Rinnovi contrattuali in economia in crisi, nuove
generazioni e ruolo del sindacato
(considerazioni a margine del rinnovato ccnl del settore
credito)
1. L’impresa non è una “comunità
di interessi”
1.1.
Nella
travagliata trattativa che le OO.SS.
del credito hanno sostenuto e concluso
con l’ABI (tramite il
raggiungimento dell'ipotesi d'accordo dell'11 luglio 1999) per l’attuazione del protocollo del 4 giugno
1997 e dell'Accordo Quadro del 28 febbraio 1998 - al fine di realizzare per il
settore creditizio italiano condizioni di dimensionamento delle imprese
analoghe a quelle europee, improntate
da una logica di pari efficienza e
competitività nonché di adottare misure di “revisione dei modelli
organizzativi e dei processi di sviluppo cui si accompagni la ristrutturazione
dei costi, tra cui il principale, quello del lavoro (anche attraverso la
riduzione, ove necessario, del numero degli addetti e dei costi unitari di
produzione)” – abbiamo assistito al successo datoriale di pervenire a
scaricare sul personale (con penalizzazione dei funzionari, in particolare) sia
gli effetti indotti sul settore dai processi di aggregazione e di conseguente
razionalizzazione aziendale sia la responsabilità di dissesti o inefficienze di
sistema, imputabili a logiche perverse perseguite dai vertici bancari asserviti
alla politica della “prima repubblica”, che, notoriamente, si sono fatti
trascinare in operazioni clientelari dal lato dei finanziamenti e delle
assunzioni.
Che
quest'ultima nostra affermazione non sia campata in aria o frutto di faziosità,
lo confermano tutte le dichiarazioni rilasciate sia in questi ultimi tempi
sia meno recentemente dai leaders sindacali del settore oltrechè
le pesantissime realtà, sotto gli occhi di tutti, sia del Banco di Napoli (con
le connesse azioni di responsabilità nei confronti dei collaboratori di “re
Ferdinando” Ventriglia), sia del Banco di Sicilia, sia della Sicilcassa come
della Carical, situazioni che si rivelano illuminanti nell’evidenziare come e
con quanta incisività il ruolo della partitocrazia si sia imposto ed abbia prevalso sui naturali parametri del
“merito di credito” nella concessione dei fidi e sui più corretti criteri di
sana gestione aziendale, nel silenzio della Banca d’Italia che continua a
tuonare sulle pensioni altrui con enfasi pari alla circospezione con cui
ha tentato di mimetizzare e difendere la "clausola oro" delle
proprie, cioè la loro rivalutazione automatica in base agli incrementi delle
retribuzioni del personale in servizio, non
più consentitagli (1) a partire dal 1 gennaio 1998, dall'allora Ministro
del lavoro Treu, tramite l'art. 59, 4° comma, della legge finanziaria 1998
(l. 27 dicembre 1997, n. 449).
E’
vero, peraltro, che da ultimo con
l'ipotesi d'accordo raggiunta l'11 luglio c.a., in precedenza con l'Accordo
quadro del 28 febbraio 1998 e anteriormente con il Protocollo del 4 giugno
1997, la parte imprenditoriale ha dato atto di considerare "le capacità
professionali…patrimonio fondamentale per i lavoratori e per l'efficienza e la
competitività delle imprese bancarie" (Cap.2°,punto2) in coerenza con
la formulazione più ampollosa del paragrafo 17 del Protocollo del 4 giugno 1997
– ripresa integralmente dall' art. 7 dell'Accordo quadro del 28 febbraio 1998
- titolato “Centralità delle risorse
umane”, secondo cui “il governo dei
costi e la maggiore flessibilità trovano il loro riconoscimento nella
centralità delle risorse umane, nella loro motivazione e partecipazione,
secondo principi di collaborazione e di responsabilità diffuse e di pari opportunità”,
ma tali affermazioni ed impegni sembrano più dettati dall’intento di far
“contenti i gonzi” che ci credono ed essere, quindi, strumentali e funzionali
all’obiettivo di far deglutire con un po’ di dolce l’amara pillola della
ristrutturazione del settore e della reformatio in peius delle
condizioni economico normative a danno del personale in organico (ed in
esubero) e di quello delle generazioni future destinate al ricambio del naturale turn over.
Effettuata
questa premessa di inquadramento, ci sia consentito di partire da lontano per
corroborare e dar conto delle nostre considerazioni e riflessioni.
1.2. Verso la fine
degli anno ‘60, in concomitanza con i dibattiti dottrinali sulle funzioni delle
Commissioni interne - qualificate pattiziamente organismi di collaborazione
dell’impresa e nell’impresa, per realizzare ed assicurare l’ordinato
svolgimento del lavoro, depotenziare il ruolo antagonista delle contemporanee
Sezioni sindacali aziendali e delle posteriori Rappresentanze
sindacali aziendali, introdotte dalla L.n. 300/’70 - ebbe un certo eco ed una certa risonanza la concezione della c.d.
“comunità d’impresa”, d’importazione germanica, laddove i sindacati
esprimono i loro rappresentanti nei Consigli di amministrazione delle maggiori
aziende. Tramite la teoria della “comunità d’impresa” la dottrina, recependo
aspirazioni partecipative e consociative tra capitale e lavoro, intese
sostenere che l’impresa costituiva una “entità comunitaria di interessi”
convergenti e non antitetici fra gestori e gestiti, tra vertice aziendale e
lavoratori subordinati, indirettamente rischiando di far acquisire al
lavoratore l’improprio ruolo aziendale del “socio in affari”, fornendo così la
giustificazione agli imprenditori per
scaricare sul “fattore lavoro” gli effetti di nefaste o clientelari gestioni
cui esso è (e deve restare) del tutto estraneo. La personale convinzione di una
immanente o necessaria antiteticità di interessi tra “capitale e lavoro” fa sì
che chi scrive abbia particolarmente
apprezzato l'atteggiamento tenuto dalla sigla maggiormente rappresentativa del
personale direttivo del credito, Federdirigenti-Cida, verso la controparte ABI
che, nel precitato negoziato, è giunta ad escluderla (per palese e dura contrapposizione) dalla trattativa
per un certo tempo, sigla che ha dimostrato di essersi liberata dalla
tradizionale tentazione, tipicamente strutturale per i rappresentanti del
personale direttivo, di rivolgere appelli, con il "cappello in mano",
del tipo di quelli indirizzati attraverso inserzioni stampa a pagamento dalla
consorella Fndai nell’aprile 1997 agli imprenditori, in occasione del passato
schiaffo confindustriale a fronte delle
richieste per l’oramai avvenuto
rinnovo della parte economica del ccnl del 1997. Appelli tramite i
quali la federazione dei dirigenti
d'aziende industriali ricordava
piagnucolosamente il ruolo
dirigenziale di “partner” nell’impresa,
faceva leva sulla condivisione degli stessi valori e si scusava per essere i
propri associati stati indotti, tramite
la radicalizzazione del conflitto, “a perdere la serenità necessaria per
concentrarsi meglio nell’espletamento delle loro funzioni: collaborare con
l’imprenditore per il successo dell’azienda…”.
Ritornando
alla nostra cronistoria, va detto che la
concezione della “comunità d’impresa” fu presto abbandonata (anche, se
come abbiamo avuto modo di illustrare, può avere ancor oggi i suoi illusi o non disinteressati epigoni tra i
dirigenti d’azienda) poiché costituiva
un’astrazione innaturale, atteso che la comunanza di interessi (in luogo della
contrapposizione) viene sbandierata ogniqualvolta l’alto management
intende spuntare le “unghie” al sindacato, narcotizzarne gli impulsi
rivendicativi e la funzione di controllo e di valutazione critica sugli atti di
gestione aziendale, illudendolo con l’apparente concessione di un “minimo” di
partecipazione ai destini dell’impresa.
Invero
dobbiamo dire che una “comunità” esiste in seno all’impresa: la “comunità dei
lavoratori”. Non già di “comunità dell’impresa” bisognava, quindi, teorizzare
all’epoca, quanto della “comunità dei prestatori di lavoro” che operano, assieme e quotidianamente, nell’ambito della
stessa impresa. La “comunità” non tocca o congiunge vertice e base ma si realizza
e si esaurisce all’interno delle forze del lavoro o forze di base: tra coloro,
cioè, che disimpegnano mansioni identiche o similari, che nutrono le stesse
aspirazioni ed aspettative, sottostanno alle stesse disposizioni aziendali, si
confrontano nella progressione di carriera, si esaltano per il buon andamento
dell’impresa (cui hanno responsabilmente concorso) o soffrono delle stesse
frustrazioni ambientali.
2. Nell’impresa la sola “comunità” è quella dei lavoratori
La
“comunità dei lavoratori” dell’impresa postula - naturalmente e necessariamente
- uniformità e generalità delle regole di convivenza, pari opportunità tra i
consociati (c.d. “par condicio”), parità di trattamento ed inesistenza
di discriminazioni, verificabile dalla trasparenza, pubblicità e motivazione
dei provvedimenti aziendali che beneficiano taluno della comunità rispetto agli
altri (con assegnazione di incarichi, promozioni o gratificazioni economiche),
regole note e procedure chiare per la comminazione delle sanzioni disciplinari,
e simili.
Molti
sono i sistemi attraverso i quali si aggredisce e si incrina l’unitarietà della
“comunità di lavoro” nell’impresa: la maggior parte di queste iniziative
debilitanti o demolitive è ascrivibile alle deficienze della gestione aziendale
che infrange, con atti immotivati e/o clientelari, le regole paritarie
immanenti alla comunità e le aspettative di pari opportunità o di sola
preferenza in base al riscontro di una manifesta maggiore professionalità
altrui.
Talvolta
nella frantumazione del senso di coesione che anima la “comunità dei lavoratori”
viene e resta coinvolto anche il sindacato che, in sede negoziale ed in un
contesto di economia statica o recessiva (qual è l’attuale), cede alle
tentazioni e alle lusinghe corporative. Ciò accade quando, privilegiando la
logica della tutela dei “gruppi più forti” (lavoratori occupati, iscritti e
sindacalizzati da tempo) mantiene prerogative e benefici (es. scatti di
anzianità, gradi o qualifiche) per
quelli in servizio e li nega (o ne rallenta la maturazione) per i soli neo
assunti; ovvero trovandosi di fronte alla necessità di sopprimere una o più
mensilità aggiuntive alla tredicesima (14 esima, premi di rendimento, di
produttività o redditività) ne
ridistribuisce l’importo sulle 13
mensilità correnti ai lavoratori in servizio e ne preclude, invece, la
percezione futura (in ragione dell'avvenuta soppressione) per i neo assumendi;
ovvero introduce categorie, qualifiche e gradi addizionali in capo ai soli neo assunti, idonei a
rallentarne la progressione di carriera, nell’intento di salvaguardare dalle
riforme peggiorative i lavoratori anziani o tutti quelli in servizio.
Il
risultato che consegue a tali operazioni è una situazione variegata - a pelle
di leopardo - dei trattamenti e degli istituti normativi all’interno
dell’unitaria realtà d’impresa, con tangibili differenziazioni nelle condizioni
economico-normative tra i lavoratori, di norma correlate all’anzianità di
servizio in azienda. Di fronte alle richieste della controparte datoriale, alle
sollecitazioni insistenti delle contropiattaforme imprenditoriali elaborate
nelle situazioni di economia recessiva o di crisi di settore o d’impresa, il
sindacato è sovente sospinto ad accedere alla stessa logica che ha guidato le
mosse del legislatore nell'ultima riforma pensionistica: alla logica, cioè, dell’imposizione
di sacrifici e di restrizioni per i più deboli (i disoccupati neo assumendi)
nel tentativo di conservare parzialmente o integralmente le pregresse garanzie
per i più anziani, già occupati in azienda.
3. Mantenere integra la
“solidarietà tra le generazioni”
E’
evidente che, per tal via, si viene ad infrangere il patto di solidarietà tra
le generazioni dei prestatori di lavoro e si introduce o si alimenta nei
lavoratori più giovani una sindrome di diffidenza sia nei confronti del
legislatore sia nei confronti del sindacato, giudicato disponibile alla
rinunzia ed all’abdicazione a danno di coloro che ancora non sono entrati in
azienda o di coloro che vi sono entrati da poco, senza aver avuto il tempo ed il modo di maturare il convincimento di
andare ad ingrossare le file degli iscritti.
Simili
operazioni di “arretramento” o di “retromarcia” sindacale, in fasi di economia
statica o recessiva, vengono spesso giustificate in base alla logica della
rinunzia a conquiste, automatismi ed acquisizioni che l’impresa (o il sistema produttivo nel suo complesso)
ha valutato - alla distanza e dopo un periodo di sperimentazione iniziale -
troppo onerose ed additato al sindacato il loro mantenimento come inconciliabile
o pregiudizievole per altri diritti di valore superiore per il fattore lavoro,
quali il bene dell’occupazione o della conservazione del posto.
Negare
la “rimessa in discussione” di precedenti conquiste sindacali significa, quindi
- in tali frangenti - contribuire irragionevolmente alla sclerotizzazione del
sistema delle relazioni industriali e ragionare all’esclusiva insegna della
stratificazione e della sommatoria delle conquiste stesse, precludendo
operazioni innovative di “do ut des” o di cessione di preesistenti
benefici per altri di diverso e più apprezzabile valore. La dismissione di
benefici, a danno dei soli neo assumendi, viene talora giustificata anche in
base alla considerazione per cui i lavoratori in servizio avrebbero, con il
passar del tempo, maturato (non già inesistenti diritti quesiti, quanto)
fondate aspettative di fatto, umanamente più resistenti ed ostative alle
operazioni di soppressione dei benefici fruiti.
Non
rientra, certo, nelle nostre intenzioni favorire l’anelasticità e la
sclerotizzazione dell’autonomia collettiva. Vogliamo soltanto sottolineare
l’esigenza della “ prudenza” in tali operazioni di “rinunzia” e di “ reciproche
concessioni tra la parte sindacale e quella datoriale”, nella misura in cui
queste rinunzie si concretizzano solo a scapito di una fascia di lavoratori
(quelli futuri), evidenziando, al tempo stesso, che vi sono dei “punti di
equilibrio” che il sindacato deve saper cogliere e riuscire a non compromettere
in capo a coloro che debbono ancora entrare a far parte del mondo del lavoro.
Poiché, se disattende la prudenza, il sindacato finisce per ispessire ed
enfatizzare quella tendenza corporativa che gli è connaturale (la difesa degli
occupati e degli iscritti) ma che non deve risultare di misura e consistenza
tali da scoraggiare ingressi ed adesioni di nuovi lavoratori.
4. Rimanere insensibili al “canto
delle sirene padronali”
Questa
prudenza (o sensibilità) impone poi di rifiutare quella insinuante tentazione
concettuale - completamente estranea alla cultura della solidarietà sindacale -
spesso alimentata o prospettata dalle controparti, secondo cui i neo assunti
avrebbero tempo e modo di riconquistarsi sul campo, come i loro padri in
servizio, i benefici che questi ultimi hanno conseguito con la loro lotta e
combattività. Accedere a questo schema argomentativo significa, implicitamente,
disconoscere che le lotte di intere generazioni hanno occasionato conquiste
sulle quali ogni generazione successiva ha ulteriormente costruito, senza
essere costretta al titanico sforzo di ricominciare da capo. Le lotte sindacali
dei nostri predecessori hanno contribuito a strutturare ed a consegnarci un
“testimone” gravido di conquiste e di diritti da proseguire ed implementare in
quella inesauribile gara di continuità lungo gli archi generazionali, ove le
conquiste ed i diritti acquisiti prioritariamente sono oramai considerati
patrimonio collettivo ed irrinunciabile.
Quando
si negozia, sia in sede nazionale sia in sede aziendale, riteniamo che si
debbano aver sempre presenti questi fondamentali principi di solidarietà comportamentale;
che si debba resistere alle tentazioni corporative che riscuotono un apparente
e più immediato consenso; che si debba rimanere sordi al “canto da sirena” dei
nostri antagonisti che, per loro natura, non hanno né lo stesso ruolo né le
stesse responsabilità sociali del sindacato ma sono animati dai soli obiettivi
transeunti sia del contenimento e della compressione del costo del
lavoro del settore o del Paese sia dell'incrinamento
della credibilità interna e del senso di solidarietà tra i membri della
“comunità del lavoro” nell’impresa.
Raccordando,
infine, i principi ed i convincimenti sopra esposti ai risultati raggiunti
nel recentissimo quanto lungo negoziato
tra OO.SS del settore credito ed ABI, quelli che individuiamo a caldo come
confliggenti con lo spirito di equità e di solidarietà fra le generazioni – che
avrebbe imposto che taluni "risparmi" o "sacrifici" non
venissero addossati solo alle "fasce deboli" della struttura sociale
(i disoccupati neo assumendi o i pensionati, cessati dal servizio) - sono
costituiti da:
a)
la riduzione del 15%
delle tabelle retributive per il personale di nuova assunzione in attività
complementari e/o accessorie (individuate esemplificativamente al Cap. 1°,
punto 3 dell'ipotesi d'accordo), che le parti hanno convenuto essere
legittimamente appaltabili a terzi;
b)
la compressione dei
livelli retributivi delle preesistenti qualifiche dei lavoratori di base e, in
specie, di quelle dei quadri direttivi (includenti gli ex funzionari aboliti),
i cui effetti di contrazione salariale si faranno sentire sui nuovi assunti e
su coloro che ancora debbono maturare le qualifiche superiori, mentre restano
esclusi da danno (e giuridicamente non poteva essere altrimenti attesa
l'intangibilità della retribuzione fruita) quei lavoratori in servizio cui la
garanzia dell'irriducibilità retributiva
verrà consentita tramite la fruizione di assegni ad personam,
riassorbibili solo in caso di progressione di carriera. Dal punto di vista
giuridico la soluzione non fa una grinza, perché non si sarebbe potuto
pretendere dai lavoratori in servizio, inquadrati ad es. tra gli ex funzionari,
una riduzione di stipendio (atteso che il danno lo subiranno per effetto
dell'assorbimento del superminimo in caso di promozione, che acquisisce così
carattere "virtuale"), ma l'effetto psicologico della divaricazione
dei trattamenti retributivi di fatto
tra lavoratori in servizio e di nuova assunzione (o di nuova promozione) non
può assolutamente negarsi;
c)
la riserva della
riduzione dei precedenti 12 scatti d'anzianità a 8 e 7 (rispettivamente per
lavoratori di base e quadri direttivi) nonché della elevazione, dal biennio al
triennio, della loro periodicità di
maturazione, solo per i lavoratori che non erano ancora in servizio alla data
di decorrenza degli scaduti ccnl,
cioè a dire per gli assunti o
assumendi (o inquadrabili nelle superiori categorie) successivamente al 19
dicembre 1994 e al 1 luglio 1995, rispettivamente se appartenenti alle
categorie dei lavoratori di base o a quella dei quadri direttivi (così Capo IX,
punto 3);
d)
la riserva del diritto
alla maggiorazione di legge, nella interpretazione correttamente fornitagli dal
consolidato orientamento della Cassazione,
per le due festività nazionali coincidenti e coincise con la domenica
(individuate, trascurando
arbitrariamente le pregresse, nel solo 1 maggio 1994 e 25 aprile 1999) -
o in alternativa del beneficio dei
permessi retribuiti - giustappunto a
solo beneficio dei lavoratori in
servizio alla data di stipula dell'Accordo di rinnovo del ccnl, escludendo dal
diritto (secondo un'abusata consuetudine) i pensionati cessati dal servizio,
cui viene lasciata, ma inespressamente e solo se consorziandosi per sostenerne
le spese legali, la facoltà di ottenimento per via giudiziaria;
e)
la (invero necessaria,
in quanto discendente da posteriore introduzione legislativa) riserva e destinazione delle nuove forme di
"flessibilità d'ingresso" in azienda – rappresentate dagli strumenti
di precarizzazione del rapporto di lavoro quali l'apprendistato, gli stages, i
contratti di formazione lavoro, l'amplificata gamma dei contratti a termine e
di fornitura di lavoro temporaneo ed il part-time - ai soli beneficiari i di future (quanto allo stato poco
probabili) nuove assunzioni.
Naturalmente
– in coerenza con il tema dell'articolo – ci siamo limitati ad evidenziare solo
i trattamenti "deteriori" discriminatori (in senso metagiuridico più
che giuridico) fra "lavoratori forti" (quelli in servizio) e
"fasce deboli" della società, nella veste dei futuri lavoratori,
attualmente inoccupati, o dei pensionati, trascurando - data l'eterogeneità
della sede - dall'entrare nel merito delle negative ripercussioni che questo "contratto di svolta"
occasionerà per la generalità dei
lavoratori nonché dal sottolineare
l'abdicazione di acquisizioni retributivo-normative e sindacali che hanno fatto
riappropriare i banchieri di 50 anni di sudate conquiste dei prestatori
d'opera.
A
queste restrizioni per la generalità o per le "fasce deboli" dei
lavoratori (futuri), fa da stridente pendant la facoltà accordata dalle
OO.SS. del credito alle aziende di individuare gruppi di risorse umane da
considerare "ruoli chiave che possono essere raggruppati in
aggregazioni omogenee di competenze…" cui possono essere conferiti
"connessi trattamenti retributivi che possono comportare anche il
superamento del trattamento tabellare fissato in sede nazionale" (così
Cap. 3°, punto 4). Concessione questa particolarmente pericolosa "perché
il lupo perde il pelo ma non il vizio" ed il vizio dei nostri gestori
delle risorse umane del settore credito é stato sempre quello della gestione
amicale, nepotistica, correntizia e clientelare. A questa concessione si
addiziona l'altra facoltà, analoga e parimenti pericolosa per le connesse o
insite caratteristiche di discrezionalità datoriale, di consentire alle aziende
di "prevedere, informandone gli organismi sindacali (ai quali se
sta bene, bene, sennò si va avanti lo
stesso! n.d.r.) percorsi professionali per la formazione di determinate
figure ritenute strategiche che prevedano sequenze programmate di posizioni di
lavoro e di iniziative formative",
finalizzati all'insindacabile progressione di carriera, in barba ai criteri ed
alle procedure di raffronto del merito comparativo.
E'
legittimo perlomeno porsi il dubbio su chi assicurerà – in mancanza di
contemplate procedure di gestione bilaterale -
che questi percorsi formativi finalizzati alla strutturazione delle c.d.
"risorse strategiche" o queste eccedenze o superamenti dei
trattamenti tabellari nazionali, vengano trasparentemente ed effettivamente
riservate ai più capaci e meritevoli, secondo logica d'imparzialità e non sulla
base di motivi meno nobili e più prosaicamente spartitori?
Se,
come per l'occasione, il Sindacato (inteso in senso istituzionale) sottrae alla
"grandinata" del rinnovo contrattuale di settore (del credito nella
fattispecie) solo "i lavoratori in servizio" (salva la penalizzazione
anche per essi, conseguente alla soppressione della qualifica di funzionario ed
al freno, decelerazione o raffreddamento che dir si voglia degli avanzamenti e
benefici di carriera suscettibili di assorbire i superminimi di fatto), esso
finisce innegabilmente per infrangere
il patto di solidarietà tra le generazioni e
preclude a se stesso qualsiasi
speranza e spazio per un futuro dignitoso e per poter continuare a svolgere il
proprio ruolo "a testa alta" nei posti di lavoro.
Passando
da quest'ottica ristretta ad una più generale, il venir meno del patto di
solidarietà generazionale non è solo un
timore remoto ma una realtà se si legge – come abbiamo fatto noi sulla rubrica
"Lettere" del quotidiano "La Repubblica" del 24 luglio c.a.
– lo sfogo rabbioso ed accusatorio (che non si può non condividere o, almeno,
non può non far meditare!) di un ventiseienne di Firenze, laureato a pieni
voti, lavorante in nero come barista a 10 mila lire l'ora, il quale – dopo aver
descritto la sua situazione ed aver dato oramai per scontata l'irreperibilità
di un'occupazione tradizionale in forma subordinata (quale quella del bancario,
per intenderci) – affermava: "Lo so, lo so, noi giovani dobbiamo darci
da fare, dobbiamo inventarci un lavoro: me li date voi i soldi che servono ad avviare un lavoro autonomo, o almeno a
pagare i bolli e il notaio per costituire una società? I finanziamenti per le imprese
giovanili? Fandonie, buffonate, bisogna avere già un'impresa e poi bisogna
ipotecare qualcosa: cosa ipoteco io la casa di mio padre, povero operaio,
comprata con anni di sacrifici? Comunque ciò che mi amareggia di più è che la
vostra generazione è tronfia delle lotte del '68, della rivolta, degli ideali.
Si, belle parole, intanto a voi è servita per occupare tutti i posti di lavoro
disponibili sulla piazza e per lasciarci con un'eredità di due milioni e mezzo
di miliardi di debiti, in un mondo inquinato e corrotto e buoni consigli oltre
a stupide statistiche della serie ' i giovani italiani sono mammoni', rimangono
in famiglia fino a 34 anni. Con poco più di un milione al mese come me lo pago
l'affitto? Un'ultima constatazione: la società che ci lasciate è divisa in
caste come nel Medioevo; la vostra rivoluzione è proprio servita!".
I lavori atipici (o irregolari) chiamati, poi, in causa – in quanto di fatto svolti – dal giovane lettore meritano, infine, a tempo debito un discorso ed un approfondimento a parte.
Mario Meucci
(pubblicato in Lav. prev.
Oggi 1999, 8-9, 1524)
NOTE
(1) L'affermazione
– formalmente corretta – va temperata con quanto abbiamo appreso dalla bocca
del neo Ministro del lavoro on. Salvi (nell'intervista rilasciata al
giornalista Giannini, in La Repubblica del 1 agosto 1999, p. 5) ove,
trattando delle pensioni dei dipendenti della Banca d'Italia a sostegno delle
quali il sindacato autonomo interno Fabi scese in sciopero, con piena cognizione di causa asserisce: "…la
riforma Prodi ha apportato correttivi, ma successive interpretazioni
applicative non proprio 'in malam partem' hanno di fatto conservato la c.d.
"clausola d'ora". Del resto l'oro ce l'hanno così vicino…".
Se così è – e non abbiamo motivi di dubitare dell'autorevolezza della fonte- c'è da chiedersi (ma non da meravigliarsi!) e da pretendere che sia resa di
pubblico dominio la 'modalità' tramite cui la corporazione della Bit é riuscita
'tecnicamente' a vanificare l'operatività di una legge della Repubblica
italiana.
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