Obbligo di CTU sanitaria per l’accertamento di invalidità da stress lavorativo

 

Cass. sez. lav., 11 settembre 2006, n. 19434  - Pres. Sciarelli - Est. Celentano - P.M. Gaeta (diff.) - Rufino c. Inail

 

Accertamento di invalidità da stress lavorativo, in soggetto già predisposto per vicissitudini personali – Omissione da parte del giudice di CTU sanitaria – Obbligo - Sussistenza.

 

Nelle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatoria, che richiedono accertamenti tecnici la consulenza tecnica in appello, normalmente facoltativa, diviene obbligatoria se è stata omessa dal giudice di primo grado. Il mancato espletamento della consulenza, nel caso che neppure in primo grado sia stata espletata, costituisce una grave carenza nell'accertamento dei fatti e si risolve, inoltre, in un vizio di motivazione della sentenza, ferma restando, naturalmente, la facoltà del giudice del merito di discostarsi motivatamente dal parere del c.t.u..

L'operatività del principio di equivalenza causale di cui all'art. 41 c.p., che trova applicazione nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, è da ritenersi ammissibile anche in presenza di una intrinseca debolezza o predisposizione del soggetto. (Il caso di specie riguardava una lavoratrice, già duramente provata sotto il profilo emotivo da vicende personali, la quale aveva chiesto accertarsi uno stress lavorativo legato alle sue condizioni di lavoro ed una conseguente grave sindrome depressiva, con invalidità assoluta temporanea ed inabilità permanente del 75%.)

 

Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale di Milano la signora Lucia Rufino chiedeva accertarsi che lo stress lavorativo legato alle condizioni di lavoro presso la casa editrice Scode Spa presso la quale lavorava dal settembre 1991, le aveva procurato una grave sindrome depressiva, con invalidità assoluta temporanea ed inabilità permanente del 75%.

Chiedeva la condanna dell’Inail al pagamento delle relative prestazioni, negate in sede amministrativa.

L’Inail, costituitosi, negava ogni nesso causale fra l’attività lavorativa e la sindrome depressiva, che deduceva precedente alla attività lavorativa.

Con sentenza del 6 giugno 2002 il Tribunale respingeva il ricorso, e la Corte di appello di Milano, con sentenza dell’1 aprile-6 agosto 2003, rigettava l’appello della lavoratrice.

I giudici di secondo grado osservavano che la ricorrente si era trovata nel corso della vita, ad affrontare situazioni difficili o traumatiche, alcune non collegate all’attività lavorativa fino ad arrivare ad una eccessiva drammatizzazione di quello che era un normale rapporto di lavoro con i suoi carichi e le sue responsabilità.

Per la cassazione di tale decisione ricorre, formulando tre motivi di censura Lucia Rufino.

L’Inail resiste con controricorso, illustrato con memoria.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, denunciando violazione dell’art. 445 c.p.c. e vizio di motivazione, la difesa della ricorrente lamenta che la Corte di appello ha disatteso la domanda e la relazione medica di parte prodotta in primo grado senza disporre una consulenza tecnica medico legale (non disposta, neppure in primo grado), necessaria in relazione alla malattia denunciata e alle considerazioni riportate nella consulenza di parte della specialista psichiatra.

2. Con il secondo motivo, denunciando vizio di motivazione su punto decisivo, la difesa della ricorrente lamenta che la Corte territoriale, affermando che la signora Rufino si era trovata ad affrontare un ritmo di lavoro abbastanza sostenuto in sintonia con la sua posizione di impiegata di livello elevato, non ha adeguatamente tenuto conto delle testimonianze assunte in primo grado, che avevano confermato il continuo aumento dei compiti lavorativi della ricorrente non in relazione all’azienda dalla quale era stata assunta ma in relazione ad altre imprese ad essa estranee, a seguito di carenza o riduzione di personale di ciascuna di esse.

3. Con il terzo motivo, denunciando violazione dell’articolo 41 c.p. e vizio di motivazione la difesa Rufino lamenta che i giudici di appello hanno violato il principio di equivalenza delle cause applicabile anche alle malattie professionali.

Deduce che omettendo di disporre una consulenza medico legale, i giudici hanno immotivatamente escluso ogni concorso causale, nella genesi della malattia psichica, delle condizioni di lavoro.

4. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito indicati.

Il prevalente indirizzo nella giurisprudenza della Corte ritiene che nelle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatoria, che richiedono accertamenti tecnici la consulenza tecnica in appello, normalmente facoltativa, diviene obbligatoria se è stata omessa dal giudice di primo grado (Cass. nn. 2187 del 1986; 12354 del 1998; 5794 del 1999; 4927 del 2004). Il mancato espletamento della consulenza, nel caso che neppure in primo grado sia stata espletata, costituisce una grave carenza nell’accertamento dei fatti e si risolve, inoltre, in un vizio di motivazione della sentenza (cfr. Cass. n. 4927 del 2004, ferma restando, naturalmente, la facoltà del giudice del merito di discostarsi motivatamente dal parere del c.t.u..

Nella fattispecie in esame i giudici di appello hanno espresso la convinzione, non confortata da un accertamento medico legale sulle condizioni psichiche della assicurata né da adeguata motivazione, che l’attività di lavoro sia stata un’occasione di stress anziché una causa o concausa scatenante; hanno così escluso, senza alcuna motivazione, la possibile operatività del principio di equivalenza causale, che non esclude la sussistenza della professionalità della malattia anche in presenza di una intrinseca debolezza o predisposizione del soggetto.

Il ricorso va quindi accolto, con l’assorbimento degli altri profili di dedotta illegittimità o carenza motivazionale.

La sentenza impugnata va cassata e la causa va rinviata, per nuovo esame, ad altro giudice di pari grado che si indica nella Corte di appello di Brescia, perché giudichi sull’appello della lavoratrice previo il necessario espletamento di consulenza tecnico medico legale.

Al giudice di rinvio si rimette anche la regolazione delle spese di questo giudizio di legittimità. (Omissis)

 

L'intrinseca debolezza o predisposizione del soggetto non esclude automaticamente la malattia professionale.

 

Stress lavorativo.

Cassazione civile Sentenza, Sez. lav., 11/09/2006, n. 19434

 

Una lavoratrice assunta alle dipendenze di una casa editrice ricorreva al giudice del lavoro chiedendo la condanna dell’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro al pagamento delle prestazioni assistenziali ad ella negate in sede amministrativa. Deduceva -la ricorrente- la sussistenza di una condizione di stress legata alle condizioni di lavoro, che le aveva procurato una grave sindrome depressiva con invalidità assoluta temporanea ed inabilità permanente del 75%. La stessa ricorrente riferiva, eziologicamente, tale situazione di stress al continuo aumento dei propri compiti lavorativi, non solo in seno all’azienda dalla quale era stata assunta, ma anche nell’ambito di altre imprese ad essa estranee, a causa della carenza o della riduzione del personale di ciascuna di esse. I giudici del merito respingevano la domanda presentata dalla lavoratrice, osservando, in particolare, che ella si era trovata, nel corso della vita, ad affrontare situazioni difficili o traumatiche -alcune non collegate all’attività lavorativa- fino ad arrivare ad una eccessiva drammatizzazione di quello che era un normale rapporto di lavoro, con i suoi carichi e le sue responsabilità. Gli stessi giudici non ritenevano opportuno assumere, in corso di causa, una consulenza tecnica d’ufficio e, disattendendo la relazione medica di parte, negavano la sussistenza di un nesso causale tra l’attività lavorativa e la lamentata sindrome depressiva.

La questione veniva, quindi, sottoposta all’esame della Corte di Cassazione.

E’ noto che, nell’ambito del nostro ordinamento, la tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore assume un’importanza preminente, trovando regolamentazione normativa sia sul piano dei principi costituzionali che della legislazione speciale ed ordinaria. Sul versante costituzionale, è stato autorevolmente rilevato come l’art. 32 Cost., oltre che ascrivere alla collettività generale la tutela promozionale della salute dell’uomo, configuri il relativo diritto come diritto fondamentale dell’individuo e lo protegga in via primaria, incondizionata ed assoluta come modo d’essere della persona umana. Il collegamento con l’art. 2 Cost. attribuisce, inoltre, al diritto alla salute un contenuto di socialità e di sicurezza (Cass. Civ., Sez. Un., n. 5172/1979). Numerose e dettagliate sono, poi, le disposizioni normative speciali che, anche in attuazione di direttive comunitarie, hanno definito il sistema generale di prevenzione e sicurezza sul posto di lavoro. Accanto a queste, in funzione di norma di chiusura del predetto sistema, l’art. 2087 c.c. demanda al datore di lavoro l’adozione di tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare non solo l’integrità fisica, ma anche la personalità morale del prestatore di lavoro.

La forte attenzione legislativa per la sfera dell’integrità psico-fisica della persona ha trovato l’avallo della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, la quale ha avuto modo di sottolineare come il “valore uomo” non si esaurisca nella sola attitudine a produrre un reddito, ma sia espressione di tutte le funzioni naturali afferenti al soggetto nell’integrazione delle sue dimensioni biologiche, psicologiche e sociali (Cass. Civ. n. 8827/2003; Cass. Civ. 8828/2003; Corte Cost. n. 233/2003). E’ breve il passo che da qui conduce alla definizione di danno biologico come lesione temporanea o permanente dell’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito (da ultimo: art. 138, co. 2, lett. a), D. Lgs. N. 209/2005). Tale definizione racchiude, all’evidenza, la categoria del danno psichico, posto che la sofferenza psichica incide sulla globalità della persona, direttamente sul versante biologico.

La migliore psicologia ha avuto modo di rilevare come il danno psichico sia un danno legato al peggioramento della qualità della vita della persona che lo ha subito, conseguente ad una compromissione dell’efficienza, dell’adattamento e dell’equilibrio personale insorta a seguito dell’evento scatenante. Esso non può essere considerato in termini puramente soggettivi, in quanto non è riconducibile -in via esclusiva- alle emozioni provate, ma si riconosce in un vero e proprio danno, capace di alterare le condizioni di vita della persona. Appare, tuttavia, evidente l’impossibilità di prestabilire dei modelli paradigmatici astratti in ordine a tale tipologia di danno, rendendosi, viceversa, necessario un adeguamento al caso concreto dell’indagine di fatto, nella piena consapevolezza che un medesimo evento può produrre risposte molto diverse da individuo a individuo. La corretta valutazione del danno psichico deve affrontare -di necessità- la questione relativa all’individuazione del criterio metodologico atto a stabilire se un evento (e la personale reazione allo stesso) possa o meno costituire pregiudizio per l’equilibrio psichico del soggetto. Detta valutazione, che ha lo scopo di raccogliere informazioni sulla presenza di un disturbo mentale attribuibile in termini di causalità all’evento lesivo, non può, per altro, essere integralmente riportata ad una diagnosi di natura descrittiva, essendo del tutto imprescindibile la ricerca dei significati che la singola persona attribuisce all’esperienza vissuta. Una risposta patologica, infatti, dipende da numerosi fattori, tra i quali sono certamente ricompresi il significato personale che il soggetto attribuisce all’evento, il modo intimo di spiegarsi l’evento all’interno della propria biografia e, non ultimo, le condizioni psichiche della persona al momento del verificarsi dell’evento.

Fondamentale appare, quindi, la valutazione relativa al nesso causale chiamato a correlare, necessariamente, l’insorta patologia e l’evento che si assume a cagione della patologia stessa.

Il principio della causalità, regolato dal codice penale, è stato ritenuto applicabile, in campo civile, sul rilievo che è comune ad entrambe le discipline l’esistenza di un nesso eziologico tra azione (o omissione) ed evento, argomentando -pur nella apparente diversità di formulazione- dalla sostanziale identità degli artt. 40 c.p. e 2043 c.c.. Trova soluzione, in tal maniera, il problema del concorso delle cause, reputandosi legittimo il richiamo al disposto di cui all’art. 41 c.p., secondo cui, in presenza di una pluralità di fatti diversamente imputabili, a ciascuno di essi deve riconoscersi un’efficacia causativa ove abbia determinato una situazione tale che, senza di esso, l’evento non si sarebbe verificato. Con ciò facendosi salva l’ipotesi in cui la causa più prossima sia stata da sola sufficiente a determinare l’evento, nel qual caso soltanto essa può assurgere a causa efficiente esclusiva, poiché, inserendosi nella successione dei fatti, viene a spezzare ogni legame tra le cause remote e l’evento stesso (Cass. Civ. 1237/1992).

Pur con gli opportuni adattamenti, tali regole trovano applicazione anche nel settore delle malattie professionali, dovendosi riconoscere, sul piano normativo, una sostanziale identità dei principi ispiratori. Si è affermato, quindi, che nell’ipotesi di concorso di cause, la prestazione previdenziale o assicurativa non può essere ridotta nella misura percentuale corrispondente all’entità patologica esplicata dalla sola malattia professionale, ma, al contrario, essa spetta per l’intero, poiché per la teoria della equivalenza causale non è dato distinguere tra cause primarie che hanno operato in via diretta e cause che hanno avuto influenza soltanto indiretta e remota, incidendo in misura modesta nella produzione dell’evento (Cass. Civ. n. 10448/2004).

Circa il grado di certezza del nesso causale, stante la centralità della valutazione scientifica, valgono in ogni caso le acquisizioni della giurisprudenza di legittimità in punto di rilevanza del giudizio probabilistico, inteso nel senso della semplice compatibilità tra causa ed effetto, con esclusione della mera possibilità (Cass. Civ. n. 87/2003; Cass. Civ. n. 6592/2000). Esclusa, in altre parole, la mera possibilità dell’eziopatogenesi professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante o ragionevole grado di probabilità, per accertare il quale il giudice deve non solo consentire al lavoratore l’esperimento dei mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, ma deve altresì valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale (da ultimo: Cass. Civ. n. 19047/2006). Da rilevare, per altro, che il nesso causale non è escluso dalla predisposizione morbosa del lavoratore (come, invece, si è assunto nei gradi di merito della vicenda di specie), con la conseguenza che un ruolo di concausa ai sensi dell’art. 41 c.p. va attribuito anche ad una minima accelerazione di una pregressa malattia, salvo che questa sia sopravvenuta in modo del tutto indipendente dallo stress subito nell’esecuzione della prestazione lavorativa (Cass. Civ. n. 13928/2004). Detta predisposizione esclude, quindi, il nesso causale nell’ipotesi in cui essa, di per sé sola, abbia un’efficacia assorbente e totalizzante rispetto all’evento verificatosi.

Emerge, di logica, la necessità di accertare la sussistenza e l’entità della patologia denunciata, con particolare riferimento alle circostanze evidenziate nel caso concreto. Al riguardo si osserva che, in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie, nelle controversie relative a domande di prestazioni previdenziali o assistenziali richiedenti accertamenti tecnici, l’art. 445 c.p.c. chiama il giudice alla nomina di uno o più consulenti tecnici scelti in appositi albi. E’ stato autorevolmente rilevato, sul punto, che in tema di infortuni e malattie professionali, la valutazione del grado di riduzione dell’attitudine lavorativa importa una questione non già di natura giuridica, riservata al giudice, ma un giudizio di ordine sanitario da demandare, in quanto tale, a un consulente tecnico (Cass. Civ. n. 12910/2000; Cass. Civ. n. 4927/2004). Deve, altresì, considerarsi che la consulenza tecnica, specialmente in tema di accertamento di malattia professionale, non è soltanto uno strumento di valutazione tecnica, ma è anche un sistema di accertamento e di ricostruzione dei fatti storici prospettati dalle parti, senza, per altro, essere un mezzo costitutivo (o sostitutivo) dell’onere della prova gravante su ciascuna di esse. All’ausiliare del giudice, entro i limiti del principio dispositivo, è, inoltre, consentito assumere informazioni ed esaminare documenti non prodotti in causa, anche di sua iniziativa e senza l’espressa autorizzazione del giudice, pur spettando a quest’ultimo, quale peritus peritorum, la valutazione di utilità della iniziativa condotta. Nel rito del lavoro, dove, per la particolare natura dei rapporti controversi, il principio dispositivo va contemperato con quello della ricerca della verità materiale mediante una rilevante ed efficace azione del giudice nel processo, non può, per altro, farsi meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma occorre che il giudice -ove reputi insufficienti le prove già acquisite- provveda d’ufficio agli atti istruttori idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione (Cass. Civ. n. 310/1998). Il mancato esercizio di tale potere-dovere può tradursi in un vizio di illogicità della decisione, in particolare quando questa si fondi su un elemento probatorio offerto da una delle parti (ma contrastato dall’altra) e, di per sé, non dotato di sicura affidabilità.

Nel caso di specie, i giudici del merito, pur in presenza di una relazione medica di parte, hanno espresso la convinzione -non confortata da alcun accertamento medico legale sulle condizioni psichiche della lavoratrice - che l’attività lavorativa era stata mera occasione di stress, anziché una causa o una concausa scatenante. Il mancato espletamento della consulenza tecnica d’ufficio è stata, quindi, considerata dalla Suprema Corte, in linea con i precedenti di legittimità in materia, quale grave carenza nell’accertamento dei fatti, atta a risolversi in un vizio di motivazione della sentenza.

 

Nadir Plasenzotti, avvocato in Udine

Si veda anche sul tema: Meucci - Responsabilità integrale aziendale per danni alla salute (nota a Cass. n.5539-03), nonchè: Fattori congeniti predisponenti a patologie non esonerano da responsabilità chi lede il diritto alla salute .
Per un commento alla decisione vedi anche:Stress lavorativo, nesso causale, concause... (C. Timellini).

 

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