Il danno da demansionamento correttamente ritenuto immanente (o“in re ipsa”) per lesione del bene immateriale della dignità umana e della personalità morale del lavoratore, tutelate a livello costituzionale ed ordinario

 

 Sommario:

1.    L’ultimo orientamento giudiziario (Trib. Treviso 13 ottobre 2000 e Cass. sez. lav. 6 novembre 2000, n. 14443)

2.    Le certezze raggiunte in dottrina ed in giurisprudenza sul danno da demansionamento

3.    Considerazioni sull’affermazione (operata da Cass. n. 14443 del 2000) di un presunto onere  probatorio della lesione alla c.d. professionalità oggettiva

4.    Le condizioni di  risarcibilità del danno biologico e del danno morale

 

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1.                 L’ultimo orientamento giudiziario (Trib. Treviso 13 ottobre 2000 e Cass. sez. lav. 6 novembre 2000, n. 14443)

In un nostro precedente articolo sul tema della reintegrazione (sia nel posto di lavoro che nelle pregresse mansioni o in altre equivalenti) osservavamo come l’impresa tenda, di norma,  a sottrarsi all’ordine giudiziale rivoltole – anche a costo di incorrere nel reato ex art. 388 c.p., di inottemperanza ad un ordine della magistratura – e ponga in atto tutti quei meccanismi ostruzionistici, palesi o mimetici, finalizzati a vanificare l’obbligo impostole (e a non consentire al lavoratore la realizzazione del diritto sancito a livello giudiziale).

Le nostre considerazioni trovano ora una riconferma tanto  occasionale  quanto significativa nelle due decisioni in tema di “dequalificazione” pubblicate in questa Rivista. Cioè a dire, rispettivamente, nella sentenza del Tribunale di Treviso ( sez. lav. 1 grado) del 13 ottobre 2000 (in questa Rivista 12/2000, p. 2324) e nella sentenza della Corte di Cassazione, sezione lavoro, del 6 novembre 2000 n. 14443 (ibidem 12/2000, p.2287) .

Nella prima  risulta sanzionata - con il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno alla professionalità e alla personalità morale del lavoratore (e con l’imposizione al soccombente di una somma per spese legali pari a £. 15 milioni!) – la mancata esecuzione di sentenze cautelari impositive di riassegnazione ad un dirigente tecnico  del Comune di Ponzano Veneto di mansioni  equivalenti  a quelle dalle quali era stato illegittimamente rimosso, cioè in buona sostanza di un  ruolo e posizione professionale di pari dignità interno/esterna.

La massima della decisione, che si riproduce per comodità di comprensione da parte del lettore, è la seguente: “La revoca dall’incarico dirigenziale con assegnazione, dietro ordine giudiziale, a mansioni di posizione professionale non equivalente, occasiona per il lavoratore rimosso sia il diritto al risarcimento del danno – per violazione degli artt. 2 e 41 Cost e 2087 c.c. – alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro, la cui lesione si verifica per il riflesso che la dequalificazione professionale ha, sia nell’ambiente di lavoro sia all’esterno, sulla dignità dell’uomo e del lavoratore, sulla aspettativa di carriera, sull’immagine e sulla vita di relazione con riferimento anche allo status sociale (c.d. danno alla personalità morale),  sia il diritto al risarcimento del danno alla professionalità (tutelata dall’art. 2103 c.c.) che consiste nel mancato incremento delle conoscenze professionali e nel mancato utilizzo delle conoscenze e capacità acquisite, nonché – quando sussistente – del danno biologico (per lesione anatomo-funzionale del soggetto cioè a dire dell’integrità dello stato di salute) e del danno morale (ove la condotta lesiva costituisca anche reato).

Entrambe le prime due voci di danno (alla personalità morale e alla professionalità) sono intrinseche e conseguenziali al demansionamento secondo “l’id quod plerumque accidit” ed hanno una dimensione patrimoniale che le rende suscettibili di risarcimento e di valutazione anche equitativa (cfr. Cass. n. 11727/99).”.

Nella sentenza n. 14443 del 6 novembre 2000 della sezione lavoro della Cassazione, risulta sanzionato invece il confinamento in “forzata inattività” di un lavoratore con qualifica di quadro, deliberatamente non utilizzato dall’azienda dopo l’ordine di reintegra giudiziale dichiarativo dell’illegittimità del precedente licenziamento. In buona sostanza, l’azienda, dopo aver riammesso formalmente in organico il lavoratore, lo aveva lasciato nella più completa inattività, dimostrando una indisponibilità sostanziale verso la decisione del magistrato e  l’intendimento di sanzionare ritorsivamente questa  reintroduzione coatta del lavoratore in azienda. Il lavoratore aveva adito  il Pretore di Firenze (che aveva disposto una liquidazione equitativa del danno  arrecato alla dignità e personalità morale del lavoratore, tramite la mancata utilizzazione professionale in concreto, utilizzando come parametro di base l'importo del t.f.r. percepito evidentemente a seguito di risoluzione del rapporto di lavoro cui il dipendete sgradito si era determinato non certo volontariamente!), poi la questione era passata al vaglio del Tribunale (che ne aveva riconfermato le statuizioni) ed infine giunta in Cassazione.  Qui i giudici della S. corte riconfermano la correttezza delle conclusioni raggiunte nei precedenti gradi del giudizio ed affermano principi – sui quali ci intratterremo in prosieguo – di indubbia rilevanza, in linea con quanto già da noi sostenuto in due note (“Il  carattere immanente del danno da dequalificazione”, nota a Cass.,  sez. lav.,  18 ottobre 1999, n. 11727, in Lavoro e previdenza Oggi 12/1999, p. 2347 e in “Demansionamento per esproprio di competenze, aziendalmente legittimato”, nota a Pret. Roma 1 aprile 1999, ibidem , 6/2000, p. 1246). Ancora per comprensione del lettore  riferiamo la massima  (non ufficiale ma da noi elaborata) di Cass. n. 14443/2000 che così si esprime: “Il demansionamento professionale dà luogo  ad una pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore. Non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 c.c., ma costituisce  offesa  alla dignità professionale  del prestatore intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo (in cui si sostanzia il danno alla dignità del lavoratore, bene immateriale per eccellenza) e quindi  lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio conseguente incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, con indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche  equitativa (Cass. 18.10.99, n. 11727). L’affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in qualche modo supera ed integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell’effettiva sussistenza di un danno patrimoniale (cfr. le sentenze 11.8.98,n 7905; 4.2.97, n. 1026 e 13.8.91, n. 8835).

Va invece dimostrato il concreto pregiudizio qualora si adduca addizionalmente una lesione della professionalità in senso obiettivo, sciolta da ogni riferimento alla dignità del lavoratore ed intesa nel senso di perdita di occasioni concrete di progressione lavorativa (migliori occasioni di collocazione lavorativa all’esterno e di avanzamento in carriera all’interno).

Ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.), l’inesistenza di una pronuncia del giudice penale, nei termini in cui ha efficacia di giudicato nel processo civile a norma degli artt. 651 e 652 c.p.p., comporta che il giudice civile possa accertare  ‘incidenter tantum’ l’esistenza del reato – nel caso di ingiuria, riscontrato insussistente in sede di merito (n.d.r.)-  nei suoi elementi obiettivi e soggettivi, individuando l’autore, procedendo al relativo accertamento nel rispetto dei canoni della legge penale (cfr. ex multis Cass. 14.2.2000, n. 1643)”.

 

2. Le certezze raggiunte in dottrina ed in giurisprudenza sul danno da demansionamento

Nella tematica della dequalificazione, soggetta ad oscillazioni (sia pure su aspetti secondari quali quelli dei parametri per la liquidazione equitativa del danno) conviene fissare le certezze raggiunte.

Partendo da Cass. n. 13299 del 16 dicembre 1992 (1), ricollegandoci a Cass. n. 11727 del 18 ottobre 1999 (2) fino all’odierna decisione n. 14443 del 6 novembre 2000 (3) – e tenendo a mente i numerosi giudicati di merito (da ultimo Trib Treviso 13 ottobre 2000 (4)  -  si può dire che si sono raggiunte le seguenti certezze:

 

a) la dequalificazione (sia essa per lottizzazione, id est  per far posto ad altri appartenenti ad aree politiche diverse o si realizzi per i più diversi motivi)   che occasioni da parte datoriale il mancato  rispetto delle obbligazioni assunte (da eseguire secondo correttezza e buona fede  ex artt. 1175 e 1375 c.c.)  e quindi la violazione del principio giuridico codificato nell’art. 2103 c.c. di assegnazione del lavoratore alle mansioni pattuite o ad altre professionalmente equivalenti,  determina un vulnus alla dignità del lavoratore ed alla sua personalità morale, al suo diritto alla realizzazione delle proprie aspettative nell’ambito dell’attività  lavorativa in funzione delle quali ha instaurato un rapporto di lavoro. Tale vulnus  -  immanente al danno da demansionamento, cioè a dire “ in re ipsa” e, come tale, non necessitante di prova di pregiudizio economico - occasiona responsabilità da inadempimento del debitore ex art. 1218 c.c., liquidabile dal giudice adito anche in via equitativa ex art. 1226 c.c. Il comportamento contra legem  è lesivo dell’art. 2 Cost (che fissa il diritto al rispetto della personalità dell’uomo nella complessità ed unitarietà delle sue componenti e nelle varie sedi o formazioni sociali  di svolgimento, concretante di per sé  una posizione di diritto soggettivo, così Cass. 1° sez. civ., n. 3769/1985) nonché dell’art. 41, comma 2°,  Cost (che vieta alla libertà di impresa di “recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”). Quando la dequalificazione è posta in essere per motivi “pravi” (lottizzazione, motivi antisindacali, discriminazioni di vario tipo) essa è anche lesiva dell’art. 1 Cost. – oltrechè dell’art. 15 Stat. lav. -  che pone a base della convivenza civile nello Stato i “principi  democratici e lavoristici”, in tal modo precludendo in linea di principio che la valutazione e l’apprezzamento professionale del lavoratore si dispieghi secondo criteri diversi da quelli  costituiti dalle “qualità professionali e personali e dai meriti di lavoro” (così, Cass. n. 13299/1992, cit).

In tal senso, inequivocabilmente,  Cass. n. 13299/1992 secondo cui: “ …il vulnus alla personalità  ed alla libertà del lavoratore… contiene necessariamente, oltre che la potenzialità del danno, una inseparabile carica di effettività (senza che ciò significhi ricorso a presunzioni) per la diminuzione del patrimonio professionale, anche ai fini dell’ulteriore sviluppo di carriera, del lavoratore ingiustamente rimosso dalle mansioni corrispondenti alla sua qualifica”. Parimenti Cass. n. 11727/1999 che – nell’accogliere la tesi della difesa del lavoratore secondo cui il giudice di merito aveva generalizzato il principio dell’onere della prova a carico del lavoratore anche alle violazioni della professionalità  mentre l’onere probatorio era da ritenersi ristretto alla fattispecie del danno biologico – ha asserito: “E’ illegittimo il disconoscimento del risarcimento del danno patrimoniale da accertata dequalificazione professionale, per non aver il lavoratore fornito la prova di un contenuto economicamente apprezzabile del danno medesimo o di elementi  implicanti un vulnus alla  sua personalità, alla sua vita di relazione, alla sua immagine professionale e sociale, alle sue aspettative di promozione e di carriera. Infatti il danno da demansionamento professionale si risolve (e si sostanzia di per sé)  in un effettivo, concreto e inevitabile ridimensionamento dei vari aspetti della vita professionale del lavoratore, ridimensionamento che costituisce, a sua volta, un bagaglio peggiorativo diretto ad interferire negativamente nelle infinite espressioni future dell’attività lavorativa. La dequalificazione contiene necessariamente, oltre che la potenzialità del danno, una inseparabile carica di effettività (senza che ciò significhi ricorso a presunzioni) per la diminuzione del patrimonio professionale, anche ai fini dell’ulteriore sviluppo di carriera, del lavoratore ingiustamente rimosso dalle mansioni corrispondenti alla sua qualifica, danno che  deve essere risarcito dietro valutazione del giudice che - ricorrendone le condizioni – potrà procedere anche con il criterio equitativo ex art. 1226 c.c.” Nello stesso senso Trib. Roma (sez. lav., 1° grado) del 4 aprile 2000 (est. Buonassisi, Bellumori c. Telecom SpA (5), secondo cui: “Il demansionamento, inteso quale privazione delle mansioni o svuotamento del loro contenuto, costituisce un danno in sé,… Gli stessi principi non possono essere estesi al danno biologico, o alla salute, rispetto ai quali è il lavoratore a dover provare in modo specifico il danno subito e il nesso causale con la condotta datoriale” (6). Nel senso dell’immanenza del danno da dequalificazione ancora Trib Treviso 13 ottobre 2000, cit., secondo cui: “Entrambe le prime due voci di danno (alla personalità morale e alla professionalità da demansionamento) sono intrinseche e conseguenziali al demansionamento secondo “l’id quod plerumque accidit” ed hanno una dimensione patrimoniale che le rende suscettibili di risarcimento e di valutazione anche equitativa (cfr. Cass. n. 11727/99)”.

E da ultimo Cass. n. 14443/2000 anch’essa  espressasi per l’immanenza del danno da demansionamento, sulla base dell’argomentazione per cui: “L’affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in qualche modo supera ed integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore potesse dar luogo a risarcimento solo ove venisse fornita la prova dell’effettiva sussistenza di un danno patrimoniale (cfr. le sentenze 11.8.98, n 7905; 4.2.97, n. 1026 e 13.8.91, n. 8835)”;

 

b) tuttavia il danno da demansionamento non si indirizza solo su di un bene immateriale quale “la dignità e le personalità morale del lavoratore”, ma lede il bene concreto della professionalità, nella forma del mancato utilizzo delle conoscenze pregresse acquisite e del loro ulteriore perfezionamento conseguente alla loro estrinsecazione nella prestazione lavorativa. E’ comune acquisizione che alla “sottoutilizzazione” o ancor peggio alla “forzata inattività” si accompagna – automaticamente e senza necessità di prova -  degrado di professionalità e non certo utilizzazione ed accrescimento della stessa, quale postulato dall’art. 2103 c.c., nella consolidata interpretazione giurisprudenziale elaborativa della nozione di “equivalenza”.

Questo intuitivo concetto viene significativamente espresso da Pret. Milano 21 gennaio 1992 (7), secondo il quale: “l'impossibilità di svolgere il lavoro per il quale si è idonei, comporta un decremento o, quanto meno, un mancato incremento della professionalità, intesa come l'insieme delle conoscenze teoriche e delle capacità pratiche che si acquisiscono da parte del lavoratore con il concreto esercizio della sua attività lavorativa. La tesi (della convenuta società, n.d.r.) circa l'inesistenza di un danno, nel caso specifico, poiché il ricorrente avrebbe potuto aggiornarsi nelle materie legali anche in mancanza di attività lavorativa, leggendo e studiando le pubblicazioni del settore...non può essere condivisa. E infatti la professionalità di un lavoratore intellettuale dipende ed è costituita non solo  dalle nozioni teoriche ma dalle capacità applicative delle stesse nella prassi lavorativa; essa si forma nel rapporto con le esigenze tecniche poste dalla pratica quotidiana e non certo ipotizzabili in termini astratti e teorici e viene stimolata ed incrementata dall'attività di soluzione delle evenienze che di volta in volta si pongono. Consegue a ciò che l'assenza del lavoro priva il lavoratore della possibilità di utilizzare e valorizzare la sua professionalità, determinandone l'impoverimento; ed, al tempo stesso, ne impedisce la crescita. In tale prospettazione è evidente che la forzata inattività dal lavoro determina per il lavoratore un pregiudizio al suo bagaglio professionale, che si traduce in un danno patrimonialmente valutabile"(8). E che la  professionalità in concreto sia danneggiata dal demansionamento e, pertanto, necessiti anch’essa di risarcimento lo si desume da Trib. Treviso 13 ottobre 2000, laddove il magistrato  liquida tale danno secondo il parametro della retribuzione mensile (assunta nel 50% dell’importo) in congiunzione con il risarcimento del vulnus alla personalità morale (equitativamente fissato in £.500 mila al mese per ogni mese di demansionamento);

 

c) è anche pacifico orientamento  giurisprudenziale  quello secondo il quale “per la determinazione equitativa del danno alla professionalità si deve tener conto  della retribuzione mensile e del protrarsi nel tempo della dequalificazione, poiché il danno cresce secondo una linea di sviluppo progressiva, correlata sostanzialmente al decorso del tempo…”(ex plurimis,  Pret. Milano 9 aprile 1998 e Pret. Milano 26 gennaio 1999 (9).  Con ciò si vuol dire che più a lungo si è protratta la dequalificazione, maggiore è il danno, così  come maggiore è il danno da “non utilizzazione o forzata inattività” rispetto a quello da “sottoutilizzazione”,  derivante dalla  sottrazione solo  di taluni compiti qualificanti  ma senza confinamento nella totale, più avvilente e più professionalmente pregiudizievole inedia lavorativa.

 

3. Considerazioni sull’affermazione (operata da Cass. n. 14443 del 2000) di un presunto onere probatorio della lesione alla c.d. professionalità oggettiva

Attenzione – anche se non condivisione, per cui si attende una  addizionale riflessione della S. corte sul punto – merita il “distinguo” operato dal Cass. n. 14443 del 2000, laddove sostiene che il danno alla professionalità intesa in senso obiettivo  (slegata cioè dal vulnus alla dignità umana e strutturata dagli addotti pregiudizi alle occasioni o chanches di migliore collocazione esterna o di progressione di carriera all’interno) deve essere, invece, provato nel suo pregiudizio patrimoniale dal lavoratore. Questo danno, secondo tale decisione, non sarebbe immanente ma soggetto all’onere probatorio ex art. 2697 c.c. Ora è intuitivo – e le precedenti decisioni n. 13299/1992 e n. 11727/1999 l’avevano detto espressamente – che il danno alla professionalità, sotto forma di decremento od obsolescenza del patrimonio professionale di nozioni ed esperienza acquista si riflette “automaticamente” in negativo  sulle opportunità di reperimento di nuova occupazione all’esterno e di avanzamento di carriera all’interno. Ed anche questi pregiudizi sono immanenti secondo l’id quod plerumque accidit (per usare la dizione di Trib. Treviso 13 ottobre 2000, cit.). Ma evidentemente la  S. corte, dopo aver compiuto  il primo tragitto sul sentiero della “immanenza” al demansionamento  del danno equitativamente risarcibile, non se l’è sentita di compierlo fino in fondo, estendendo il riconoscimento del danno “in re ipsa” anche agli addotti pregiudizi di carriera o di occasioni di lavoro all’esterno e ne ha, con un atteggiamento frenante e restrittivo, preteso la dimostrazione.

Può essere anche in un certo qual modo comprensibile che, di fronte all’affermazione del lavoratore che il danno alla professionalità per colpa datoriale abbia anche comportato una mancata progressione di carriera, la S. corte abbia ritenuto che sia onere (quando non concludentemente risaltante da fatti di indubbia significatività quali l’obiettiva ed incontestata evidenziazione  o riscontro che i colleghi del pretermesso erano avanzati in carriera con ben altra accelerazione rispetto alla staticità o ibernazione o ai superiori  tempi di avanzamento del demansionato)  dimostrare da parte dello stesso, superando la realistica presunzione, che se non fosse stato oggetto del comportamento emarginante sarebbe progredito in carriera come gli altri (o più degli altri) colleghi.  Così, nello stesso modo, si può anche  comprendere che non si possa automaticamente accedere alla richiesta risarcitoria di mancate opportunità di nuove occasioni di lavoro esterno se non si è data in qualche modo la prova  di averle sperimentate tentativamente: certo è che non bisogna giungere alla trasformazione di quest’onere  in “probatio diabolica” per il lavoratore, quale potrebbe risultare quella di  pretendere che un demansionato, per dimostrare la sua non ricollocabilità all’esterno, si debba far rilasciare da un’azienda (o una società di selezione) cui si è presentato per una nuova occupazione l’attestazione dell’essere stato scartato o ricusato per “obsolescenza” da demansionamento posto in essere  dal pregresso datore di lavoro. Chi mai, quando mai, e perché mai un terzo estraneo dovrebbe rilasciare una attestazione o testimonianza similare?

Tutto quindi si giocherà sul buon senso, attraverso le misure che il magistrato dovrà utilizzare per “quantificare” il risarcimento del danno alla professionalità, alla dignità, alla personalità morale, all’immagine, alla reputazione del lavoratore demansionato, all’esterno e all’interno dell’azienda. Sarà pertanto il giudice – da una parte tenendo conto  delle c.d. componenti immanenti del danno alla professionalità, dall’altro  delle considerazioni  e circostanze concludentemente probanti (anche se non in senso strettamente tecnico) per verosimiglianza, fondatezza e realismo – che dovrà calibrare la misura risarcitoria del danno, la cui quantificazione dovrà essere altresì intrinsecamente dotata di un sostanzioso e tangibile carattere di “deterrenza” o “dissuasività”,  cioè di idoneità a scoraggiare la reiterazione del comportamento emarginante, lesivo e contra legem (allo scopo graduandolo caso per caso, tenendo  anche opportunamente presente il principio codificato nell'art. 26, comma 2°, c.p. - già utilizzato nell'art. 38 Stat. lav. - in ordine alla presumibile inefficacia  della (indiretta) sanzione pecuniaria in ragione della capacità di resistenza economica dell’azienda, desumibile dal  capitale sociale o da  indici similari di consistenza economica e significativa presenza sul mercato). I nostri giudici si devono allineare ai loro colleghi anglosassoni nel conferire  la giusta valenza alle lesioni dei  diritti fondamentali ed inviolabili della personalità , in modo tale da non consentire ulteriormente di imbattersi in cifre risarcitorie dell’ordine dei 10 milioni come si è letto nelle recenti ed isolate sentenze del Tribunale di Torino del 16 novembre 1999 (10) e del 30.12.1999 (Stomeo c. Ziliani Spa, inedita) in tema “anti mobbing”, perché non è certo questa la strada per realizzare l’obiettivo della dissuasione dei comportamenti vessatori, discriminatori ed emarginanti dei prestatori di lavoro  ad essi (quasi impunemente) sottoposti nonchè per ristorare equitativamente il danno da perdita o abbandono (non certo volontario) del bene del posto di lavoro.

 

4. Le condizioni di risarcibilità del danno biologico e del danno morale

Anche sul fronte del risarcimento del danno biologico e del danno morale si sono raggiunte oramai certezze, per effetto di orientamenti consolidati. Il danno alle lesioni dell’integrità dello stato di salute – conseguente a pratiche di demansionamento, di mobbing, di bossing, e simili – è risarcibile dietro dimostrazione non solo della sussistenza del danno, anche nella sua entità specifica, ma principalmente del nesso di causalità o di concausa dalle pratiche afflittive e contra legem datoriali.

Relativamente al danno morale, si è poi raggiunta la conclusione che - nell’attuale contesto normativo in cui lo stesso viene risarcito solo in quanto conseguenza di una condotta costituente reato, ai sensi dell’art. 2059 c.c. – anch’esso necessità di prova concreta e dell’accertamento della sussistenza del reato (di norma  quello di lesioni personali ex art. 582 c.p. o di lesioni personali colpose ex art. 590 c.p., non escludendosi la possibile ricorrenza dell’abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. e la violenza privata  ex art. 610 c.p.), allo scopo considerandosi  pienamente legittimato – in assenza di giudicato penale – il giudice civile, come riconferma l’odierna Cass. n. 14443/2000, laddove asserisce che: “Ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.), l’inesistenza di una pronuncia del giudice penale, nei termini in cui ha efficacia di giudicato nel processo civile a norma degli artt. 651 e 652 c.p.p., comporta che il giudice civile possa accertare  ‘incidenter tantum’ l’esistenza del reato nei suoi elementi obiettivi e soggettivi, individuando l’autore, procedendo al relativo accertamento nel rispetto dei canoni della legge penale (cfr. ex multis Cass. 14.2.2000, n. 1643)”.

In tal senso sia la dottrina sia  la giurisprudenza sono pacifiche, dopo l’abbandono del principio di preminenza dell’azione penale sulla civile, e per la legittimazione del giudice civile (del lavoro) all’autonomo riscontro del reato, si citano – in sede di legittimità ed in aggiunta a Cass. 14.2.2000, n. 1643 -  in ordine cronologico, Cass. 6.2.1990, n. 817 (11), Cass. 7.5.1997 n. 3992 e 27.2. 1996 n. 1501 (12), Cass. 13.5.1997, n. 4179 (13), Cass. 20.4.1998, n. 4012 (14), Cass.  20.10.1998, n. 10405 (15) che con innegabile chiarezza ha anch’essa statuito: “Ai fini del risarcimento del danno morale, il giudice civile ha il potere di accertare autonomamente se il fatto dannoso, dal quale trae origine la pretesa risarcitoria, integri gli estremi di un reato, nonostante non sia stata promossa l’azione penale nei confronti dell’autore materiale di esso, ovvero il procedimento penale sia stato definito con una declaratoria di estinzione del reato ovvero sia stato emesso un provvedimento di archiviazione della notizia di reato o di proscioglimento istruttorio”.

(pubblicato in Lavoro e previdenza Oggi, n. 12/2000, p.2192) 

Mario Meucci

Roma, 4 dicembre 2000

NOTE

 

(1)   In Riv. crit. dir. lav. 1993, 315.

(2)   In Lavoro e previdenza Oggi, 1999, 2342.

(3)  Ibidem 2000, n. 12,  p. 2287.

(4)  Ibidem 2000, n. 12,  p. 2324.

(5) In Guida al lavoro, n.21/2000, pag. 28.

(6) Nello stesso senso, per il riconoscimento che il danno da dequalificazione è “in re ipsa” si è espresso in maniera consolidata un anteriore orientamento di merito costituito da  Pret. Milano 21 gennaio 1992, in Riv. crit. dir. lav  1992,417;  Pret. Roma, 25 marzo 1988, in Riv. giur. lav. 1989,II,160; Trib. Roma 28 febbraio 1990, in Lav. 80  1990, 659; Pret. Milano 8 aprile 1993, in Riv. crit. dir. lav. 1993,659; Pret. Milano 28 marzo 1997, in Riv. crit.dir.lav. 1997, 791; Pret. Milano 9 aprile 1998, in Riv. crit. dir. lav. 1998, 704.

(7) In Riv. crit. dir. lav  1992, 417.

(8)  Conf. Pret. Roma, 25 marzo 1988, in Riv. giur. lav. 1989,II,160; Trib. Roma 28 febbraio 1990, in Lav. 80  1990, 659; Pret. Milano 8 aprile 1993, in Riv. crit. dir. lav. 1993,659; Pret. Milano 28 marzo 1997, in Riv. crit.dir.lav. 1997, 791; Pret. Milano 9 aprile 1998, in Riv. crit. dir. lav. 1998, 704.

(9)   Rispettivamente in Riv. crit. dir. lav. 1998, 704 e in Or. giur. lav. 1999, 77.

(10)  Erriquez c. Ergom Materie Plastiche, in  Lavoro e previdenza Oggi,  2000, p. 154

(11)  In Riv. giur. lav.  1991, 3, III, 1444.

(12)  In Foro it. 1997, I, 1758.

(13)  Ibidem 1997, I, 1757, con nota di Trisorio Liuzzi.

(14) In Riv. it. dir. lav. 1999, II, 326 con nota di Mautone.

(15) Inedita, a quanto consta.

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