Cass., sez. lav., 7
ottobre 2008 n. 24732 – Pres. De Luca – Est. Balletti – PM Riello (concl.
conf.) – Banco di Sicilia (avv. Visconti) c. SPAC. Att. (avv. D’Amati, Costantini)
Danno da
demansionamento – Prova della sua esistenza – Anche secondo criteri
presuntivi.
Ai fini della prova
del danno da demansionamento, va condivisa e riaffermata la giurisprudenza
di questa Corte che ha di recente statuito che «in caso di accertato
demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell'art. 2103
cod. civ., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile
in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del
relativo danno determinandone
anche l'entità in via equitativa con processo logico-giuridico attinente
alla formazione della prova anche presuntiva in base agli elementi di fatto
relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al
tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito
finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto».
(Cass. n. 14729/2006 e n.
14302/2006).
Giurisprudenza questa
che si è sviluppata con riferimento al principio affermato dalle Sezioni
Unite secondo cui «il danno esistenziale (provocato da demansionamento) - da
intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed
interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale
del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri,
inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione
della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con
tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo
rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di
precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità
all'interno e all'esterno del luogo di lavoro della operata
dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative
di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei
confronti del datore comprovanti l'avvenuta
lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle
abitudini di vita del soggetto) -
il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento
logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente
risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno facendo ricorso, ex
art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti
dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella
valutazione delle prove" (Cass. Sez. Unite n.
6572/2006).
Svolgimento del
processo
Con ricorso ex art. 414 c.p.c. dinanzi al Pretore-Giudice del lavoro
di Roma Att. SPAC. conveniva in giudizio il BANCO DI SICILIA s.p.a. alle cui
dipendenze prestava lavoro con la qualifica di funzionario dal 1987 -
esponendo: *) che fin dall'assunzione era stato assegnato al Servizio
studi presso l'Ufficio econometria e ricerca operativa, costituito ai fini
dell'applicazione delle metodologie statistiche avanzate e sofisticate
rientranti nel novero della ricerca operativa, in considerazione della sua
specifica qualificazione, essendo egli laureato in scienze statistiche;*)
che la sua attività
nell'ambito dell'Ufficio si concretava nell'applicazione di tematiche
proprie dell'analisi statistica multidimensionale, dell'econometria e della
ricerca operativa alla soluzione di problemi creditizi, occupandosi egli in
particolare di sperimentare e verificare le varie soluzioni proposte
mediante l'utilizzo di un calcolatore elettronico; *) che, oltre
all'attività lavorativa, esso ricorrente svolgeva anche attività scientifica
collaborando con istituzioni universitarie e realizzando numerose monografie
pubblicate a cura del Banco; *) che nel 1978, al ritorno da una
trasferta a New York - dopo che gli fu diagnosticata una grave malattia che
lo aveva reso non deambulante - il Banco iniziò ad assegnargli non più
compiti di carattere operativo-aziendale, ma solo compiti di studio e di
ricerca pura, limitandosi a pubblicare le monografie prodotte, ma
disinteressandosi di curarne un ritorno applicativo; *) che tale
situazione proseguì senza sostanziali variazioni nonostante egli fosse stato
promosso "primo segretario" nel 1984 e "funzionario" nel 1987; *)
che nel 1992, soppresso l'Ufficio di econometria e ricerca
applicativa, egli venne assegnato al Servizio studi costituito presso la
sede di Palermo, pur conservando la sede di servizio a Roma, dove lavorava
dal 1986; *) che da allora non aveva mai ricevuto dai superiori
gerarchici né assegnazioni di compiti né direttive; *) che nel 1993,
dopo aver rappresentato le sue rimostranze per lo stato di forzata
inoperosità, era stato assegnato presso il Servizio finanziario esteri
cambio, senza ricevere compiti o direttive, pur avendo egli proposto la
realizzazione di alcuni specifici lavori senza ricevere però riscontro
alcuno; *) che nel 1995 fu assegnato all'Area finanza, conservando
però la medesima ubicazione nella sede di Roma, ancora senza ricevere alcun
incarico e rimanendo senza esito le sue proposte, sollecitate dai
responsabili dell'Area finanza, implicanti il ricorso alla metodologia
statistica, così che egli, spontaneamente, per tenersi occupato, aveva messo
a punto uno specifico progetto per migliorare il supporto informativo
necessario agli operatori finanziari; *) che, in definitiva, da
quattro anni, egli si trovava in una situazione di forzata inattività
lavorativa, attuata a seguito di una progressiva sottrazione di mansioni
iniziata nel 1978, dislocato in un ufficio ubicato in un'ala del palazzo
diverso da quello in cui aveva sede l'Area finanza, a lui fisicamente
inaccessibile poiché raggiungibile mediante un ascensore troppo stretto.
Tanto premesso "in fatto", il ricorrente assumeva: *) che egli, a
causa del grave demansionamento, aveva subito danni alla professionalità,
comprovati anche da una compressione dei suoi sviluppi di carriera, alla
dignità ed alla personalità morale; *) che il Banco aveva violato le
norme in materia di sicurezza e salute dei lavoratori poiché lo aveva
collocato in un ufficio ubicato in modo non confacente alla sua condizione
di invalido, e, inoltre, perché i servizi igienici erano posti a notevole
distanza e raggiungibili solo attravensando un lungo e tortuoso corridoio e,
ancora, in caso di emergenza (come per un incendio), non vi erano adeguate
vie di fuga, permanendo barriere architettoniche.
Il ricorrente, richiedeva, quindi, che,accertata la illegittimità del
comportamento del BANCO DI SICILIA,il medesimo fosse condannato a
reintegrarlo in mansioni proprie della qualifica di appartenenza, nonché al
risarcimento dei danni alla professionalità ed alla personalità morale, da
liquidare anche in via equitativa, ed altresì ad adottare tutte le misure di
sicurezza necessarie ed idonee a consentire la sua autonoma mobilità, il
corretto funzionamento e la regolare manutenzione dei servizi sanitari e di
igiene personale.
Si costituiva in giudizio il BANCO DI SICILIA s.p.a. che impugnava la
domanda attorea e ne chiedeva l'integrale rigetto.
L'adito Giudice del lavoro - dopo avere ammesso ed espletate prove
testimoniali con sentenza del 27 novembre 1998, accoglieva parzialmente la
domanda accertando il demansionamento dal 1992 e condannando la società alla
reintegrazione del lavoratore nelle mansioni proprie della qualifica di
appartenenza; ma - su appello principale dello SPAC. e appello incidentale
del BANCO DI SICILIA – il Tribunale di Roma (quale giudice del lavoro di
secondo grado), con sentenza del 1° marzo 2004, così provvedeva: «1) in
parziale accoglimento della impugnazione incidentale, dichiara cessata la
materia del contendere quanto alla domanda di condanna alla reintegrazione
in mansioni proprie della qualifica di appartenenza; 2) in parziale
accoglimento dell'appello principale nonché di quello incidentale, condanna
il BANCO DI SICILIA s.p.a., al risarcimento dei danni, in favore di SPAC.
Att., determinati in misura pari al 40% (quaranta per cento) della
retribuzione netta corrisposta dal gennaio 1992 al dicembre 1997, oltre
rivalutazione monetaria ed interessi legali dalle singole scadenze (ultimo
giorno di ciascun mese) fino al soddisfo; 3) dichiara interamente compensate
tra le parti le spese di questo grado di giudizio».
Per la cassazione della cennata scadenza la s.p.a. BANCO DI SICILIA propone
ricorso affidato a tre motivi.
L'intimato Att. SPAC. resiste con controricorso e propone ricorso
incidentale affidato a due motivi, a cui resiste la s.p.a. BANCO DI SICILIA
con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA
DECISIONE
I
- Deve essere disposta la riunione dei due ricorsi in quanto proposti contro
la medesima sentenza (art. 335 cod. proc. civ.).
II
- Con il primo motivo di ricorso principale la società ricorrente -
denunciando "violazione degli artt. 414 e 2103 cod. civ., nonché
vizi di motivazione"rileva che contrariamente a quanto sostenuto dal
Tribunale di Roma, la vaga, generica e indeterminata descrizione delle
mansioni svolte dallo SPAC., con riferimento, soprattutto, al periodo
antecedente al 1992, non ha consentito di effettuare, in alcuna maniera,
quella necessaria e imprescindibile valutazione comparativa tra il lavoro
materialmente espletato da quest'ultimo prima e dopo l'asserito
demansionamento e, quindi, di giudicare compiutamente sul merito delle sue
domande, [sicché]è quanto mai evidente l'errore commesso dal
Tribunale di Roma, che ha respinto l'eccezione di nullità del ricorso
sollevata dalla ricorrente ed accolto (sia pure limitatamente al periodo
1992-1997), addirittura, la domanda proposta dallo SPAC., senza compiere
alcuna indagine e senza considerare che quest'ultimo, in verità, non aveva
addotto un solo elemento atto ad individuare le mansioni concretamente
svolte».
Con il secondo motivo la ricorrente “principale” denunciando “violazione
degli artt. 112 e 342 cod. proc. civ. e 2103 e 2697 cod. civ., nonché vizi
di motivazione” censura la sentenza impugnata in quanto «il Giudice di
appello, pure di fronte ad una specifica impugnazione del BANCO DI SICILIA,
non ha compiuto quell'indagine comparativa costantemente
richiesta dalla giurisprudenza di legittimità», rimarcando che dalle
risultanze probatorie si evidenziava «non solo che il BANCO aveva sempre
agito con lealtà e buona fede, ma che lo SPAC. era stato costantemente
tenuto nella massima considerazione e non aveva mai subito alcuna
persecuzione o emarginazione, né aveva mai veramente subito il contestato
demansionamento».
Con il terzo motivo del ricorso principale la ricorrente – denunciando
“violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., 2103 e 2697 cod. civ.,
nonché vizi di motivazione” - rileva, in relazione al capo della sentenza
sulla quantificazione del risarcimento del danno subito dallo SPAC., che i
Giudici d'appello hanno fondato la decisione richiamando quell'orientamento
di giurisprudenza, secondo cui il risarcimento del danno da demansionamento
può essere suscettibile di valutazione anche equitativa ai sensi dell’art.
1226 cod. civ., attesa la lesione dei diritti fondamentali della persona
derivanti dalla violazione dell'art. 2103 cod. civ. e considerato, in ogni
caso, il carattere immateriale di qualsivoglia pregiudizio correlato al
“fondamentale diritto di esplicazione della personalità del lavoratore”» e
censura «a soluzione adottata che non appare assolutamente condivisibile,
perché contraria alla più diffusa giurisprudenza e non aderente al caso in
esame».
Con il primo motivo del ricorso incidentale Att. SPAC. - denunciando
"violazione degli artt. 112 e 155 cod. proc. civ. e 2509 cod. civ., nonché
vizi di motivazione" - rileva che «quantificando il risarcimento del danno
al 40% della retribuzione netta mensile, il Tribunale è incorso in un
evidente vizio di motivazione, nonché in omesso esame delle risultanze di
causa, dal momento che non ne ha spiegato la correlazione con lo stato di
totale inerzia cui lo SPAC. è stato costretto ed i compiti di modesto
rilievo sporadicamente assegnatigli».
Con il secondo motivo il ricorrente in via incidentale - denunciando
"violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. e vizi di motivazione" – rileva
criticamente che «avendo il ricorrente reiterato la domanda di condanna alla
reintegrazione nelle mansioni, il Tribunale non avrebbe potuto dichiarare
la cessazione della materia del contendere se non incorrendo in un vizio di
ultrapetizione, [in quanto], mancando l'accordo del lavoratore, il Tribunale
non avrebbe potuto emettere pronunzia di cessazione della materia del
contendere».
III/a - I primi due motivi del
ricorso principale – da valutarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente
connessi si appalesano infondati.
In merito all'eccezione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio –
che erroneamente sarebbe stata disattesa dal Giudice di appello – si rileva,
in linea generale, che l'interpretazione operata dal giudice di
secondo grado in ordine al contenuto e all'ampiezza della domanda giudiziale
è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione
della logicità e congruità della motivazione e, a tale proposito, il
sindacato della Corte di cassazione comporta l'identificazione
della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima
perseguite, in un ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale
volontà si ricostruisce in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli
propri del negozio, diversamente dall'interpretazione riferibile
ad atti processuali provenienti dal giudice, ove la volontà dell'autore è
irrilevante e l'unico criterio esegetico applicabile è quello della funzione
obiettivamente assunta dall'atto giudiziale (cfr. Cass. n. 17947/2006).
In particolare, in sede di legittimità, occorre tenere distinta l'ipotesi
in cui si lamenti l'omesso esame di una domanda, o la pronuncia su domanda
non proposta, dal caso in cui si censuri l'interpretazione data dal giudice
di merito alla domanda stessa: solo nel primo caso si verte propriamente in
tema di violazione dell'art. 112 c.p.c. per mancanza della necessaria
corrispondenza tra chiesto e pronunciato, prospettandosi che il giudice di
merito sia incorso in un error in procedendo,in
relazione al quale la Corte di cassazione ha il potere-dovere di procedere
all'esame diretto degli atti giudiziari onde acquisire gli elementi di
giudizio necessari ai fini della pronuncia richiestale; nel caso in cui
venga invece in contestazione l'interpretazione del contenuto o
dell'ampiezza della domanda, tali attività integrano un tipico
accertamento in fatto, insindacabile in cassazione salvo che sotto il
profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul
punto (Cass. n.16596/2005).
Più specificatamente, rientra nella nozione di error in procedendo,a
fronte del quale la Corte di cassazioneha il potere-dovere di
procedere all'esame direttodegli atti onde acquisire gli
elementi necessari aifini della richiesta pronuncia, la
censura diomesso esame della domanda e di pronuncia sudomanda non proposta, ma non la censura di erronea
interpretazione del contenuto o dell'ampiezza della domanda, né la
censura di omessa, contraddittoria o insufficiente motivazione; tuttavia,
qualora la censura relativa alla motivazione lamenti un vizio procedurale in
cui sia incorso il giudice di merito (una sorta di error in procedendo
indiretto, o di secondo grado), ciò consente alla Corte di Cassazione
l'esame degli atti del giudizio di merito, al limitato fine di verificare
che l'errore procedurale in cui sia eventualmente incorso il giudice di
merito si sia tradotto in un vizio di motivazione (Cass. n. 9471/2004):vizio
di motivazione che - nonostante le censure sollevate sul punto dalla società
ricorrente - per la sentenza impugnata non sussiste, in quanto il Tribunale
di Roma, quale giudice di secondo grado, ha fornito sul decisum concernente l'idoneità del contenuto del ricorso a introdurre
correttamente la domanda giudiziaria dello SPAC. una completa motivazione
nel senso che, dopo avere indicato sia le funzioni proprie dell'ufficio cui
era stato assegnato sia quelle sue proprie consistenti "nell'applicazione
di tematiche proprie dell'analisi statistica multidimensionale, dell'econometria
e della ricerca operativa alla soluzione di problema creditizi", ha concluso
che«la pur sintetica descrizione delle mansioni svolte, prima e dopo
l'asserito demansionamento, consente di effettuare la valutazione
comparativa e quindi di giudicare sul merito della domanda sicché, sotto
tale profilo, l'atto introduttivo non è viziato».
III/b - Circa la congruità del
cennato percorso motivazionale, la verifica dello stesso riguarda anche la
valutazione delle risultanze probatorie (la cui critica connota le censure
formulate specie con il secondo e nel terzo motivo di ricorso) è attività
istituzionalmente riservata al giudice di merito non sindacabile in
cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del
relativo apprezzamento (Cass. n. 322/2003).
Pervero, il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento
da quelle prove che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello
stesso e di disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la
decisione adottata, essendo sufficiente, ai fini della congruità della
motivazione, che da questa risulti che il convincimento si sia realizzato
attraverso una valutazione dei vari elementi processualmente acquisiti,
considerati nel loro complesso, pur senza un'esplicita confutazione degli
altri elementi non menzionati e non accolti, anche se allegati, purché
risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, a quelli
utilizzati.
Comunque, ove con il ricorso per cassazione venga dedotta l'incongruità o
illogicità della motivazione della sentenza impugnata per l'asserita mancata
valutazione di risultanze processuali, è necessario, al fine di consentire
al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non
valutata (o insufficientemente valutata), che il ricorrente precisi –
mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso (nella specie non
avvenuta) - la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o
insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla
Corte di cassazione, alla quale è precluso l'esame diretto degli atti di
causa, di delibare la decisività della risultanza stessa (Cass. n.
9954/2005).
Con riferimento, quindi, ai pretesi vizi di motivazione - che, secondo la
società ricorrente, inficerebbero la sentenza impugnata - vale rilevare che:
a) il difetto di motivazione, nel senso d'insufficienza di
essa, può riscontrarsi soltanto quando dall'esame del ragionamento svolto dal
giudice e quale risulta dalla sentenza stessa emerga la totale obliterazione
di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero
l'obiettiva deficienza, nel complesso di essa, del procedimento logico che
ha indotto il giudice, sulla base degli elementi acquisiti, al suo
convincimento, ma non già, invece, - come per le doglianze mosse nella
specie dalla società ricorrente - quando vi sia difformità rispetto alle
attese ed alle deduzioni della parte sul valore e sul significato attribuiti
dal giudice di merito agli elementi delibati; b) il vizio di
motivazione sussiste unicamente quando le motivazioni del giudice non
consentano di ripercorrere l'iter logico da questi seguito o esibiscano al
loro interno non insanabile contrasto ovvero quando nel ragionamento
sviluppato nella sentenza sia mancato l'esame di punti decisivi della
controversia – irregolarità queste che la sentenza impugnata di certo non
presenta -; c) per poter considerare la motivazione adottata dal
giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa
vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le
argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi
le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere
implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili
con esse.
Benvero, le censure con cui una sentenza venga impugnata per vizio della
motivazione non possono essere intese a far valere la non rispondenza della
ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso
convincimento soggettivo della parte - pure in relazione al valore da
conferirsi alle "presunzioni" [la cui valutazione è anch'essa incensurabile
in sede di legittimità alla stregua di quanto già riferito in merito alla
valutazione delle risultanze probatorie (Cass. n. 11906/2003)]‑ e, in
particolare, non vi si può opporre un preteso migliore e più appagante
coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del
giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli
elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero
convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo di
tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all'art.
360, n. 5, cod. proc. civ.: in caso contrario, il motivo di ricorso si
risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e
dei convincimenti del giudice di merito, id estdi una nuova pronuncia
sul fatto sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di
cassazione.
III/c - A conferma della
pronuncia di rigetto dei motivi di ricorso in esame vale, infine, riportarsi
al principio di cui alla sentenza di questa Corte n. 5149/2001 (e, di
recente, di Cass. Sezioni Unite n. 14297/2007) in virtù del quale, essendo
stata rigettata la principale assorbente ragione di censura, il ricorso deve
essere respinto nella sua interezza poiché diventano inammissibili,per
difetto di interesse, le ulteriori ragioni di censura.
IV - Il terzo motivo del
ricorso "principale" – da valutarsi congiuntamente al primo motivo del
ricorso "incidentale" in quanto intrinsecamente, se pure con
conclusioni specularmente opposte, connesso - non appare siccome il motivo
"connesso", meritevole. di accoglimento.
Infatti, in merito alla misura del risarcimento del danno dovuto a seguito
di dequalificazione o di demansionamento del lavoratore, il Giudice di
appello ha rilevato che «nella fattispecie, non sembra possa negarsi che una
lesione alla personalità morale ed al bagaglio di capacità professionali si
sia verificato sia in considerazione del notevolmente lungo tempo in cui il
demansionamento si è protratto (1992-1997), sia per l'elevata qualificazione
raggiunta dal lavoratore, sia per la considerevole anzianità di servizio,
con presumibile raggiungimento di un alto livello di esperienza specifica,
sia per il fatto che non sono state semplicemente attribuite mansioni
inferiori, ma il lavoratore è stato lasciato quasi in totale inerzia, salvo
lo svolgimento di compiti di scarso impegno qualitativo e quantitativo. A
diverse conclusioni, invece, può giungersi quanto al più specifico danno
all'immagine professionale poiché lo SPAC. non ha dedotto specifici elementi
di fatto da cui possa desumersi che l'immagine professionale e cioè la stima
e la considerazione di cui il lavoratore godeva innanzi tutto nel suo
ambiente di lavoro, potesse essere diminuita per effetto del demansionamento,
non essendo a ciò sufficiente il fatto in sé della dequalificazione».
Nella specie, come si evince chiaramente dal testo della motivazione, la
Corte di merito ha, nell'ambito dell'apprezzamento di fatto di sua
competenza, desunto la sussistenza di un danno (di natura professionale) da
demansionamento dall'osservazione che la sostanziale ed assoluta diversità
delle mansioni assegnate rispetto a quelle in precedenza svolte determina un
grave nocumento all'esperienza, alla professionalità ed alle
attitudini del lavoratore, in relazione soprattutto alla "quasi totale
inerzia" provocata illegittimamente allo SPAC. dalla BANCA datrice di
lavoro.
A tale riguardo questa Corte ha di recente statuito che «in caso di
accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione
dell'art. 2103 cod. civ., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto
incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere
l'esistenza del relativo danno determinandoneanche
l'entità in via equitativa con processo logico-giuridico attinente alla
formazione della prova anche presuntiva in base agli elementi di fatto
relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al
tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito
finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto».
(Cass. n. 14729/2006 e n. 14302/2006).
Giurisprudenza questa che si è sviluppata con riferimento al principio
affermato dalle Sezioni Unite secondo cui «il danno esistenziale (provocato
da demansionamento) - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non
meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul
fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti
relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla
espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va
dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento,
assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla
complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche,
durata, gravità, conoscibilità all'interno e all'esterno del luogo di lavoro
della operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli
aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in
essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta
lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle
abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si
risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un
prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia
all'esistenza del danno facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ., a
quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve
nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove" (Cass. Sez.
Unite n. 6572/2006).
Il
Giudice di appello ha
correttamente applicato il cennato principio per cui restano incensurabili
in sede di legittimità l'apprezzamento del danno subito dal
lavoratore -apprezzamento che resiste alle censure sia del ricorrente
principale che del ricorrente incidentale - atteso che il controllo di
logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360, n. 5 cod. proc.
civ., non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio",
ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata
soluzione della questione esaminata , in quanto una simile revisione, in
realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe
sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione
assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità.
Pervero l'art. 360 cit. non conferisce alla Corte di cassazione il potere di
riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare,
sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la
valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta
individuare le fonti del proprio convincimento e, all'uopo, valutarne le
prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le
risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in
discussione
(Cass., Sez. Un. 11 giugno 1998 n. 5802), non incontrando, al riguardo, lo
stesso giudice, alcun limite che quello di indicare le ragioni del proprio
convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a
confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente
disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati
specificamente, sono logicamente incompatibili la decisione adottata (Cass.
n. 11933/2003).
Vanno, pertanto, respinti sia il terzo motivo del ricorso principale che il
primo motivo del ricorso incidentale.
V - Anche il secondo
motivo del ricorso incidentale non può essere accolto.
Infatti, con riferimento alla pronuncia di cessazione della materia del
contendere che costituisce, nell'ambito del rito contenzioso ordinario, una
fattispecie di estinzione del processo creato dalla prassi giurisprudenziale
(Cass. n. 10478/2004) -, la censura formulata dal ricorrente in via
incidentale si rivela inammissibile, in quanto con il motivo di ricorso non
sono stati dedotti, né specificamente indicati, i criteri di interpretazione
che sarebbero stati violati dal giudice del merito in relazione alla
denunciata situazione processuale, mentre - in base alla giurisprudenza di
questa Corte che qui si
conferma anche per la parte motiva - «in tema di interpretazione degli atti
processuali la parte che censuri il significato attribuito dal giudice di
merito deve dedurre la specifica violazione dei criteri di ermeneutica
contrattuale di cui agli artt. 1362 e segg. cod. civ., normativa questa
avente portata di carattere generale» (Cass. n.8960/2006, Cass. n.
16888/2005).
VI - In definitiva, alla
stregua delle considerazioni svolte, debbono essere respinti integralmente
sia il ricorso principale che il ricorso incidentale.
Ricorrono giusti motivi (id est,reciproca soccombenza) per
dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di
legittimità.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa interamente tra le parti
le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso, in Roma, il giorno 26 maggio 2008 (depositato il 7 ottobre
2008).