figura professionale richiesta, e infine mi disse che il giorno 24 novembre ci sarebbe stata la prova scritta in un albergo di Roma. Dopo di ché mi mise al corrente di un suo problema familiare: la madre era ricoverata nel reparto di otorinolaringoiatria dell’ospedale Forlanini e aveva urgentemente bisogno di sangue. Mi disse anche che non avrebbe voluto conoscere la mia decisione perché tutto stava alla mia coscienza di uomo. Mi recai al Forlanini…ma la donazione non riuscii a farla perché il valore della transaminasi risultò troppo alto (ma la mia presenza in ospedale è documentabile)…Da allora non ho avuto più contatti con quella società. Al di là della comprensione per i drammi familiari, certe cose vanno denunciate perché non si può prendere in giro chi è alla ricerca di un lavoro. Da allora la rabbia non mi è passata…».

In presenza di queste storie di nera disoccupazione e di ignobili raggiri a danno di giovani in cerca di un posto di lavoro, che lamentano di essere trasformati dalla vigente legislazione in «manichini in affitto e acrobati della precarietà» – storie che  inducono alla più profonda meditazione e che abbiamo deliberatamente riproposto tramite la pubblicazione integrale delle lettere che le raccontano in prima persona perché qualsiasi addizionale commento risulterebbe inadeguato o superfluo –  capita, invece, di  essere colti da moti di rabbia, imbattendosi in analisi di giornalisti divulgatori delle posizioni imprenditoriali o di  tesi intellettualoidi di soggetti che, come si è soliti dire efficacemente, predicano e sbandierano ricette liberiste «tenendo il cuore a sinistra ed il portafoglio a destra».

 

2. Provocazioni intellettuali

La penultima volta che abbiamo provato una forte irritazione  è stata quando di fronte all’approvazione, nell’ambito del c.d. “pacchetto Treu” della legge sul “lavoro interinale” o “leasing di manodopera”– che chi scrive considera legge introduttiva di soluzioni di massimo precariato giovanile, in quanto istituzionalizza il “lavoro a saltimbanco” da un’azienda all’altra, privando i nostri giovani di qualsiasi naturale aspettativa di progressione di carriera e compiacendoli solo di consentire loro di “guadagnarsi la giornata” come i coglitori extracomunitari di pomodori in Campania – il giornalista Alberto Orioli (in un articolo su “Il Sole-24 Ore” del 19 giugno ’97 dal titolo “La flessibilità reticente”) aveva avuto l’improntitudine di accogliere non già con enfasi questa  significativa vittoria imprenditoriale  della “flessibilità in entrata”, ma di valutare le garanzie, opportunamente apposte dal legislatore ad un provvedimento culturalmente scardinante, quali nei e limiti, all’insegna dell’arrogante convincimento per cui non basta vincere ma si deve stravincere e, possibilmente, mortificare gli avversari. Giungendo, in tale ottica ed in termini calcistici, così ad asserire: “c’è ancora molto ‘catenaccio’, qualche difetto di fantasia negli attaccanti, molte chiusure in difesa, pochi slanci nelle mezze ali. E’ una legge che ancora pensa al lavoro come un’entità a se non generata dall’impresa, anzi, se possibile, ad essa contrapposta…”.”E’ la flessibilità normata…inevitabile tributo alla coesione sociale dove non tutti i sindacati…sono persuasi della bontà della deregulation (ci mancherebbe altro! n.d.r.)…;è come avere comprato l’automobile nuova e girare con il freno a mano tirato”, affermando tuttavia che la legge comporta un effetto benefico, di non poco conto, in quanto “salta…quell’ostilità ideologica, retaggio di un’Italietta agricola e bracciantile del dopoguerra…; c’è da sperare nell’effetto-valanga, una volta che  sia appurato  che questo strumento crea occupazione aggiuntiva e non lo sfruttamento delle braccia agitato dai demagoghi” .All’epoca replicammo (nell’articolo “Flessibilità e precariato non sono rimedi contro la disoccupazione”, in “Confronti e intese” n.8/’97) che noi “demagoghi” restavamo (e restiamo) in attesa di vedere gli effetti della legge – non già dal lato del business per le multinazionali specializzate, che da tempo si sbracciano in dichiarazioni del più vario tenore pubblicitario – ma dal lato della riduzione quantitativa della disoccupazione, della creazione di lavoro stabile (e non già precario e  senza diritti civili, politici e sindacali), della soddisfazione e motivazione che la “affittanza” sarà in grado di ingenerare nei c.d. prestatori di lavoro temporaneo.

L’ultimo rialzo di pressione ci è stato suscitato, in contemporanea con la  lettura delle riferite lettere sul dramma della disoccupazione giovanile, da uno degli articoli del Prof. avv. Pietro Ichino ospitato sul «Corriere della sera» dell’8 marzo ‘98 dal titolo «Licenziare, più facile al Nord», che idealmente completa la tematica della “flessibilità in entrata”  del giornalista (del quotidiano confindustriale ”Il Sole-24 Ore”) Orioli con quella della “flessibilità in uscita”.

L’autore informa che i risultati di una ricerca - condotta  su un campione di oltre duemila procedimenti disciplinari promossi da un’impresa italiana operante su tutto il territorio nazionale - mostrano che i giudici pretendono, per licenziare, causali più gravi nelle località in cui più acuto è il morso della disoccupazione. L’autore asserisce,  qui correttamente, che c’è una logica in questo: «I giudici tendono più o meno consapevolmente, a esigere motivi più gravi per la giustificazione del licenziamento nelle zone in cui la perdita del posto di lavoro costa di più al lavoratore». Tuttavia poi così prosegue: «Ma ciò che può apparire logico nel singolo caso individuale lo è molto meno se si considera il fenomeno su scala nazionale: il controllo giudiziale più severo sui licenziamenti costituisce un elemento di maggiore rigidità proprio nelle regioni dove occorrerebbe una maggiore flessibilità per incentivare gli investimenti.”. “L’attribuzione ai giudici di una larghissima discrezionalità nel controllo del giustificato motivo di licenziamento non ha dunque soltanto l’effetto negativo (su tutto il territorio nazionale) di una estrema aleatorietà dell’esito del giudizio, ma anche l’effetto di favorire, nelle zone meno sviluppate, il consolidarsi di un equilibrio deteriore fra maggiore rigidità e più alto tasso di disoccupazione”. ”Questo non è imputabile a demerito dei giudici…è il meccanismo di tutela della stabilità che deve essere corretto”. “ La tutela della stabilità del posto consiste essenzialmente nel prevedere che non una qualsiasi perdita  prevista (sia essa dovuta all’inaffidabilità del lavoratore o a circostanze oggettive) possa giustificare il licenziamento, ma soltanto una perdita che superi una soglia ragionevole;…come si è visto nel Sud la soglia è di fatto mediamente più alta che nel Centro-Nord. Ma questa non è l’unica possibile tecnica legislativa utilizzabile per la tutela dei lavoratori contro la precarietà.  Nella stragrande maggioranza degli altri Paesi europei la tecnica adottata consiste nello stabilire un risarcimento standard che l’impresa deve pagare al lavoratore corrispondente al danno che mediamente deriva per lui dal licenziamento: al giudice resta soltanto il compito di accertare l’eventuale colpa del lavoratore che esclude il suo diritto all’indennizzo”.

Tradotto per i non addetti ai lavori, il ragionamento suona così “quale interesse ha l’impresa a spostarsi o a permanere al Sud  quando vi è un sistema di rigidità (anche esterna giudiziale) che le rende più difficili anche i licenziamenti?” e sembrerebbe anche reggersi, se il tutto non fosse viziato dalla prospettazione di un’incondivisibile alternativa comparativistica che sostituisce alla “garanzia della stabilità reale” del rapporto di lavoro – introdotta dallo Statuto dei lavoratori – la soluzione “risarcitoria” o monetizzante del licenziamento ingiustificato, facendoci retroagire ai presupposti della legge n. 604/1966 sui licenziamenti individuali. Con l’addizionale eliminazione, poi, della prerogativa – conferita dall’art. 2106 c.c. al giudice  – di valutare la sussistenza di proporzionalità tra la sanzione (espulsiva) irrogata dall’impresa e l’infrazione commessa. Dobbiamo esprimere il convincimento per cui non tutto quello che si trova in altri contesti o ordinamenti sia esportabile, poiché molto spesso non costituisce strumento, metodologia o tecnica di avanguardia, ma di regresso e di arretramento rispetto a soluzioni più civili e rispettose dell’uomo realizzate grazie alla cultura del nostro Paese.

Si può convenire, a denti stretti e per il superamento di situazioni contingenti, su flessibilità retributive e normative (sindacalmente contrattate) per i nostri giovani delle zone a maggiore disoccupazione – anche se c’è il rischio che la concessione determini effetti emulativi e di diffusione  nel resto del Paese, cioè nelle stesse zone a bassa disoccupazione che del regalo della “flessibilità” non necessitano affatto -, ma non si può assolutamente accordare all’impresa  allocata o allocabile nel Sud l’incentivo del “licenziamento discrezionale” o solo surrogabile dalla corresponsione di un indennizzo economico risarcitorio per chi, in un contesto ambientale privo di opportunità di reimpiego, è destinato a perdere definitivamente l’unica fonte di sussistenza personale e familiare.

 

3. Lavoro interinale e dintorni: gli entusiasmi scriteriati dei neofiti

Non è infrequente, anche nelle riviste sindacali, imbattersi in articoli di collaboratori esterni – non permeati dai convincimenti dell’associazione ma spesso vittime, talora inconsapevoli, dei mass media veicolanti liberismo e flessibilità quali terapie per la disoccupazione – nei quali vengono propinate ed offerte agli iscritti e ai lettori vere e proprie scempiaggini, quantunque in corretta composizione ortografica.

Le ultime le abbiamo lette a pag. 63-64 del n. 84/1997 della rivista del Sinadi (Organo ufficiale del sindacato del personale direttivo delle banche di credito cooperativo), nell’articolo «Lavoro interinale: un’opportunità da non sottovalutare». Invero, a parziale assoluzione dell’autrice, va detto che in tema di lavoro interinale  - oltre alle imprese industriali schierate con le associazioni imprenditoriali e alle aziende di credito aderenti all’Abi nonché oltre alle multinazionali del lavoro in affitto – diversi altri sono incorsi in una indebita formulazione di apprezzamenti verso questo nuovo strumento giuridico, quando invece esso doveva essere considerato la «madre» di tutte le precarietà del rapporto di lavoro, generatore di quella povertà da cui sono afflitti i «precari» negli Usa e nei paesi europei dove il lavoro temporaneo ha preso piede.

Prima di esprimere più articolatamente il nostro pensiero, vale la pena riassumere i concetti e le considerazioni meno condivisibili riportate dal precitato, infelice, articolo.

L’autrice, innanzitutto, si esalta per il fatto che «dopo un iter complesso durato circa 10 anni, anche in Italia il lavoro interinale è arrivato al traguardo», qualificandolo poi «una delle più innovative misure a sostegno dell’occupazione», introdotte dal pacchetto Treu (L. n. 196 del 24.6.1997). Poi, dopo una sommaria prospettazione tecnica delle caratteristiche del provvedimento di fornitura di lavoro temporaneo, si lascia andare alla improvvida considerazione per cui «grazie a questo nuovo rapporto contrattuale, il lavoratore, anche se non risolve definitivamente il suo problema, ha almeno una  prospettiva occupazionale, seppure temporanea…», proseguendo con l’asserire che «l’introduzione di una maggiore flessibilità nel mercato occupazionale, poi, porterà sicuramente ad una progressiva riduzione di forme di lavoro irregolari, come il lavoro nero». «In questo modo le aziende potranno ‘snellire’ i propri organici del personale in eccedenza e adeguarli nei momenti necessari»; »anche i sindacati si sono mostrati favorevoli a questo nuovo modo di concepire il rapporto di lavoro, in quanto è uno strumento che non solo crea nuova occupazione, anche se temporanea, ma costituisce un’opportunità concreta soprattutto per i giovani che si accostano per la prima volta al mondo del lavoro». «Nei casi più fortunati, poi, può rappresentare l’occasione per instaurare un contratto di lavoro a tempo indeterminato»; «visti gli evidenti vantaggi in tema di lotta alla disoccupazione, sia per chi cerca (sic!, n.d.r.) sia per chi offre lavoro, il lavoro interinale é stato adottato…anche in molti paesi europei», calcolandosi «da recenti statistiche che oltre 5 milioni di lavoratori svolgono un’occupazione temporanea (con gli Usa, quale paese leader, con circa 2 milioni di lavoratori «precari»)”, caratterizzati da una spiccata povertà fonte di un inaccettabile dislivello fra le classi sociali. Solo alla fine della sequela di valutazioni enfatiche, l’autrice ammette l’equivalenza tra «lavoro interinale e lavoro precario», sfuggendole – oltre a questa ammissione -  l’altra secondo la quale «l’interinale costituisce un sicuro business per quanti (aziende multinazionali e nazionali, n.d.r.) si accingono ad entrare nel settore» del collocamento privato di lavoratori destinati a prestazioni saltuarie ed alla connessa condizione di precarietà conseguente alla carente stabilità e continuità dell’occupazione, della retribuzione e della contribuzione previdenziale, finalizzata a strutturare la rendita pensionistica per la vecchiaia.

 

4. Il reale significato ed i sottostanti obiettivi del lavoro interinale

Non bisogna essere nè allievi dell’on. Bertinotti nè grossi studiosi di diritto del lavoro e di relazioni sindacali per comprendere il vero significato dell’introduzione nel nostro Paese del «lavoro interinale» o «in affitto» o «leasing di manodopera»(come si usa più comunemente e più correttamente qualificarlo). Tramite la L. n. 196/’97 si è abbattuto un «tabù»: quello del lavoro garantito e stabile per dare spazio, attraverso la c.d. «flessibilità», al lavoro precario, caratterizzato dalla intermittenza, dalla saltuarietà e dall’occasionalità; al lavoro, cioè che non consente – lo stiano bene a sentire quelli che affermano che è un’opportunità per i giovani – di poter fare affidamento su una continuità retributiva e quindi di poter pensare a formarsi una famiglia o a programmare il proprio futuro. Sbandierando la supposta anomalia italiana (assieme alla Grecia, che l’interinale non l’ha ancora introdotto) – come se l’estensione delle condizioni deteriori fosse un merito! -  e facendo agevole leva sulla plateale inefficienza del monopolio del collocamento pubblico (che, in data 11 dicembre 1997, ha ricevuto la sanzione giurisdizionale dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee), i sostenitori delle tesi imprenditoriali sollecitanti «flessibilità» sia nella fase di accesso (o ingresso) al lavoro sia in quella di uscita (tramite la libertà di licenziamento) hanno convinto i nostri attuali governanti alla mediazione o al compromesso, con l’accordare ai datori di lavoro  almeno un’amplissima libertà nella fase di accesso al lavoro dei prestatori d’opera subordinati. Non mancavano, tuttavia, già in precedenza strumenti di flessibilità per le imprese, al riguardo: erano state gradualmente dilatate e rimesse alla contrattazione collettiva le causali per stipulare i contratti a termine mentre per  elevare (fino a 24 mesi) i periodi di prova circoscritti contrattualmente al trimestre e qualificati irridentemente «ridicoli», veniva azionato a dismisura il «contratto di formazione-lavoro», anche quando la formazione non  era necessaria, tant’è che con l’acquiescenza dei lavoratori e fidando nell’inefficienza degli organi di vigilanza sull’applicazione della normativa sul lavoro, essa non veniva, nella stragrande maggioranza dei casi, affatto fornita. Ma è con  l’introduzione del «lavoro in affitto» che si realizza la massima erosione dei diritti dei lavoratori dipendenti – già in fase di avanzatissima aggressione e conseguente declino – in quanto si trasforma «l’uomo ed il suo lavoro» in una merce di scambio, oggetto di prestito da un’Agenzia (o impresa) fornitrice ad aziende utenti, via via diverse. Il lavoratore viene, a secondo delle esigenze del mercato, prestato o somministrato  dall’azienda fornitrice per sostituire altri lavoratori in ferie, in aspettativa, in maternità, in malattia e simili (sciopero e cassa integrazione esclusi), ora di un’azienda tessile, ora di un albergo, ora di un impianto chimico, ora di una struttura commerciale. Con quanto beneficio per la motivazione individuale e per l’immedesimazione con gli interessi delle varie aziende ove è costretto a transitare, lo lasciamo immaginare agli estimatori del lavoro interinale! Certo è che il «lavoro in affitto» è meglio del  «lavoro in nero», ma – una volta che si convenga sul fatto che il «leasing di manodopera» costa mediamente all’impresa il 30% in più del costo ordinario del lavoro – va detto che esso non può essere considerato strumento di emersione e di lotta al «lavoro in nero», in quanto non si pone rispetto ad esso in posizione di valida alternativa.

Con il lavoro interinale si è fatto – come si dice al gioco del biliardo – «filotto», abbattendo con un colpo solo: a) il collocamento pubblico (di cui alla L. n. 264 del 1949); b) il divieto di «intermediazione e somministrazione di manodopera» (di cui alla L. n. 1369/1960); c) deregolamentando il contratto a termine (di cui alla L. n. 230/1962). Il «lavoro in affitto» è il simbolo del superamento di ogni forma di rigidità (e dei connessi, positivi, riflessi di stabilità) del rapporto di lavoro, e, quindi la massima espressione della «precarizzazione» del modo di prestare lavoro subordinato.

Secondo taluni sprovveduti – quali sono i pochi  ed incauti estimatori in buona fede, giacchè la stragrande maggioranza è mossa da prosaici interessi e versa quindi in assoluta malafede – tale nuovo strumento dovrebbe attivare occupazione. Dobbiamo, tuttavia, chiederci di quale occupazione si tratta, una volta che il nostro legislatore – invece di optare per il più tutorio modello tedesco in cui il lavoratore in affitto è assunto a tempo indeterminato e, quindi, è retribuito dall’Agenzia fornitrice anche in mancanza d’impiego esterno – ha scelto il modello francese che contempla teoricamente la possibilità di essere assunti ( e retribuiti) dall’Agenzia fornitrice oltrechè a tempo indeterminato anche a tempo determinato, in occasione e per il tempo della richiesta esterna. Conferita questa opzione, non si vede, infatti, per quale motivo l’Agenzia fornitrice dovrebbe vincolarsi ed accollarsi gli oneri di un contratto a tempo indeterminato e, quindi, sostituirsi alle aziende (che non richiedano continuativamente l’utilizzo dei lavoratori) nei costi economici, quando può  tranquillamente  stipulare contratti a termine per i soli periodi di richiesta esterna di personale e, nelle more, lasciare in libertà i potenziali lavoratori intermittenti.

Va poi anche detto che la restrizione legale alla «fornitura in affitto» dei soli lavoratori non rivestenti «qualifiche di esiguo contenuto professionale» – e cioè la riserva a favore di lavoratori professionali e specializzati – rende di fatto inattuabile o costosissimo o comunque scarsamente utilizzabile il ricorso aziendale al lavoro in questione. Ma si dice – neppure tanto sommessamente – che questi «lacci e lacciuoli» se non sono finti saranno comunque transitori, poiché una volta abbattuto il tabù del divieto del lavoro precario (prospettato dalla precitata autrice come un nuovo modo di concepire il lavoro, suppostamente consenzienti anche i sindacati), sarà uno scherzo ridurre le cautele e le garanzie da cui ora il legislatore, in fase di introduzione, l’ha in qualche modo protetto ed estendere, sia per via contrattuale che legislativa, la fornitura  anche relativamente a lavoratori senza una specifica qualifica  o professionalità. A proposito degli effetti benefici sull’occupazione che si ventilano per il lavoro interinale, va ancora chiarito che non v’è prova  - negli altri Paesi – che lo strumento abbia prodotto occupazione aggiuntiva ma solo sostitutiva e, tra l’altro, sostitutiva di occupazione stabile cui è subentrata occupazione saltuaria e temporanea.

E’ indiscusso, invece, che lo strumento si aggiunge al contratto di formazione-lavoro nel concretizzare una forma di collocamento privato che permette ai datori di lavoro una lunga prova o sperimentazione, prima di un’eventuale assunzione a tempo indeterminato (che è molto remota giacchè il lavoro interinale si rende necessario non già per esigenze stabili ma solo per picchi stagionali di lavoro o per sostituzione di  lavoratori stabili, temporaneamente assenti a vario titolo). Viene anche poi pacificamente ammesso che tale fornitura o collocamento privato costituirà un «business» economico ad esclusivo beneficio delle imprese (prima per le multinazionali già esperte, poi per le nazionali nascenti) abilitate alla fornitura di lavoro temporaneo.

 

5. Conclusioni

Ma allora, se dal lato dei lavoratori non si registrano (né si registreranno) benefici di sorta ovvero quasi inapprezzabili o inesistenti vantaggi, non è forse nel giusto chi (come Fezzi, in «Legge Treu e lavoro interinale», in Riv. crit. dir. lav. 1997, 441 e ss.) si è posto la condivisibilissima domanda retorica, secondo la quale : «bisogna probabilmente concludere che o dal lavoro interinale si attendono risultati non confessabili (ricattabilità del lavoratore in ragione della sua precarietà, gestione asindacale del rapporto di lavoro, assoluta mancanza di rivendicazione di diritti, tolleranza e silenzio in ordine alla lesione di diritti fondamentali quali la libertà di espressione, il diritto alla salute, il diritto di associazione sindacale e tanti altri) ovvero diviene ragionevole l’ipotesi secondo cui l’importante per il momento era abbattere il tabù ideologico, presentando un istituto edulcorato e tutto sommato tutt’altro che eversivo nei suoi contenuti, per poi poter in seguito intervenire modificando pesantemente il lavoro interinale, trasformandolo in un rapporto di assoluta precarietà a tutti gli effetti».

 

Mario Meucci

(pubblicato sulla Rivista "Lavoro e previdenza Oggi"1999 ,n.2, p.209)

 

 

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