LA DESTRUTTURAZIONE DEL LAVORO E DEI DIRITTI

 

1. Le valutazioni soggettive della nuova legge sul mercato del lavoro

All’insegna dell’obbiettivo della “flessibilità” nei rapporti di lavoro la maggioranza governativa prosegue – con la forza dei voti nelle sedi parlamentari - nella sua corsa verso la frammentazione del nostro diritto del lavoro. E’ una corsa folle di segno controriformista (contrabbandata come riformista) nella direzione e con l’intento di esasperare - al limite dell’inaccettabile dal lato sindacale ed etico - quelle iniziali ma già sufficienti forme di elasticità nel mercato del lavoro, introdotte dal cd. “pacchetto Treu” (con la legge n. 196/1997), tramite cui alle due pressoché uniche tipologie del rapporto a tempo indeterminato (o stabile, a full time o a part-time) e a tempo determinato, vennero affiancati il contratto di formazione e lavoro, il contratto di stage, il rinnovato contratto di apprendistato, i tirocini formativi e di orientamento, le borse di lavoro oltre al contratto di lavoro temporaneo da parte di personale fornito alle aziende dalle agenzie interinali (introducente la tipologia del lavoro in affitto).

Già quella normativa venne da noi considerata un cedimento alle pressioni, non tanto del mercato, quanto delle lobbies imprenditoriali oltrechè  frutto delle (eccessive)  propensioni accademico-comparativistiche del ministro promotore, in un assetto di governi di centro-sinistra di quegli anni (e successivi) indeboliti dall’intima preoccupazione per gli addebiti dell’opposizione di  insensibilità al modernismo della new economy (senso di colpa sul quale ebbe buon gioco la destra economica) e che fece gridare emblematicamente nei confronti di quegli  esponenti, da chi viene oggi accusato di  radicalismo o massimalismo: “D’Alema dicci qualcosa di sinistra!”

Con l’attuale governo di centro-destra è stata elaborata – tramite il c.d. “libro bianco” del ministro Maroni – una strategia a più ampio raggio, con intenti d’ importazione nel nostro contesto sociale e culturale, di strumenti ulteriori di flessibilità, tratti dal modello statunitense e dall’esperienza di taluni Paesi europei (in cui sono, tuttavia, ben presenti adeguate forme di sostegno al reddito quali gli ammortizzatori sociali), unificati dalla caratteristica dell’occasionalità, saltuarietà, intermittenza, in buona sostanza dall’intrinseca precarietà.

Il 5 febbraio 2003, questi strumenti di nuova precarietà per i futuri lavoratori sono entrati a far parte dell’ordinamento e del bagaglio lavoristico, a seguito dell’approvazione in legge del ddl n. 848B. Subito da parte dei controriformisti si è dato sfogo alle rivendicazioni di paternità e a manifestazioni di esaltazione (a nostro avviso di vera e propria incoscienza). Un allievo del defunto Prof. Biagi – nell’articolo su “Il Sole-24 Ore” del 6.2.03 dal titolo “le idee vivono” – ne ha rivendicata la qualificazione come “legge Biagi”  (allo stesso modo del direttore generale della Confindustria, Parisi, in una intervista al “Messaggero” dello stesso giorno), credendo così di fare un omaggio al maestro, quando invece sarebbe stato molto più di buon gusto lasciare in pace i morti, evitando (anche col silenzio) che le nuove generazioni sappiano una volta adulti a chi addebitare la loro contingente “precarietà” lavorativa e quella pensionistica futura (che probabilmente il consulente governativo, da socialista-cattolico, non avrebbe voluto, ma che coloro che lo strumentalizzano invero realizzeranno).

Invece no!

Ci si è sbracciati nel ricordare (e rinverdire le contrastanti valutazioni) che la nuova legge sul mercato del lavoro “è l’attuazione del Libro Bianco del professor Biagi e dunque molto importante dal punto di vista simbolico perché dimostra che il lavoro di Marco non è stato inutile” (così Parisi); che :”Approvata la legge Biagi, il Governo dovrà ora dimostrare di sapere dare rapida e concreta attuazione ai principi ed alle linee riformatrici in essa contenuti…A chiedere di muoverci in questa direzione sono ora anche le nostre coscienze che ci suggeriscono di mettere a frutto il percorso riformatore nitidamente tracciato da Marco Biagi anche a dimostrazione del fatto che le idee – le buone idee – camminano da sole e non possono essere ammazzate” (così Tiraboschi).

Concludeva poi, soddisfatto, la sua intervista il direttore generale della Confindustria affermando che: “La riforma è completata, non parleremo più di scarsa flessibilità” (che è una frase che dobbiamo tenere bene a mente!), mentre non poteva fare a meno di rilasciare una enfatica intervista al Corriere della sera, da Mosca, anche il presidente della stessa organizzazione imprenditoriale D’Amato, secondo il quale: “Non esagero se dico che si tratta della riforma più importante degli ultimi trent’anni nel campo del mercato del lavoro. Diventerà più flessibile, più dinamico, assicurerà una crescita occupazionale. Si va incontro ai problemi dei giovani disoccupati”… e “ …porta giustamente il nome del professor Marco Biagi”. Da parte sua il sottosegretario Sacconi (sempre sul quotidiano confindustriale e anch’esso in un’intervista dal titolo “Tolto un tappo”) affermava: “…entro luglio la riforma sarà pienamente in vigore e l’effetto sul mercato sarà quello di togliere un tappo alle possibilità economiche e sociali del Paese”.

Di segno opposto le opinioni della Cgil - espresse da uno dei suoi segretari confederali – secondo cui: “E’ una legge che contiene decine di deleghe in bianco al governo, il cui scopo é rendere il lavoratore sempre più solo e debole. Da oggi i lavoratori, grazie al governo, non sono nulla di più di merce: si possono vendere, scambiare, trattare come l'azienda meglio crede''… . La legge delega ''inserisce maggiori elementi di precarieta' nei rapporti di lavoro'' e ''una frammentazione delle tipologie al solo scopo di pagare meno i lavoratori, che si ritrovano meno tutelati”. Inoltre "fa tornare il caporalato con agenzie private che potranno fare intermediazione di manodopera senza garanzie e senza qualità; rende possibile trasferire rami d'azienda senza vincoli; riduce le tutele per i lavoratori part-time e i diritti minimi anche contro i soci-lavoratori, per i quali conterà sempre più il vincolo associativo che non il rapporto di lavoro”. ''Siamo insomma alla prese con un vero e proprio azzeramento dei diritti che colpisce la dignità di milioni di lavoratori italiani; quel che si annuncia é un nuovo scontro sociale, la cui responsabilità cadrà tutta sul governo Berlusconi”.

Giudizio positivo, o per lo meno cauto, sulla legge da Cisl e Uil, che col governo hanno scelto di negoziare le politiche sociali sin dal luglio del 2002 (firma del Patto per l'Italia). Per un segretario confederale della Cisl, della delega "va bene la parte sul collocamento, perché finalmente si supera una situazione imbarazzante di stallo durata dieci anni e che faceva dell'Italia la pecora nera in Europa. Va bene anche l'introduzione di nuove flessibilità, ma qui il provvedimento va corretto, perché deve essere chiarito il rinvio alla contrattazione settore per settore''.

Per un segretario della Uil, invece, l'approvazione della delega sul lavoro '' è solo un primo passo. Ora bisogna vedere come verrà attuata''. ''Per questo credo sia necessario un confronto con le parti sociali, per verificare se nei decreti delegati verrà trasferito lo spirito positivo che anima la delega''. ''Servirà una grande attenzione, perché bisognerà approfondire alcuni temi, soprattutto quelli legati alla flessibilità in entrata. Sono stati infatti introdotti nuovi contratti che però devono essere meglio definiti, regolamentati e contrattualizzati''.

Anche i media televisivi di Stato, in una delle trasmissioni serali successive all’approvazione della nuova legge – gestita come sempre servizievolmente e, per l’occasione, presidiata ed affollata da esponenti del controriformismo – ne effettuavano una presentazione enfatica  e non obiettiva al pubblico degli ascoltatori.

2. Il contenuto oggettivo della legge

Cosa sta alla base di tali valutazioni? Per rendersene conto bisogna succintamente riassumere al lettore il contenuto delle novità introdotte.

Andando per ordine tra i 10 articoli di cui è composta questa legge ( approvata ma non ancora pubblicata), va detto che essa afferisce a blocchi di tematiche che di seguito prospettiamo riassuntivamente:

a) collocamento, somministrazione di personale e manodopera, intermediazione illecita, trasferimento di azienda e di ramo d’azienda (tutti quanti oggetto di delega governativa per la predisposizione della relativa disciplina, nell’art. 1). In questo blocco tematico si evidenzia che:

    -   alla concezione precedente secondo cui il collocamento era stato concepito come pubblica funzione (sebbene del tutto caratterizzata da inefficienze non più sostenibili) giacché si riteneva eticamente riprovevole che potesse essere oggetto di attività lucrativa di impresa la somministrazione di manodopera e di personale (cioè il commercio del fattore lavoro), la nuova legge sostituisce una impostazione legittimante la “somministrazione” di personale quale attività d’impresa, conferendola pacificamente alle private agenzie di lavoro (già interinale), agli enti bilaterali (costituiti da associazioni datoriali e sindacali), ai consulenti del lavoro, alle università e agli istituti di istruzione secondaria di secondo grado. Tale fornitura o somministrazione di personale da parte delle agenzie interinali può essere, per effetto della nuova legge, non solo a tempo determinato (come in precedenza) ma anche a tempo indeterminato. In tal modo si accoglie nell’ordinamento italiano il c.d. “staff leasing”, istituto con il quale si prevede che un’azienda si costituisca per la somministrazione ad altre di personale che resta stabilmente ed a tempo indefinito in organico alla azienda fornitrice, con conseguente insussistenza di alcuna violazione della legge n. 1369/1960 in tema di interposizione per la somministrazione di personale, legge che viene esplicitamente abrogata. I lavoratori ed i sindacati dovranno non più rivolgersi all’azienda committente – per tutte le questioni negoziali attinenti al rapporto di lavoro – ma all’azienda cui sono in organico e che svolge funzione di somministrazione di personale;

    -   si prefigura la ridisciplina dei casi di interposizione illecita (individuando la fattispecie vietata sulla base del criterio della mancanza di una ragione tecnica, organizzativa o produttiva o possa verificarsi la lesione di diritti inderogabili di legge o di ccnl applicato al prestatore di lavoro) nonché della nozione di distacco e comando; si attribuisce all’azienda Capogruppo di imprese la facoltà di svolgere, per delega delle consociate e controllate, tutti gli adempimenti di cui all’art. 1 d. lgs. n. 12/’79;

    -   ai fini poi di precludere o difficoltizzare il contenzioso da parte dei lavoratori rivendicanti la dipendenza diretta dalla reale utilizzatrice delle prestazioni per presunta interposizione illecita, si prevede che la genuinità dell’appalto derivi da una certificazione (da parte di enti bilaterali intersindacali o di strutture pubbliche o università) attestanti nell’appaltatore o somministratore di personale requisiti di organizzazione di mezzi e di assunzione di rischio di impresa;

    -   si prevede la revisione del d. lgs. n. 18/2001 in tema di trasferimento d’azienda, adeguandolo alla normativa comunitaria e prevedendo che il requisito dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda (per effetto del Patto per l’Italia del luglio 2002) sia riscontrato all’atto del trasferimento in luogo di essere (come fino adesso) preesistente ad esso: questa innovazione è di estrema pericolosità giacché può legittimare fraudolenti e studiati accorpamenti di personale all’ultimo momento in una determinata unità produttiva in vista della loro espulsione dall’azienda originaria (ed inserimento in azienda ove si applicano contratti collettivi nazionali o aziendali deteriori e talora non ricorre la stabilità reale ex art. 18 per essere al di sotto dei 16 dipendenti). L’intento legislativo – come è stato acutamente notato – si rinviene nella volontà di “garantire e non ostacolare le frodi” (1). Che poi il timore che la soluzione escogitata (e parzialmente ridimensionata nella sua rischiosità per i prestatori di lavoro  giacché nel libro bianco era addirittura prevista l’eliminazione del requisito dell’autonomia funzionale, ipotizzandosi la cessione di meri uffici o reparti non funzionalmente autonomi!) venga utilizzata nel senso di dar luogo al diffuso fenomeno delle cd. esternalizzazioni (o outsourcing) di comodo, non sia una ipotesi di scuola ma una realtà attualissima e concreta, lo dimostrano le recenti decisioni della Cassazione sulle esternalizzazioni. La Cassazione nelle recentissime sentenze nn. 14691, 15105 e 17207 del 2002 ha, infatti, bloccato – dichiarandolo nullo per carente consenso alla cessione a terzi del contratto individuale – l’affidamento in outsorcing da parte della Soc. Ansaldo Energia al Consorzio Manital di una serie di cessioni di “centri di costo” raggruppanti personale eterogeneo unificato nell’unità produttiva “servizi generali” (dichiaratamente considerata estranea al cd. core business dell’azienda), sulla base dell’inesistente riscontro nella unità ceduta (e confezionata ad hoc all’atto dell’esternalizzazione) di una preesistente autonomia funzionale nell’azienda cedente.

C’è ora il rischio che tali cessioni possano avere ampio e libero corso.

b) riforma della disciplina del lavoro a tempo parziale (con delega al governo da parte dell’art. 3):

    -   il rapporto di lavoro a tempo parziale - che è stato recentemente ridisciplinato dal d. lgs. n. 61/2000, tramite cui si sono introdotte cautele in ordine al ricorso al lavoro supplementare ed alle “clausole di elasticità”, al fine di evitare che si trasformasse in una sorta di lavoro “a chiamata” a discrezione datoriale, sottratto a distribuzione preconcordata – viene liberalizzato dalle limitazioni attuali. Nel senso che - nell’ottica di una “invasività nel tempo di vita del lavoratore” (così Alleva, op. cit. in nt.1) e di una sostanziale indifferenza alle esigenze connaturali alla tipologia contrattuale implicante il necessario tempo libero per il prestatore al fine di eventualmente instaurare un altro rapporto onde raggiungere un livello economico di autosufficienza reddituale – le aziende potranno richiedere sia lavoro supplementare senza consenso e senza limiti (se non quelli pattuendi a livello di ccnl, superabili in carenza dal consenso individuale di un lavoratore in condizioni di estrema ricattabilità) sia introdurre elasticità nella gestione e distribuzione temporale del part-time, esteso anche ai rapporti di lavoro a tempo determinato. Diviene regola quella secondo cui ai fini di tutti gli istituti legali e contrattuali (facenti rinvio ai requisiti dimensionali desumibili dal numero dei dipendenti) il lavoratore a tempo parziale viene computato pro rata temporis, in relazione proporzionale alla durata della prestazione resa.

c) implementazione delle tipologie di lavoro (con delega al governo ex art. 4 ):

    -    la fantasia controriformista finalizzata all’infoltimento delle tipologie di lavoro precario ha modo, in questa sede, di fare sfoggio di se. Vengono addizionate – non paghi del fatto che il d.lgs. n. 368/2001 abbia liberalizzato dai vincoli il rapporto a tempo determinato inserendolo tra le tipologie ordinarie e non sussidiarie di lavoro - alle preesistenti tipologie elastiche risalenti al cd. “pacchetto Treu” (codificato nella citata legge n. 196/’97), una serie di nuovi contratti: atipici: il “lavoro a chiamata” (job on call), il “lavoro a prestazioni ripartite” (job sharing, o divisione di un'unica occupazione e di un unico stipendio tra due o più lavoratori), il lavoro a progetto, il lavoro occasionale, il lavoro occasionale e accessorio. Infine vengono ridisciplinate le prestazioni da collaborazione coordinata e continuativa (in un’ottica di delimitazione, riservandole a progetti a tempo determinato, degli eccessi e degli abusi mascheranti vere e proprie forme di lavoro subordinato a tempo indeterminato).

Il job on call è il contratto di chiamata o di lavoro intermittente: il lavoratore fornisce la sua disponibilità di lavoro in un arco di tempo predefinito, ma viene chiamato a lavorare solo per pochi giorni e con un breve preavviso (ne tentò per prima l’introduzione la Zanussi, ma l’ipotesi d’accordo per la tipologia del cd. ”operaio squillo” venne sonoramente bocciata dai lavoratori con referendum: ora il direttore risorse umane se ne ripropone la praticabilità). La tipologia contrattuale del lavoro intermittente prevede la saltuarietà della prestazione, compensandone lo stato di disponibilità alle chiamate aziendali con una specifica indennità di disponibilità: non si tiene tuttavia in alcun conto che il lavoro nel nostro ordinamento (ex artt. 2, 3 e 4 Cost.) deve essere non solo virtuale ma effettivo in quanto mezzo di autorealizzazione individuale e sociale. Abbiamo a suo tempo ascoltato le giuste lamentele degli autisti (discontinui) di personaggi fruitori di auto blu (di banche, assicurazioni o della P.A.), costretti a lunghe soste inattive nei piazzali o nelle receptions delle aziende  in attesa del loro utilizzo a fine riunione del C.d.A. o a fine impegni del direttore generale o del Presidente di questa o quella banca. Erano ipotesi marginali di utilizzo intermittente all’interno, peraltro, di un rapporto di lavoro stabile; ora se ne contempla la diffusività e la generalizzabilità nel contesto deteriore di un lavoro del tutto precario.

Il job sharing è un contratto a risultato tramite cui due (o più) lavoratori (per un solo stipendio) si obbligano in solido a fornire una prestazione, ripartendosene tra di loro i tempi e le modalità attuative, nell’indifferenza del datore di lavoro cui preme soltanto che la prestazione sia resa e che l’arco temporale sia coperto da presenza. I lavoratori concorderanno tra loro le modalità esecutive, ivi incluso l’obbligo del subentro di uno all’altro in caso di malattia o infortunio o altre sopravvenute impossibilità di resa della prestazione (anche se tali aspetti saranno da definire per via contrattuale).

    -   Si prevede poi nella nuova legge che le quote obbligatorie di assunzione dei disabili previste dalla legge n. 68/89 siano soddisfatte anche tramite assunzioni a tempo determinato, così esponendo questi lavoratori (già solo tollerati dalle aziende) ad un futuro di instabilità e di ghettizzazione, giacchè non è lontano dal vero immaginare che questi portatori di handicap saranno utilizzati secondo lo schema più precario del tempo determinato, in luogo dell’onerosità del contratto a tempo indeterminato.

    -   La nuova tipologia delle prestazioni di lavoro occasionale e accessorio regolarizzabile e remunerabile con rilascio di coupons o tickest (non si conosce ancora l’identità dei fornitori e le modalità di acquisto), se va considerata piuttosto bizzarra e singolare in linea astratta e qualora ipotizzata con intenti di generalizzazione, può invece risultare utile per le ipotesi di lavoro occasionale reso con finalità di assistenza e cura domiciliare (o presso enti senza fini di lucro) a persone malate o debilitate, le cui esigenze non potrebbero altrimenti (e molto onerosamente) essere sostenute da essi e dai loro familiari che con un contratto di collaborazione domestica, riservabile invece per l’ipotesi più drammatica del colpito in maniera invalidante, necessitante assistenza continuativa del c.d. “badante”.

    -   Venendo alla riforma delle cd. co.co.co (collaborazioni coordinate e continuative), si prevede che esse non possano essere più attivate per prestazioni a tempo indeterminato ma solo per prestazioni a tempo determinato, la cui durata scaturisce dal “progetto” per il quale si impegnano le proprie energie lavorative. questa soluzione è stata correttamente giudicata un’operazione di igiene e di freno all’utilizzo abusivo che sinora si è fatto di tale tipologia di lavoro, mascherante una vera e propria prestazione di lavoro subordinato, ed in questo senso gli va riconosciuta una valenza positiva. Accanto ad essa si pone la “collaborazione occasionale”, individuata dai parametri della durata del progetto presso lo stesso committente inferiore ai 30 giorni nell’anno solare e della esiguità del corrispettivo, non eccedente i 5000 €.

d) certificazione dei rapporti di lavoro e arbitrato (con delega al governo rinvenibile negli artt. 5 e 8):

    -   la tematica è una di quelle che hanno dato luogo alle maggiori opposizioni da parte della minoranza parlamentare, dei giuslavoristi progressisti, del sindacato e della magistratura.

Viene affidato a enti bilaterali (intersindacali), a strutture pubbliche competenti ed anche a università, il compito – per dichiarati fini di prevenzione del contenzioso del lavoro – di certificare la tipologia e la genuinità dei rapporti di lavoro da porre in essere. In maniera farisaica la legge dispone che la procedura di certificazione è “volontaria”, ma nei fatti nessun lavoratore verrà assunto se non si è sottoposto a tale procedura di “manleva” datoriale. E si risolverà in una procedura tutt’altro che genuina e spontanea, giacché l’intrinseco ricatto costituito dall’offerta (o prospettiva) di un lavoro per un disoccupato lo porterà a dichiarare, sottoscrivere ed a dare atto anche di una realtà del tutto difforme da quella effettiva. Invero la legge consente la possibilità di impugnativa giudiziale da parte del lavoratore, ma  vi affianca  l’obbligo che il tentativo obbligatorio di conciliazione si svolga innanzi alla Commissione certificatrice e che il magistrato investito dell’accertamento tenga conto anche delle dichiarazioni e del comportamento tenuto dalle parti in sede di commissione certificatrice.

Viene concludentemente, con tale configurazione e con tali accorgimenti, “blindato” o “scoraggiato” il diritto giudiziale di ricorso da parte del lavoratore e tentativamente “orientato” o “condizionato” il libero accertamento giudiziale.

Le commissioni di certificazione degli enti bilaterali avranno altresì il compito di attestare la definitività e genuinità delle rinunzie e transazioni (ai diritti nascenti dall’art. 2113 c.c.) ai fini di precluderne in maniera definitiva e  tombale l’impugnativa.

Si prevede che, in caso di accertamento giudiziale di una erronea qualificazione del rapporto di lavoro, l’accertamento giudiziale non abbia effetti retroattivi ma solamente ex nunc, facendo salvi per il periodo antecedente al riscontro giudiziario gli effetti dell’accertamento svolto dalle autorità di certificazione. Una forma di condono inaccettabile e tale da non stare giuridicamente in piedi.

    -   Infine dopo aver abbandonato alla Camera l’introduzione dell’arbitrato d’equità – sostitutivo dell’accesso alla giurisdizione ordinaria – la legge sembrerebbe quasi reintrodurlo surrettiziamente all’art. 8 (nel contesto della ridisciplina delle funzioni ispettive di tipo amministrativo) con la formula contemplante la delega “per la definizione di un quadro regolatorio finalizzato alla prevenzione delle controversie di lavoro in sede conciliativa, ispirato a criteri di equità ed efficienza”. In verità la formula, per quanto equivoca, non reintroduce tale istituto  la cui regolamentazione il governo si ripropone di effettuare  in altra sede e momento, tramite altro ddl (in una con le modifiche all'art. 18 per effetto del Patto per l'Italia).

Tale menzione dell'istituto o dell'intento non ci esime tuttavia dal riproporre le critiche che merita l’arbitrato di equità, indirizzategli giustamente da chi ha – a suo tempo -  osservato che una forma di giustizia alternativa a quella privata è finalizzata a risolversi in un pregiudizio per i diritti del lavoratore, rifluendo in una soluzione transattiva caratterizzata da uno “sconto” immanente a danno del prestatore (secondo la logica di un colpo al cerchio ed  uno alla botte ovverosia dell’aliquid datum, aliquid retentum), per effetto del ricorso a criteri di equità (di tipo commerciale) e non di stretto diritto.

Infine conviene sottolineare come  i contenuti delle attuali deleghe siano configurati in chiave sottilmente “ricattatoria” per le OO.SS. investite di ruolo attuativo e concertativo, prospettando loro che, in assenza di pattuizioni negoziali nei contratti o accordi collettivi, la perseguibilità e realizzabilità degli obbiettivi e delle nuove tipologie di lavoro precario avverrà anche con il solo “consenso del lavoratore”, d’ora in poi sempre più solo e indifeso.

Concludendo, mentre si resta in attesa dei decreti attuativi, sostanzialmente realizzabili con  la consultazione sindacale (la cui disponibilità pone alle OO.SS. non pochi problemi di essere fraintesa quale condivisione in linea di principio dell’intera infrastruttura), si può sin d’ora affermare che – salvo i pochissimi punti ove abbiamo espresso un nostro consenso condizionato – la legge testé approvata prospetta ai nostri giovani un futuro di incertezza, di intermittenza lavorativa, di assoluto precariato, coniugato ad un corrispondente futuro di carente autosufficienza (o di vera e propria invivibilità) per l’epoca della quiescenza. Giacché con queste nuove tipologie di lavoro i versamenti contributivi faranno maturare in capo ai futuri pensionati una percentuale stimata nell’ordine del 30% del reddito percepito in costanza di attività lavorativa, per cui giustamente si è lanciato l’allarme (inascoltato) di costruire ed innescare, ora per allora, “una vera e propria bomba sociale” a scoppio tanto certo quanto ritardato (con una logica da “ápres moi le deluge”).

Roma, 13 febbraio 2003
Mario Meucci

Note

 

(1) Così Alleva, nell’ottimo articolo “Il D.d.l delega al Governo sul mercato del lavoro”, in www.cgil.it/giuridico/ (Attualità in evidenza – Politiche del diritto).

 

La certificazione dei rapporti di lavoro

Il 5 febbraio il Senato ha definitivamente approvato la legge mercato del lavoro (ora in attesa di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale); il provvedimento è stato sinora oggetto di attenzione soprattutto per la parte in cui si introducono nuove forme contrattuali, come il lavoro a progetto, il lavoro a chiamata e lo staff leasing, o si rimodella la disciplina di figure già esistenti, come nel caso del part-time o del job sharing.

Tuttavia, la delega presenta una novità di rilievo, la certificazione dei rapporti di lavoro, che potrebbe contribuire a ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro. Lo strumento della certificazione deve essere sperimentato e valutato senza preclusioni «ideologiche» in quan­to, se ben disciplinato, potrebbe dare dei risultati apprezzabili; tuttavia, in attesa della puntuale attuazione che verrà data con i decreti attuativi, già ora è possibile segnalare alcuni punti critici delle nuove norme. Secondo la legge delega la procedura di certificazione dei rapporti di lavoro dovrà, giustamente, avere carattere volontario e sperimentale. L'organo pre­posto alla certificazione viene individuato in Enti Bilaterali, appositamente costituiti a iniziativa delle associazioni imprenditoriali e delle organizzazio­ni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative, oppure in strutture pubbliche aventi competenze in materia, o nelle Università. Quest'ultimo richiamo pare improprio, non sembra questa una funzione adatta alle Università. E, d'altra parte, il ruolo degli Enti Bilaterali nella certificazione è importante, ma non può essere esclusivo: la presenza pubblica è comunque necessaria, trattandosi di una funzione di interesse generale. Sempre secondo la legge, il contratto di lavoro «certificato» dai soggetti così individuati non potrà essere impugnato in giudizio, se non in caso di erronea qualificazione del rapporto o in caso di difformità tra il programma negoziale concordato e quello effettivamente realizzato, mentre il tentativo obbligatorio di conciliazione dovrebbe essere svolto avanti agli stessi enti certificatori.
Su questo impianto si inserisce la previsione che creerà non pochi problemi interpretativi, secondo cui l'eventuale accertamento giudiziale di una natura differente del rapporto da quella in origine certificata può avere effetto solo dal momento dell'accertamento stesso e, cioè, per il futuro e non per il passato. In tal modo si limita indebitamente l'accertamento giudiziario, che avrebbe efficacia solamente ex nunc, e non invece ex tunc secondo i principi generali. Proprio in base a questi, infatti, una pronunzia di accertamento, in quanto non innova nell'ordinamento ma dichiara la reale sostanza di un rapporto, non può che avere effetto dal momento in cui quella situazione o quel rapporto sono venuti ad esistenza, tanto più nella materia del diritto del lavoro dove le esigenze di tutela sostanziale del lavoratore sono rafforzate. La norma invece, rendendo la qualificazione del rapporto defini­tiva e immodificabile rispetto al periodo antecedente alla sentenza che ne statuisce l'erroneità, rischia di andare incontro a una pronuncia d'incostituzionalità.
 
                                                                                                            Tiziano Treu
 Ordinario di Diritto del lavoro Università Cattolica di Milano
 
(editoriale pubblicato in Contratti e contrattazione collettiva, mensile di Guida al lavoro, ed. “Il Sole-24 Ore”, n. 3 - marzo 2003)

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