Risarcimento del danno da demansionamento per prove presuntive:
spettanza
Cass., sez.
lav., 26 marzo 2008, n. 7871- Pres. De Luca – Rel. Maiorano - Pm Fuzio
(conf.) – Ricorrente D. Thermal Sistem Spa – Controricorrente U.
Demansionamento – Riscontro giudiziale del danno per prove presuntive –
Legittimità e risarcibilità.
Il
risarcimento del danno da demansionamento e dequalificazione "va dimostrato
in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo
peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla
complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche,
durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di
lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e
ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni
poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione
dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di
vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una
lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente
apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza
del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 Cpc, a quelle nozioni
generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento
presuntivo e nella valutazione delle prove (Cass. S.u. n. 6572/06).
Il giudice
di merito, pur dichiarando erroneamente che "in caso di demansionamento può
farsi luogo al risarcimento del danno anche in mancanza di uno specifico
elemento di prova" ha poi di fatto riconosciuto il diritto del lavoratore
sulla base di una prova presuntiva dettagliatamente indicata con motivazione
logica e coerente, sia in relazione all'an debeatur che al quantum,
determinato con una valutazione equitativa esente da censure e congruamente
motivata. Conseguentemente la sentenza appellata va confermata ed il ricorso
aziendale rigettato.
Svolgimento
del processo
Con ricorso
alla Corte d'appello di Torino la D. Thermal Systems Spa proponeva appello
avverso la sentenza del Tribunale di Torino, con la quale era stata
condannata al pagamento in favore di U. Angelo della somma di Euro 8.400,00
a titolo di risarcimento del danno per la dequalificazione dallo stesso
subita per essere stato declassato con decorrenza dal 12/11/2001 da
manutentore elettrico, con autonomia e discrezionalità esecutiva, a
collaudatore; eccepiva l'omessa pronuncia sulla eccezione di improcedibilità
della domanda risarcitoria ex art. 410 Cfc, per mancato espletamento del
tentativo obbligatorio di conciliazione, e l'infondatezza nel merito, perché
l'assegnazione alle diverse mansioni era determinata da necessità
aziendali, per calo di produzione, al fine di evitare "adempimenti di natura
più grave".
L'appellato
contrastava il gravame e la Corte d'appello lo rigettava sulla base delle
seguenti considerazioni: la parte aveva effettivamente sollevato l'eccezione
di improcedibilità della domanda perché il tentativo di conciliazione
obbligatorio era stato proposto dall'U. solo per il demansionamento e non
per l'azione risarcitoria ed il giudice si era riservato di provvedere
unitamente al merito, senza però pronunciare in proposito. Il motivo
d'impugnazione era però infondato, in quanto, a parte la dubbia rilevabilità
in appello dell'improcedibilità della domanda di risarcimento (Cass. n.
10089/00), la stessa non era totalmente autonoma rispetto a quella relativa
al mutamento di mansioni, essendo questa il necessario presupposto della
prima, "considerando anche che, del tutto verosimilmente, in sede di
tentativo di conciliazione venne dall'U. avanzata oralmente una qualche
richiesta risarcitoria"; non si poteva quindi parlare di improcedibilità
della domanda di risarcimento del danno. Il primo motivo quindi doveva
essere disatteso.
Nel merito,
l'art. 2103 c.c. nel disciplinare lo "jus variandi" del datore di lavoro
vietava l'assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle di
assunzione, come era avvenuto nella specie, e sanzionava con la nullità i
patti contrari; illegittima quindi era l'attribuzione al dipendente di
mansioni inferiori (Cass. 3722/04; 9734/98); l'eventuale mutamento in
peius (per intervenuta inidoneità fisica del lavoratore, o per altra
ragione, art. 4, 11° comma L. 223/91) poteva essere effettuato col consenso
del lavoratore (Cass. 10574/01; 11806/00) che nella specie non era stato
prestato.
Le esigenze
aziendali addotte per giustificare la legittimità del provvedimento non
avevano trovato adeguato riscontro istruttorio: il posto di manutentore già
occupato dall'U. non era venuto meno e dopo qualche giorno era stato
occupato dal V. , proveniente da altra società
(teste P., Z., A. e F.); l'assunto che dovendo ridurre il numero del
manutentori era stato scelto l'U. che aveva reso prestazioni poco brillanti
era contrastato sia dal fatto che il V. era ben poco "brillante" tanto che
era stato mandato in giro a fare esperienza (teste Z.), sia dalla
documentazione in atti, che in contrasto con "i genericissimi riferimenti di
alcuni testi a prestazioni meno brillanti (F. e F.), dimostrava che l'U. era
stato più volte premiato per avere effettuato ben 23 "proposte individuali
di miglioramento" e "per lo spirito di collaborazione dimostrato" ed aveva
avuto un altro premio in data "20/11/2001 e cioè quando il mutamento delle
mansioni dell'U. era stato già disposto", sicché l'asserita scadente
prestazione che lo stesso avrebbe reso negli ultimi tempi era stata
seccamente smentita. Anche il secondo motivo doveva quindi essere
disatteso.
Il
risarcimento del danno poteva essere riconosciuto anche in difetto di una
specifica prova, sia perché il danno poteva presumersi in base alla natura,
entità e durata del demansionamento, sia perché la violazione dell'art 2103
c.c. comportava la lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla
libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro ed un
pregiudizio alla vita professionale e di relazione (Cass. 12553/03;
15868/02). Le mansioni, di 3° livello, notevolmente inferiori alle
precedenti di 5° livello, si erano protratte per oltre un anno ed avevano
comportato un danno sia per la perdita, almeno parziale, delle acquisite
conoscenze professionali, sia per la vita di relazione nell'ambito
lavorativo. Anche il terzo motivo era quindi infondato.
L'ultima
censura sulla mancata indicazione dei criteri della liquidazione equitativa
era infondata perché il giudice di primo grado aveva espressamente
considerato sia il periodo di demansionamento che la retribuzione percepita;
risultavano quindi sufficientemente esplicitati i criteri di liquidazione ed
anche questo motivo doveva essere disatteso e l'appello rigettato.
Motivi
della decisione
È domandata
ora la cassazione di detta pronuncia con quattro motivi: col primo si
lamenta nullità del procedimento e della sentenza e violazione degli art.
410 e 412 bis Cpc e vizio di motivazione in relazione alla denuncia di
omessa pronuncia sull'eccezione di improcedibilità del ricorso in violazione
dell'art 112 Cpc La domanda risarcitoria non era stata preceduta dal
tentativo obbligatorio di conciliazione e quindi doveva essere dichiarata
improcedibile; la Corte d'appello riconosce che il primo giudice "nessuna
pronuncia ha reso sulla eccezione sollevata dalla Dts spa" e che il
tentativo di conciliazione ebbe ad oggetto soltanto "l'impugnazione cambio
mansione in quanto inferiore al 5° liv. prof. riconosciuto", ma poi
contraddittoriamente non ne trae le debite conseguenze: non censura infetti
l'evidente violazione dell'art. 112 Cpc, ritenendo invece infondato il
ricorso sul punto, con la doppia motivazione che la domanda non sarebbe
"totalmente autonoma" rispetto a quella per il cambio mansione, necessario
presupposto di quella risarcitoria, e che "del tutto verosimilmente" il
ricorrente avrebbe avanzato in sede di conciliazione "una qualche richiesta
risarcitoria".
Innanzi
tutto è fuor di luogo l'affermazione della sentenza sulla "dubbia
rilevabilità in appello dell'improcedibilità della domanda" (Cass. n.
10089/00) perché l'eccezione è stata proposta in primo grado ed il giudice
ha rilevato il possibile motivo d'improcedibilità, riservandosi di decidere
unitamente al merito, senza poi pronunciare sul punto, con la conseguenza
che l'omessa pronuncia può essere censurata in appello. In secondo luogo, la
decisione è errata, perché la domanda di risarcimento del danno è diversa da
quella relativa all'impugnazione del cambio mansione e deve essere preceduta
dal tentativo obbligatorio di conciliazione, e perché si fonda su un fatto
non provato e meramente ipotetico, come la richiesta verbale che
"verosimilmente" sarebbe stata introdotta in sede di conciliazione.
Col secondo
motivo si lamenta violazione dell'art. 2103 c.c. e vizio di motivazione, per
avere il giudice rigettato il secondo motivo d'appello sulla legittimità del
cambio mansioni per necessità aziendali. Le eccezioni della società sono
state disattese sulla considerazione ritenuta "assorbente" che
l'attribuzione di mansioni inferiori sarebbe in ogni caso illegittima e sul
difetto di prova delle esigenze aziendali che secondo l'assunto avrebbero
giustificato il mutamento delle mansioni: la prima affermazione è apodittica
ed errata perché il cambio è stato ritenuto legittimo come "soluzione
alternativa al licenziamento o alla cassa integrazione guadagni" (Cass.
9386/93; 6441/88) oppure "in caso di impossibilità sopravvenuta allo
svolgimento delle mansioni di assunzione" (Cass. 6515/88 10333797); la
seconda è errata, perché lo jus variandi del datore di lavoro è
giustificato quando sussistano insopprimibili esigenze organizzative ed
aziendali (Cass. 3623/95; 3340/96) e non è escluso dall'art. 2103 c.c., come
novellato dall'art. 13 S.l.. Le deposizioni dei tesi A. , F. e F. confermano
la sussistenza dei validi motivi aziendali per il cambio mansione; il
giudice d'appello ha omesso di prendere in considerazione le suddette
deposizioni. Una attenta valutazione delle risultanze istruttorie porta a
ritenere che legittimamente è stato esercitato lo jus variandi del
datore di lavoro anche nell'interesse dello stesso lavoratore, che non ha
subito decisioni più drastiche e nemmeno danni in quanto non vi è stato un
aggravamento della posizione lavorativa o un pregiudizio di carriera ed ha
avuto il vantaggio di conservare il posto di lavoro.
Col terzo
motivo si lamenta violazione degli art. 2103, 2697 e 1223 c.c. e vizio di
motivazione per avere il giudice accolto la richiesta risarcitoria senza che
sia stata data la prova del danno. La richiesta è stata avanzata in modo
generico e nessuna prova, o elemento indiziario è stato offerto sia in
relazione all'an che al quantum debeatur, in contrasto con le
norme suddette e la giurisprudenza di legittimità (Cass. 10361/94; 8904/03;
6992/02; 7905/98).
Col quarto
motivo si lamenta violazione dell'art. 1226 c.c. e vizio di motivazione, per
avere il giudice liquidato in via equitativa il danno senza indicare i
criteri valutativi e di calcolo che avrebbe utilizzato (Cass. 6071/95;
14166/99). Resiste l'intimato con controricorso.
Il ricorso
è infondato.
Il primo
motivo è inammissibile per carenza di interesse, perché anche se fosse
fondato non potrebbe portare alla cassazione della sentenza impugnata per
tale motivo; non si tratta infatti di inammissibilità della domanda per la
quale è possibile la definizione del giudizio anche con una pronuncia di
rigetto in rito, anche in grado di appello, ma di improcedibilità, in senso
lato relativa, che non preclude la concessione di provvedimenti speciali
d'urgenza e di quelli cautelari e che ha come unica conseguenza la
sospensione del processo e la concessione di un termine perentorio ai fini
dell'espletamento del tentativo di conciliazione; sospensione che può e deve
essere disposta nel giudizio di primo grado ma non si giustifica in appello,
neanche sotto il profilo della omessa pronuncia, come nella specie viene
denunciato, essendo totalmente irragionevole l'espletamento di un tentativo
di conciliazione obbligatoria volto ad evitare l'intervento giurisdizionale
dopo che il giudice si è già pronunciato. In senso conforme Cass. n.
17956/04 secondo cui l'esperimento del tentativo obbligatorio di
conciliazione è previsto dall'art. 412 bis cod. proc. civ. quale condizione
di procedibilità della domanda nel processo del lavoro; la relativa mancanza
deve essere eccepita dal convenuto nella memoria difensiva di cui all'art.
416 cod. proc. civ., e può essere rilevata anche d'ufficio dal giudice,
purché non oltre l'udienza di cui all'art. 420 Cpc, con la conseguenza che
ove l'improcedibilità dell'azione, ancorché segnalata dalla parte, non venga
rilevata dal giudice entro il suddetto termine, la questione non può essere
riproposta nei successivi gradi di giudizio.
In ordine
al secondo motivo basta rilevare che il giudice d'appello ha ampiamente
spiegato le ragioni per le quali era illegittimo il demansionamento,
precisando che le esigenze aziendali addotte per spiegarne il motivo non
erano state provate, in quanto il posto già occupato dal lavoratore non era
venuto meno ed era stato assegnato ad un lavoratore meno esperto e non
sussistevano le ragioni di tale sostituzione, individuate nei risultati meno
"brillanti", che secondo l'assunto sarebbero ottenuti dall'U. negli ultimi
tempi, non solo per i premi a lui riconosciuti per le "proposte individuali
di miglioramento" e per lo "spirito di collaborazione dimostrato" in
precedenza, ma anche per il premio concessogli dopo che il trasferimento era
stato disposto. Il giudice d'appello indicando le fonti del suo
convincimento ha dimostrato d'avere preso in esame tutte le deposizioni da
cui, secondo il ricorrente, emergerebbero i motivi dell'assegnazione a
mansioni inferiori e quindi il motivo si risolve in una diversa lettura
degli atti, investendo direttamente la valutazione del giudice di merito e
non la logicità e congruenza della motivazione. Anche il secondo motivo va
disatteso.
Il terzo e
quarto motivo vanno trattati congiuntamente perché aspetti della medesima
censura. In proposito si osserva che la Corte ha già avuto modo di affermare
il principio di diritto secondo cui il risarcimento del danno da demansionamento e dequalificazione,"va dimostrato in giudizio con tutti i
mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la
prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi
elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità
all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata
dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di
progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti
del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale,
effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui
artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico
- si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al
fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi
dell'art. 115 Cpc, a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza,
delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione
delle prove (Cass. S.u. n. 6572/06).
Il giudice
di merito, pur dichiarando erroneamente che "in caso di demansionamento può
farsi luogo al risarcimento del danno anche in mancanza di uno specifico
elemento di prova" ha poi di fatto riconosciuto il diritto del lavoratore
sulla base di una prova presuntiva dettagliatamente indicata con motivazione
logica e coerente, sia in relazione all'an debeatur che al quantum,
determinato con una valutazione equitativa esente da censure e congruamente
motivata. Anche questi motivi vanno disattesi ed il ricorso rigettato. Le
spese vanno poste a carico del ricorrente e liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese che liquida in Euro
21,00 oltre ad Euro 3000,00 per onorario, nonché alle spese generali Iva e
Cpa.