Conflittualità tra superiore e subordinato non è mobbing se la condotta non è  prevaricatrice e vessatoria
 
Cass., sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3785 - Pres. Sciarelli - Rel. D'Agostino – Michele G. c. Poste Italiane SpA
 
Conflittualità tra dipendente e superiore sulle modalità della prestazione lavorativa – Non è mobbing – Necessaria una condotta prevaricatrice e vessatoria.
 
Per "mobbing" (nozione elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza giuslavoristica) si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono pertanto rilevanti i seguenti elementi: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche liciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
SVOLGIMENTO
Michele G. dipendente della S.p.A. Poste Italiane addetto all'ufficio di Beinasco Centro ha chiesto al Tribunale di Torino di accertare, tra l'altro, che nel periodo dal 1997 al 2001 era stato sottoposto da parte della direttrice dell'ufficio a maltrattamenti tali da causargli un profondo stato depressivo e di condannare l'azienda al risarcimento del danno biologico che gliene era derivato. Egli ha sostenuto che la direttrice lo obbligava ad effettuare lavoro straordinario, gli imponeva di sollevare pesanti pacchi di corrispondenza, lo poneva in cattiva luce nei confronti dei colleghi redarguendolo in loro presenza e lo minacciava di licenziamento. Dopo avere sentito alcuni testimoni il Tribunale ha rigettato la domanda. In grado di appello, la Corte di Torino ha confermato la decisione di primo grado osservando che dalle testimonianze raccolte era emersa una situazione di continua conflittualità tra la direttrice dell'ufficio, che esigeva prestazioni di lavoro straordinario, e Michele G. che non intendeva farle, mentre non era risultato che la direttrice avesse chiesto al lavoratore di sollevare pacchi pesanti e comunque avesse tenuto nei confronti del medesimo una condotta prevaricatrice e vessatoria, tale da configurare "mobbing". Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Torino per vizi di motivazione e violazione di legge.
…omissis…
MOTIVI
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione dell'art. 41 Cost. e art. 2087 c.c., nonché vizi di motivazione, e sostiene: che l'obbligo del datore di lavoro di adottare tutte le misure idonee ad impedire infortuni non si esaurisce nella mera osservanza di norme di legge o contrattuali, ma si estende all'adozione di tutte quelle misure che siano idonee a garantire l'incolumità dei lavoratori in base alla comune esperienza ed alle regole della tecnica; che sul lavoratore infortunato grava solo l'onere di provare il danno e la sua derivazione dall'ambiente di lavoro, mentre spetta al datore di lavoro l'onere di provare di aver adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dal dipendente, si rendano necessarie per tutelarne l'integrità fisica; che dunque ha errato il giudice di appello non ravvisando alcuna responsabilità delle Poste, malgrado queste non avessero assolto all'onere probatorio su di loro incombente.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 2087, 2043 e 2049 c.c., violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché vizi di motivazione, e sostiene: che il giudice di appello non ha fatto buon governo delle prove testimoniali raccolte omettendo di prendere in esame quelle dalle quali emergeva il comportamento vessatorio della direttrice dell'Ufficio (testimonianze di L. D., R.G., I. L. e T.C.) e fondando invece il suo giudizio su testimonianze, o su passi di testimonianze, favorevoli alla società, peraltro senza motivare in alcun modo tale scelta.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
La giurisprudenza di legittimità è costante nell'affermare che l'art. 2087 cod. civ., non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, con la conseguenza di ritenerlo responsabile ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno nell'esecuzione della prestazione lavorativa, occorrendo invece che l'evento sia pur sempre riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento, concretamente individuati, imposti da norme di legge e di regolamento o contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica e dall'esperienza, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato (Cass. n. 6018/2000, n. 1579/2000). Quanto all'onere della prova, al lavoratore che lamenti di aver subito un danno alla salute a causa dell'attività lavorativa svolta incombe l'onere di provare l'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro e il nesso causale fra questi due elementi; quando il lavoratore abbia provato tali circostanze, grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (Cass. n. 16881/2006, n. 7328/2004, n. 12467/2003).
A questi principi si è correttamente attenuta la Corte di Appello laddove ha osservato che, mentre nessuna norma, legale o contrattuale, impone alle Poste di dotare i portalettere di scarpe antiscivolo, non è neppure ravvisabile la responsabilità della società per violazione di norme di comune prudenza, in quanto la presenza di ghiaccio sulla strada è una situazione legata a particolari condizioni climatiche e ambientali non facilmente prevedibili in anticipo, anche perché il portalettere, dovendo spostarsi sul territorio, può incontrare condizioni, sia atmosferiche che ambientali, molto diverse e variabili nel corso della giornata lavorativa. La Corte Territoriale ha così dato congrua spiegazione della mancanza di colpa del datore di lavoro nella produzione dell'evento dannoso subito dal dipendente e tale accertamento di fatto, per essere congruamente e logicamente motivato, non è suscettibile di censura in sede di legittimità.
Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso. Per "mobbing" (nozione elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza giuslavoristica) si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono pertanto rilevanti i seguenti elementi: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche liciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
La Corte di Appello ha ritenuto che le testimonianze raccolte, pur evidenziando l'esistenza di contrasti tra la dirigente dell'ufficio ed il G. in ordine alle modalità di svolgimento delle prestazioni di lavoro da parte del dipendente, non sono tuttavia tali da provare la sussistenza di un intento vessatorio del dirigente dell'ufficio postale di (omissis) nei confronti del lavoratore.
Con la censure in esame il ricorrente assume che il giudice del gravame non abbia valutato correttamente le prove, trascurando le prove testimoniali o le parti delle prove testimoniali favorevoli alle tesi del G. e privilegiando invece quelle a questi contrarie. Una siffatta censura non tiene conto però della costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui il vizio di omessa o insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, non può consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte. Al riguardo è appena il caso di ricordare che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte il compito di valutare le prove e di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di individuare le fonti del proprio convincimento scegliendo tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti e di dare la prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, spetta in via esclusiva al giudice del merito; di conseguenza la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove, non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito (cfr. tra le tante Cass. n. 6064/2008, n. 17076/2007, n. 3994/2005, n. 11933/2003, n. 5231/2001).
Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal giudice di appello sono congruamente motivate e l'iter logico- argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione. Per contro, le censure mosse dal ricorrente si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse circostanze di fatto già valutate dal giudice di merito in senso contrario alle aspettative del medesimo ricorrente e si traducono nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del tutto inammissibile in sede di legittimità.
In definitiva, il ricorso deve essere respinto con conseguente condanna del ricorrente al pagamento, in favore del resistente, delle spese del giudizio di Cassazione, liquidate come in dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in Euro 22,00 per esborsi ed in Euro duemila per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..
Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2009

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La Corte di Cassazione sembrerebbe che abbia - tramite la soprariferita sentenza -  stilato un vademecum su quelle che debbono essere le regole per ottenere il risarcimento del danno in caso di mobbing in ufficio. Secondo la Corte, per evitare cause inutili, occorre considerare in primo luogo che per "per 'mobbing' si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità". Fatta questa precisazione la Corte (sentenza 3785/2009) spiega che per avere maggiori possibilità di successo in una causa per mobbing occorre innanzitutto che vi sia una "molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio".

In secondo luogo occorre sapere che per poter parlare di mobbing occorre che una determinata azione sia stata lesiva "della salute o della personalità del dipendente". Ma non basta, la Suprema Corte sottolinea anche la necessità di accertare l'esistenza del "nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore". Da ultimo occorre avere la prova dell'elemento soggettivo ossia dell'intento persecutorio. E' stato così respinto il ricorso di un postino che nel fare causa alle poste per un infortunio aveva anche sostenuto di essere stato vittima di vari episodi di mobbing. La Cassazione pur avendo accertato che vi erano stati dei contrasti tra la dirigente d'ufficio e il lavoratore, tali contrasti di per sé "non sono tali da provare la sussistenza di un intento vessatorio del dirigente dell'ufficio".

(Data: 03/09/2009 9.00.00 - Autore: Roberto Cataldi)

 

Sull'elemento soggettivo nella definizione del mobbing

1. - La sentenza in esame si allinea alla giurisprudenza ormai consolidata per quanto riguarda la definizione di mobbing: per mobbing deve intendersi una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico o dei colleghi, sistematica e protratta nel tempo[1], tenuta nei confronti del lavoratore e nell'ambiente di lavoro, che si risolve in reiterati comportamenti ostili[2], tali da tradursi in forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica[3]. Da tale condotta, affinchè possa essere valutato un risarcimento, deve conseguire una mortificazione morale o l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisico-psichico e del complesso della sua personalità[4].
Pertanto, non configurano mobbing, sia gli scontri, talora anche sgradevoli, che avvengono tra colleghi di ufficio, perché non sono atti rivelatori di una vera e propria persecuzione e rientrano, piuttosto, nella normale fisiologia dei conflitti lavorativi, restando, con ciò, giuridicamente irrilevanti[5], sia il ricorrere sul luogo di lavoro di qualsivoglia manifestazione di dissenso e di incomprensione ovvero di difficoltà relazionali[6], richiedendosi la prova dì una condotta sistematica e colpevole protratta nel tempo nonché di un definito nesso di causalità tra evento lesivo e condotta persecutoria[7]. E indiscutibile, pertanto, che il lavoratore sottoposto a mobbing deve provare, ai sensi dell'art. 2697 cc. l'esistenza di una persecuzione o vessazione «continuata», i danni lamentati (patrimoniali e non, alla salute o alla vita di relazione) e il nesso di causalità tra tali danni e la condotta lamentata[8], mentre è oggetto di discussione se il lavoratore debba, ai fini della configurabilità del mobbing, fornire anche la prova dell'elemento soggettivo ovvero dell'intento persecutorio del datore di lavoro o superiore gerarchico.
La risposta, in teoria, può essere negativa o positiva a seconda della scelta processuale effettuata dal danneggiato di prospettare l'evento lesivo in un ambito contrattuale o, invece extracontrattuale, se non addirittura penale. È imprescindibile, quindi, accertare se il mobbing viene lamentato dal lavoratore come violazione di un obbligo contrattuale o, piuttosto, come inosservanza del principio del neminem laedere.
Secondo un condivisibile e ormai consolidato orientamento della giurisprudenza, le condotte rappresentative del mobbing, considerate singolarmente o nel loro complesso, rappresentano violazione degli obblighi gravanti sull'imprenditore a norma dell'art. 2087 cc.[9], mentre altro orientamento, gravando sul datore di lavoro anche il più generale obbligo espresso dall'art. 2043 cc, afferma che i comportamenti persecutori e vessatori ben possono costituire al contempo fonte di responsabilità contrattuale e di concorrente responsabilità aquiliana[10] qualora dalla medesima violazione sia derivata anche la lesione dei diritti che spettano alla persona del lavoratore, indipendentemente dal rapporto di lavoro, quali la lesione alla salute o alla personalità. Ma invocare in sede giudiziale l'art. 2043 cc. in ipotesi di lamentato mobbing appare superfluo in quanto l'art. 2087 cc, in virtù della sua ampia e generale formulazione, prevedendo l'obbligo del datore di lavoro di tutelare anche la personalità morale dei prestatori di lavoro, consente agli stessi di reclamare solo l'applicazione della norma di tutela delle condizioni di lavoro, anche nel caso di molestie attinenti alla dignità della persona, seppure non strettamente legate agli obblighi contrattuali[11], tenuto altresì conto che, ai sensi dell'art 41 co. 2 Cost., l'iniziativa economica non può svolgersi in modo da recare danno alla libertà e dignità umana. Sicché, integrando il mobbing una responsabilità contrattuale, è il datore di lavoro a dover provare di essere esente da colpa nell'inadempimento degli obblighi ex art. 2087 cc.[12]. La posizione processuale del mobbizzato è così più agevole: la presunzione legale di colpa stabilita dall' art. 1218 cc. a carico del datore di lavoro inadempiente all'obbligo di sicurezza, di cui all'art. 2087 cc., deroga parzialmente il principio generale stabilito dall'art. 2697 cc. che impone a chi vuol far valere un diritto in giudizio l'onere di provare i fatti che ne costituiscono fondamento[13]. La responsabilità contrattuale in caso di mobbing non viene meno neanche quando a porre in essere i comportamenti mobbizzanti sia un collega di lavoro e non il datore di lavoro[14]. In questo caso, il datore di lavoro è ugualmente responsabile per aver omesso di adottare tutte le misure idonee ad impedire che atti di persecuzione psicologica fossero perpetrati dai propri dipendenti a danno di colleghi o sottoposti[15]. Il lavoratore danneggiato può agire, a scelta, contro il datore di lavoro, contro il collega o superiore gerarchico, ovvero citare entrambi, senza peraltro che sia ipotizzabile un litisconsorzio necessario menzionando il precetto di cui all'art. 2087 cc. e, ad abundantiam, anche l'art. 2049 cc. che, stabilendo che la responsabilità datoriale «per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti», si aggiunge a tutelare pienamente i prestatori di lavoro vittime di mobbing. In un'azione di risarcimento fondata solo e soltanto sulla responsabilità contrattuale datoriale, diventa irrilevante la prova dell'elemento soggettivo essendo sufficiente dimostrare l'avvenuta successione di atti o condotte persecutorie realizzatesi[16]. La sussistenza del mobbing va cioè verificata considerando l'idoneità offensiva della condotta datoriale che può essere provata dalla sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme dì tutela del lavoratore subordinato[17], senza che necessiti una indagine intenzionale del datore di lavoro e, quindi, a prescindere dalla presenza dell'intento doloso[18]. Infatti il lavoratore deve dimostrare il fatto lesivo ossia l'inadempimento, il danno ricevuto e il nesso di causalità tra inadempimento e danno, ma è sicuramente esonerato dalla prova della sussistenza del dolo o della colpa del datore di lavoro[19], prove invece richieste qualora sia invocata la responsabilità extracontrattuale[20]. Solo secondo una prospettazione extracontrattuale del mobbing, l'elemento intenzionale assume infatti rilevanza, tant'è che, ai fini della qualificazione del fenomeno nell'ambito dell'art. 2043 cc. è richiesto un dolo generico come la volontà di attuare una condotta persecutoria o addirittura un dolo specifico consistente nella volontà di nuocere psicologicamente al lavoratore. Dolo generico che deve parimenti sussistere qualora il mobbing venga esaminato dal punto di vista del codice penale[21].
2.- La  Cassazione, con la sentenza in esame, non opera una doverosa distinta analisi dell'art. 2087 cc. e dell'art. 2043 cc. in merito alla lamentata falsa applicazione delle norme di legge e tout court afferma, discutibilmente, che la fattispecie del mobbing si realizza qualora sia provato anche l'intento persecutorio. L'errore dei giudici di legittimità è forse determinato dal fatto che parte ricorrente ha svolto la propria impugnazione citando «in endiadi» le due norme. È vero che la condotta plurioffensiva consente al lavoratore di reclamare sia l'art. 2087 cc. che l'art 2043 cc. ma forse è da dire, per una maggiore chiarezza in ordine alla ripartizione degli oneri probatori, delle due, l'una. Invocare l'art. 2087 cc. che afferma il principio del rispetto della personalità morale, appare più che sufficiente a tutelare il prestatore sia come lavoratore che come persona[22], perché l'azione di responsabilità contrattuale consente al mobbizzato di non sopportare l'onere di provare nemmeno la colpa del datore di lavoro danneggiarne, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento, nell'ipotesi di violazione dell'obbligo di sicurezza e ciò a prescindere dal tipo di comportamento datoriale lamentato. Se la condotta lesiva è infatti ascrivibile in una violazione degli obblighi contrattuali quali ad esempio la dequalificazione o l’inattività forzata, certamente il datore è responsabile ai sensi dell'art 2087 cc.[23], ma ugualmente dubbi non possono esserci qualora i comportamenti siano al confine degli obblighi contrattuali o sono al limite della legalità quali quelli che si traducono in atteggiamenti ostili, sgarbi continui, isolamento sociale, poiché rientra nell’ obbligo datoriale tutelare la dignità e la salute psichica dei lavoratori. Appare inoltre giusto che il lavoratore non debba dimostrare un intento che risiede nella sfera volitiva altrui[24], anche perché lo stesso può essere desumibile, ai sensi dell'art 2729 cc. dall'oggettività dei fatti[25] che il lavoratore deve provare in sede istruttoria. Potendo ascrivere la vicenda di mobbing semplicemente nell'alveo dell' applicabilità dell'art 2087 cc. è bene che la definizione non punti sull'elemento soggettivo dell' intenzionalità, ma su una concezione oggettiva dal profilo finalistico[26], attribuendo centralità all'individuazione di condotte e dinamiche tipiche del fenomeno, che, alla luce di particolari caratteristiche verificabili oggettivamente (ripetizione nel tempo, direzionalità, pretestuosità, efficienza lesiva del bene salute e della dignità, carattere emulativo, connotazione abusiva, idoneità alla realizzazione di determinati scopi, ecc.), diventano riconducibili ad una medesima ratio, sostanzialmente vessatoria e discriminatoria; in parole semplici, l'elemento psicologico nel mobber è un elemento su cui non si struttura la fattispecie dell' azione mobbizzante, ma che al massimo può discendere dalla qualificazione di una determinata serie di episodi come mobbing[27].
3. - In ultimo, l'analisi oggettiva del fenomeno del mobbing consente di evitare qualsivoglia tolleranza di un fenomeno patologico dei rapporti interpersonali nell'ambiente lavorativo e, quindi, di attribuire maggiore importanza all'obbligo del datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a prevenire, o quanto meno rendere difficile, il fenomeno del mobbing attraverso magari l'emanazione di codici di condotta che determinano non solo un freno ai comportamenti vessatori nel luogo di lavoro ma anche l'effetto positivo di ridurre i comportamenti non collaborativi o assenteisti dei lavoratori vittime del mobbing.
C'è chi ritiene[28] che il fenomeno del mobbing come comportamento del datore di lavoro diretto a liberarsi del lavoratore compaia con minore virulenza nei Paesi come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna nei quali sono minori ì vincoli al licenziamento individuale ed è maggiore la fluidità del mercato del lavoro tanto da consentire alla persona vessata di trovare agevolmente una nuova occupazione. Anche se talvolta il mobbing, nelle grandi aziende, è conseguenza della lotta tra «cordate» competitive di cui i vertici aziendali non sempre sono a conoscenza[29].
Maria Vinciguerra
Avvocato in Milano
(fonte: Mass. giur. lav. 8/9 -2009, 684)

 

[1] Sulla necessaria continuità delle azioni lesive a danno del lavoratore per configurare la condotta di mobbing, Cass. 9 settembre 2008 n. 22858, in questa rivista 2009, 269, con nota di C. Carnovale, Sulla nozione di mobbing; Trib. Milano 30 giugno 2006, in «Or. giur. lav.» 2006, 3, 57; Trib. Milano 6 maggio 2005, ibidem 2005,1, 327; Trib. Milano 29 ottobre 2004, ibidem 2004,1, 889; Trib. Milano 31 luglio 2003, in «Lav. giur.» 2004,402.

[2] Sulla definizione di mobbing quale strategia ovvero disegno complessivo di vessazione psicologica e non singola azione, Trib. Trapani 30 maggio 2008, in «Giur. merito» 2009, 396; Trib. Milano 29 febbraio 2008, in «Il merito» 2008, 9, 16; Trib. Milano 30 giugno 2006, in «Lav. giur.» 2007, 423; Cass. pen. 8 marzo 2006, n. 31413, ibidem 2007, 1, 39 con nota di Piovesana; Trib. Forlì 28 gennaio 2005, ibidem 2006, 370 con nota di Nunin; App. Torino 25 ottobre 2004, in «Riv. crit. dir. lav.» 2005, 181 con nota di SCORCELLI.

[3] Trib. Tivoli 23 gennaio 2007, in «Riv. crit. dir. lav.» 2007, 1136; Trib. Milano 12 agosto 2006, in «Or. giur. lav.» 2006, 638; Trib. Milano 15 maggio 2006, ibidem 2006, 374; Trib. Milano 18 febbraio 2006, ibidem 2006, 152; Trib. Milano 4 gennaio 2006 in «Riv. crit. dir. lav.» 2006, 486.

[4] Trib. Milano 3 luglio 2007, in «Or. giur. lav.» 2007. 523.

[5] App. Milano, 21 giugno 2006, in «Lav. giur.» 2007,423.

[6] A. Vallebona, Mobbing: qualificazione, oneri probatori e rimedi, in questa rivista 2006, 10 afferma che non possano essere considerate illecite condotte avvertite come lesive dal lavoratore solo nell'ambiente di lavoro oppure solo a causa della propria fragilità nei rap­porti interpersonali.

[7] Trib. Milano 19 ottobre 2005, in «Or. giur. lav.» 2005, 766; Cass. 2 maggio 2000, n. 5491, in «Lav. giur.» 2000, 830 con nota di Nunin.

[8] Sull'applicazione dell'art. 2697 cc. con conseguente obbligo dell'interessato di provare tutti gli elementi costitutivi del mobbing, Tar Sardegna 12 gennaio 2009, 11, in «Red. amm. Tar» 2009, 1.

[9] Sulla riconduzione del mobbing alla violazione dei doveri del datore di lavoro con riferimento all'art. 2087 cc. Trib. Grosseto 22 febbraio 2007, in «Lav. giur.» 2007, 1151: Trib. Milano 20 luglio 2006, in «Or. giur. lav.» 2006, 577; Cass. 23 marzo 2005, n. 6326, in «Giust. civ. - Mass.» 2005, 4; Trib. Campobasso 16 gennaio 2004, in «Riv. crit dir. lav.» 2004, 107. Anche il giudice delle leggi si è espresso ribadendo che il fenomeno del mobbing è riconducibile alla fattispecie di cui all'art, 2087 cc. in Corte cost. 19 dicembre 2003, n. 359 in questa rivista 2004, 297 con nota di Lanotte.

[10] Trib. Milano 30 settembre 2006, n. 2949, in «Giustizia a Milano» 2006, 1066; Trib. La Spezia 13 maggio 2005, in «Giur. it.» 2006,726 con nota di Viziou; Trib. Forlì 10 marzo 2005, in «Dir. giust» 2005, 23, 46.

[11] In tal senso, R. Del Punta, Diritti della persona e contratto di lavoro, Relazione Convegno Aidlass 2006, 24. Sempre secondo Del Punta, l'art. 2087 ce ha il pregio di qualificare la condotta non in base al suo contenuto, ma in considerazione del bene protetto, op. cit.

[12] In dottrina, A. Vallebona, Allegazioni e prove nel processo del lavoro, 2006, 33: Tar Lazio, Roma, Sez. III, 11 giugno 2007, n. 5303, in «Foro amm. Tar» 2007, 6, 2079: Tar Lazio, Roma, Sez. III, 10 maggio 2007, n. 4251, ibidem 2007, 1671: Cass. 25 maggio 2006, n. 12445, in «Riv. it. dir. lav.» 2007. 68 con nota di L. Valente. Dimissioni per g.c. e risarcimento dei danni: i conseguenti oneri di allegazione e prova del lavoratore e di prova liberatoria del datore nell'azione risarcitorìa per violazione dell'obbligo di sicurezza; Trib. Mila­no 28 febbraio 2003, in «Riv. crit. dir. lav.» 2003, 655.

[13] Cass. 25 maggio 2006, n. 12445, cit.

[14] Sulla responsabilità del datore di lavoro anche con riguardo ai colleghi di lavoro del dipendente, Cass. 29 agosto 2007, n. 18262, in «Guida dir.» 2007, 38, 30; Cass. 20 luglio 2007, n. 16148, in «Foro it.» 2007, I, 2685; Trib. Forlì 10 marzo 2005, in «Dir. giust.» 2005 23,46.

[15] Sull'onere a carico del lavoratore di informare il datore di lavoro dei comportamenti vessatori subiti, onere funzionale a generare consapevolezza nel datore di lavoro circa gli effetti nocivi delle pratiche aziendali denunciate dal dipendente, Trib. Milano 19 ottobre 2005, in «Or. giur. lav.» 2005, 766.

[16] In tal senso, Trib. Forlì 15 marzo 2001, in «Riv. iL dir. lav.» 2001, II, 728 con nota di M. Vinceri.

[17] Cass. 6 marzo 2006, n. 4774, in «Riv. it. dir. lav.» 2006, II, 562 con nota di M. Parpaglioni, Mobbing: definizione, tipologie di danno, onere di allegazione e di prova del danno esistenziale.

[18] Cass. 20 maggio 2008, n. 12735 in «Dir. giust.» 2008. Contra sulla ritenuta sussistenza del dolo specifico del mobber, Trib. Trieste 10 dicembre 2003, in «Lav. giur.» 2004, 1183 con nota di Nunin; Trib. Como 22 febbraio 2003, in questa rivista 2003, 328 con nota di Beretta; Trib. Como 22 maggio 2001, in «Lav. giur.» 2002,73 con nota di Ege. Sulla assenza di mobbing nel caso in cui i comportamenti non possano essere considerati dolosi, Trib. Siena 19 aprile 2003, in «Lav. pubbl. amm.» 2003,575 con nota di Cundari; Trib. Milano 20 maggio 2000, in «Lav. giur.» 2001, 367 con nota di Nunin.

[19] Grava sul lavoratore l'onere di provare l'inadempimento del datore di lavoro all'obbligo di cui all'art. 2087 cc. mentre non occorre che dimostri anche la sussistenza della colpa del datore di lavoro inadempiente gravando su quest'ultimo il diverso onere di provare che l'evento lesivo sia dipeso da un fatto a lui non imputabile in Cass. 6 luglio 2002, n. 9856, in «Giust civ. - Mass.» 2002, 1181; Cass. 5 febbraio 2000, n. 1307, in questa rivista 2000, 1169 con nota di Santoro Passarelli.

[20] In dottrina, D. GAROFALO, Mobbing e tutela del lavoratore tra fondamento normativo e tecnica risarcitoria, in Scritti in memoria di Massimo D'Antona, Milano 2004.

[21] Pur mancando una precisa figura incriminatrice penale, la condotta di mobbing è stata assimilata a quella dei maltrattamenti commessi da persona dotata di autorità per l'esercizio di una professione e, quindi, è stato ritenuto applicabile l'art. 572 cp. che richiede quale elemento soggettivo il dolo generico in Cass. pen., 9 luglio 2007, n. 33624, in «Riv. it. dir. lav.» 2008,409 con nota di Giappichelli, Sull'atipicità dei mobbing e il suo possibile rilievo penale quale delitto di violenza privata ex art. 610 cp., Cass. pen. 8 marzo 2006, n. 31413 cit.

[22] Si veda G. Pera, Angherie e inurbanità negli ambienti di lavoro, in «Riv. it dir. lav.» 2001,1, 291.

[23] Se la tutela invocata attenga a diritti soggettivi derivanti direttamente dal rapporto di lavoro, la responsabilità va ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali, Cass., Sez. Un., 4 maggio 2004, n. 8438, in questa rivista 2004, 554 con nota di Mannacio.

[24] M. Meucci, Alcuni punti fermi in tema di oneri probatori del demansionamento e del mobbing, in «Riv. crit. dir. lav.» 2008, 639 afferma che la prova dell'intenzionalità persecutoria del mobber sarebbe diabolica.

[25] Così come avviene in caso di lamentata discriminazione o comportamento antisindacale, A. Vallebona, Mobbing senza veli, in «Dir. rel. ind.» 2005, 1051. Sulla sufficienza e idoneità delle azioni mobbizzanti ad arrecare pregiudizio, indipendentemente dall'indagine sulla volontà o intenzionalità dell'elemento psicologico del mobber v. R. Scognamiglio, in Mobbing. Profili civilistici e giuslavoristici, in questa rivista 2006, 5, nonché dello stesso Autore A proposito di mobbing, in «Riv. it. dir. lav.» 2004,1, 503, il quale sostiene che il profilo doloso possa costituire un elemento aggravante la responsabilità del mobber in termini risarcitori.

[26] Secondo Del Punta, op. cit. il riferimento all'effetto sembra mettere fuori gioco la possibilità di far penetrare nella fattispecie il dolo, tanto generico quanto, a maggior ragione, specifico.

[27] Del Punta op. cit.

[28] È l'opinione di P. Ichino, in Il contratto di lavoro, 2003, II, 86.

[29] Su questi aspetti, cfr. N. Recupero, Il mobbing in Italia. Terrorismo psicologico nei rapporti di lavoro, 2001.

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