Le assurde tesi del Governatore Fazio sulla “vetustà”
dei principi di civiltà giuridica
Finalmente
qualcun altro si è posto sulla scia delle critiche espresse da E. Scalfari su “la
Repubblica” (del 17.3.2002) che, come noi infastidito delle esternazioni del
Governatore della Banca d’Italia - appropriatosi del ruolo di “trombonista del liberismo”
(evidentemente in supplenza del “poco” rimastogli nella conduzione di un
organismo nazionale esautorato dalla Banca centrale europea), - è sbottato, affermando ironicamente che, con il tema della flessibilità
“Fazio…ci fa i gargarismi tutti i giorni, salvo elevare contemporanee omelie
a sostegno dei ceti deboli. Pensa forse, il governatore, ai balli di
beneficenza organizzati da qualche onorevole Santacchè o ad altri consimili e
commendevoli iniziative?”. Nel sito www.legge-e-giustiza.it
qualcun altro, finalmente, ha preso posizione sulle singolari litanie
pontificali che,
puntualmente quanto ossessivamente, Fazio propina all’opinione pubblica (prospettando
ipotesi in un terreno “giuridico-sociale” che non gli è congeniale ed a danno
del “resto” dei lavoratori, mentre in casa propria sono stati da sempre
coltivati ed ancora prosperano privilegi salvaguardati per “tutti” con l’avallo
delle autonome corporazioni di rappresentanza del personale). E lo fa impettito,
abbagliando e confondendo lettori e uditori attraverso "la lente d’ingrandimento"
dell’autorevolezza di un ruolo e di una competenza (rinvenibile in taluno dei suoi
predecessori ma) che, sia per l’involuzione subita dall’organismo
da esso oggi governato sia a livello personale, non si è obiettivamente disponibili a riconoscergli.
Di seguito
riportiamo il testo del condivisibile, preannunciato, articolo, titolato:
"IL DIBATTITO SULL’ARTICOLO 18 DELLO STATUTO DEVE
AVERE UNA BASE COMUNE DI LEALTA’ ED ONESTA’ INTELLETTUALE
I vuoti di memoria del
Governatore Fazio e i messaggi orwelliani del ministro Tremonti.
Se, come ha detto il
ministro Buttiglione, terrorista è chi si rende interprete, con la violenza, di
un comune sentire e persegue, con il clamore di gesti delittuosi, il consenso
delle masse, bisogna concludere che gli uccisori di Marco Biagi sono peggio che
terroristi.
Oggi chiunque conosca il mondo
del lavoro sa che il metodo del terrore non può trovarvi consenso, perché chi
si batte per lo Statuto dei Lavoratori difende il sistema delle regole, ossia
l’antitesi dei rapporti di forza. A conferma di ciò sta la serena
partecipazione di milioni di persone alla grande manifestazione di sabato
scorso.
Anche chi ha colpito Biagi
queste cose non poteva ignorarle. Si tratta perciò di criminali che cercano nei
conflitti sociali e politici pretesti per soddisfare personali pulsioni di
protagonismo. In questo modo essi possono rendersi, più o meno consapevolmente,
strumento di operazioni di segno inverso a quello cui dichiarano di ispirarsi.
Lasciamo perciò agli inquirenti l’analisi del documento di rivendicazione
diffuso dagli attentatori. La materia non è politica, ma criminologica.
Toccherà agli esperti della polizia tracciare l’identikit psicologico di questi
personaggi.
Il confronto delle idee deve
continuare senza che le intimidazioni televisive di Berlusconi possano
smorzarlo. Ma il dibattito sull’art. 18, per essere democratico, deve avere una
minima base comune di lealtà e di onestà intellettuale, ingredienti che sempre
più scarseggiano.
Il Governatore della Banca
d’Italia Fazio è incorso in un significativo errore, quando in occasione di una
conferenza tenuta nei giorni scorsi a Roma, ha detto che le tutele del lavoro
subordinato introdotte nel nostro ordinamento “50 anni fa” non sono compatibili
con le esigenze della globalizzazione. Il desiderio di mettere in cantina, come
arnese obsoleto, lo Statuto dei Lavoratori, ha tradito la memoria del
Governatore. Cinquanta anni fa nel nostro ordinamento i dipendenti potevano
essere legalmente licenziati senza motivo e il loro sfruttamento non aveva
limiti. Varcati i cancelli delle fabbriche, i lavoratori diventavano cittadini
di seconda classe, la cui dignità e libertà potevano essere compresse per le
esigenze dell’impresa. Dopo una sentenza della Corte Costituzionale che nel
1965 affermò l’incompatibilità del licenziamento arbitrario con i principi
fondamentali della Repubblica, fu introdotta nel 1966 una prima forma di tutela
che prevedeva il diritto del lavoratore di percepire un’indennità variabile fra
due e sei mesi in caso di licenziamento ingiustificato. Ma anche questo
strumento si rivelò presto inadeguato, specie nelle grandi aziende, per le
quali il costo dell’indennizzo era ben modesto. Un’indagine parlamentare
accertò che i lavoratori continuavano ad essere sottoposti ad ogni sorta di
abusi. Per questo, 32 anni fa il Parlamento, con voto unanime, ha approvato lo
Statuto dei Lavoratori, intitolandolo “Norme sulla tutela della libertà e
dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale sui
luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. Una grande riforma che ha
collocato il diritto del lavoro italiano all’avanguardia della civiltà
giuridica contemporanea, assicurando anche all’interno delle fabbriche il
rispetto dei principi fondamentali presenti nelle carte costituzionali di tutti
i Paesi democratici: la libertà d’opinione, la tutela da intromissioni illecite
nella vita privata, il diritto di difesa in sede disciplinare, la
valorizzazione della professionalità come componente fondamentale dell’identità
personale, il diritto di assemblea e molti altri ancora.
Secondo Fazio i principi,
come le belle donne, con l’età perdono il loro fascino. Questa teoria
giustificherebbe anche l’accantonamento della Dichiarazione dei diritti
dell’uomo, essendo trascorsi più di due secoli dalla presa della Bastiglia.
In linea con Fazio il
ministro Tremonti secondo cui agevolare i licenziamenti, depotenziando
l’articolo 18 dello Statuto, è il modo migliore per favorire l’occupazione.
Il teorema, di sapore
orwelliano, smentito dalla realtà delle zone più produttive del Paese, ove
l’art. 18 convive tranquillamente con la piena occupazione, è un espediente
diretto a fuorviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalla questione di
fondo, che non è la statistica dei posti di lavoro, ma la difesa di valori
fondamentali, che lo Statuto, trent’anni fa, ha fatto entrare nelle fabbriche.
L’articolo 18 è l’architrave
su cui poggia tutto il sistema di garanzie introdotto con lo Statuto, perché
offre un’effettiva protezione contro la minaccia di licenziamenti arbitrari e
consente, a chi si ritenga colpito da un abuso, di rivolgersi serenamente al
giudice per tutelare i suoi diritti, senza timore di rappresaglia. Un grande
strumento di progresso civile diretto a sostituire ai rapporti di forza
l’applicazione delle regole. Questa norma inoltre indica all’imprenditore evoluto
che la strada da seguire per aumentare la produttività dei lavoratori non è
quella dell’intimidazione, ma quella della valorizzazione della
professionalità, della partecipazione, dell’innovazione.
Il modello introdotto con lo
Statuto, oltre ad essere ancorato ad una norma fondamentale della nostra
Costituzione, l’art. 41, che pone all’iniziativa privata il limite costituito
dalla libertà e dalla dignità umana, è pienamente conforme ai principi
recentemente affermati a Nizza nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea. Che l’Italia sia più avanti di altri Paesi nell’applicazione di questi
principi non è un handicap, ma un esempio da seguire.
Altra operazione orwelliana
è perciò definire conservatori quelli che difendono l’articolo 18 e riformisti
quelli che lo vogliono indebolire.
La portata generale degli
interessi tutelati dall’articolo 18 è dimostrata anche dalla partecipazione
attiva del mondo dell’informazione e della cultura alle iniziative assunte dal
sindacato per difendere questa norma. L’art. 18 tutela nelle redazioni dei
grandi organi di informazione, nelle case editrici e in tutte le grandi aziende
che producono cultura, l’autonomia professionale dei giornalisti e degli altri
addetti all’attività di informazione.
La legge professionale ed
elementari principi deontologici impongono ai giornalisti di essere al servizio
del pubblico e di comportarsi lealmente nei confronti dei lettori.
Così si garantisce ai
cittadini il diritto, più volte affermato dalla Corte costituzionale, di essere
correttamente e compiutamente informati e di partecipare consapevolmente al
funzionamento del sistema democratico.
Quando il mondo
dell’informazione viene dominato da strutture monopolistiche, la tutela dei
singoli lavoratori del settore contro i licenziamenti arbitrari assume
un’importanza ancor maggiore, dal momento che le alternative professionali si
riducono o si annullano. L’indebolimento dell’art. 18, in queste condizioni,
renderà sempre più difficile la resistenza alle pressioni di interessi estranei
alla correttezza dell’informazione."
Roma, 25.03.2002
(pubblicato dal sito www.legge-e-giustizia.it dell’avv. D. D’Amati, lancio del 25.3.2002)
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