Rinnovi  contrattuali in economia in crisi, nuove generazioni e ruolo del sindacato

(considerazioni a margine del rinnovato ccnl del settore credito)

 

 

1. L’impresa non è una “comunità di interessi”

 

1.1.      Nella travagliata trattativa che le OO.SS.  del credito hanno sostenuto e concluso  con l’ABI (tramite  il raggiungimento dell'ipotesi d'accordo dell'11 luglio 1999)  per l’attuazione del protocollo del 4 giugno 1997 e dell'Accordo Quadro del 28 febbraio 1998 - al fine di realizzare per il settore creditizio italiano condizioni di dimensionamento delle imprese analoghe a quelle europee,  improntate da una logica di pari efficienza  e competitività nonché di adottare misure di “revisione dei modelli organizzativi e dei processi di sviluppo cui si accompagni la ristrutturazione dei costi, tra cui il principale, quello del lavoro (anche attraverso la riduzione, ove necessario, del numero degli addetti e dei costi unitari di produzione)” – abbiamo assistito al successo datoriale di pervenire a scaricare sul personale (con penalizzazione dei funzionari, in particolare) sia gli effetti indotti sul settore dai processi di aggregazione e di conseguente razionalizzazione aziendale sia la responsabilità di dissesti o inefficienze di sistema, imputabili a logiche perverse perseguite dai vertici bancari asserviti alla politica della “prima repubblica”, che, notoriamente, si sono fatti trascinare in operazioni clientelari dal lato dei finanziamenti e delle assunzioni. 

Che quest'ultima nostra affermazione non sia campata in aria o frutto di faziosità, lo confermano tutte le dichiarazioni rilasciate sia  in questi ultimi tempi  sia meno recentemente dai leaders sindacali del settore oltrechè le pesantissime realtà, sotto gli occhi di tutti, sia del Banco di Napoli (con le connesse azioni di responsabilità nei confronti dei collaboratori di “re Ferdinando” Ventriglia), sia del Banco di Sicilia, sia della Sicilcassa come della Carical, situazioni che si rivelano illuminanti nell’evidenziare come e con quanta incisività il ruolo della partitocrazia  si sia imposto ed abbia prevalso sui naturali parametri del “merito di credito” nella concessione dei fidi e sui più corretti criteri di sana gestione aziendale, nel silenzio della Banca d’Italia che continua a tuonare sulle pensioni altrui con enfasi pari alla circospezione con cui ha  tentato  di mimetizzare e difendere la "clausola oro" delle proprie, cioè la loro rivalutazione automatica in base agli incrementi delle retribuzioni del personale in servizio, non  più consentitagli (1) a partire dal 1 gennaio 1998, dall'allora Ministro del lavoro Treu, tramite l'art. 59, 4° comma, della legge finanziaria 1998 (l.  27 dicembre 1997, n. 449).

E’ vero, peraltro, che  da ultimo con l'ipotesi d'accordo raggiunta l'11 luglio c.a., in precedenza con l'Accordo quadro del 28 febbraio 1998 e anteriormente con il Protocollo del 4 giugno 1997, la parte imprenditoriale ha dato atto di considerare "le capacità professionali…patrimonio fondamentale per i lavoratori e per l'efficienza e la competitività delle imprese bancarie" (Cap.2°,punto2) in coerenza con la formulazione più ampollosa del paragrafo 17 del Protocollo del 4 giugno 1997 – ripresa integralmente dall' art. 7 dell'Accordo quadro del 28 febbraio 1998 -  titolato “Centralità delle risorse umane”,  secondo cui “il governo dei costi e la maggiore flessibilità trovano il loro riconoscimento nella centralità delle risorse umane, nella loro motivazione e partecipazione, secondo principi di collaborazione e di responsabilità diffuse e di pari opportunità”, ma tali affermazioni ed impegni sembrano più dettati dall’intento di far “contenti i gonzi” che ci credono ed essere, quindi, strumentali e funzionali all’obiettivo di far deglutire con un po’ di dolce l’amara pillola della ristrutturazione del settore e della reformatio in peius delle condizioni economico normative a danno del personale in organico (ed in esubero) e di quello delle generazioni future destinate al ricambio del  naturale turn over.

Effettuata questa premessa di inquadramento, ci sia consentito di partire da lontano per corroborare e dar conto delle nostre considerazioni e riflessioni.

 

1.2.      Verso la fine degli anno ‘60, in concomitanza con i dibattiti dottrinali sulle funzioni delle Commissioni interne - qualificate pattiziamente organismi di collaborazione dell’impresa e nell’impresa, per realizzare ed assicurare l’ordinato svolgimento del lavoro, depotenziare il ruolo antagonista delle contemporanee Sezioni sindacali aziendali e delle posteriori Rappresentanze sindacali aziendali, introdotte dalla L.n. 300/’70 -  ebbe un certo eco ed una certa risonanza la concezione della c.d. “comunità d’impresa”, d’importazione germanica, laddove i sindacati esprimono i loro rappresentanti nei Consigli di amministrazione delle maggiori aziende. Tramite la teoria della “comunità d’impresa” la dottrina, recependo aspirazioni partecipative e consociative tra capitale e lavoro, intese sostenere che l’impresa costituiva una “entità comunitaria di interessi” convergenti e non antitetici fra gestori e gestiti, tra vertice aziendale e lavoratori subordinati, indirettamente rischiando di far acquisire al lavoratore l’improprio ruolo aziendale del “socio in affari”, fornendo così la giustificazione  agli imprenditori per scaricare sul “fattore lavoro” gli effetti di nefaste o clientelari gestioni cui esso è (e deve restare) del tutto estraneo. La personale convinzione di una immanente o necessaria antiteticità di interessi tra “capitale e lavoro” fa sì che chi scrive  abbia particolarmente apprezzato l'atteggiamento tenuto dalla sigla maggiormente rappresentativa del personale direttivo del credito, Federdirigenti-Cida, verso la controparte ABI che, nel precitato negoziato, è giunta ad escluderla (per palese  e dura contrapposizione) dalla trattativa per un certo tempo, sigla che ha dimostrato di essersi liberata dalla tradizionale tentazione, tipicamente strutturale per i rappresentanti del personale direttivo, di rivolgere appelli, con il "cappello in mano", del tipo di quelli indirizzati attraverso inserzioni stampa a pagamento dalla consorella Fndai nell’aprile 1997 agli imprenditori, in occasione del passato schiaffo confindustriale a fronte delle  richieste per l’oramai avvenuto  rinnovo della parte economica del ccnl del 1997. Appelli tramite i quali  la federazione dei dirigenti d'aziende industriali  ricordava piagnucolosamente il  ruolo dirigenziale  di “partner” nell’impresa, faceva leva sulla condivisione degli stessi valori e  si scusava  per essere i propri associati  stati indotti, tramite la radicalizzazione del conflitto, “a perdere la serenità necessaria per concentrarsi meglio nell’espletamento delle loro funzioni: collaborare con l’imprenditore per il successo dell’azienda…”.

Ritornando alla nostra cronistoria, va detto che la  concezione della “comunità d’impresa” fu presto abbandonata (anche, se come abbiamo avuto modo di illustrare, può avere  ancor oggi i suoi illusi o non disinteressati epigoni tra i dirigenti d’azienda)  poiché costituiva un’astrazione innaturale, atteso che la comunanza di interessi (in luogo della contrapposizione) viene sbandierata ogniqualvolta l’alto management intende spuntare le “unghie” al sindacato, narcotizzarne gli impulsi rivendicativi e la funzione di controllo e di valutazione critica sugli atti di gestione aziendale, illudendolo con l’apparente concessione di un “minimo” di partecipazione ai destini dell’impresa.

Invero dobbiamo dire che una “comunità” esiste in seno all’impresa: la “comunità dei lavoratori”. Non già di “comunità dell’impresa” bisognava, quindi, teorizzare all’epoca, quanto della “comunità dei prestatori di lavoro” che operano,  assieme e quotidianamente, nell’ambito della stessa impresa. La “comunità” non tocca o congiunge vertice e base ma si realizza e si esaurisce all’interno delle forze del lavoro o forze di base: tra coloro, cioè, che disimpegnano mansioni identiche o similari, che nutrono le stesse aspirazioni ed aspettative, sottostanno alle stesse disposizioni aziendali, si confrontano nella progressione di carriera, si esaltano per il buon andamento dell’impresa (cui hanno responsabilmente concorso) o soffrono delle stesse frustrazioni ambientali.

 

2.  Nell’impresa la sola “comunità” è quella dei lavoratori

La “comunità dei lavoratori” dell’impresa postula - naturalmente e necessariamente - uniformità e generalità delle regole di convivenza, pari opportunità tra i consociati (c.d. “par condicio”), parità di trattamento ed inesistenza di discriminazioni, verificabile dalla trasparenza, pubblicità e motivazione dei provvedimenti aziendali che beneficiano taluno della comunità rispetto agli altri (con assegnazione di incarichi, promozioni o gratificazioni economiche), regole note e procedure chiare per la comminazione delle sanzioni disciplinari, e simili.

Molti sono i sistemi attraverso i quali si aggredisce e si incrina l’unitarietà della “comunità di lavoro” nell’impresa: la maggior parte di queste iniziative debilitanti o demolitive è ascrivibile alle deficienze della gestione aziendale che infrange, con atti immotivati e/o clientelari, le regole paritarie immanenti alla comunità e le aspettative di pari opportunità o di sola preferenza in base al riscontro di una manifesta maggiore professionalità altrui.

Talvolta nella frantumazione del senso di coesione che anima la “comunità dei lavoratori” viene e resta coinvolto anche il sindacato che, in sede negoziale ed in un contesto di economia statica o recessiva (qual è l’attuale), cede alle tentazioni e alle lusinghe corporative. Ciò accade quando, privilegiando la logica della tutela dei “gruppi più forti” (lavoratori occupati, iscritti e sindacalizzati da tempo) mantiene prerogative e benefici (es. scatti di anzianità,  gradi o qualifiche) per quelli in servizio e li nega (o ne rallenta la maturazione) per i soli neo assunti; ovvero trovandosi di fronte alla necessità di sopprimere una o più mensilità aggiuntive alla tredicesima (14 esima, premi di rendimento, di produttività  o redditività) ne ridistribuisce l’importo sulle 13  mensilità correnti ai lavoratori in servizio e ne preclude, invece, la percezione futura (in ragione dell'avvenuta soppressione) per i neo assumendi; ovvero introduce categorie, qualifiche e gradi addizionali  in capo ai soli neo assunti, idonei a rallentarne la progressione di carriera, nell’intento di salvaguardare dalle riforme peggiorative i lavoratori anziani o tutti quelli in servizio.

Il risultato che consegue a tali operazioni è una situazione variegata - a pelle di leopardo - dei trattamenti e degli istituti normativi all’interno dell’unitaria realtà d’impresa, con tangibili differenziazioni nelle condizioni economico-normative tra i lavoratori, di norma correlate all’anzianità di servizio in azienda. Di fronte alle richieste della controparte datoriale, alle sollecitazioni insistenti delle contropiattaforme imprenditoriali elaborate nelle situazioni di economia recessiva o di crisi di settore o d’impresa, il sindacato è sovente sospinto ad accedere alla stessa logica che ha guidato le mosse del legislatore nell'ultima riforma pensionistica: alla logica, cioè, dell’imposizione di sacrifici e di restrizioni per i più deboli (i disoccupati neo assumendi) nel tentativo di conservare parzialmente o integralmente le pregresse garanzie per i più anziani, già occupati in azienda.

 

3. Mantenere integra la “solidarietà tra le generazioni”

E’ evidente che, per tal via, si viene ad infrangere il patto di solidarietà tra le generazioni dei prestatori di lavoro e si introduce o si alimenta nei lavoratori più giovani una sindrome di diffidenza sia nei confronti del legislatore sia nei confronti del sindacato, giudicato disponibile alla rinunzia ed all’abdicazione a danno di coloro che ancora non sono entrati in azienda o di coloro che vi sono entrati da poco, senza aver avuto il tempo  ed il modo di maturare il convincimento di andare ad ingrossare le file degli iscritti.

Simili operazioni di “arretramento” o di “retromarcia” sindacale, in fasi di economia statica o recessiva, vengono spesso giustificate in base alla logica della rinunzia a conquiste, automatismi ed acquisizioni che l’impresa  (o il sistema produttivo nel suo complesso) ha valutato - alla distanza e dopo un periodo di sperimentazione iniziale - troppo onerose ed additato al sindacato il loro mantenimento come inconciliabile o pregiudizievole per altri diritti di valore superiore per il fattore lavoro, quali il bene dell’occupazione o della conservazione del posto.

Negare la “rimessa in discussione” di precedenti conquiste sindacali significa, quindi - in tali frangenti - contribuire irragionevolmente alla sclerotizzazione del sistema delle relazioni industriali e ragionare all’esclusiva insegna della stratificazione e della sommatoria delle conquiste stesse, precludendo operazioni innovative di “do ut des” o di cessione di preesistenti benefici per altri di diverso e più apprezzabile valore. La dismissione di benefici, a danno dei soli neo assumendi, viene talora giustificata anche in base alla considerazione per cui i lavoratori in servizio avrebbero, con il passar del tempo, maturato (non già inesistenti diritti quesiti, quanto) fondate aspettative di fatto, umanamente più resistenti ed ostative alle operazioni di soppressione dei benefici fruiti.

Non rientra, certo, nelle nostre intenzioni favorire l’anelasticità e la sclerotizzazione dell’autonomia collettiva. Vogliamo soltanto sottolineare l’esigenza della “ prudenza” in tali operazioni di “rinunzia” e di “ reciproche concessioni tra la parte sindacale e quella datoriale”, nella misura in cui queste rinunzie si concretizzano solo a scapito di una fascia di lavoratori (quelli futuri), evidenziando, al tempo stesso, che vi sono dei “punti di equilibrio” che il sindacato deve saper cogliere e riuscire a non compromettere in capo a coloro che debbono ancora entrare a far parte del mondo del lavoro. Poiché, se disattende la prudenza, il sindacato finisce per ispessire ed enfatizzare quella tendenza corporativa che gli è connaturale (la difesa degli occupati e degli iscritti) ma che non deve risultare di misura e consistenza tali da scoraggiare ingressi ed adesioni di nuovi lavoratori.

 

4. Rimanere insensibili al “canto delle sirene padronali”

Questa prudenza (o sensibilità) impone poi di rifiutare quella insinuante tentazione concettuale - completamente estranea alla cultura della solidarietà sindacale - spesso alimentata o prospettata dalle controparti, secondo cui i neo assunti avrebbero tempo e modo di riconquistarsi sul campo, come i loro padri in servizio, i benefici che questi ultimi hanno conseguito con la loro lotta e combattività. Accedere a questo schema argomentativo significa, implicitamente, disconoscere che le lotte di intere generazioni hanno occasionato conquiste sulle quali ogni generazione successiva ha ulteriormente costruito, senza essere costretta al titanico sforzo di ricominciare da capo. Le lotte sindacali dei nostri predecessori hanno contribuito a strutturare ed a consegnarci un “testimone” gravido di conquiste e di diritti da proseguire ed implementare in quella inesauribile gara di continuità lungo gli archi generazionali, ove le conquiste ed i diritti acquisiti prioritariamente sono oramai considerati patrimonio collettivo ed irrinunciabile.

Quando si negozia, sia in sede nazionale sia in sede aziendale, riteniamo che si debbano aver sempre presenti questi fondamentali principi di solidarietà comportamentale; che si debba resistere alle tentazioni corporative che riscuotono un apparente e più immediato consenso; che si debba rimanere sordi al “canto da sirena” dei nostri antagonisti che, per loro natura, non hanno né lo stesso ruolo né le stesse responsabilità sociali del sindacato ma sono animati dai soli obiettivi transeunti sia del contenimento e della compressione del costo del lavoro del settore o del Paese  sia dell'incrinamento della credibilità interna e del senso di solidarietà tra i membri della “comunità del lavoro” nell’impresa.

Raccordando, infine, i principi ed i convincimenti sopra esposti ai risultati raggiunti nel  recentissimo quanto lungo negoziato tra OO.SS del settore credito ed ABI, quelli che individuiamo a caldo come confliggenti con lo spirito di equità e di solidarietà fra le generazioni – che avrebbe imposto che taluni "risparmi" o "sacrifici" non venissero addossati solo alle "fasce deboli" della struttura sociale (i disoccupati neo assumendi o i pensionati, cessati dal servizio) - sono costituiti da:

    a)      la riduzione del 15% delle tabelle retributive per il personale di nuova assunzione in attività complementari e/o accessorie (individuate esemplificativamente al Cap. 1°, punto 3 dell'ipotesi d'accordo), che le parti hanno convenuto essere legittimamente appaltabili a terzi;

    b)      la compressione dei livelli retributivi delle preesistenti qualifiche dei lavoratori di base e, in specie, di quelle dei quadri direttivi (includenti gli ex funzionari aboliti), i cui effetti di contrazione salariale si faranno sentire sui nuovi assunti e su coloro che ancora debbono maturare le qualifiche superiori, mentre restano esclusi da danno (e giuridicamente non poteva essere altrimenti attesa l'intangibilità della retribuzione fruita) quei lavoratori in servizio cui la garanzia dell'irriducibilità retributiva  verrà consentita tramite la fruizione di assegni ad personam, riassorbibili solo in caso di progressione di carriera. Dal punto di vista giuridico la soluzione non fa una grinza, perché non si sarebbe potuto pretendere dai lavoratori in servizio, inquadrati ad es. tra gli ex funzionari, una riduzione di stipendio (atteso che il danno lo subiranno per effetto dell'assorbimento del superminimo in caso di promozione, che acquisisce così carattere "virtuale"), ma l'effetto psicologico della divaricazione dei trattamenti  retributivi di fatto tra lavoratori in servizio e di nuova assunzione (o di nuova promozione) non può assolutamente negarsi;

    c)      la riserva della riduzione dei precedenti 12 scatti d'anzianità a 8 e 7 (rispettivamente per lavoratori di base e quadri direttivi) nonché della elevazione, dal biennio al triennio, della loro periodicità  di maturazione, solo per i lavoratori che non erano ancora in servizio alla data di decorrenza degli scaduti ccnl,  cioè  a dire per gli assunti o assumendi (o inquadrabili nelle superiori categorie) successivamente al 19 dicembre 1994 e al 1 luglio 1995, rispettivamente se appartenenti alle categorie dei lavoratori di base o a quella dei quadri direttivi (così Capo IX, punto 3);

    d)      la riserva del diritto alla maggiorazione di legge, nella interpretazione correttamente fornitagli dal consolidato orientamento della Cassazione,  per le due festività nazionali coincidenti e coincise con la domenica (individuate, trascurando  arbitrariamente le pregresse, nel solo 1 maggio 1994 e 25 aprile 1999) - o in alternativa  del beneficio dei permessi retribuiti - giustappunto  a solo  beneficio dei lavoratori in servizio alla data di stipula dell'Accordo di rinnovo del ccnl, escludendo dal diritto (secondo un'abusata consuetudine) i pensionati cessati dal servizio, cui viene lasciata, ma inespressamente e solo se consorziandosi per sostenerne le spese legali, la facoltà di ottenimento per via giudiziaria;

    e)      la (invero necessaria, in quanto discendente da posteriore introduzione legislativa) riserva  e destinazione delle nuove forme di "flessibilità d'ingresso" in azienda – rappresentate dagli strumenti di precarizzazione del rapporto di lavoro quali l'apprendistato, gli stages, i contratti di formazione lavoro, l'amplificata gamma dei contratti a termine e di fornitura di lavoro temporaneo ed il part-time  - ai soli beneficiari i di future (quanto allo stato poco probabili) nuove assunzioni.

Naturalmente – in coerenza con il tema dell'articolo – ci siamo limitati ad evidenziare solo i trattamenti "deteriori" discriminatori (in senso metagiuridico più che giuridico) fra "lavoratori forti" (quelli in servizio) e "fasce deboli" della società, nella veste dei futuri lavoratori, attualmente inoccupati, o dei pensionati, trascurando - data l'eterogeneità della sede - dall'entrare nel merito delle negative ripercussioni  che questo "contratto di svolta" occasionerà per la  generalità dei lavoratori  nonché dal sottolineare l'abdicazione di acquisizioni retributivo-normative e sindacali che hanno fatto riappropriare i banchieri di 50 anni di sudate conquiste dei prestatori d'opera.

A queste restrizioni per la generalità o per le "fasce deboli" dei lavoratori (futuri), fa da stridente pendant la facoltà accordata dalle OO.SS. del credito alle aziende di individuare gruppi di risorse umane da considerare "ruoli chiave che possono essere raggruppati in aggregazioni omogenee di competenze…" cui possono essere conferiti "connessi trattamenti retributivi che possono comportare anche il superamento del trattamento tabellare fissato in sede nazionale" (così Cap. 3°, punto 4). Concessione questa particolarmente pericolosa "perché il lupo perde il pelo ma non il vizio" ed il vizio dei nostri gestori delle risorse umane del settore credito é stato sempre quello della gestione amicale, nepotistica, correntizia e clientelare. A questa concessione si addiziona l'altra facoltà, analoga e parimenti pericolosa per le connesse o insite caratteristiche di discrezionalità datoriale, di consentire alle aziende di "prevedere, informandone gli organismi sindacali (ai quali se sta bene, bene, sennò  si va avanti lo stesso! n.d.r.) percorsi professionali per la formazione di determinate figure ritenute strategiche che prevedano sequenze programmate di posizioni di lavoro e  di iniziative formative", finalizzati all'insindacabile progressione di carriera, in barba ai criteri ed alle procedure di raffronto del merito comparativo.

E' legittimo perlomeno porsi il dubbio su chi assicurerà – in mancanza di contemplate procedure di gestione bilaterale -  che questi percorsi formativi finalizzati alla strutturazione delle c.d. "risorse strategiche" o queste eccedenze o superamenti dei trattamenti tabellari nazionali, vengano trasparentemente ed effettivamente riservate ai più capaci e meritevoli, secondo logica d'imparzialità e non sulla base di motivi meno nobili e più prosaicamente spartitori?

Se, come per l'occasione, il Sindacato (inteso in senso istituzionale) sottrae alla "grandinata" del rinnovo contrattuale di settore (del credito nella fattispecie) solo "i lavoratori in servizio" (salva la penalizzazione anche per essi, conseguente alla soppressione della qualifica di funzionario ed al freno, decelerazione o raffreddamento che dir si voglia degli avanzamenti e benefici di carriera suscettibili di assorbire i superminimi di fatto), esso finisce innegabilmente per  infrangere il patto di solidarietà tra le generazioni e  preclude  a se stesso qualsiasi speranza e spazio per un futuro dignitoso e per poter continuare a svolgere il proprio ruolo "a testa alta" nei posti di lavoro.

Passando da quest'ottica ristretta ad una più generale, il venir meno del patto di solidarietà generazionale non è  solo un timore remoto ma una realtà se si legge – come abbiamo fatto noi sulla rubrica "Lettere" del quotidiano "La Repubblica" del 24 luglio c.a. – lo sfogo rabbioso ed accusatorio (che non si può non condividere o, almeno, non può non far meditare!) di un ventiseienne di Firenze, laureato a pieni voti, lavorante in nero come barista a 10 mila lire l'ora, il quale – dopo aver descritto la sua situazione ed aver dato oramai per scontata l'irreperibilità di un'occupazione tradizionale in forma subordinata (quale quella del bancario, per intenderci) – affermava: "Lo so, lo so, noi giovani dobbiamo darci da fare, dobbiamo inventarci un lavoro: me li date  voi i soldi che servono ad avviare un lavoro autonomo, o almeno a pagare i bolli e il notaio per costituire una società? I finanziamenti per le imprese giovanili? Fandonie, buffonate, bisogna avere già un'impresa e poi bisogna ipotecare qualcosa: cosa ipoteco io la casa di mio padre, povero operaio, comprata con anni di sacrifici? Comunque ciò che mi amareggia di più è che la vostra generazione è tronfia delle lotte del '68, della rivolta, degli ideali. Si, belle parole, intanto a voi è servita per occupare tutti i posti di lavoro disponibili sulla piazza e per lasciarci con un'eredità di due milioni e mezzo di miliardi di debiti, in un mondo inquinato e corrotto e buoni consigli oltre a stupide statistiche della serie ' i giovani italiani sono mammoni', rimangono in famiglia fino a 34 anni. Con poco più di un milione al mese come me lo pago l'affitto? Un'ultima constatazione: la società che ci lasciate è divisa in caste come nel Medioevo; la vostra rivoluzione è proprio servita!".

I lavori atipici (o irregolari) chiamati, poi, in causa – in quanto  di fatto svolti – dal giovane lettore meritano, infine, a tempo debito un discorso ed un approfondimento a parte.

 

Mario Meucci 

                                                                                                                                    

(pubblicato in Lav. prev. Oggi 1999, 8-9, 1524)

 

NOTE

 

(1) L'affermazione – formalmente corretta – va temperata con quanto abbiamo appreso dalla bocca del neo Ministro del lavoro on. Salvi (nell'intervista rilasciata al giornalista Giannini, in La Repubblica del 1 agosto 1999, p. 5) ove, trattando delle pensioni dei dipendenti della Banca d'Italia a sostegno delle quali il sindacato autonomo interno Fabi scese in sciopero,  con piena cognizione di causa asserisce: "…la riforma Prodi ha apportato correttivi, ma successive interpretazioni applicative non proprio 'in malam partem' hanno di fatto conservato la c.d. "clausola d'ora". Del resto l'oro ce l'hanno così vicino…".

Se così è – e non abbiamo motivi di  dubitare dell'autorevolezza della fonte-  c'è da chiedersi  (ma non da meravigliarsi!) e da pretendere che sia resa di pubblico dominio la 'modalità' tramite cui la corporazione della Bit é riuscita 'tecnicamente' a vanificare l'operatività di una legge della Repubblica italiana.

 

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