DANNO MORALE ED ESISTENZIALE DA ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE MEDICA
REPUBBLICA
ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL
TRIBUNALE ORDINARIO DI ROMA
SEZ. II CIVILE
in
composizione monocratica ex art 281 quater c.p.c. nella persona del giudice
istruttore dott. Stefano Olivieri ha emesso la seguente
SENTENZA
nella
causa civile in primo grado iscritta al n. RGAC trattenuta in decisione alla
udienza del 25.9.2002 e vertente
tra
-
Fabi Antonietta, Cutolo Rosa, Cutolo Susanna, Cutolo Nicoletta in proprio e
n.q. di eredi di Cutolo Teodoro, elettivamente domiciliati in Roma, piazza Acilia
10 presso lo studio dell'avv. Antonio Funari che li rappresenta e difende
unitamente all'avv. Lucio Ghia per procura apposta in margine all'atto di
citazione;
-
attori -
e
-
Rome American Hospital s.p.a. in persona del legale rapp.te Alessandro Falez,
elettivamente domiciliato in Roma, via XXIV maggio 46 presso lo studio
dell'avv. Antonio Romei che lo rappresenta e difende per procura a margine
della comparsa di risposta;
-
convenuta -
nonché
-
Mutolo Pietro Alessandro elettivamente domiciliato in Roma, viale Carso 71
presso lo studio dell'avv. Giovanni Arieta che lo rappresenta e difende per
procura in calce alla copia notificata dell'atto di citazione;
-
convenuto -
nonché
-Vallocchia
Daniela, elettivamente domiciliata in Roma, via Otranto 36 presso lo studio
dell'avv.Mario Massano che la rappresenta e difende per procura a margine della
comparsa di risposta;
-
chiamata -
nonché
-
Assitalia Le Assicurazioni d'Italia s.p.a. in persona del procuratore speciale
Marco Cavicchi, elettivamente domiciliato in Roma, viale Parioli 87 presso lo
studio dell'avv. Aldo Seminaroti che lo rappresenta e difende per procura a in
calce alla copia notificata del ricorso ex art. 303 c.p.c.;
-
chiamata -
nonché
-
RAS Riunione Adriatica di Sicurtà s.p.a. in persona dei legali rapp.ti Ermanno
Mariuccio e Graziano Motzo, elettivamente domiciliati in Roma, via Panama 88
presso lo studio dell'avv. Giorgio Spadafora che li rappresenta e difende per
procura in calce alla copia notificata dell'atto di chiamata in causa;
-
chiamata -
OGGETTO:
responsabilità professionale medica
CONCLUSIONI
all'udienza
del 25.9.2002 le parti precisavano le proprie conclusioni come riportate in
parte motiva.
Svolgimento
del processo
Fabi
Antonietta, in proprio e n.q. di tutore provvisorio del marito interdetto
Cutolo Teodoro, Cutolo Rosa, Cutolo Susanna, Cutolo Nicoletta, hanno convenuto
in giudizio la Casa di cura Rome American Hospital s.p.a. e Mutolo Pietro
Alessandro esponendo:
-
che Cutolo Teodoro su indicazione del medico di fiducia Mutolo Alessandro si
era ricoverato presso il nosocomio convenuto in data 10.7.1992 per essere
sottoposto ad intervento di cataratta bilaterale e la di lui moglie aveva
espressamente raccomandato di eseguire l'intervento in anestesia locale attesa
l'età (anni 71) del marito e la patologia di cui era risultato affetto nel 1988
dai medici dell'Ospedale Forlanini ("sindrome Guillame-Barrè per una
poliradiocoloneurite")
-
che in data 10.7.1992 l'intervento eseguito in anestesia totale dal chirurgo
Mutolo e dall'anestesista Vallocchia assistiti dal personale paramendico della
clinica era esitato nel trasferimento del paziente in sala rianimazione essendo
stato questi colpito da arresto cardiaco subito dopo l'intervento chirurgico ed
essendosi poi ripreso a seguito del massaggio cardiaco ma senza acquistare
conoscenza;
-
che il 22.7.1992 il Cutolo fu trasferito presso il Centro rianimazione
dell'Osp. S. Camillo con diagnosi "danno ischemico anossico multilacunare
pseudo-bulbare post operatorio", quindi trasferito presso il reparto
neurologico con diagnosi di "encefalopatia anossica-ischemica da arresto
cardiaco occorso al risveglio da anestesia per intervento oculistico" e
successivamente, dal 15.9.1992 al 9.1.1993, sottoposto a trattamento
riabilitativo ed in fine trasferito presso la propria abitazione;
-
che attualmente il Cutolo aveva riacquistato la capacità visiva e di parlare, la
funzione motoria di compire alcuni atti della vita quotidiana ma non anche la
capacità di intendere tanto che era stato dichiarato interdetto giudiziale
essendo stato riconosciuto "irreversibilmente afasico e demente"; -
che in data 20.5.1993 la Casa di cura convenuta aveva intimato il pagamento
della somma di lire 43.524.000 relativa a fattura per residue spese di cura
(avendo la famiglia Cutolo già versato un anticipo di lire 10.000.000).
Ritenendo sussistere la imperizia ed imprudenza dei medici dell'equipe nella
scelta e nella pratica dell'anestesia generale, nonché ancora dell'anestesista
per non essere riuscito a fronteggiare la complicanza reintubando il paziente,
e rilevando altresì che i medici avevano praticato l'anestesia generale non
solo senza acquisire previamente il consenso informato del paziente ma
addirittura ignorando le controindicazioni fornite loro dalla moglie, gli
attori hanno concluso per la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni
patrimoniali e non patrimoniali subiti dal Cutolo e dalla moglie e per i danni
non patrimoniali subiti dalle figlie.
Si
sono costituiti entrambi i convenuti.
Il
Mutolo deducendo:
1-che
in alcuno dei due incontri avuti, in presenza anche dell'assistente Gorga, con
il Cutolo prima dell'intervento, questi o la moglie gli riferirono di
precedenti ricoveri ospedalieri in cui il paziente era risultato affetto da
disturbi neurologici
2- di aver condiviso la scelta dell'anestesista Vallocchia Daniela -designata dalla Casa di cura- orientata all'anestesia generale in quanto compatibile con l'anamnesi, gli esami di laboratori e l'età del paziente
3-che in data
10.7.1992 il Cutolo aveva sottoscritto atto di consenso all'intervento "e
alla somministrazione di anestetici necessari all'intervento stesso"
e
concludendo per il rigetto della domanda.
La
Casa di cura si è costituita sostenendo la non riferibilità delle condotte dei
medici alla persona giuridica di diritto privato, proponendo domanda
riconvenzionale per il pagamento della residua somma dovuta dagli attori per la
degenza del paziente e concludendo per il rigetto della domanda attorea.
Si
sono costituite anche le società assicuratrici evocate in garanzia impropria
dai convenuti in ragione delle rispettive polizze assicurative della
responsabilità civile. La Assitalia s.p.a, chiamata in giudizio dalla Casa di
cura, ha eccepito la violazione della clausola di gestione di lite, chiedendo
il rigetto della domanda di garanzia e in subordine aderendo alle difese
spiegate dal proprio assicurato nei confronti degli attori. La RAS s.p.a.,
chiamata dal
Gli
attori sono stati autorizzati dal GI ad integrare il contraddittorio nei
confronti dell'anestesista Vallocchia Daniela alla quale hanno esteso le
domande risarcitorie.
Si è
costituita Vallocchia Daniela sostenendo che dall'anamnesi e dagli esami
strumentali (in particolare cardiaci) eseguiti non emergevano controindicazioni
alla anestesia generale; che l'improvvisa fibrillazione del cuore dopo il
risveglio del paziente costituiva un evento imprevedibile non ricollegabile
eziologicamente al trattamento anestesiologico; che tutte le manovre
rianimatorie necessarie erano state immediatamente eseguite. Ha concluso per il
rigetto della domanda attorea, proponendo domanda di garanzia nei confronti
dell'Assitalia s.p.a. con la quale aveva stipulato polizza assicurativa della
responsabilità professionale.
Deceduto
nelle more del processo Teodoro Cutolo, la moglie e le figlie, in proprio e
n.q. di eredi, proseguivano il giudizio depositando comparsa di costituzione
alla udienza 6.10.1999. Interrotto il processo in seguito al decesso del
procuratore dell'Assitalia s.p.a., la società si costituiva nel giudizio
ritualmente riassunto dalle attrici.
Prodotti
documenti, escussi testi, espletata c.t.u. collegiale, acquisiti ulteriori
chiarimenti dai CC.TT.UU., la causa è stata trattenuta in decisione alla
udienza indicata in epigrafe con assegnazione dei termini ex art. 281 quinquies
c.p.c.
Motivi
della decisione
I-)
Preliminarmente va disposto lo stralcio delle osservazioni critiche alla c.t.u.
allegate alla comparsa conclusionale depositata dalla Assitalia s.p.a.: le
contestazioni alle indagini svolte dall'ausiliario del Giudice attengono,
infatti, alla fase istruttoria del processo e sono caratterizzate pertanto
dalla necessaria osservanza del fondamentale principio del contraddittorio che
deve attuarsi in quella fase. La chiusura della istruttoria esaurisce il
confronto delle parti sulla verifica processuale delle fonti di prova (e tale
funzione assolve la c.t.u. nelle controversie in materia di responsabilità
professionale medica), rimanendo pertanto preclusa una ulteriore attività
istruttoria (o comunque diretta ad ampliare o prospettare nuovi temi di
indagine) affidata alle memorie illustrative conclusive (cfr. Cass 26.11.1998
n. 11999).
Le
attrici hanno contestato ai sanitari convenuti di aver scelto un tipo di
trattamento anestesiologico (anestesia generale) controindicato rispetto
all'età ed alle condizioni patologiche del paziente; di non aver
preventivamente reso noto al Cutolo che l'intervento sarebbe stato eseguito in
anestesia totale (omessa acquisizione del cd. consenso informato); l'imperizia
nella esecuzione trattamento anestesiologico e delle manovre rianimatorie.
Come
è noto in tema di responsabilità professionale del medico è onere di colui che
assume aver subito un danno ingiusto dall'attività professionale del sanitario
fornire la prova:
1-della preesistente patologia o, in chirurgia estetica, dello status estetico o fisiognomico anteriore e che si intendeva modificare,
2-del trattamento
sanitario praticato,
3-della
non corrispondenza del risultato finale a quello programmato,
4-del nesso di causalità tra la prestazione professionale ed il danno lamentato,
5-ove eccepito, della non speciale difficoltà dell'intervento ex art. 2236
c.c..
In
presenza di tali elementi è, infatti, consentito argomentare in via presuntiva
(res ipsa loquitur) la imputabilità dell'evento pregiudizievole alla condotta
colposa del sanitario sul quale, pertanto, ricade l'onere della prova
liberatoria di aver eseguito la prestazione con diligenza ovvero che l'esito
negativo è derivato da un evento imprevisto ed imprevedibile o comunque non
accertabile secondo l'ordinaria diligenza professionale (Cass III sez.
21.12.1978 n.6141 in Giur It '79 pag. 953; Cass III sez. 1.2.1991 n.977 in Giur
It '91 pag. 1359; Cass 18.10.1994 n. 8470 in Mass FI '94; Cass 11.4.1995 n.
4152 Mass FI '95; Cass III sez. 4.2.1998 n.1127; Cass III sez. 23.2.2000 n.
2044 in USI Mass civ. Corte cass riv.534275).
Preliminare
è l'accertamento del nesso di derivazione causale della patologia
Occorre
premettere che anche nel settore della responsabilità civile trovano
applicazione le regole dettate dagli artt. 40 e 41 del codice penale che
disciplinano il nesso di causalità materiale (secondo la interpretazione
ricevuta del temperamento del principio della "conditio sine qua"
operato dalla teoria della "causalità adeguata"). Va dunque
pienamente condivisa l'affermazione giurisprudenziale secondo cui "E'
dunque causa penalmente
Ma,
ferma restando la struttura ipotetica della spiegazione causale, secondo il
paradigma condizionalistico e lo strumento logico dell'astrazione contro il
fatto, sia in dottrina che nelle più lucide e argomentate sentenze della
giurisprudenza di legittimità, pronunciate in riferimento a fattispecie di
notevole complessità per la pluralità e l'incertezza delle ipotesi esplicative
dell'evento lesivo (Sez. IV, 24.6.1986, Ponte, rv. 174511-512; Sez. N,
6.12.1990, Bonetti, rv. 191788; Sez. IV, 31.10.1991, Rezza, rv. 191810; Sez.
IV, 27.5.1993, Rech, rv. 196425; Sez. IV, 26.1.1998, P.G. in proc. Viviani, rv.
211847), si è osservato che, in tanto può affermarsi che, operata
l'eliminazione mentale dell'antecedente costituito dalla condotta umana, il
risultato non si sarebbe o si sarebbe comunque prodotto, in quanto si sappia,
'già da prima', che da una determinata condotta scaturisca, o non, un
determinato evento.
E la
spiegazione causale dell'evento verificatosi hic et nunc, nella sua unicità ed
irripetibilità, può essere dettata dall'esperienza tratta da attendibili
risultati di generalizzazione del senso comune, ovvero facendo ricorso (non
alla ricerca caso per caso, alimentata da opinabili certezze o da arbitrarie
intuizioni individuali, bensì) al modello generalizzante della sussunzione del
singolo evento, opportunamente ri-descritto nelle sue modalità tipiche e
ripetibili, sotto 'leggi scientifiche' esplicative dei fenomeni. Di talché, un
antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo se esso
rientri nel novero di quelli che, sulla base di una successione regolare
conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di
validità scientifica - 'legge di copertura' -, frutto della migliore scienza ed
esperienza del momento storico, conducano ad eventi 'del tipo' di quello
verificatosi in concreto.
Il
sapere scientifico accessibile al giudice è costituito, a sua volta, sia da
leggi 'universali' (invero assai rare), che asseriscono nella successione di
determinati eventi invariabili regolarità senza eccezioni, sia da leggi
`statistiche' che si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è
accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una certa percentuale di
casi e con una frequenza relativa, con la conseguenza che quest'ultime
(ampiamente diffuse nei settori delle scienze naturali, quali la biologia, la
medicina e la chimica) sono tanto più dotate di 'alto grado di credibilità
razionale' o 'probabilità logica', quanto più trovano applicazione in un numero
sufficientemente elevato di casi e ricevono conferma mediante il ricorso a metodi
di prova razionali ed empiricamente controllabili. Si avverte infine che, per
accertare l'esistenza della condizione necessaria secondo il modello della
sussunzione sotto leggi scientifiche, il giudice, dopo avere ri-descritto il
singolo evento nelle modalità tipiche e ripetibili dell'accadimento lesivo,
deve necessariamente ricorrere ad una serie di 'assunzioni tacite' e
presupporre come presenti determinate 'condizioni iniziali', non conosciute o
soltanto congetturate, sulla base delle quali, 'ceteris paribus', mantiene
validità l'impiego della legge stessa" (Cass. pen. SU 11.9.2002 n. 30328).
Tanto
premesso non sembrano utilizzabili, ai fini del predetto accertamento, le
criptiche e non convincenti risposte fornite dall'Ausiliario del Giudice che,
nella c.t.u. in data 1.7.1999, conclude per la esclusione del nesso eziologico
(tra il trattamento anestesiologico e l'arresto cardio-circolatorio e
respiratorio) sulla scorta della semplice lettura della scheda anestesiologica
allegata alla cartella clinica in cui si attesta la ripresa del respiro
spontaneo alle ore 14,15 affermando, poi, incomprensibilmente che "i
postumi reliquati non sono diversi da quelli possibili in questi casi",
mentre nei chiarimenti integrativi forniti in data 13.10.2000, dopo aver specificato
che per "possibilità" deve intendersi un evento verificabile nel
grado percentuale massimo del 50%, modifica le precedenti conclusioni riferendo
di non essere in grado -alla stregua della documentazione clinica depositata in
giudizio- di accertare "l'eventuale interruzione del nesso causale
ipotizzata in caso di ripresa del respiro spontaneo" in quanto
"strettamente dipendente dal tempo in cui il periziando ha respirato
spontaneamente, nel senso che tanto più è lungo questo tempo, tanto maggiore è
l'allontanamento dalla responsabilità professionale degli operatori
anestesisti".
Unica
circostanza certa emersa dalle indagini peritali (e non oggetto di
contestazione) è che -come comprovato dai ripetuti esami ECG, EEG eseguiti nei
giorni successivi- l'arresto cardio-respiratorio non ha avuto genesi
primitivamente cardiaca ("non è stato un infarto del miocardio a causare
l'arresto respiratorio").
Appare,
invece, adeguatamente supportata da una discussione clinica del caso in esame
nonché da argomentazioni che trovano riscontro nei documenti sanitari e nella
cartella clinica, la consulenza di parte attrice (CTP Fiori-La Monaca) che,
valorizzando proprio la circostanza della contiguità cronologica degli eventi
-come descritta nella scheda anestesiologica- ravvisa la esistenza del nesso
eziologico. Dalla scheda anestesiologica risulta, infatti, che alle ore 14,15
il paziente ha ripreso il respiro spontaneo e "dopo pochi secondi si
osserva agitazione psicomotoria seguita da arresto cardiocircolatorio e respiratorio";
gli stessi sanitari del Rome American Hospital in diagnosi di dimissione hanno
qualificato l'arresto cardio-respiratorio come "complicanza"
intervenuta a seguito dell'intervento chirurgico; nella cartella clinica del
Centro di rianimazione dell'Osp. S. Camillo in data 22.7.1992 la diagnosi è
"encefalopatia anossico-ischemica da arresto cardiaco occorso al risveglio
da anestesia per intervento oculistico"; nella scheda anamnestica del
Reparto di neurologia Lancisi della USL RM 16 (Osp. S. Camillo) viene ancora
specificato che dopo l'intervento di cataratta il paziente "al risveglio
presentava agitazione psicomotoria ed arresto respiratorio per cui si è reso
necessario procedere a reintubazione. Successivamente si è verificato arresto
cardiocircolatorio".
Orbene,
tenuto conto che:
- la
ipossia è una possibile complicanza anestesiologica che si verifica nella fase
del risveglio dopo la estubazione del paziente e può imputarsi ad errato
accertamento da parte dell'operatore della effettiva ripresa del respiro
spontaneo del paziente (e dunque risulta osservato il criterio di riferibilità
- secondo una legge statistica- dell'evento lesivo all'antecedente trattamento
di anestesia generale),
-
l'arresto respiratorio si è verificato "dopo pochi secondi" dal risveglio
(elemento induttivo rilevante sotto il profilo medico-legale che indaga il
nesso causale anche sulla scorta del criterio cd. cronologico),
- la
cartella clinica descrive il verificarsi simultaneo dell'arresto
cardiocircolatorio e di quello respiratorio mentre secondo la scheda
anamnestica del S. Camillo -redatta evidentemente sulle indicazioni fornite dai
medici convenuti- all'arresto respiratorio sarebbe seguito quello cardiaco (la
discrasia temporale potrebbe assumere rilievo nel caso in cui fosse individuabile
una preesistente patologia cardiaca tale da integrare un fattore causale
autonomo dell'arresto respiratorio: la sequenza degli eventi, tuttavia, non
conferma tale ipotesi che non ha, peraltro, trovato riscontro nelle indagini
svolte),
- è
rimasta incontestabilmente esclusa l'ipotesi della genesi cardiaca del deficit
respiratorio (risultando pertanto osservato il criterio di verifica
controfattuale che esclude la rilevanza deterministica della condotta
professionale laddove in assenza di questa l'evento si sarebbe egualmente
prodotto -per altra causa-),
- la
prova della esistenza del nesso di causalità richiesta alle attrici non si
estende alla esclusione di qualsiasi possibile diversa etiopatogenesi del
fenomeno (peraltro nel caso di specie neppure indicate dai convenuti nè dal
CTU) ma soltanto a quelle cause alternative (rispetto alla condotta del medico)
e dotate di efficacia deterministica esclusiva desumibili da fatti conosciuti
-in quanto allegati dalla parte od emergenti dalle risultanze probatorie- (è
del tutto evidente come tali cause non possano essere individuate in fattori
quali l'età del paziente e la insufficienza respiratoria cronica che hanno
"concorso" all'evento lesivo: c.t.u. risposta al quesito n. 5), tutto
quanto sopra premesso ritiene il Tribunale raggiunta la prova del nesso di
derivazione causale dell'arresto respiratorio e cardiocircolatorio (e della
conseguente patologia anossico-ischemica) dal trattamento anestesiologico
praticato (anestesia generale), non essendo sufficiente -avuto riguardo ai
predetti elementi di valutazione ed in assenza della accertata incidenza
causale di altri fattori determinanti- a contrastare o porre in dubbio il
giudizio espresso la mera allegazione che una -peraltro modesta- percentuale
statistica di casi di arresto cardiaco peri-operatorio rimane "sine
causa" (cfr. c.t.p. Orsetti-Aleandri).
II-)
Le attrici hanno lamentato che alcuna informazione è stata fornita al Cutolo in
ordine alla scelta da parte dei medici di praticare l'intervento chirurgico in
anestesia generale ed alle diverse conseguenze e rischi che tale scelta poteva
comportare.
A
fronte di un peggioramento delle condizioni dello status antecedente (e dunque
in presenza di un danno alla salute) assume carattere decisivo la questione relativa
all'accertamento di una valido consenso informato prestato dal paziente, atteso
che ove tale consenso dovesse risultare mancante (ovvero dovesse ritenersi
prestato invalidamente, per incompletezza od erroneità delle informazioni
fornite), i convenuti verserebbero per ciò stesso nella situazione di
inadempimento colpevole e dunque sarebbero responsabili dei danni derivati al
Cutolo indipendentemente da una eventuale imperizia o negligenza nella
esecuzione dell'intervento terapeutico (cfr. Cass III sez. 24.9.1997 n. 9374 in
USI Mass civ Corte cass rv.508192 " Se dall'esecuzione, ancorche'
prudente, diligente e tecnicamente corretta, di un intervento chirurgico o di
un accertamento diagnostico invasivo, deriva un danno o addirittura la morte
del paziente, non informato dai medici, - nella specie dipendenti da un ente
ospedaliero - dei rischi gravi per la vita o l'incolumita' fisica a cui poteva
andare incontro, al fine di prestare il necessario consenso a procedervi,
sussiste la responsabilità dell'ente, anche nel caso che non sia stato
individuato il medico a cui incombeva tale obbligo").
Appare
opportuno svolgere in proposito alcune considerazioni preliminari.
Costituisce
ormai affermazione ampiamente condivisa in giurisprudenza che "In tema di
terapia chirurgica, il dovere di informazione che grava sul sanitario e'
funzionale al consapevole esercizio, da parte del paziente, del diritto, che la
stessa Carta Costituzionale, agli artt. 13 e 32, secondo comma, a lui solo
attribuisce (salvi i casi di trattamenti sanitari obbligatori per legge o di
stato di necessita'), alla scelta di sottoporsi o meno all'intervento
terapeutico. In particolare, dalla peculiare natura del trattamento sanitario
volontario scaturisce, al fine di una valida manifestazione di consenso da
parte del paziente, la necessita' che il professionista lo informi dei
benefici, delle modalita' di intervento, dell'eventuale possibilita' di scelta
tra diverse tecniche operatorie e, infine, dei rischi prevedibili in sede post
operatoria" (sic: Cass III sez. 6.10.1997 n. 9705 id. rv. 508563).
I
dubbi in ordine alla qualificazione contrattuale od extracontrattuale della
responsabilità per omesso/insufficiente consenso informato del paziente
sembrano doversi risolvere a favore della prima ipotesi atteso che tale
attività informativa costituisce pur sempre una condotta attuativa della
prestazione professionale (di norma, infatti, è preceduta dall'esame clinico
del paziente ovvero dalla lettura ed interpretazione dei risultati di indagini
cliniche e delle notizie anamnestiche) e ricade pertanto nell'ambito della fase
esecutiva del contratto d'opera intellettuale (cfr. Cass III sez. 29.3.1976
n.1132; Cass 8.8.1985 n.4394 in FI '86 p.121; App. Milano 2.5.1995 in FI '96
p.1418). Ne segue che il consenso prestato dal paziente-contraente per la
conclusione del contratto ex art. 2230 c.c. avente ad oggetto l'accertamento
del quadro nosologico e la indicazione della sua evoluzione -diagnosi/prognosi-
(e che costituisce espressione della volontà negoziale, non soggetta a vincoli
di forma) è altro dal successivo "consenso informato" -che invece
attiene al risultato che con l'intervento terapeutico proposto si intende
conseguire e- che consiste nella realizzazione di quelle condizioni obiettive
idonee a consentire al paziente di esercitare il proprio diritto di libertà
(art. 13 Cost), rendendogli note, in forma comprensibile, tutte quelle
informazioni indispensabili (e dunque non solo quelle concernenti le diverse
tecniche operatorie, ma anche quelle inerenti alla valutazione della qualità
della vita che potrebbe seguire all'intervento programmato) per compiere in
modo corretto e consapevole la scelta tra le diverse opzioni possibili.
Tale
il significato da attribuire alla endiade "consenso informato", deve
trarsi la logica conseguenza che l'omessa/incompleta informazione resa dal
sanitario non si traduce in un vizio della volontà del paziente-contraente
(rilevante ai fini dell'annullabilità del contratto ex art. 1429 c.c.), quanto
piuttosto nella violazione della stessa obbligazione contrattuale assunta dal
professionista e che espone quest'ultimo, e l'ente dal quale dipende, alla
relativa responsabilità civile ed al conseguente obbligo risarcitorio, se ed in
quanto tale condotta inadempiente sia produttiva di danno. E' ben vero infatti
che all'esito della diagnosi e della prognosi al paziente viene richiesto di
esprimere un consenso al successivo compimento dell'atto terapeutico (consenso
che, secondo un'opinione ampiamente condivisa, può manifestarsi anche in modo tacito
"per facta concludentia" ad esempio mediante lo spontaneo
assoggettamento alle cure prescritte), ma con tale "consenso" il
paziente non esprime una manifestazione di volontà negoziale diretta alla
conclusione di un -"nuovo"- accordo (art. 1321 c.c.), sibbene
esercita la propria autonomia, alternativamente, autorizzando la (ulteriore)
prestazione contrattuale ovvero manifestando la propria intenzione di recedere
dal contratto d'opera professionale.
Se
dunque la "corretta informazione" costituisce il risultato della
prestazione richiesta al professionista, il "consenso" o il dissenso
del paziente -a proseguire l'attuazione del programma negoziale- si inscrive
anch'esso nella fase esecutiva del contratto, dovendo ricondursi nella
categoria degli atti di cooperazione (atti che il creditore deve
necessariamente compiere se intende conseguire la prestazione) ovvero dei
diritti potestativi (tale è il diritto di recesso "ad nutum" previsto
dall'art. 2237 c.c.).
Tanto
premesso ed inquadrato il fenomeno descritto nello schema dell'adempimento
contrattuale occorre verificare se il Cutolo sia stato posto in grado o meno di
rilasciare una consapevole autorizzazione alla ricezione della prestazione
terapeutica.
I
convenuti si sono difesi ritenendo assolto tale obbligo (che si configura come
una specifica prestazione del professionista tenuto all'adempimento del
contratto d'opera) con la sottoscrizione da parte del paziente di un "atto
di consenso di intervento chirurgico" nel quale il trattamento viene
indicato in "OD: estrazione extracapsulare cataratta +
IOL.........(illeggibile)...., la cui natura e i cui effetti mi sono stati
spiegati", e nel quale il paziente acconsente "anche ad ogni
intervento terapeutico che si renderà necessario durante il corso di tale
operazione e alla somministrazione di anestetici necessari all'intervento
stesso".
L'accertamento
relativo alla sufficienza probatoria minima idonea a ritenere esattamente
adempiuta la prestazione in commento mediante tale "atto di consenso
scritto" è subordinato : 1) alla effettiva "capacità
informativa" del modulo prestampato sottoscritto dal paziente; 2) alla
individuazione della regola di riparto dell'onus probandi.
Quanto
al primo aspetto è lapalissiano che il tenore letterale dell'atto in questione
risulta palesemente inidoneo a dimostrare che al paziente è stata
effettivamente data una completa rappresentazione della natura e degli effetti
dell'intervento (e del trattamento anestesiologico prescelto). L'affermazione
in tal senso contenuta nell'atto si risolve, infatti, in una mera tautologia
non essendo indicati -in particolare- quali siano le possibili conseguenze,
positive o negative, dell'intervento di cataratta.
Analogamente
l'autorizzazione preventiva ad eseguire qualsiasi terapia che si renderà
necessaria in campo operatorio aperto, se rivolta ad autorizzare il medico ad
agire in urgenza per evitare al paziente un danno o un maggior danno -anche se
imprevisto, imprevedibile e non cagionato dall'operatoretale da comprometterne
irreversibilmente lo stato di salute, è una previsione negoziale del tutto
inutile (trovando fondamento la liceità dell'agire del professionista nello
stato di necessità sopravvenuto -artt. 54 c.p., 2045 c.c.-, nonché nelle norme
di rango penale che sanzionano in tal casi la condotta omissiva lesiva della
integrità fisica). Ove invece la predetta autorizzazione dovesse intendersi
riferita al compimento di atti terapeutici non programmati e diretti alla
realizzazione di un risultato diverso -anche se migliorativo dello status del
paziente-, la stessa, assumendo valenza negoziale autonoma, dovrebbe ritenersi
o viziata da nullità in difetto della determinabilità dell'oggetto ovvero
annullabile per vizio del consenso, non potendo formarsi una valida volontà
negoziale del paziente in assenza di obiettivi parametri di individuazione del
nuovo/diverso intervento e/o risultato terapeutico (è appena il caso di
osservare che, se poi, con tale espressione si intenda invece affermare che il
professionista è tenuto a svolgere tutte le attività tecniche necessarie a dare
esattamente compiuta la prestazione, la disposizione sarebbe assolutamente
pleonastica attesa la esaustiva disciplina legale dell'adempimento dei rapporti
obbligatori ex artt. 1176 e 1218 c.c. che trova applicazione anche ai contratti
in questione)
Sempre
limitandosi all'esame testuale del documento in questione, il modulo
unilateralmente predisposto dalla Casa di cura appare evidentemente
insufficiente a fornire al paziente informazioni in ordine a quali siano gli
"anestetici necessari" alla esecuzione dell'intervento:
particolarmente evidente è la lacunosità del documento laddove non indica
l'alternativa tra anestesia generale e locale e soprattutto laddove sembra
riservare alla scelta incondizionata del medico il prodotto e la quantità da
somministrare, prescindendo totalmente dall'acquisizione preventiva della
opinione o delle indicazioni del paziente.
E'
osservazione ovvia quella che -fa leva sulla inesperienza tecnica o sulla
inferiorità culturale del paziente- per concludere che sarebbe inutile oltre
che defatigante illustrare dettagliatamente al malato le varie metodiche
elaborate dalla scienza medica, le diverse statistiche sanitarie secondo la
peculiarità delle infinite possibili evoluzioni della patologia, i principi
della chimica sottesi alla somministrazione di farmaci: appare evidente,
infatti, che il paziente (salvo ove disponesse la relativa professionalità) non
sarebbe comunque in grado di valutare tali informazioni, tanto più nel caso in
cui venga ad essere condizionato dalla preferenza del medico per una piuttosto
che per un'altra tecnica o metodica. E però non può, sulla scorta di tale
osservazione, tacersi del tutto al paziente la esistenza di diverse pratiche
terapeutiche o tecniche di intervento chirurgico con riferimento ad una stessa
patologia (consentendo in tal modo al paziente di acquisire ulteriori
informazioni presso altri professionisti che privilegiano altre metodiche)
nonché -almeno secondo linee generali- la percentuale di successo/insuccesso
dello specifico intervento in relazione alla situazione concreta. Essenziale ed
irrinunciabile è inoltre -per quanto suggestionabile possa essere il paziente
l'accurata informazione sui vantaggi effettivamente conseguibili a
breve ed a lungo termine e sulle condizioni peggiorative della qualità della
vita derivanti in caso di insuccesso o dell'insorgenza di complicanze
(frequenti).
E
non pare dubbio che nel caso in esame -con specifico riguardo alla anestesia-
l'atto di consenso sottoscritto dal Cutolo debba ritenersi assolutamente
insufficiente a dimostrare lo scambio esaustivo di informazioni tra medico e
paziente.
Le
considerazioni svolte non esauriscono tuttavia l'accertamento
dell'inadempimento, ben potendo il sanitario dimostrare -indipendentemente dal
sintetico contenuto dell'atto in questione- di aver effettivamente fornito al
paziente le indicazioni essenziali a valutare la opportunità dell'intervento
chirurgico (non sussistendo in tale materia -salvo in taluni casi
tassativamente determinati ex lege- l'obbligo del requisito della forma scritta
con i relativi limiti all'ammissibilità della prova orale).
In
proposito l'aspetto che più interessa, ai fini della corretta applicazione
della regola sul riparto probatorio, è l'accertamento degli eventuali effetti
preclusivi derivanti dalla sottoscrizione del documento in questione, che non è
stata disconosciuta dal tutore provvisorio, prima, nè dagli eredi poi (il
Cutolo è deceduto nelle more del processo). Occorre infatti distinguere tra
l'obbligo di acquisizione del consenso informato -che concreta una vera e
propria obbligazione contrattuale che si attua mediante lo scambio di
informazioni tra paziente e sanitario- e la dichiarazione del paziente volta ad
autorizzare il medico alla esecuzione del trattamento terapeutico, che
esteriorizza (indipendentemente dal requisito di forma) la vera e propria
manifestazione di consenso.
Nella
specie tale manifestazione di assenso ha assunto la forma e la efficacia di una
scrittura privata. Con la conseguenza che, dovendo considerarsi come
riconosciuta in giudizio tale scrittura, eventuali contestazioni inerenti la
verità dei fatti ivi affermati ovvero la inidoneità dell'atto a spiegare
l'efficacia autorizzatoria a favore del professionista, dovrebbero essere
sottoposte a verifica mediante querela di falso (con sostanziale inversione
dell'onere della prova: l'obbligazione del professionista relativa al consenso
informato dovrebbe, infatti, ritenersi adempiuta salvo la prova contraria,
fornita dal paziente, volta a deprivare l'efficacia probatoria del documento).
Nel
caso di specie, tuttavia, la contestazione mossa dalle attrici al documento è
limitata alla omessa informativa sul "tipo di anestesia" che sarebbe
stata praticata: le attrici, infatti, non disconoscono che il Cutolo abbia
autorizzato i sanitari alla "somministrazione di anestetici necessari
all'intervento stesso", ma sostengono che tale autorizzazione non è
sufficiente -per i motivi sopra esposti, avuto riguardo al tenore letterale del
testo- a dimostrare che, prima dell'intervento, al Cutolo sia stato reso noto
che l'intervento si sarebbe svolto in anestesia generale. Ne consegue che, non
essendo contestato il contenuto ideologico dell'atto sottoscritto, e non
sussistendo incompatibilità logica tra le affermazioni contenute nel documento
e l'allegazione attorea, non vi è necessità di previa impugnazione di falso
dell'atto di consenso con sottoscrizione riconosciuta in giudizio e la regola
dell'onere probatorio si atteggia quindi secondo l'ordinario criterio che pone
a carico del debitore (il professionista) la prova dell'adempimento ovvero
della non imputabilità dell'inadempimento.
Tanto
premesso ritiene il Tribunale che i convenuti abbiano fornito la prova
richiesta.
Occorre
considerare, infatti, che se, da un lato, nell'assenso del paziente alla
esecuzione di un intervento chirurgico cruento deve ritenersi sempre implicita
anche la richiesta della somministrazione di prodotti antidolorifici e se è
possibile presumere che, nel caso concreto, il tipo di anestesia prescelta sia
stata preventivamente resa nota al paziente, nella specie la prova di una
previa discussione medico-paziente in ordine al tipo di anestesia da praticare
trova sicuro fondamento nelle dichiarazioni della teste Duso la quale ha
riferito che il Cutolo, entrato in sala operatoria sveglio e cosciente
("rispondeva alle domande che gli venivano poste ai sanitari"), nulla
obiettò quando i medici rappresentarono all'infermiera che l'intervento si
sarebbe svolto in anestesia generale. Tale condotta del paziente appare indubbiamente
significativa e consente di ritenere raggiunta la prova logico-presuntiva della
previa manifestazione di assenso del paziente all'indicato trattamento
anestesiologico resa all'esito del consulto con il medico curante. Può dunque
ritenersi provato che il Cutolo abbia dato il proprio valido consenso al
trattamento anestesiologico (anestesia generale) adottato dai sanitari. III-) Deve quindi verificarsi se nella condotta
dei sanitari convenuti -e specificamente nella scelta e nella esecuzione del
trattamento anestesiologico in concreto praticato- possano ravvisarsi elementi
di colpa.
L'allegazione
attorea secondo cui fu reso noto al Mutolo che il paziente aveva subito
precedenti ricoveri ospedalieri ed era affetto da patologia neurologica ha
trovato puntuale smentita nella dichiarazione del teste Gorga il quale ha
riferito che il Cutolo -sia nel corso del consulto presso lo studio del Mutolo
sia durante la raccolta delle notizie anamnestiche in occasione del ricovero
per la esecuzione dell'intervento, ad espressa domanda in ordine a precedenti
ricoveri ed a malattie neurologiche o cardiache rispose negativamente. Ne
consegue che la correttezza della scelta dell'anestesia generale deve essere
valutata alla stregua delle patologie preesistenti note e che emergono dalla
scheda anestesiologica: "lieve ipertensione arteriosa, insufficienza
respiratoria cronica". Premesso che è incontroverso che nel 1992 i
protocolli medici relativi all'intervento di cataratta consentivano
indifferentemente il ricorso ad entrambi i tipi di anestesia (locale e
generale), l'affermazione dei consulenti tecnici di parte attrice secondo cui i
descritti elementi anamnestici costituiscono controindicazioni all'anestesia
generale è apodittica e non supportata da argomenti probatori desunti dalla
statistica sanitaria. I CC.TT.PP. Orsetti-Aleandri della convenuta Vallocchia
hanno indicato i pregi ed i rischi di ciascuna metodica la cui scelta, da
effettuarsi in base alle condizioni locali dell'occhio ed alle condizioni
cliniche generali del paziente, è orientata al raggiungimento degli obiettivi:
della acinesia oculare, analgesia locale, ipotonia locale, riduzione del
sanguinamento, controllo della miosi ed assenza di complicanze. Se in astratto
la anestesia generale presenta un maggior grado di rischio, ciò non costituisce
tuttavia ex se una controindicazione nel caso in cui, come nella specie, i
fattori di rischio non si presentino elevati (l'ipertensione arteriosa era ben
compensata e la broncopneumopatia era di lieve grado) trattandosi di patologie
riscontrabili comunemente in soggetti della stessa età del paziente (anni 70 al
tempo dell'intervento chirurgico). Vale osservare in proposito che se, da un
lato, la scelta dell'anestesia generale appariva maggiormente indicata in
quanto, in presenza di ipertensione arteriosa, consentiva di evitare
complicanze locali e di ridurre il sanguinamento inducendo nel paziente uno
stato di ipotensione arteriosa controllata (c.t.u. risposta quesito n.1),
dall'altro si rileva che i moderni presidi anestesiologici (idest i prodotti
chimici utilizzati alla data dell'intervento) determinavano una notevole
riduzione dei rischi dell'anestesia generale (c.t.u. ibidem). Non sembra
contrastare con tali conclusioni "l'estrema scarsità di accertamenti
specialistici generali" eseguiti in fase preoperatoria (cfr. supplemento
c.t.u.): ed infatti, come è stato esattamente evidenziato dai consulenti di
parte Vallocchia, la mera ipertensione arteriosa non è sufficiente a
giustificare la richiesta di un esame ecodoppler dei vasi aortici (eseguito
successivamente all'intervento il 13.7.1992 e dal quale è risultato un
restringimento delle carotidi rispettivamente del 60% e del 30% "seppur in
presenza di un flusso vertebrale nei limiti": cfr. suppl. c.t.u. pag. 2) che
è "indagine non compresa nella routine preanestesiologica" (CC.TT.PP.
Orsetti-Aleandri).
Esclusa
una incidenza causale della patologia cardiaca sull'arresto cardiorespiratorio
(ed al conseguente danno anossico-ischemico) seguito all'intervento chirurgico
in anestesia generale, ed esclusa quindi una rilevanza eziologica determinante
della "lieve ipertensione arteriosa", la sola broncopatia cronica
ostruttiva non poteva ritenersi ex se sufficiente ad escludere la scelta
dell'anestesia generale (tanto più considerando che l'esecuzione
dell'intervento di cataratta necessitava, come visto, della immobilità assoluta
del paziente a bulbo aperto -che può essere assicurata soltanto dalla anestesia
generale- e che tale precondizione avrebbe potuto essere pregiudicata dal fenomeno
della tosse, certamente prevedibile in soggetto affetto da broncopatia).
Non
possono pertanto ravvisarsi elementi di colpa dei sanitari nella scelta della
metodica anestesiologica generale anziché di quella loco-regionale.
IV-) L'accertato nesso eziologico tra esecuzione del
trattamento anestesiologico ed arresto cardio-respiratorio è sufficiente, alla
stregua dei richiamati principi giurisprudenziali, ad onerare i sanitari
convenuti della prova liberatoria della non imputabilità dell'inadempimento ex
art. 1218 c.c.. (cfr. Cass III sez. 8.1.1999 n. 103 "nel caso di
interventi chirurgici di facile o routinaria esecuzione, non riuscito a causa
di complicazioni insorte in seguito all'anestesia, incombe sull'anestesista
l'onere di provare che l'insuccesso dell'intervento non e' dipeso da un proprio
difetto di diligenza").
Tale
prova è mancata non essendo stata individuata dai convenuti una causa
efficiente produttiva del danno alternativa alla esecuzione del trattamento
anestesiologico, dovendo in conseguenza presumersi che l'evento lesivo sia
dovuto ad imperizia del professionista. Presunzione che trova peraltro
fondamento su massime d'esperienza desunte "dall'insieme delle regole
tecniche appartenenti al settore specifico in cui opera il medico e che, per comune
consenso e per consolidata sperimentazione, sono acquisite dalla scienza ed
applicate nella pratica" (cfr. Cass 22.2.1988 n. 1847 in Arch. civ. '88,
684) essendo generalmente riconosciuta la particolare delicatezza della fase
del risveglio del paziente intubato in considerazione dei frequenti disturbi
ipossici che si verificano nel corso dell'anestesia generale e che compaiono
anche nella fase finale in cui può manifestarsi "una insufficiente ripresa
della respirazione spontanea che produce una insufficiente ossigenazione dei
centri cerebrali e di conseguenza una ipossia iperacuta (ridotto apporto di
ossigeno ai tessuti) seguita in genere dall'arresto con consecutiva
interruzione del flusso di sangue nel circolo cerebrale (temporanea anossia
cerebrale). Nelle fasi del risveglio occorre attentamente seguire il paziente
per essere certi che egli abbia acquistato completamente la respirazione
autonoma, che non vi siano difetti di ossigenazione i quali...sono
particolarmente pericolosi" (cfr. relazione medico-legale del Prof. Fiori
in data 12.12.1994).
Consegue
pertanto, in applicazione del principio "res ipsa loquitur", la
condanna solidale della convenuta Vallocchia Daniela e della Casa di cura al
risarcimento dei danni patiti dal paziente e dalle attrici.
Relativamente
alla Casa di cura non può, infatti, condividersi l'assunto secondo cui la
stessa potrebbe essere chiamata a rispondere soltanto per l'inadempimento del
contratto di "ricovero" (e dunque in relazione esclusivamente alla
erogazione dei servizi di natura alberghiera ed alla efficienza e funzionalità
dei locali, delle strutture e delle apparecchiature sanitarie poste a
disposizione del chirurgo) e non anche del distinto ed autonomo contratto
d'opera professionale stipulato dal paziente direttamente con il medico
operatore o con il medico anestesista.
Nel
contratto avente ad oggetto prestazioni di ricovero per assistenza terapeutica
sembra, infatti, doversi ravvisare un negozio atipico in quanto l'interesse del
paziente (che è quello di risolvere il problema patologico da cui è affetto)
non viene ad essere soddisfatto con il mero apprestamento dei locali, la
erogazione dei servizi alberghieri e di assistenza e la messa a disposizione
degli strumenti e delle apparecchiature sanitarie, ma riceve integrale
soddisfazione soltanto con la contestuale esecuzione della prestazione
professionale (o delle prestazioni professionali) del medico (ovvero
dell'equipe medica).
Diversamente
dalla normale ipotesi in cui l'organizzazione e la predisposizione dei mezzi
necessari all'adempimento dell'obbligazione grava interamente sul debitore -che
rimane libero di scegliere le modalità di approvvigionamento dei mezzi e di
organizzare l'attività strumentale alla esecuzione della prestazione-,
nell'ipotesi in questione è il paziente (creditore) che deve attivarsi
provvedendo a rifornire il professionista, al quale si è rivolto, dei mezzi
necessari alla esecuzione della prestazione richiesta (nella specie
l'intervento chirurgico), non potendo altrimenti trovare attuazione il rapporto
d'opera professionale. La stretta connessione ed interdipendenza funzionale tra
la prestazione resa dalla Casa di cura e quella resa dal professionista non
sembra tuttavia giustificare il rapporto di ausiliarietà ex art. 1228 c.c. sul
quale un indirizzo giurisprudenziale intende fondare la responsabilità
contrattuale della Casa di cura per il fatto del medico (Cass III sez. 8.1.1999
n.103 ric. SAI s.p.a. c/ De Bernardo, idem, rv.522071). Se infatti l'attività
del medico si inserisce nel contratto atipico di ricovero finalizzato
all'assistenza terapeutica come momento esecutivo della prestazione oggetto
dell'obbligazione assunta dalla Casa di cura, e se "l'incarico"
conferito dal debitore (Casa di cura) all'ausiliario (medico) può inferirsi dal
consenso all'utilizzo dei locali e delle strutture sanitarie implicitamente
manifestato dalla Casa di cura all'atto della stipula del contratto di ricovero
con il paziente, rimane tuttavia difficile ipotizzare la esistenza di una sfera
di ingerenza o controllo del debitore nei confronti dell'ausiliario (elemento
essenziale del criterio di imputazione della responsabilità ex art. 1228 c.c.)
in considerazione della rilevante autonomia riservata all'operatore sanitario
nello svolgimento dell'attività professionale - che viene espletata al di fuori
della direzione o del coordinamento della Casa di cura-, nonché dell'autonomo
incarico conferito dal paziente (creditore) al professionista che, diversamente
da quanto si verifica nella ipotesi dell'ausiliario, si trova esposto a
responsabilità contrattuale diretta nei confronti del paziente per
l'adempimento di una prestazione che si inserisce, completandolo, in un
rapporto obbligatorio complesso (non potendo prescindere la esecuzione
dell'intervento chirurgico -incluso il necessario trattamento anestesiologico-
dalle strutture organizzative della Casa di cura, ed essendo apprestati i
servizi e l'assistenza della Casa di cura esclusivamente in funzione
dell'esecuzione dell'intervento). Deve inoltre osservarsi che il rapporto di
ausiliarietà come delineato nella sentenza della SC n.103/99, non sembra
neppure unilaterale, ove si ponga mente che, se la Casa di cura -che ha
stipulato con il paziente un contratto di ricovero per assistenza terapeutica-
si serve del medico per eseguire la propria prestazione, è altresì vero che il
professionista -il quale abbia stipulato con il paziente un contratto d'opera
avente ad oggetto la esecuzione di un intervento chirurgico- deve
necessariamente avvalersi dei servizi e delle strutture della Casa di cura per
poter eseguire la propria prestazione: in relazione a tale aspetto, pertanto,
la Casa di cura dovrebbe allora configurarsi come ausiliario ex art. 1228 c.c.
del medico.
Non
è chi non veda come tale ricostruzione giuridica appaia artificiosa e non
corrispondente alla concreta modalità di svolgimento, rilevabile dalla prassi,
del rapporto tra paziente e soggetti chiamati a fornire prestazioni di
assistenza sanitaria.
Si
tratta, piuttosto, di verificare se nella ipotesi in esame si sia in presenza
di un collegamento funzionale tra negozi che conservano la loro rispettiva
autonomia in quanto fonti di distinti rapporti obbligatori, ovvero, come sembra
più corretto, si sia in presenza di una obbligazione plurisoggettiva "ex
latere debitoris" inquadrabile nella categoria -elaborata dalla dottrina-
delle "obbligazioni soggettivamente complesse con prestazione indivisibile
ad attuazione congiunta" (in quanto una esecuzione parziaria o non
simultanea sarebbe "inutiliter data", non essendo in grado di
realizzare l'interesse del creditore).
E'
ben vero che la unitarietà dello scopo (risultato utile) non è elemento
sufficiente a determinare la struttura complessa del rapporto obbligatorio,
potendo sempre il creditore realizzare il suo interesse anche mediante rapporti
negoziali non collegati e non interdipendenti, e però tale ipotesi non sembra
ricorrere nel caso di specie considerato, da un lato, che l'obbligazione del
professionista si estende anche all'attività preliminare di verifica della
idoneità della struttura sanitaria in cui deve operare (con riferimento alla
funzionalità degli apparecchi, alle dotazioni di emergenza, alla adeguata
sterilizzazione dei locali) avuto riguardo, ovviamente, allo specifico tipo di
intervento terapeutico che deve praticare (con riferimento a contratto d'opera
professionale eseguito dal medico in una struttura pubblica Cass III sez.
13.3.1998 n.2750 in FI'98 col. 3521 ha confermato la sentenza impugnata che
aveva riconosciuto la responsabilità del medico per mancata predisposizione di
tutte le condizioni favorevoli -nella specie la struttura non disponeva di
apparecchio cardiotografico- idonee a garantire la sicurezza e la riuscita
dell'intervento programmato), e, dall'altro, che l'ente privato gestore della
Casa di cura "accetta" il paziente esclusivamente in relazione al
tipo di trattamento terapeutico che quello deve ricevere -valutandolo
compatibile con l'organizzazione e le strutture aziendali- ed in relazione ad
una prognosi favorevole della capacità professionale del medico curante -se
indicato dal paziente- (e dunque secondo il personale gradimento espresso dalla
Casa di cura) a disposizione del quale dovranno essere messe le strutture
tecniche e le risorse umane (medici, infermieri, addetti alla assistenza in sala
operatoria, addetti alla assistenza nel decorso post-operatorio) della azienda.
Emerge
pertanto dall'esame della prassi negoziale in subiecta materia che,
normalmente, il professionista si determina ad eseguire la prestazione in
favore del paziente solo se può avvalersi della struttura organizzativa di una
Casa di cura da lui scelta, mentre, normalmente, la Casa di cura si determina a
concludere il contratto di ricovero per assistenza terapeutica soltanto se
l'intervento viene eseguito nella propria struttura da un professionista che ha
il gradimento della Casa di cura.
Se
tale è la prassi in concreto seguita dai soggetti che intervengono nella
vicenda in esame, il rapporto avente ad oggetto il ricovero in funzione di
assistenza sanitaria può quindi configurarsi come obbligazione unitaria a
carico di una pluralità di parti (il medico e la Casa di cura) che, nella
esecuzione della prestazione, si articola - per la natura stessa della
prestazione in una serie di attività distinte (che non si identificano pertanto
in altrettanti rapporti obbligatori) che si caratterizzano per il fatto della
"indivisibilità temporale" - non potendo essere attuata la
prestazione se non congiuntamente, mediante il simultaneo svolgimento di tali
attività-, ed il coordinamento delle quali costituisce l'indispensabile momento
organizzativo della esecuzione della prestazione dovuta in favore del
paziente-creditore. Non è ostativa a tale schema la riferibilità delle singole
attività a ciascuno dei soggetti della parte complessa (il medico esegue
materialmente l'intervento, la Casa di cura predispone e somministra i
servizi), tenuto conto che occorre distinguere la vicenda della (con)titolarità
della situazione giuridica da quella relativa all'attuazione degli effetti
dalla stessa prodotti, rilevando le singole attività predette come elementi
interni strumentali a quest'ultima. Consegue che aderendo alle conclusioni cui
è pervenuta autorevole dottrina, la disciplina della responsabilità per
inadempimento dell'obbligazione unitariamente considerata, deve essere
rinvenuta in via analogica in quella dettata in materia di obbligazioni
gravanti sui partecipanti alla comunione (in quanto fenomeno assimilabile alla
contitolarità dei diritti/debiti) che prevede la responsabilità solidale per le
obbligazioni assunte a favore della comunione (art. 1015 c.c.).
Non
sembrano sussistere ostacoli, pertanto, a configurare la responsabilità
solidale del medico e della Casa di cura, rimanendo indifferente per il
paziente titolare della posizione creditoria, in caso di inadempimento della
obbligazione soggettivamente complessa, su quale dei soggetti debba gravare,
nei rapporti interni, il peso economico del risarcimento del danno.
Orbene
non essendo emersi dalla istruttoria elementi contrastanti con la indicata
ricostruzione dello schema del rapporto obbligatorio, va affermata la solidale
responsabilità della Casa di cura convenuta con il medico anestesista per i
danni subiti dal Cutolo e dalle attrici in conseguenza del trattamento
anestesiologico eseguito durante l'intervento di cataratta (per la
responsabilità contrattuale della struttura clinica od ospedaliera nell'ambito
della quale viene eseguita la prestazione professionale medica,
indipendentemente dal rapporto giuridico che sussiste tra il medico e la struttura
cfr. Cass III sez. 8.1.1999 n. 103 in USI Mass civ. riv.522071; Cass III sez.
1.9.1999 n. 9198 ric. Università degli Studi Torino c/ Macaluso, id. riv.
529566 "Il ricovero in una struttura deputata a fornire assistenza
sanitaria avviene sulla base di un contratto tra il paziente ed il soggetto che
gestisce la struttura, e l'adempimento di un tale contratto, per quanto
riguarda le prestazioni di natura sanitaria, e' regolato dalle norme che
disciplinano la corrispondente attivita' del medico nell'ambito del contratto
di prestazione d'opera professionale. Il soggetto gestore della struttura
sanitaria (pubblico o privato) risponde percio' per i danni che siano derivati
al paziente da trattamenti sanitari praticatigli con colpa, alla stregua delle
norme dettate dagli artt. 1176, secondo comma, e 2236 cod. civ. In queste
ipotesi la responsabilita' puo' comportare un'obbligazione di risarcimento
estesa non al solo danno patrimoniale (art. 1223 cod.civ.), ma anche al danno
biologico, e cioe' al danno non patrimoniale costituito dalle conseguenze
pregiudizievoli per la salute derivanti dalle menomazioni fisiopsichiche
prodotte dal comportamento inadempiente. Ed inoltre, stante la configurabilita'
oggettiva anche degli estremi di un reato ove la menomazione dell'integrita'
psicofisica si renda riconducibile ad un comportamento colposo, la conseguente
estensione della responsabilita' anche al danno morale (art. 2059 cod. civ. e
art. 185 cod. pen.) si configurera' anche a carico del soggetto (pubblico o
privato) gestore della struttura sanitaria, costituendosi a criterio di
imputazione (rispettivamente sulla base degli artt. 28 Cost. e 2049 cod. civ.)
la circostanza che l'attivita' sanitaria rivolta all'adempimento del contratto
sia stata svolta dalle persone, inserite nella propria organizzazione, di cui
il gestore si sia avvalso per renderla"; Cass SU 1.7.2002 n. 9556 ric.
Scoppa ed altri c/ Clinica Stabia s.p.a., secondo cui nella fattispecie deve
ravvisarsi "un complesso ed atipico rapporto che si instaura comunque tra
la casa di cura ed il paziente, anche nell'ipotesi in cui quest'ultimo scelga
al di fuori il medico curante, dal momento che la clinica non si limita......ad
impegnarsi alla fornitura di mere prestazioni di natura alberghiera
(somministrazione di vitto ed alloggio), ma si obbliga alla messa a
disposizione del personale medico ausiliario, di quello paramedico ed
all'apprestamento dei medicinali e di tutte le attrezzature necessarie, anche
in vista di eventuali complicanze").
La
domanda di condanna proposta nei confronti del convenuto Mutolo non può,
invece, essere accolta.
Deve
infatti condividersi, avuto riguardo alla prospettazione attorea della condotta
colposa, la tesi difensiva del Mutolo secondo cui la responsabilità del danno
conseguente alla condotta dell'anestesista non può essere estesa anche al
chirurgo.
Il
coinvolgimento del chirurgo nella produzione dell'evento dannoso è stato
individuato dalle attrici nella fase pre-operatoria con riferimento alla scelta
dell'anestesia generale (per la quale, come si è visto, devono escludersi
profili di colpa professionale) ed all'incauto affidamento della pratica
anestesiologica ad un medico designato dalla Casa di cura. Esclusi, pertanto,
errori tecnici del chirurgo nella esecuzione dell'intervento di cataratta e
nelle operazioni di rianimazione (anche il CT di parte attrice non ravvisa
elementi di imperizia, imprudenza o negligenza nelle manovre rianimatorie),
viene quindi prospettata dalle attrici una responsabilità del Mutolo derivante
dalla qualità di capo-equipe e dunque dall'esercizio della attività di
direzione e della vigilanza sull'operato degli altri membri dello staff medico.
Orbene
può convenirsi che, nella specie, la qualità di capo-equipe non appare ex se
sufficiente a fondare la responsabilità del convenuto (non offre utili
indicazioni in proposito la sentenza Cass III sez. n. 103/1999 richiamata dal
convenuto: la SC si è limitata infatti ad esaminare la prova liberatoria
dell'anestesista senza valutare il motivo di ricorso -dichiarato inammissibile
proposto dal chirurgo condannato in primo e secondo grado, in qualità di
capo-equipe, in solido con l'anestesista) atteso che:
a)
da un lato, non è stata provata in concreto una condotta commissiva od omissiva
del Mutolo violativa dei doveri di coordinamento e di vigilanza sui membri
dell'equipe (per quanto in particolare concerne la selezione del
medico-anestesista e la adombrata "culpa in eligendo" del Mutolo,
l'istruttoria non ha evidenziato carenze relative alla preparazione professionale
o gravi deficit di esperienza del medico specialista messo a disposizione dalla
struttura sanitaria);
b) dall'altro non è consentito desumere la violazione dei doveri di coordinamento e vigilanza del capo-equipe in via presuntiva dalla condotta colposa dell'anestesista: ed infatti una volta tenute distinte le specifiche competenze tecniche del chirurgo e dell'anestesista, la prova presuntiva della condotta colposa dell'anestesista (dedotta dal principio "res ipsa loquitur" che trova applicazione nel caso in cui il peggioramento delle condizioni di salute del paziente derivato dalla esecuzione di prestazioni sanitarie di natura facile o routinaria debba considerarsi una conseguenza anormale rispetto all'id quod plerumque accidit) non può valere a fondare anche la responsabilità del capoequipe per omessa vigilanza, stante il divieto di presunzioni semplici di secondo grado (cd. "praesumptio de praesumpto"). La domanda proposta nei confronti del convenuto Mutolo deve in conseguenza essere rigettata, dovendo altresì dichiararsi inammissibile la domanda proposta dalle attrici nei confronti dell'Assitalia s.p.a. quale società assicuratrice della responsabilità professionale del Mutolo (in quanto domanda nuova proposta per la prima volta alla udienza di precisazione delle conclusioni ed atteso il difetto di legittimazione ad agire delle attrici, estranee al rapporto contrattuale assicurativo, ed alle quali l'ordinamento non concede azione diretta nei confronti dell'assicuratore). La pronuncia di rigetto esonera il Tribunale dall'esame della domanda di garanzia proposta dal Mutolo nei confronti della propria società assicuratrice RAS s.p.a..
V-) Premesso che
nelle more del processo, in data 5.5.1999, è deceduto l'attore Cutolo Teodoro e
che i familiari del de cuius -già costituiti per ottenere il ristoro dei danni
subiti "iure proprio"- hanno ritualmente proseguito e successivamente
riassunto il giudizio, i danni si liquidano come segue.
a-)
Danni "iure hereditatis"
Danno
biologico
Dalla
documentazione sanitaria, dalla c.t.u. e dalle perizie di parte risulta che
Cutolo Teodoro in seguito all'intervento eseguito presso la Casa di cura Rome
American Hospital il 10.7.1992 ha subito un evento lesivo dell'integrità
psicofisica consistito in "encefalopatia anossico-ischemica da arresto
cardiaco occorso al risveglio da anestesia per intervento oculistico di
cataratta" che ha cagionato un danno biologico (inteso come modificazione
peggiorativa dello "stato" somato-psichico ed esistenziale del
soggetto antecedente il sinistro -comprensivo di tutte le funzioni vitali,
culturali, sessuali, ricreative, estetiche volte all'esplicazione della
personalità umana negli ambienti sociali in cui l'individuo opera-
indipendentemente da un effettivo pregiudizio alla capacità di guadagno: Corte
cost. 14.7.1986 n.184; Cass. III sez. 13.1.1993 n.357) valutato dal C.T.U., già
dalla data dell'evento, nella misura del 100 % di invalidità permanente (deve
peraltro escludersi in quanto circostanza incontestata -e neppure adombrata in
corso di giudizio dalle attrici- che il decesso del Cutolo, verificatosi nelle
more del processo, costituisca una conseguenza diretta dell'intervento
chirurgico eseguito nel 1992: incomprensibile appare pertanto il riferimento al
"danno biologico subito dall'On. Cutolo per la perdita della vita"
effettuato dalle attrici per la prima volta in comparsa conclusionale
richiamando, peraltro impropriamente con riferimento alla fattispecie in esame,
l'orientamento giurisprudenziale in tema di danno biologico della vittima
correlato ad un "apprezzabile lasso temporale" tra le lesioni mortali
inferte ed il decesso).
Le
conclusioni cui è pervenuto il consulente di ufficio, che si condividono,
appaiono immuni da errori di fatto e da vizi logici, trovando integrale
riscontro nella c.t.u. svolta nel procedimento camerale definito con la
sentenza in data 11.3.1997 n. 5372 che ha dichiarato la interdizione del
Cutolo. Il prof. Francesco Paolo Ranzato, nominato CTU in quel procedimento, ha
infatti accertato lo stato di afasia totale e conseguente demenza afasica
irreversibile del soggetto incapace di svolgere finanche gli atti più semplici
della vita quotidiana e necessitante, pertanto, di assistenza continua (cfr.
c.t.u. proc. cam. in data 8.5.1995 all. fasc. att.).
Tenuto
conto, pertanto, della gravità delle lesioni, dell'età e del sesso della
persona lesa, valutata la effettiva incidenza dei postumi accertati sulle
complessive capacità biologiche del danneggiato considerate prima e dopo il
sinistro, il danno biologico va liquidato equitativamente (ex artt. 1226 e 2056
c.c., dovendo determinarsi l'equivalente monetario di un valore umano
insostituibile quale è il "benessere" perduto) nella seguente misura:
- a titolo di risarcimento del danno derivante da invalidità permanente €
117.600,36 al valore attuale (il valore-punto calcolato secondo le tabelle in
uso al Tribunale di Roma aggiornate all'anno 2003 con progressione geometrica
in funzione del grado di invalidità -99 %-, ed in misura proporzionalmente
decrescente con l'aumento dell'età -anni 71 al tempo dell'intervento-, non può
trovare automatica applicazione atteso che tali tabelle sono state elaborate in
funzione di un parametro -probabile aspettativa di vita media di un soggetto di
anni 71/80- che non trova riscontro nella fattispecie concreta, in cui il
soggetto è deceduto anticipatamente. Pertanto si ritiene adeguato a realizzare
un effettivo ristoro del pregiudizio patito dal "de cuius" il
seguente criterio che utilizza, come parametro base, l'equivalente monetario
del danno biologico indicato nelle tabelle in relazione al grado di invalidità
del 99 % per un soggetto di pari età al tempo del sinistro -€ 319.201,00-,
calcolando il valore medio annuale del "punto" in relazione al numero
di anni -19- ancora da vivere secondo le aspettative di vita considerate dalla
stessa tabella, e quindi moltiplicando tale valore medio per il numero di anni
di vita effettiva -7-).
Danno
morale
Il fatto illecito integra gli estremi del reato di lesioni personali colpose: spetta, pertanto, alla parte attrice, ai sensi degli artt. 185 c.p. e 2059 c.p.c., il risarcimento per il danno morale subito, che, tenuto conto della gravità del fatto e delle lesioni riportate, dei postumi, delle sofferenze patite valutate anche in considerazione della durata effettiva della vita, può essere liquidato in via equitativa nella misura complessiva di €100.000,00 in moneta attuale.
Danno patrimoniale
Anche
la richiesta del risarcimento del danno patrimoniale trova accoglimento avendo
dimostrato l'attore spese sanitarie -valutate necessarie dal CTU- per lire
21.269.944 (cfr. ricevute e fatt. doc 11-15 att.) pari ad € 10.985,00 (le
ulteriori spese allegate per la prima volta in comparsa conclusionale non sono
suffragate da riscontri probatori). Trattandosi di credito di valore l'importo dovuto
per le predette voci di danno deve essere rivalutato in base al coefficiente
dell'indice medio annuale Istat del costo della vita relativo all'anno 1992 ed
è pari a complessivi €15.153,80.
La
gravissima patologia invalidante derivata al Cutolo dalla esecuzione
dell'intervento in questione ha reso il soggetto del tutto inabile a qualsiasi
attività lavorativa, dovendo quindi liquidarsi il danno conseguente alla totale
invalidità lavorativa specifica (cfr. c.t.u. risposta punto 10) in relazione
alla effettiva perdita della capacità reddituale. In proposito gli attori hanno
prodotto due dichiarazioni IRPEF e due mod. 101 relativi agli anni 1989-1990
dalle quali risulta che il Cutolo -che al tempo dell'intervento chirurgico
rivestiva la carica elettiva di consigliere regionale- percepiva redditi di
pensione per circa lire 27-28 milioni annui, nonché emolumenti derivanti
dall'attività consiliare per lire 57.729.180 nel 1989 e per lire 69.143.720 nel
1990, al lordo d'imposta.
Orbene,
escluso che gli emolumenti pensionistici possano assumere rilievo ai fini della
determinazione del "quantum" risarcitorio, atteso che tale fonte
reddituale -per antonomasia scollegata dall'esercizio attuale di attività
lavorativa- non può aver subito condizionamenti o modifiche dalla sopravvenuta
patologia invalidante, occorre valutare la entità della perdita patrimoniale
con esclusivo riferimento all'altra voce reddituale e relativamente al periodo
di tempo intercorso dalla esecuzione dell'intervento (10.7.1992) fino
all'exitus (5.5.1999).
I
modesti mezzi di prova sul "quantum" offerti dalla difesa attorea non
consentono di valutare altrimenti la incidenza patrimoniale della invalidità
lavorativa specifica, non essendo noto da quanto tempo il Cutolo svolgesse
attività politica o in quale anno avesse assunto l'incarico elettivo, ed
essendo stato soltanto allegato, ma non dimostrato, che lo stesso percepiva
ulteriori indennità in dipendenza di altri incarichi regionali.
Vale
peraltro rilevare che in comparsa conclusionale le attrici ammettono che
soltanto in seguito alla nomina del tutore provvisorio in data 1.2.1995 si è
b-)
Danni "iure proprio"
Fabi
Antonietta (vedova Cutolo) ha richiesto il risarcimento del danno patrimoniale
e non patrimoniale sofferto "a seguito delle gravi lesioni subite dal
marito e per la trasformazione della sua esistenza nella continua ed esclusiva
opera di vigilanza ed aiuto al marito...". Le altre attrici Tutolo Rosa,
Susanna e Nicoletta (figlie del de cuius) hanno chiesto il risarcimento del
danno non patrimoniale patito in conseguenza dell'insuccesso dell'intervento
chirurgico "per avere perso la guida e l'ausilio del genitore divenuto
totalmente incapace di attendere a tali sue funzioni e costrette, invece, anche
loro, a coadiuvare fino alla data del decesso dell'On. Cutolo, la madre nella
diuturna opera di vigilanza ed assistenza".
Orbene
in assenza di prova sulle spese di assistenza sostenute dalla moglie in favore
del marito (danno emergente), ovvero in assenza della prova della rinuncia
della moglie allo svolgimento di attività remunerative per dedicarsi
all'assistenza del marito (danno riflesso da lucro cessante: Cass III
n.1516/2001 cit.), nulla può essere liquidato alla Fabi a titolo di danno
patrimoniale.
Relativamente
al danno non patrimoniale, chiesto sia dalla vedova sia dalle tre figlie del
Cutolo, rileva il Tribunale che ad un originario orientamento giurisprudenziale
che circoscriveva l'area del danno non patrimoniale (recte: morale soggettivo)
risarcibile alla sola persona offesa dal reato di lesioni personali (secondo
una interpretazione restrittiva degli artt. 185 c.p. e 2059 c.c.: cfr. Cass III
sez. 11.2.1998 n. 1421 in Danno e resp. civ.1998 pag. 895, con riferimento al
danno morale richiesto da marito e figlio per la perdita della capacità di
procreare subita dalla donna; da ultimo Cass sez. lav. 23.2.2000 n. 2037 in USI
Mass civ. riv. 534266) recentemente se ne andato contrapponendo un altro (che
ha trovato la prima elaborazione in Cass III sez. 23.4.1998 n. 4186 ric. Pinna
c/ Pelucchi, e quindi seguito in successive pronunce della stessa sezione, con
ulteriore approfondimento in Cass III sez. 2.2.2001 n. 1516 ric. Lunetta ed
altri c/ Ministero Difesa), condiviso da ultimo anche da Corte cost. sent.
11.7.2003 n. 233, che:
A-)
da un lato non ravvisa ostacoli nelle predette norme al riconoscimento del
risarcimento del danno morale soggettivo (inteso come "ingiusto
perturbamento apportato alle condizioni d'animo del leso (patema d'animo)"
-Cass III sez. 19.8.1964 n. 2336 in USI Mass civ riv. 303506- ovvero come
"transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima" -Corte cost.
sent. cit-) anche ai soggetti non identificabili nella persona offesa dal
reato, ritenendo irrilevante la natura dall'evento (morte/lesioni) conseguito
alla condotta criminosa: si osserva, infatti, che il giudizio relativo
all'accertamento del nesso di causalità giuridica tra evento lesivo e
conseguenze pregiudizievoli non può evidentemente atteggiarsi diversamente
secondo la natura delle lesioni personali (mortali -in dipendenza delle quali
si riconosce un danno morale "iure proprio" dei familiari- o solo
invalidanti -in conseguenza delle quali tale danno non viene riconosciuto-)
subite dalla vittima del reato (il contrasto giurisprudenziale in ordine alla
risarcibilità dello "stand by damage" è stato definitivamente
composto da Cass SU 1.7.2002 n. 9556 cit. che, argomentando dal carattere
plurioffensivo di determinate fattispecie penali, ha chiaramente escluso una
differente genesi eziologica tra il cd. danno riflesso o da rimbalzo -ossia
quello prodotto dalla lesione di diritti, conseguenti al fatto illecito altrui,
di cui siano portatori soggetti diversi dall'originario danneggiato, ma in
significativo rapporto con lui: Cass 7.1.1991 n. 60 in FI'91 col. 459; Cass III
sez. 1.12.1998 n. 12195 in FI'99 col.. 77- ed il danno che è conseguenza
immediata e diretta dell'illecito ex art. 1223 c.c., rilevando "che lo
stato di sofferenza dei congiunti nel quale consiste il loro danno morale,
trova causa efficiente, per quanto mediata, pur sempre nel fatto illecito del
terzo nei confronti del soggetto leso");
B-)
dall'altro ha ricondotto il "danno morale soggettivo" nella più ampia
categoria del "danno non patrimoniale" -derivante dalla lesione di un
interesse giuridicamente rilevante non suscettibile di valutazione economica-,
ritenendo di superare l'ostacolo alla risarcibilità di tali danni rappresentato
dal vincolo necessario con la qualificazione dell'illecito come fatto-reato (da
accertarsi soltanto in astratto: Cass III sez. 12.5.2003 n. 7281 ric. ANAS c/
Candeloro ed altri in Dir. e Giust. 2003): la risarcibilità del danno non patrimoniale,
anche in assenza di reato, viene affermata in base ad un'interpretazione
costituzionalmente orientata" dell'art. 2059 c.c. che assume a fondamento
la intrinseca correlazione tra il grado di tutela accordato dall'ordinamento
alle situazioni giuridiche soggettive violate (e dunque tra l'obbligo
sanzionato dall'art. 2043 c.c. -norma che prevede l'integrale ristoro del danno
come conseguenza dell'illecito, senza distinguere tra danno patrimoniale e non
patrimoniale-) e la rilevanza costituzionale dell'interesse pregiudicato con
specifico riferimento all'art. 2 Cost. e quindi alla tutela dei diritti
fondamentali della persona ("collocati al vertice della gerarchia dei
valori costituzionalmente garantiti" e rispetto ai quali "anche nei rapporti
tra privati(cd. drittwirkung) non è ipotizzabile limite alla
risarcibilità)": Cass I sez. 7.6.2000 n. 7713 ric. Cappelletto c/ He Cheng
ed altro, con riferimento alla violazione dei diritti connessi allo
"status familiae" del figlio minore).
L'orientamento
giurisprudenziale richiamato si articola nei seguenti postulati: a) il danno
morale soggettivo non esaurisce la categoria del danno non patrimoniale
considerato dall'art. 2059 c.c. (nella quale deve inscriversi anche il danno
biologico -così modificandosi l'arresto di Corte cost. 184/1986- ed il
pregiudizio arrecato al "benessere sociale" dell'individuo, il danno
arrecato all'onore ed alla reputazione personale, gli altri danni riconosciuti
da numerose disposizioni di legge: ingiusta detenzione, "vacanza
rovinata", eccessiva durata del processo, discriminazione razziale, ecc.);
b) ove vengano in questione "valori della persona costituzionalmente
garantiti" il limite derivante dalla riserva di legge ex art. 2059 c.c.
correlata all'art. 185 c.p. deve ritenersi inoperante in quanto la rilevanza
costituzionale dell'interesse non tollera limitazioni alla pienezza della
tutela riparatoria accordata dall'ordinamento (integrale ristoro del danno ex
art. 2043 c.c.), imposte da una fonte di rango inferiore; c) in ogni caso, tenuto
conto che il riconoscimento costituzionale del diritto implica l'intrinseca
esigenza di protezione dello stesso al massimo livello, deve ravvisarsi nelle
norme costituzionali in questione "un caso determinato dalla legge......di
riparazione del danno non patrimoniale", rimanendo in tal modo superato
l'ostacolo della riserva di legge richiesta dall'art. 2059 c.c. per la
risarcibilità dei danni non patrimoniali (cfr. Cass III sez. 31.5.2003 n. 8828
in http://www.giustizia.it -sito visitato il 23.7.2003-); d) il pericolo di una
estensione incontrollata della risarcibilità del danno non patrimoniale a
qualsiasi espressione dell'attività umana (anche quelle più futili) è evitato
dall'esclusivo riconoscimento della tutela risarcitoria alla lesione di interessi
di rango costituzionale, dovendo procedere il Giudice, volta per volta, alla
individuazione dell'interesse pregiudicato ed alla sussunzione o meno dello
stesso tra i diritti inviolabili della persona (cfr. Cass III 31.5.2003 n. 8827
ric. Ventura c/ Dalla Riva ed altri in Dir. Giust. 6/2003 che riconduce la
"elisione delle potenzialità interrelazionali del rapporto parentale dei
genitori con il figlio" nell'ambito dei diritti della famiglia ex artt. 29
e 30 Cost. intesi "non già, restrittivamente, come tutela delle
estrinsecazioni della persona nell'ambito esclusivo di quel nucleo, con una
proiezione di carattere meramente interno, ma nel più ampio senso di modalità
di realizzazione della vita stessa dell'individuo alla stregua dei valori e dei
sentimenti che il rapporto parentale ispira, generando bensì bisogni e doveri,
ma dando anche luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni e
significati").
Orbene
ritiene il Tribunale di dovere aderire a questo nuovo orientamento
giurisprudenziale che ha trovato supporto dalla dottrina ed avallo dal Giudice
delle leggi, e che costituisce una evoluzione della riflessione sul danno
biologico, venendo a scorporare dal "danno-evento" (la lesione della
integrità psico-fisica coincide con la compromissione della validità biologica
dell'individuo) quel particolare pregiudizio costituito dal "danno alla
vita di relazione", trasferendolo, nella ipotesi di lesione di interessi
di rilevanza costituzionale diversi dal diritto alla salute ex art. 32 Cost.
(ma sembra per esigenze di giustificazione probatoria più che per motivi di
classificazione sistematica o dogmatica), sul piano del
"danno-conseguenza" (cfr. Cass III sez. n. 8828/2003 cit.) oggetto di
allegazione e prova da parte del soggetto danneggiato.
Pertanto,
in caso di lesioni personali inferte al congiunto, i familiari sono legittimati
a richiedere "iure proprio": a) il danno patrimoniale (spese di
assistenza, lucro cessante: rinuncia ad attività lavorativa, cessazione
dell'apporto economico che la vittima avrebbe in futuro continuano a fornire
alla famiglia), b) il danno biologico (psichico) qualora sussista una
situazione patologica definibile come malattia secondo i criteri medico-legali,
c) il danno non patrimoniale (consistente in una totale privazione ovvero in una
"deminutio" della vita
relazionale del soggetto: irrilevante, al riguardo, è la terminologia
classificatoria utilizzata -danno alla vita di relazione, danno esistenziale,
pregiudizio del benessere sociale, perdita o riduzione della qualità della
vita-) ove risulti violato interesse di rango costituzionale diverso dal
diritto alla salute, in aggiunta al danno morale soggettivo (ricompreso
anch'esso nella categoria del danno non patrimoniale ma inteso restrittivamente
come transeunte turbamento dell'animo).
Non
pare dubbio, in proposito, che tanto la Fabi quanto le figlie, con la criptica
espressione "danno morale" abbiano inteso riferirsi non soltanto al
transitorio perturbamento (consistente nello stato emotivo del dolore) subito a
causa dell'evento lesivo sofferto dal proprio congiunto, ma anche al danno non
patrimoniale consistente nello stravolgimento delle proprie condizioni di vita
determinato dalla definitiva perdita del rapporto interfamiliare (perdita delle
relazioni affettive, del contributo del marito-padre allo sviluppo morale e
culturale della famiglia, delle consuetudini di vita), danno come visto che
trova il proprio referente nell'interesse protetto e di rango costituzionale
"alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà
nell'ambito della famiglia, alla inviolabilità della libera e piena
esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell'ambito di
quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è
ricollegabile agli artt. 2, 29 e
30 Cost." (sic Cass III sez. n. 8828/2003 cit.).
Se,
pertanto, non sussistono dubbi in ordine alla esistenza del danno allegato,
occorre evidenziare in relazione alla determinazione del "quantum"
risarcibile (da effettuarsi con criterio equitativo, dovendosi monetizzare la
lesione di un interesse insuscettibile di valutazione economica) che le tabelle
di riferimento per la liquidazione ai superstiti del danno morale derivante da
morte del familiare, in uso preso questo Tribunale (pubblicate in Giurisprudenza
romana-Ipsoa n. 5/2003), sono state elaborate non soltanto in funzione del
danno morale soggettivo ("pretium doloris" che, normalmente, viene ad
essere dimensionato mediante ricorso ai criteri di commisurazione della pena
previsti dall'art. 133 comma 1 c.p.), ma soprattutto in funzione delle immutate
condizioni esistenziali (destinate a protrarsi nel tempo) dei familiari
superstiti, modulando gli importi risarcitori in relazione alla diversa
intensità delle interrelazioni affettive e spirituali determinate dal tipo di
rapporto (coniugale, genitoriale, parentale, convivenza di fatto) che
intercorreva tra i singoli soggetti-danneggiati e la vittima, avuto riguardo
altresì alla posizione rivestita all'interno del nucleo familiare, alla
effettiva convivenza e pratica di vita, alla maggior vicinanza o lontananza con
la vittima (non solo in termini geografici o di frequentazione ma anche in
relazione alla intimità dei sentimenti affettivi). La esplicita considerazione
di tale ulteriore danno (non patrimoniale) trova inequivoca conferma negli
elevati valori del risarcimento per equivalente adottati dalla Tabella (gli
importi indicati risultano statisticamente tra i più elevati fra quelli
liquidati dai Tribunali italiani), nonchè nei "fattori di correzione"
utilizzati tra i quali la presenza/assenza di altri congiunti conviventi,
circostanza che riverbera sulla maggiore o minore capacità del familiare
superstite di affrontare la vita dopo la perdita del congiunto, potendo fare
affidamento sulla solidarietà degli altri membri della famiglia.
Tanto
premesso, venendo ad esplicitare i criteri equitativi che presiedono al
risarcimento del danno non patrimoniale (comprensivo del danno morale
contingente) subito dalle attrici, non appare dubbio che la determinazione del
"quantum" risenta della valutazione della maggiore o minore intensità
della sofferenza cagionata dall'evento letale ai familiari ed ai congiunti
superstiti, indagine che, risolvendosi in un giudizio meramente probabilistico,
non può che essere condotta sulla scorta di elementi sintomatici quali:
l'intensità del vincolo affettivo; la vicinanza del rapporto di parentela; la
convivenza; l'effettivo atteggiarsi delle relazioni interpersonali; il ruolo in
concreto svolto dalla vittima all'interno del gruppo familiare e l'apporto dato
allo sviluppo spirituale e materiale dei singoli componenti; le aspettative di
vita del soggetto leso; le modalità dell'evento lesivo e la gravità
dell'elemento psicologico dell'illecito.
Nel
caso concreto non può prescindersi, pertanto, dalla specifica gravità della
condizione invalidante del congiunto (incapace di attendere alle più elementari
esigenze quotidiane, e divenuto improvvisamente, da individuo attivo ed
impegnato, soggetto privo di capacità intellettiva e volitiva); dalla
particolare stima in cui il Cutolo era tenuto dai propri familiari anche in
considerazione della carica pubblica rivestita; dalle concrete aspettative
nutrite dalle figlie di potersi avvalere ancora per il futuro del valido
contributo educativo e della esperienza umana e professionale del padre (una
delle figlie era minore al tempo dell'intervento). Le indicate circostanze,
tenuto conto degli stretti vincoli di parentela che legavano i familiari
(moglie e figlie) alla vittima, inducono a ritenere che la perdita sia stata
particolarmente sofferta da tutti i familiari. Deve tuttavia considerarsi che
il traumatico mutamento delle condizioni esistenziali dei familiari ed il
pregiudizio arrecato al loro rapporto parentale con il congiunto, rimane
circoscritto in un arco temporale ben preciso (sette anni), essendo deceduto il
Cutolo nell'anno 1999.
Valutati
i predetti elementi, e tenuto conto che gli importi delle singole voci di danno
specificati nelle precisate conclusioni hanno carattere meramente indicativo
(le attrici si sono infatti rimesse alla valutazione del Tribunale in ordine
alle maggiori o minori somme che dovessero risultare dovute), il danno non
patrimoniale subito dai familiari del Cutolo va liquidato al valore attuale con
criterio equitativo (con riferimento ai valori della tabella sopra indicata in
considerazione della "totale" invalidità biologica permanente del
congiunto) nella seguente misura:
- €
50.000,00 per il coniuge;
- €
70.000,00 in favore della figlia (minore al tempo dell'evento lesivo);
- €
35.000,00 in favore di ciascuna delle altre figlie.
c-)
Danno da lucro cessante
Al
credito risarcitorio come sopra determinato (pari a complessivi € 533.739,76 al
valore attuale) va ad aggiungersi l'ulteriore importo di € 311.444,90 spettante
ai danneggiati a ristoro del lucro cessante conseguente alla mancata
disponibilità dell'equivalente monetario del danno per il periodo intercorso
dalla data dell'illecito alla presente decisione, in tal modo dovendo
interpretarsi la richiesta di liquidazione degli interessi sull'ammontare del
credito risarcitorio con decorrenza dalla data dell'illecito (cfr. Cass I sez
4.8.2000 n. 10263 in USI Mass civ. Corte cass riv.539191 "L'obbligo di
Tale
voce di danno viene liquidata equitativamente (Cass SU 1712/95) utilizzando
come base di calcolo il valore del danno al tempo del fatto illecito, ed
applicando su tale importo, rivalutato anno per anno in base ai coefficienti
Istat del costo della vita, un tasso del 6,14 % pari al rendimento medio annuo
dei titoli di Stato per il periodo di indisponibilità della somma (in assenza
di altri elementi di valutazione che consentano di presumere un impiego
maggiormente remunerativo della somma).
Sul
complessivo ammontare del credito risarcitorio, pari ad € 845.184,66 al valore
attuale, decorrono interessi in misura legale dalla pubblicazione della
sentenza al saldo.
VI-)
Trovano accoglimento le domande di garanzia proposte dalla convenuta Vallocchia
Daniela e dalla Rome American Hospital s.p.a. nei confronti della Assitalia
s.p.a. in quanto fondate sulla polizza assicurativa della responsabilità civile
n. 476340 estesa, ai sensi dell'art. 12 Condizioni Particolari allegate al
contratto, anche alla "responsabilità civile personale dei medici non dipendenti
per danni verificatisi nello svolgimento delle loro mansioni presso
l'Assicurato".
Non
trova invece conferma la violazione del "patto di gestione lite"
affermata dalla società assicuratrice, in difetto di prova della stipula di
tale patto (la clausola in questione non è presente nel frontespizio della
polizza né risulta inserita tra le CGA e CP allegate nelle copie prodotte dalla
Casa di cura e dalla convenuta Vallocchia), con la conseguente estensione della
garanzia assicurativa anche alle spese di lite liquidate in favore delle
attrici.
Manifestamente
inammissibile la domanda di condanna dell'Assitalia s.p.a. al risarcimento dei
danni, proposta dalle attrici per la prima volta alla udienza di precisazione
delle conclusioni, trattandosi di domanda nuova formulata in carenza di
legittimazione ad agire (non essendo accordata al danneggiato azione diretta
nei confronti del terzo-assicuratore).
VII-)
La domanda riconvenzionale avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo di
lire 43.254.378 proposta dalla Rome American Hospital s.p.a. va rigettata in
quanto l'accertato definitivo inadempimento della società al contratto di
assistenza terapeutica preclude -a fronte della "exceptio inadimpleti
contractus" opposta dalle attrici- l'azionabilità della pretesa al
corrispettivo contrattuale.
VIII-)
Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, sono regolate
come segue:
- le
attrici devono rifondere le spese sostenute da Mutolo Pietro Alessandro e dalla
RAS s.p.a.;
- i
convenuti Vallocchia Daniela, Rome American Hospital s.p.a., Assitalia s.p.a.
sono tenuti a rifondere le spese sostenute dalle attrici;
-
compensate interamente le spese di lite tra le parti del giudizio in relazione
alle altre domande.
P.Q.M.
Il
Tribunale, definitivamente pronunciando, così provvede:
-
dispone lo stralcio delle "riflessioni critiche alla c.t.u." allegate
alla comparsa conclusionale dell'Assitalia s.p.a.;
-
dichiara inammissibili le domande di risarcimento danni come proposte dalle
attrici nei confronti dell'Assitalia s.p.a. e della RAS s.p.a., dichiarando
compensate per intero le spese di lite;
-
rigetta la domanda come proposta da Fabi Antonietta, Cutolo Rosa, Tutolo
Susanna e Tutolo Nicoletta nei confronti di Mutolo Pietro Alessandro e condanna
le attrici alla rifusione delle spese di giudizio che liquida: a) in favore del
convenuto Mutolo in € 986,08 per esborsi, € 6.279,61 per diritti ed € 12.291,68
per onorari oltre Iva e Cap; b) in favore della società assicurativa,
d'ufficio, in € 194,94 per esborsi, € 3.150,00 per diritti ed € 5.200,00 per
onorari oltre Iva e Cap;
-
rigetta la domanda riconvenzionale proposta da Rome American Hospital s.p.a.
nei confronti delle attrici;
-
condanna Vallocchia Daniela e Rome American Hospital s.p.a., in solido, al
pagamento in favore delle attrici della somma di € 845.184,66 al valore attuale
oltre gli interessi al saggio legale dalla data di pubblicazione della sentenza
al saldo;
-
condanna Vallocchia Daniela, Rome American Hospital s.p.a. ed Assitalia s.p.a.,
in solido, alla rifusione in favore delle attrici delle spese del presente
giudizio che si liquidano in € 1.426,68 per spese (oltre € 733,37 per spese
c.t.u. che si pongono definitivamente a carico delle parti soccombenti), €
8.340,13 per diritti di procuratore ed € 12.545,00 per onorari oltre rimborso
ex art. 15 TF, Iva e Cpa;
-
condanna l'Assitalia s.p.a. a rivalere Vallocchia Daniela e Roma American
Hospital s.p.a. delle somme dagli stessi corrisposte alle attrici in dipendenza
dei precedenti capi di sentenza, dichiarando interamente compensate le spese di
lite tra le parti del rapporto di garanzia.
Così
deciso in Roma il 20.10.2003.
Il
Giudice
dott.
Stefano Olivieri
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