Danno da demansionamento: riproposizione dall'estensore dei principi espressi in Cass. Ss.Uu. n. 6572/2006

 

Cass. sez. lav., 4 febbraio 2008, n. 2621- Pres. Ciciretti – Rel. La Terza - Pm Riello (parz. conf.) – Ricorrente: B. ed altro – Controricorrente: Ilva Spa.

 

Demansionamento – Onere della prova del danno subito a carico del lavoratore che chiede il risarcimento – Anche tramite prove presuntive – Accertamento da parte del giudice di rinvio della presunta carenza – Al riscontro di carenza, consegue l’illegittimità del risarcimento disposto in sede di merito e l’obbligo di restituzione al datore di lavoro .

 

Dall'inadempimento datoriale non deriva automaticamente l'esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo. L'inadempimento infatti è già sanzionato con l'obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma. Non può infatti non valere, anche in questo caso, la distinzione tra "inadempimento" e "danno risarcibile" secondo gli ordinari principi civilistici di cui agli artt. 1218 e 1223 c.c, per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano "conseguenza immediata e diretta" dell'inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi di cui agli artt. 2087 e 2103 cod. civ., da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio.

Non è quindi sufficiente prospettare l’esistenza della dequalificazione, e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice - se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall'art. 421 cod. proc. civ. - non può invece mai sopperire all'onere di allegazione che concerne sia l'oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto.

Nella specie, in primo luogo la sentenza impugnata non riporta le allegazioni dell'originario ricorrente sulla natura del danno di cui chiedeva il risarcimento e per di più proprio il ravvisato atteggiamento di tolleranza del lavoratore rispetto alla situazione di inattività, la sua mancata sollecitazione per un così notevole lasso di tempo, a ricevere incarichi, nonché il godimento di permessi e di aspettative retribuite, avrebbe dovuto indurre i Giudici di merito a verificare con precisione l'esistenza del pregiudizio. La sentenza sul punto in cui ha riconosciuto il danno da demansionamento va quindi cassata.

Le somme corrisposte dal datore di lavoro in esecuzione della sentenza che ordina la reintegra nel posto di lavoro costituiscono, ex art. 18 legge n. 300 del 1970 (nel nuovo testo introdotto dalla legge 11 maggio 1990 n. 108), risarcimento del danno ingiusto subito dal lavoratore per l'illegittimo licenziamento; pertanto, in caso di riforma della sentenza che dichiara l'illegittimità, venendo a cadere l'illecito civile ascritto al datore di lavoro e non sussistendo più obbligo di risarcimento a suo carico, le somme percepite dal lavoratore perdono il loro titolo legittimante e debbono essere conseguentemente restituite fin dal momento della riforma, atteso che per il nuovo testo dell'art. 336, secondo comma, cod. proc. civ. non è più necessario il passaggio in giudicato della sentenza di secondo grado.

Consegue il rinvio alla Corte d'appello di Brescia, la quale si atterrà al principio di diritto enunciato ai fini  dell'accertamento dell'esistenza del danno da demansionamento e procederà altresì al calcolo delle retribuzioni da restituire.

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso del 25 giugno 2002 alla Corte d'appello di Milano la I. spa impugnava la sentenza resa dal locale Tribunale, con cui era stata accolta la domanda proposta dal dipendente Alberto B. di accertamento della subita dequalificazione professionale, di illegittimità del licenziamento intimato per soppressione del posto con conseguente condanna alla reintegra nel posto di lavoro ed al risarcimento dei danni.

La Corte adita, con la sentenza in epigrafe indicata, riformava parzialmente la statuizione di primo grado riconoscendo solo il 30% della somma liquidata a titolo di risarcimento danni da dequalificazione, rigettava tutte le altre domande proposte dal B. e lo condannava alla restituzione della differenza tra quanto riconosciuto e quanto percepito per effetto della sentenza di primo grado, salve le retribuzioni decorrenti dalla data di quest'ultima fino alla data della pronunzia e salve le retribuzioni per i periodi lavorati in I. .

La Corte riteneva in primo luogo di confermare il capo di sentenza che aveva accertato la dequalificazione e l'inattività del B. , dimostrata attraverso le deposizioni testimoniali, escludeva però l'esistenza di un atteggiamento persecutorio della società nei suoi confronti in forza della complessa vicenda che si era determinata allorquando, nel 1996, le mansioni svolte dal B. a Roma erano state soppresse a seguito della decisione di accentrare a Milano la sede commerciale della società, con risoluzione del rapporto anche degli altri due venditori, G. e B. , che operavano a Roma. Occorreva allora verificare, soggiungeva la Corte territoriale, l'esistenza a Roma di mansioni equivalenti e se il B. fosse stato disposto ad un trasferimento.

Dalle prove esperite era emerso che: le attività di autista e fattorino, che residuavano a Roma, erano dequalificanti, mentre le altre due, di monitoraggio e registrazione di flussi, erano state trasferite ad altre società del gruppo; le dimissioni incentivate equivalenti a due anni di cassa integrazione erano state rifiutate; la società gli aveva concesso numerosi permessi ed un'aspettativa di sei mesi (16 luglio 1998/14 gennaio 1999) e quindi lo aveva collocato in Cig dal gennaio all'aprile 1999, prima di trasferirlo a Genova; il lavoratore era stato quindi lasciato inattivo in ufficio, ma era rimasto anche assente per oltre un anno, usufruendo di istituti retributivi al cui godimento non era stato costretto; che non risultava essere state fatte pressioni per isolare il lavoratore e indurlo alle dimissioni, ovvero ad accettare mansioni dequalificanti; né risultava che il B. avesse sollecitato a Roma l'assegnazione di altri compiti, né che si fosse lamentato per la dequalificazione o l'inattività, fino a quando, dopo circa tre anni, era stato trasferito a Genova; che il B. aveva impugnato detto trasferimento, rimanendo colà, prima della sospensione disposta dal Giudice, solo per pochi giorni, insufficienti a constatare che l'ufficio marketing, appena allestito, non gli avrebbe consentito una idonea sistemazione, ancorché i testi escussi avessero riferito che le iniziali difficoltà erano state poi superate nell'ottobre 1999; concludeva quindi la Corte territoriale che il B. , pur rendendosi conto delle difficoltà oggettive di ricollocazione in azienda, non intendeva affrontare il grave disagio del trasferimento, come peraltro da lui stesso comunicato al consulente tecnico; le sue speranze di diversa collocazione, invero, erano state alimentate dalla società che, invece di assumere un immediato provvedimento espulsivo, aveva proseguito nel rapporto utilizzando gli istituti di Cig, permessi e aspettative (nella medesima situazione in cui si trovavano altri dipendenti su cui parimenti aveva influito la privatizzazione e quindi la riorganizzazione del gruppo); questo comportamento disponibile della società, affermava la Corte di Milano, non escludeva però la sua responsabilità per il demansionamento e la prolungata inattività, che non era stata prospettata come una alternativa alla perdita del posto di lavoro, ma come un rimedio temporaneo, che riguardava anche altri dipendenti; considerati quindi i lunghi periodi di assenza del B. e la obiettiva situazione in cui la società si trovava, la Corte territoriale riduceva al 30% della retribuzione il risarcimento dei danni alla professionalità, liquidato in via equitativa dal primo Giudice.

I Giudici d'appello negavano altresì il risarcimento del danno biologico, sia temporaneo che permanente perché entrambi esclusi dal CTU, il quale aveva escluso anche che il comportamento della società avesse aggravato l'epilessia post traumatica del B. .

La Corte riconosceva altresì il diritto alla differenza tra la retribuzione spettante e quanto percepito a titolo di Cig, giacché la collocazione in cassa integrazione era illegittima in quanto autorizzata solo per la sede di Genova, di talché solo in via di espediente la società aveva trasferito il B. sul libro matricola della sede di tale città. Quanto al licenziamento, affermava la Corte che esso doveva essere valutato autonomamente, a prescindere dalle vicende precedenti, e se era vero che la società aveva solo formalmente ottemperato all'ordine del Giudice del 27 settembre 1999 di reintegrarlo a Roma, era pur vero che non poteva qui assegnargli le medesime mansioni, giacché l'ufficio commerciale era stato soppresso già dal 1996 e quindi non era pretestuoso né vessatorio recedere dal rapporto dopo un periodo in cui si era tentato, invano, una idonea collocazione, né è vietato licenziare per giustificato motivo oggettivo il lavoratore che, a seguito della soppressione delle mansioni, non voglia accettare altra sistemazione perché dequalificante o lontana dalla sua residenza. Inoltre della inesistenza di mansioni equivalenti a Roma era consapevole lo stesso B. , che non aveva qui sollecitato altra collocazione, né aveva manifestato disponibilità a trasferirsi a Milano o a Genova.

Non si potevano prendere in considerazione, ai fini del repechage, né la assunzione di lavoratori con contratto di formazione per mansioni di livello sicuramente inferiore al settimo, né la decisione della società, adottata un anno prima del licenziamento del B. , di trasferire a Milano due lavoratrici di Bologna. Soggiungeva la Corte territoriale che il lavoratore doveva restituire, con gli interessi, le retribuzioni percepite relative al periodo antecedente alla sentenza di primo grado, ma non quelle percepite dopo, allorquando la società era rimasta inadempiente all'obbligo di reintegra.

Avverso detta sentenza il B. propone ricorso affidato a dieci motivi.

Resiste la I. spa con controricorso e ricorso incidentale con tre motivi, cui si aggiunge un motivo di ricorso incidentale condizionato.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

 

Motivi della decisione

 

Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi ex art. 335 cod. proc. civ..

1. Con il primo motivo del ricorso principale si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 700 cod. proc. civ. e 650 C.P. perché i Giudici d'appello, pur sapendo che il trasferimento a Genova era stato dichiarato illegittimo dal provvedimento cautelare del Tribunale di quella città, avrebbero errato nel consentire all'I. di strumentalizzare il rifiuto al trasferimento, omettendo di considerare che esso ricorrente stava esercitando un diritto espressamente riconosciuto dal Tribunale.

Con il secondo motivo si denunzia difetto di motivazione e violazione dell'art 15 della legge 300/70, per non avere considerato che, nonostante la soppressione dell'ufficio commerciale a Roma fosse stata attuata nel 1996, egli era stato licenziato ben tre anni dopo, nel 1999, a seguito del suo rifiuto a rinunciare al provvedimento cautelare del Tribunale di Genova, che aveva sancito la illegittimità del trasferimento, di talché vi sarebbero gli elementi per considerare discriminatorio il recesso intimato.

Con il terzo motivo, si denunzia la violazione dell'art. 2909 cod. civ. e il difetto di motivazione, per avere affermato che la sua breve permanenza a Genova era insufficiente a constatare che non gli sarebbe stata consentita idonea collocazione, mentre era stato accertato dalla sentenza del Tribunale di Genova passata in giudicato, che l'ufficio marketing colà costituito, era rimasto per mesi sfornito di mezzi e di incarichi adeguati rispetto al personale impiegato; inoltre, contrariamente a quanto affermato dalla sentenza impugnata, il teste M. aveva riferito di una realtà ben diversa da quella di un ufficio con problemi di avviamento e cioè una struttura in cui erano stati riuniti una trentina di lavoratori completamente isolati e privi di lavoro da eseguire e di mezzi.

Con il quarto motivo si denunzia violazione degli artt. 112 e 116 cod. proc. civ. e difetto di motivazione in ordine alla soppressione del posto di lavoro, perché dalle prove esperite sarebbe emerso che non di soppressione si trattava, ma solo di spostamento dell'ufficio da Roma a Milano; le mansioni da lui espletate a Roma erano state assegnate al R. a Milano, dove erano stati accentrati anche alcuni dipendenti provenienti dalla sede di Bologna, per cui, non risultando integrato l'elemento della soppressione del posto, ma solo un mero spostamento di attività, mancherebbe il giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Con il quinto mezzo, lamentando la violazione degli artt. 3 e 5 della legge 604/66 e difetto di motivazione, si deduce che i Giudici d'appello avrebbero errato nel ritenere assolto dall'I. l'obbligo di repechage, perché lo spostamento da Roma a Milano delle mansioni svolte da esso ricorrente sarebbe avvenuto nel 1996, ed era dunque da quella data in poi, e per tutto l'arco temporale fino alla formale intimazione del recesso, che la società avrebbe dovuto dimostrare la impossibilità di una sua diversa collocazione. I Giudici di merito avrebbero dovuto valutare altresì i compiti assegnati sia al R. , nel 1996, sia alle quattro impiegate assunte con contratti di formazione e lavoro negli anni 1998 e 1999, giacché, a prescindere dai livelli professionali rivestiti e dal tipo di assunzione, le mansioni assegnate a costoro ben avrebbero potuto essere attribuite ad esso ricorrente.

Con il sesto motivo, denunziandosi difetto di motivazione, si ascrive alla sentenza impugnata di non avere considerato le assunzioni effettuate dalla società presso l'ufficio commerciale di Genova Cornigliano.

Con il settimo motivo, denunziandosi violazione degli artt. 2103 e 1218 cod. civ., si lamenta che i Giudici di merito non abbiano considerato che la esistenza della situazione aziendale obiettiva che avrebbe indotto al demansionamento, non poteva influire sul diritto al risarcimento del danno, avente origine dalla responsabilità dell'inadempimento contrattuale. Inoltre detta situazione obiettiva non esisteva, ma vi era stata solo l'intento della società di ridurre la forza lavoro più tutelata e sostituirla con personale meno costoso e precario. Inoltre la concessione di ferie, permessi e aspettativa erano strumenti utilizzati per la sua ulteriore emarginazione, ed in ogni caso non spettava ad esso dipendente di sollecitare il trasferimento a Milano.

Con l'ottavo motivo si denunzia ancora la violazione degli artt. 2103, 2109 cod. civ. e 36 Costituzione, nonché difetto di motivazione, perché la concessione di ferie e permessi non erano finalizzati al recupero delle sue energie lavorative, ma come l'unica alternativa ad una umiliante situazione di inattività.

Con il nono motivo si denunzia violazione dell'art. 2087 cod. civ. e degli artt. 40 e 41 C.P. perché la CTU fatta propria dai Giudici di appello aveva concluso nel senso che le condotte datoriali avevano concausato un disturbo dell'adattamento con ansia ed umore depresso misti, per cui si sarebbe dovuto applicare il principio della concausalità, con conseguente condanna della società al risarcimento dei danni.

Con il decimo mezzo si ascrive alla sentenza la violazione degli artt. 1218, 2043 e 2087 cod. civ. per avere negato il risarcimento del danno biologico temporaneo perché verificatosi dal luglio 2002, quando il demansionamento era ormai cessato, mentre una volta riconosciuto il nesso causale con il danno biologico, sarebbe irrilevante il momento storico in cui questo si manifesta.

2. Con il primo motivo del ricorso incidentale si denunzia violazione dell'art. 1175, 1218, 1372, 2103 e 2697 cod. civ. e difetto di motivazione perché, da una parte, i Giudici di merito avrebbero riconosciuto la disponibilità di essa società per salvare il posto di lavoro del B. , ricercando altre mansioni cui adibirlo, concedendogli ferie, permessi ed aspettativa, e dall'altra parte avrebbero però, contraddittoriamente, deciso che quel medesimo atteggiamento integrava una ipotesi di dequalificazione professionale. Al contrario, la prolungata inattività in cui il B. era stato lasciato era l'unica alternativa possibile al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La Corte territoriale non avrebbe considerato che la condizione di inattività era frutto di un preciso accordo tra le parti, come comprovato dal fatto che per circa due anni e mezzo lo stesso aveva accettato tale situazione senza mai protestare né reclamare l'assegnazione di compiti. Di tale accordo la Corte territoriale avrebbe preso atto solo per ridurre il danno da demansionamento, mentre da esso avrebbe dovuto fare discendere, invece, l'inesistenza di qualsiasi violazione dell'art. 2103 cod. civ. Inoltre, il danno, che non poteva considerarsi esistente in conseguenza del mero stato di inattività, era stato liquidato in base a presunzioni semplici, ma senza il supporto di prove e allegazioni da parte del lavoratore che ne era onerato.

Con il secondo motivo si denunzia violazione degli artt. da 1 a 7 della legge 164 del 1975 in materia di cassa integrazione guadagni ordinaria e della legge 223/91, nonché difetto di motivazione, per avere affermato il diritto alla differenza tra la retribuzione spettante e quanto percepito a titolo di Cigo, sul rilievo che la collocazione in cassa integrazione fosse illegittima in quanto autorizzata solo per la sede di Genova di talché solo in via di espediente la società aveva trasferito il B. sul libro matricola della sede di tale città Al contrario, sostiene il ricorrente incidentale, la domanda di concessione era stata regolarmente accolta, in forza di un accordo sindacale che non faceva alcun riferimento alla sede di lavoro dei dipendenti, inoltre il B. non aveva dedotto che in relazione alla collocazione in Cigo erano stati violati gli obblighi di correttezza e buona fede, di talché, ove questi fossero stati rispettati, la sospensione avrebbe riguardato un altro lavoratore.

Con il terzo motivo denunziandosi violazione e falsa applicazione dell'art. 2041 cod. civ. e dell'art. 18 legge 300/70, nonché difetto di motivazione si censura la sentenza per avere affermato che il lavoratore doveva restituire, con gli interessi, le retribuzioni percepite relative al periodo antecedente alla sentenza di primo grado, ma non quelle percepite dopo, allorquando la società era rimasta inadempiente all'obbligo di reintegra.

Con il quarto motivo denunziandosi la violazione degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ. e dell'art. 2697 cod. civ. ci si duole che i Giudici di merito non abbiano accolto la istanza di prove sull'aliunde perceptum per il periodo successivo alla sentenza di primo grado.

Con l'unico motivo del ricorso incidentale condizionato si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 412 bis cod. proc. civ. e difetto di motivazione, perché, come già eccepito nei gradi di merito, le domande del B. erano improcedibili per il mancato pieno espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione, dal momento che la relativa richiesta alla direzione provinciale del lavoro sarebbe stata del tutto generica.

3. Va preliminarmente respinto l'unico motivo del ricorso incidentale condizionato proposto dall'Ilva. Va infatti rammentato (tra le tante, da ultimo Cass. n. 18169 del 09/09/2004) che, qualora la parte, interamente vittoriosa nel merito, abbia proposto ricorso incidentale avverso una statuizione a lei sfavorevole, relativa ad una questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito, rilevabile d'ufficio, la Corte di Cassazione deve esaminare e decidere con priorità tale ricorso, senza tenere conto della sua subordinazione all'accoglimento del ricorso principale, dal momento che le regole processuali sull'ordine logico delle questioni da definire - applicabili anche al giudizio di legittimità - non subiscono deroghe su sollecitazione delle parti.

Il motivo è infondato giacché l'art. 412 bis cod. proc. civ. introdotto dall'art. 39 del d.lvo n. 80 del 31 marzo 1998, che subordina la procedibilità della domanda all'espletamento del tentativo di conciliazione, prevede che l'improcedibilità possa essere rilevata dal giudice non oltre la prima udienza di cui all'art. 420 cod. proc. civ. (al pari peraltro di quanto previsto dall'altra disposizione in tema di improcedibilità di cui all'art. 443 dello stesso codice) di talché la dedotta irregolarità del tentativo di conciliazione è rimasta ormai sanata dal suo omesso rilievo alla prima udienza.

4. Il ricorso principale non merita accoglimento.

In particolare non sono fondati né il primo, né il secondo, né il terzo motivo, con cui si ascrive alla sentenza di avere disatteso la statuizione, ormai passata in giudicato, del Tribunale di Genova sulla illegittimità del trasferimento disposto dall'I. in quella città. Invero, in primo luogo, nessuna efficacia può avere quella decisione nell'attuale procedimento avente ad oggetto, non già il trasferimento, ma il licenziamento successivamente intimato. Le tre censure sollecitano, nella sostanza, il riconoscimento di uno stretto collegamento tra trasferimento e licenziamento, di talché la ravvisata illegittimità del primo provvedimento si dovrebbe riverberare sul secondo, dimostrandone il carattere pretestuoso e discriminatorio. In tal guisa le censure sono intese a sollecitare la attribuzione, ai fini del giudizio sulla legittimità del licenziamento, di un preminente rilievo ad alcuni elementi emersi in causa (ossia alla illegittimità del trasferimento), rispetto a quelli su cui si fonda la sentenza impugnata, che, pure avendo considerato essere stata sancita la illegittimità del trasferimento, ha poi concluso per la legittimità del recesso, correttamente basandosi su quelli che sono i fattori essenziali per verificare l'esistenza del giustificato motivo, e cioè la soppressione dell'ufficio commerciale presso la sede di Roma a cui il B. era addetto. Le prime tre censure quindi, non evidenziando alcuna incoerenza logica né giuridica nel ragionamento dei Giudici d'appello, e neppure la omessa valutazione di circostanze decisive, ma sollecitando, nella sostanza, un diverso apprezzamento dei fatti, dando prevalenza ad alcuni elementi di prova rispetto ad altri, sono inammissibili in questa sede.

5. Parimenti infondato è il quarto motivo perché, come si fa osservare nel controricorso, è fondato su questione meramente terminologica: non si tratterebbe di soppressione del posto a Roma, ma di trasferimento delle relative funzioni a Milano. Si tratta, per come formulata la censura, di una differenziazione irrilevante, dal momento che, in ogni caso, le funzioni precedentemente svolte dal B. nell'ufficio commerciale a Roma non venivano più espletate. Né da questa doglianza si fa poi discendere quella che sarebbe stata la naturale conseguenza, ossia che il giustificato motivo di recesso era in realtà insussistente, giacché quelle stesse mansioni ben potevano essere da lui espletate a Milano, non essendo stata censurata la circostanza in fatto menzionata dai Giudici d'appello, e cioè che l'attuale ricorrente principale non aveva mai manifestato la sua disponibilità a trasferirsi a Milano.

6. Sono infondati anche i motivi quinto e sesto sulla violazione, da parte della società, dell'obbligo di repechage. In primo luogo va rilevato in diritto che, in caso di soppressione del posto di lavoro, l'obbligo del datore di dimostrare la impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita in relazione al contenuto professionale dell'attività svolta in precedenza, va collegato alla situazione esistente al momento del recesso (ex multis Cass. n. 14815 del 14/07/2005), ovvero ad un arco temporale idoneo a dimostrare la ragionevolezza e correttezza dell'agire datoriale nella decisione di risolvere il rapporto. Nella specie la sentenza impugnata ha escluso la sussistenza di una possibilità diversa collocazione del B. , verificandola non già nel puntuale momento del recesso, ma nell'arco di tempo successivo alla soppressione del posto, avendo constato che vi era stata tutta una fase di attesa, in cui la società aveva manifestato la sua disponibilità a trovargli nuove mansioni, che però a Roma non erano state reperite del livello appropriato (quelle di autista e fattorino furono ritenute dequalificante, mentre non era possibile adibirlo alle attività di monitoraggio e registrazione dei flussi erano state affidate ad altre società del gruppo); né vi erano mansioni adeguate da affidargli a Milano, come comprovato dal fatto che colà erano stati assunti, peraltro con contratto di formazione e lavoro e quindi a termine, lavoratori con qualifica inferiore. In ogni caso l'accertamento di tali presupposti costituisce valutazione di merito, insindacabile in sede di legittimità ove congruamente motivato, né in ricorso si lamenta la omessa valutazione di circostanze emerse in causa, decisive per dimostrare che esistevano altri posti di lavoro adeguati, solo così infatti sarebbe individuabile il dedotto difetto di motivazione (mentre è generica la censura di non avere considerato la situazione esistente presso la sede di Genova Cornigliano).

7. Parimenti da rigettare è il settimo motivo, in parte per le considerazioni svolte in precedenza, in parte perché la censura non coglie il senso della pronunzia impugnata, dal momento che i Giudici di merito non hanno per nulla negato la illegittimità del demansionamento, essendosi limitati a ridurre la misura del danno.

8. Il primo motivo del ricorso incidentale è solo in parte fondato e quindi va accolto per quanto di ragione.

In primo luogo non è esatto il rilievo per cui, nella specie, l'inattività ovvero l'assegnazione di mansioni inferiori non violavano l'art. 2103 in quanto sarebbero state frutto di un accordo tra le parti. La ricorrente incidentale invoca l'orientamento giurisprudenziale (invero non unanime) sulla legittimità del cd. patto di declassamento come alternativa al licenziamento, per cui la modifica in peius delle mansioni del lavoratore non è illegittima quando sia stata disposta con il consenso del dipendente (nonostante la disposizione citata commini la nullità di ogni patto contrario) e per evitare il licenziamento, perché, in tal caso, la sua diversa utilizzazione non contrasterebbe con le esigenze di rispettare la dignità della persona, configurandosi anzi come una situazione più favorevole di quella ispirata al mero rispetto formale della disposizione, che condurrebbe alla cessazione del rapporto (cfr. Cass. 11727 del 18 ottobre 1999, n. 6441 del 29 novembre 1988).

Nella specie però l'orientamento suddetto, anche a volerlo condividere, non può operare perché i Giudici di merito hanno escluso, in fatto, essere emersa la prova di un vero e proprio patto in tal senso, ossia che il B. avesse effettivamente consentito a rimanere in uno stato di inattività senza termine, sul rilievo che la dequalificazione, fino a che non fu intimato il licenziamento, non era stata mai prospettata come una alternativa alla perdita definitiva del posto di lavoro, ma era stata adottata come un rimedio temporaneo, che peraltro concerneva la generalità dei dipendenti che parimenti erano stati toccati dalla ristrutturazione aziendale.

È ben vero che i Giudici di merito hanno ravvisato una serie di elementi atti a dimostrare la tolleranza del B. rispetto allo stato di inattività in cui era stato lasciato per il periodo non trascurabile di circa due anni e mezzo, ciò tuttavia non è stato ritenuto sufficiente a fornire la prova di un vero e proprio incontro dei consensi tra le parti. Né nel motivo di ricorso è stata lamentata la omessa o incongrua valutazione di circostanze emerse in causa aventi efficacia decisiva per dimostrare l'esistenza di un vero e proprio patto in tal senso, di talché la affermazione della Corte territoriale non può essere considerata né insufficiente, né erronea, ma rimane nell'ambito dell'apprezzamento dei fatti riservato esclusivamente ai giudici di merito.

9. È fondata invece la seconda parte della censura, laddove si lamenta che sia stata ravvisata dalla Corte di Milano l'esistenza di un danno da demansionamento, ancorché la misura del risarcimento sia stata notevolmente ridotta.

È stato infatti affermato con la sentenza delle sezioni unite di questa Corte n. 6572 del 24 marzo 2006, emessa a composizione di un contrasto di giurisprudenza, che: «In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio, oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddittuale del soggetto - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove».

10. È stato infatti affermato che dall'inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l'esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo. L'inadempimento infatti è già sanzionato con l'obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma. Non può infatti non valere, anche in questo caso, la distinzione tra "inadempimento" e "danno risarcibile" secondo gli ordinari principi civilistici di cui agli artt. 1218 e 1223 c.c, per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano "conseguenza immediata e diretta" dell'inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi di cui agli artt. 2087 e 2103 cod. civ., da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio.

Non è quindi sufficiente prospettare l’esistenza della dequalificazione, e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice - se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall'art. 421 cod. proc. civ. - non può invece mai sopperire all'onere di allegazione che concerne sia l'oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto.

Nella specie, in primo luogo la sentenza impugnata non riporta le allegazioni dell'originario ricorrente sulla natura del danno di cui chiedeva il risarcimento e per di più proprio il ravvisato atteggiamento di tolleranza del lavoratore rispetto alla situazione di inattività, la sua mancata sollecitazione per un così notevole lasso di tempo, a ricevere incarichi, nonché il godimento di permessi e di aspettative retribuite, avrebbe dovuto indurre i Giudici di merito a verificare con precisione l'esistenza del pregiudizio. La sentenza sul punto in cui ha riconosciuto il danno da demansionamento va quindi cassata.

11. Va rigettato il secondo motivo del ricorso incidentale in ordine al diritto alle differenze tra le retribuzioni spettanti e quanto percepito a titolo di Cigo in cui il B. era stato illecitamente collocato. Ed infatti risulta irrilevante la censura per cui la messa in cassa integrazione derivava da un accordo sindacale in cui non erano precisate le sedi di appartenenza dei lavoratori interessati alla sospensione, giacché ciò che conta è poi il contenuto del provvedimento autorizzatorio. Nella specie la Corte territoriale ha rilevato che questo riguardava solo la sede di Genova e non quella di Roma, cui il B. era addetto, di talché la sospensione dal lavoro era illegittima perché non supportata da autorizzazione, donde il diritto alle differenze richieste.

12. Va accolto altresì il terzo motivo del ricorso incidentale, essendosi affermato (Cass. n. 8263 del 17/06/2000, seguita da altre successive conformi) che: «Le somme corrisposte dal datore di lavoro in esecuzione della sentenza che ordina la reintegra nel posto di lavoro costituiscono, ex art. 18 legge n. 300 del 1970 (nel nuovo testo introdotto dalla legge 11 maggio 1990 n. 108), risarcimento del danno ingiusto subito dal lavoratore per l'illegittimo licenziamento; pertanto, in caso di riforma della sentenza che dichiara l'illegittimità, venendo a cadere l'illecito civile ascritto al datore di lavoro e non sussistendo più obbligo di risarcimento a suo carico, le somme percepite dal lavoratore perdono il loro titolo legittimante e debbono essere conseguentemente restituite fin dal momento della riforma, atteso che per il nuovo testo dell'art. 336, secondo comma, cod. proc. civ. non è più necessario il passaggio in giudicato della sentenza di secondo grado». Il B. avrà ovviamente diritto a trattenere le retribuzioni corrispondenti al periodo in cui, a seguito di riammissione al lavoro, aveva prestato l'attività lavorativa, rimettendosi il relativo accertamento e quindi i conteggi al Giudice del rinvio.

13. L'accoglimento del terzo motivo del ricorso incidentale determina l'assorbimento del quarto, con cui si lamenta la mancata ammissione di prove sull'aliunde perceptum per il periodo successivo alla sentenza di primo grado.

14. L'accoglimento per quanto di ragione del primo motivo del ricorso incidentale, concernente la prova del danno per la violazione dell'art. 2103 cod. civ., determina l'assorbimento dell'ottavo, del nono e del decimo motivo del ricorso principale, che sono incentrati sulla misura del risarcimento dovuto.

Conclusivamente: va rigettato il ricorso incidentale condizionato, vanno rigettati i primi sette motivi del ricorso principale ed il secondo motivo del ricorso incidentale; va accolto, per quanto di ragione il primo motivo del ricorso incidentale e va accolto altresì il terzo motivo del ricorso incidentale, con assorbimento del quarto. I residui tre motivi del ricorso principale (ottavo, nono e decimo) restano assorbiti dal parziale accoglimento del primo motivo del ricorso incidentale.

La sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio della causa ad altro giudice, che si designa nella Corte d'appello di Brescia, la quale si atterrà al principio di diritto enunciato al punto 9. che precede quanto all'accertamento dell'esistenza del danno da demansionamento e procederà altresì al calcolo delle retribuzioni da restituire.

Il Giudice del rinvio provvedere anche per le spese del presente processo.

 

PQM

 

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso incidentale condizionato; rigetta i primi sette motivi del ricorso principale ed il secondo motivo del ricorso incidentale; accoglie per quanto di ragione il primo motivo del ricorso incidentale, nonché il terzo motivo del medesimo ricorso incidentale, dichiara assorbiti l'ottavo, nono e decimo motivo del ricorso principale ed il quarto motivo del ricorso incidentale.

Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Brescia.

 

Roma, 4 dicembre 2007 (depositato il 4 febbraio 2008)

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