Molestie sessuali sul posto di lavoro

 

Cass. pen., sez. V, 8 marzo 2010, n. 9225 – Pres. Rotella – Rel. Scalera

 

Molestie sessuali sul posto di lavoro – Violenza privata.

 

Le insistenti richieste di prestazioni sessuali, rivolte con la protervia e l’arroganza che l’abuso del ruolo di superiore gerarchico della vittime consentiva, ed i comportamenti vessatori che facevano seguito in guisa di sanzione dei rifiuti, integravano ampiamente la fattispecie di violenza privata - tentata quella consumata nei confronti della dottoressa C. -, in quanto costringevano le vittime quantomeno a patire ingiuste e mortificanti vessazioni, inducendo in loro non solo sofferenza e malessere, ma anche concreti pregiudizi della loro serenità sul lavoro e delle loro legittime aspirazioni a progressioni in carriera, lasciate intravedere solo in guisa di ricompensa di disponibilità, manifestata almeno sotto forma dell’intrigante offerta del proprio corpo allo sguardo mercé l’ausilio di abbigliamento acconcio.

Infondata si rivela la capziosa tesi del Tribunale, secondo il quale siccome reprimende, contestazioni e minacce di sanzioni disciplinari erano successive ai rifiuti, non potevano essere qualificate come violenze finalizzate al conseguimento di un risultato che era stato già negato; basti considerare che, come ha esattamente rilevato la corte territoriale, era la stessa caratterizzazione deteriore del rapporto di lavoro che costituiva violenza, e non aveva senso parcellizzare ogni episodio svalutando cosi il contesto, che amplificava la violenza, rendendola penosa ed inaccettabile.

 

Osserva

1. - C. Vincenzo, già direttore sanitario del II Distretto dell’ASL RM/A, tratto al giudizio del Tribunale di Roma per rispondere, per quanto qui interessa, dei reati di violenza privata in danno della dott. C. Emilia, della tecnica di radiologia R. Maria e dell’infermiera professionale I. Maria Antonietta, secondo l’ipotesi di accusa da lui insistentemente importunate con molestie sessuali, veniva assolto del reato in danno della dottoressa C. con la formula “perché il fatto non sussiste”; in relazione agli altri capi di imputazione il primo giudice, retrodatata la consumazione dei reati, ne dichiarava la prescrizione.

Su appello del Pubblico Ministero ed, ai sensi dell’art. 576 cpp ai soli effetti civili delle parti civili C. e R. , la Corte di Appello di Roma con sentenza del 25 febbraio 2009, in riforma della sentenza di primo grado, derubricato il reato di violenza privata in danno della dottoressa C. Emilia in quello di tentativo, dichiarava la prescrizione dei reati, condannando il C. al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite.

Al C. era contestato di aver usato pressioni e minacce sulla dott. C. , sulla tecnica di radiologia R. Maria e sull’infermiera professionale I. per indurle a concedergli favori sessuali; la corte territoriale aveva ritenuto la fondatezza dell’ipotesi di accusa quanto alla C. limitatamente al tentativo, sulla base delle dichiarazioni delle parti lese e di deposizioni testimoniali rese da colleghi di lavoro delle predette, nonché dalla dott. B., uno degli ispettori incaricati di apposita indagine conoscitiva dal Direttore Generale della ASL RM/A.

Avverso detta sentenza propone ricorso il C. deducendo difetto di motivazione, per non avere la corte territoriale dato a suo avviso conto delle ragioni che l’avevano indotta a ritenere sussistente il nesso di causalità tra i comportamenti persecutori, secondo l’ipotesi di accusa da lui posti in essere in danno delle parti civili, e lo stato di soggezione delle vittime, dovendo considerarsi che la stessa C. aveva dichiarato che persecuzioni e minacce non precedevano le richieste di disponibilità sessuale, ma seguivano i suoi rifiuti in guisa di reazione sanzionatoria.

Deduce inoltre carenza di motivazione in ordine alla qualificazione della condotta posta in essere nei confronti della dott. C. come tentativo di violenza, atteso che la sentenza impugnata non spiegherebbe in modo alcuno quali comportamenti minacciosi sarebbero qualificabili alla stregua di atti idonei diretti in modo non equivoco a coartare la volontà della vittima.

2. - Il ricorso è inammissibile in quanto sostanzialmente propone il riesame del merito, che in questa sede di legittimità è precluso se, come nel caso di specie, la sentenza impugnata abbia dato conto delle ragioni della decisione con argomentazione ragionevole e condivisibile, comunque immune da vizi logici e contraddizioni.

Infatti la corte territoriale ha ben illustrato le circostanze di fatto della vicenda, desunte dalle dichiarazioni delle parti lese e dall’ampio testimoniale, giungendo alla condivisibile conclusione che le insistenti richieste di prestazioni sessuali, rivolte con la protervia e l’arroganza che l’abuso del ruolo di superiore gerarchico della vittime consentiva, ed i comportamenti vessatori che facevano seguito in guisa di sanzione dei rifiuti, integravano ampiamente la fattispecie di violenza privata - tentata quella consumata nei confronti della dottoressa C. -, in quanto costringevano le vittime quantomeno a patire ingiuste e mortificanti vessazioni, inducendo in loro non solo sofferenza e malessere, ma anche concreti pregiudizi della loro serenità sul lavoro e delle loro legittime aspirazioni a progressioni in carriera, lasciate intravedere solo in guisa di ricompensa di disponibilità, manifestata almeno sotto forma dell’intrigante offerta del proprio corpo allo sguardo mercé l’ausilio di abbigliamento acconcio.

In punto di diritto, la corte territoriale ha dato ampia motivazione del perché non fosse condivisibile la discutibile e riduttiva lettura dei fatti che aveva fatto il Tribunale opinando, contro l’evidenza dei dati probatori acquisiti che la condotta posta in essere dal C. integrasse al più sporadici episodi di molestie penalmente irrilevanti, trascurando di considerare che si trattava di un sistematico atteggiamento, protratto nel tempo, per durata significativa, costituito di richieste indecenti, lusinghe e minacce, di modo che il solo costringere le vittime a patirne l’impatto costituiva di per sé violenza, mentre non aveva riscontro nei fatti la capziosa tesi del Tribunale, secondo il quale siccome reprimende, contestazioni e minacce di sanzioni disciplinari erano successive ai rifiuti, non potevano essere qualificate come violenze finalizzate al conseguimento di un risultato che era stato già negato; basti considerare che, come ha esattamente rilevato la corte territoriale, era la stessa caratterizzazione deteriore del rapporto di lavoro che costituiva violenza, e non aveva senso parcellizzare ogni episodio svalutando cosi il contesto, che amplificava la violenza, rendendola penosa ed inaccettabile.

Va pertanto dichiarata l’inammissibilità del ricorso, cui consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese di costituzione e difesa delle parti civili, che si liquidano come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese delle parti civili, che liquida in euro 2.000,00, oltre accessori come per legge, per ciascuna delle stesse parti.

 

Depositata in Cancelleria il 08.03.2010

 

NOTA

Un direttore sanitario importuna una dottoressa, una tecnica di radiologia ed un’infermiera con delle avances: nello specifico, l’imputato avrebbe usato pressioni e minacce sulle predette al fine di indurle a concedergli favori sessuali. Non solo, come reazione ai rifiuti conseguenti alle indecenti richieste, il direttore sanitario poneva in essere nei confronti delle vittime comportamenti vessatori che nel concreto rappresentavano una sorta di punizione per tali dinieghi. 

In primo grado l’imputato veniva assolto con la formula “perché il fatto non sussiste”; su ricorso del PM e delle parti civile ai soli effetti civili, la corte d’appello riformava la sentenza di prime cure derubricando il fatto da violenza privata consumata a violenza privata tentata. Infine, propone ricorso in Cassazione l’imputato deducendo difetto di motivazione. 

La Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente nella presente vicenda il reato di cui all’art. 610 c.p. Commette tale fattispecie delittuosa colui il quale, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa. Nel caso di specie, sia le insistenti richieste di prestazioni sessuali, caratterizzate dalla supremazia tipica dell’abuso del ruolo di superiore gerarchico, sia i comportamenti vessatori conseguenti ai rifiuti delle donne realizzano ampiamente la fattispecie di violenza privata. Le vittime, infatti, erano costrette a subire mortificanti vessazioni che procuravano loro sofferenze e malessere. E non meno importanti risultano i pregiudizi relativi all’aspetto più propriamente lavorativo. Invero, le vittime non potevano che immaginarsi una eventuale progressione di carriera subordinata alla soddisfazione delle richieste del direttore sanitario. Pertanto, in tale vicenda viene leso il bene giuridico della libertà morale delle vittime, sia in riferimento al momento formativo della volontà secondo motivi propri, sia in riferimento alla libertà di azione derivante dalle scelte autonome del soggetto. 

Non condivide, la Cassazione, la tesi del Tribunale che ravvisava nei fatti de quibus sporadici episodi di molestie penalmente irrilevanti. Invero, il semplice assunto che le minacce di sanzioni disciplinari si collocassero solo in un momento posteriore al rifiuto non implica l’insussistenza della violenza privata sol perché le violenze erano indirizzate al conseguimento di un risultato già in precedenza negato. Anzi, la condotta dell’imputato, protratta nel tempo per una durata significativa, la quale obbligava le vittime a patire l’impatto delle lusinghe e delle minacce già di per sé è sufficiente a costituire violenza. (Giulia Volpatti, fonte: www.personaedanno.it)

 

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