Cass., sez. lav., 9 settembre 2008, n. 22858
- Pres. Senese - Rel. Cuoco - Ferrante E. (avv. Soccio, Chianese) c.
Capgemini Italia SpA (avv. Prosperetti, Russo, Rolando)
Mobbing -
Nozione e durata - Persecuzioni e discriminazioni rivolte a
dipendente/dirigente – Sussistenza – Risarcimento del danno.
Il mobbing
è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il
lavoratore. Caratterizzano questo comportamento la sua protrazione nel tempo
attraverso una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, anche
intrinsecamente legittimi: Corte cost. 19 dicembre 2003 n. 359; Cass. Sez.
Un. 4 maggio 2004 n. 8438; Cass. 29 settembre 2005 n. 19053; dalla
protrazione il suo carattere di illecito permanente: Cass. Sez. Un. 12
giugno 2006 n. 13537), la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione
ed all'emarginazione del dipendente), e la conseguente lesione, attuata sul
piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico.
Lo
specifico intento che lo sorregge e la sua protrazione nel tempo lo
distinguono da singoli atti illegittimi (quale la mera dequalificazione ex
art. 2103 cod. civ.). Fondamento dell'illegittimità è (in tal senso, anche
Cass. 6 marzo 2006 n. 4774) l'obbligo datoriale, ex art. 2087 cod. civ., di
adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità
morale del prestatore.
Da ciò la
responsabilità del datore anche ove (pur in assenza d'un suo specifico
intento lesivo) il comportamento materiale sia posto in essere da altro
dipendente. Anche se il diretto comportamento in esame è caratterizzato da
uno specifico intento lesivo, la responsabilità del datore (ove il
comportamento sia direttamente riferibile ad altri dipendenti aziendali) può
discendere, attraverso l'art. 2049 cod. civ., da colpevole inerzia nella
rimozione del fatto lesivo (in tale ipotesi esigendosi tuttavia intrinseca
illiceità soggettiva ed oggettiva di tale diretto comportamento - Cass. 4
marzo 2005 n. 4742 - ed il rapporto di occasionalità necessaria fra
l'attività lavorativa e danno subito: Cass. 6 marzo 2008 n. 6033).
Lo spazio
del mobbing, presupponendo necessariamente (nella sua diretta od indiretta
origine) la protrazione d'una volontà lesiva, è pertanto più ristretto di
quello (nel quale tuttavia s'inquadra) delineato dall'art. 2087 cod. civ.,
comprensivo di ogni comportamento datoriale, che può essere anche
istantaneo, e fondato sulla colpa.
Se è vero
che il mobbing non può realizzarsi attraverso una condotta istantanea, è
anche vero che un periodo di sei mesi è più che sufficiente per integrare
l'idoneità lesiva della condotta nel tempo. Né ad escludere la
responsabilità del datore, quando (come nella specie) il mobbing provenga da
un dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla
vittima, può bastare un mero - tardivo - "intervento pacificatore", non
seguito da concrete misure e da vigilanza ed anzi potenzialmente disarmato
di fronte ad un'aperta violazione delle rassicurazioni date dal presunto "mobbizzante”.
Svolgimento
del processo
Con ricorso
al Tribunale di Torino E. F. (che aveva precedentemente esperito in via
d'urgenza due ricorsi: per chiedere il ripristino di pregresse mansioni e
per impugnare un trasferimento), chiese la condanna della CAP G. ITALIA
S.p.a., di cui era dipendente, al pagamento della somma di lire 831.765.996
a titolo di risarcimento dei danni da lei subiti (danno biologico, danno
morale, danno patrimoniale, danno esistenziale) per il comportamento del
datore di lavoro, nella persona del direttore della sede di lavoro dott. P.
G., qualificabile anche come mobbing e costituito da avances sessuali,
minacce, ingiurie, sottrazione di responsabilità lavorative, boicottaggio in
progetti, demansionamento, illegittimo trasferimento; chiese anche che si
accertasse che la sua malattia (causa d'una lunga assenza dal lavoro),
determinata del comportamento aziendale, non era idonea a costituire periodo
di comporto.
Il
Tribunale respinse la domanda della F. e quella della Società (diretta al
risarcimento di danni per lite temeraria). Con sentenza del 29 novembre 2004
la Corte d'Appello di Torino respinse l'impugnazione proposta dalla F. e
l'incidentale impugnazione proposta dalla Società.
Premette il
giudicante che i danni richiesti dalla ricorrente sono causalmente connessi
al preteso mobbing aziendale; che i fatti successivi al ricorso di primo
grado (essersi la F. trovata al rientro dalla malattia senza nulla da fare)
restano estranei alla controversia; e che le pretese molestie sessuali, che
non avevano avuto riscontro nell’istruttoria di primo grado, non sono state
poste a fondamento dell'appello.
Nel merito,
il giudicante ritiene che i fatti, dedotti dalla ricorrente e criticamente
esaminati in sentenza nel loro effettivo svolgersi, non sussistono.
Nel corso
del rapporto la F. si trovò effettivamente a non avere un proprio ufficio né
un armadio: ciò fu tuttavia determinato da fatti contingenti (lo spostamento
degli uffici in altra zona della città), che, egualmente coinvolgendo altri
dipendenti, non costituì per la ricorrente depauperamento della propria
immagine professionale.
In ordine
al progetto "Compete", specificamente assegnato alla F., la mancata
assegnazione di adeguate risorse era stata probabilmente determinata (come
emerso in istruttoria) dal fatto che l'azienda non lo ritenesse strategico;
e la successiva assegnazione del progetto a La Spezia, da un canto atteneva
alla realizzazione (fase successiva alla progettazione, di cui la ricorrente
si era occupata), e d'altro canto rientrava nella strategia aziendale di
spostare i dipendenti su compiti man mano diversi.
Al fondo,
il giudicante ritiene illuminante la testimonianza di Levi (pregresso
manager, particolarmente attendibile anche in quanto escusso quando non era
più dipendente della Società). Attraverso le dichiarazioni del teste il
giudicante deduce che il G. aveva avuto con la F. un comportamento
connaturale al suo carattere, e se ne era scusato; e che non solo non aveva
fatto nulla per danneggiare la dipendente, bensì aveva manifestato la
propria stima nei suoi confronti. Deduce inoltre che la Società "fece di
tutto per trovare all'appellante adeguata collocazione aziendale".
Per la
cassazione di questa sentenza E. F. propone ricorso articolato in 5 motivi;
la CAP G. ITALIA S.p.a. resiste con controricorso, coltivato con memoria.
Motivi
della decisione
1. Con il
primo motivo, denunciando per l'art. 360 nn. 4 e 5 cod. proc. civ.
violazione degli artt. 2103 e 2110 cod. civ. nonché omessa insufficiente e
contraddittoria motivazione, la ricorrente sostiene che
1.a.
erroneamente ritenendo che fosse stata effettuata solo ai fini
dell'individuazione del mobbing, il giudicante non si è pronunciato sulla
domanda di reintegrazione nella sede e nelle mansioni svolte (formulata con
il ricorso di urgenza, con il ricorso di primo grado ed in appello);
egualmente, per quanto attiene alla domanda relativa all'esclusione del
periodo di malattia dal termine di comporto;
1.b. ciò
costituiva violazione del principio della corrispondenza fra chiesto e
pronunciato, e determinava omessa pronuncia su domanda della ricorrente.
2. Con il
secondo motivo, denunciando per l'art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.
violazione e falsa applicazione "di norme di diritto in punto di mobbing"
nonché omessa insufficiente e contraddittoria motivazione, la ricorrente
sostiene che
2.a.
"nell'accertare la violazione di diritto, la Corte di Cassazione deve
applicare d'ufficio il diritto vigente, e se questo si è modificato, deve
applicare lo jus superveniens ovvero tener conto delle decisioni della Corte
costituzionale";
2.b. la
nozione di mobbing ha avuto un'evoluzione nel pensiero giurisprudenziale
(della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione), di cui il
giudicante non ha tenuto conto;
2.c. "anche
atti di per sé leciti o comunque insindacabili dal giudice, se inseriti in
un contesto più ampio, caratterizzato da quella complessiva condotta avente
come effetto la persecuzione e l'emarginazione del lavoratore, costituiscono
mobbing, e, considerati nella loro riconduzione a sistema, sono fonte di
responsabilità civile".
3. Con il
terzo motivo, denunciando per l’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. omessa
insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione alla fattispecie
mobbing, la ricorrente sostiene che
3.a. il
giudicante non aveva tenuto integralmente conto della testimonianza del
Gatti; questi aveva dichiarato che era stato il G. a dirgli di collocare, a
seguito del trasferimento, la F. nello spazio hoteling; quivi la F., a
differenza degli altri dipendenti che lavoravano abitualmente in sede, non
aveva una scrivania fissa, né un armadio (i suoi documenti erano tutti
accatastati), ed era sistemata in una zona priva di finestre, e riservata ai
dipendenti che lavoravano all'esterno; aveva inoltre dichiarato che, pur
avendo egli assegnato alla F., in un secondo momento, altra collocazione, il
G. disse che la signora doveva tornare al posto dove si trovava prima;
3.b. in tal
modo la F., responsabile d'un progetto a rilevanza europea, veniva
d'improvviso costretta a riporre i documenti, spesso riservati, relativi a
tale progetto, in scatoloni per così dire di fortuna, conservati al di sotto
di scrivanie rotanti, che potevano essere assegnate giornalmente ad
impiegati diversi;
3.c. a
differenza di quanto affermato dalla recente elaborazione giurisprudenziale
la quale esige la valutazione complessiva dei fatti mobbizzanti, le
circostanze dedotte dalla ricorrente "erano state considerate singolarmente,
assumendo nella decisione e nella motivazione del giudice esclusivamente
rilevanza autonoma, ossia in sé e per sé considerate": né il giudicante
aveva motivato questa valutazione;
3.d.
egualmente è a dirsi per la mancata assegnazione di risorse al progetto
“Compete”, assegnato alla F.; per l'attuazione di questo progetto alla F.
erano necessarie altre risorse; e fin quando ella ne era responsabile, al
progetto le risorse non furono destinate; egualmente per il fatto di averle
negato il corso di lingua inglese (necessario per partecipare ad incontri
con colleghi stranieri); ciò emergeva dalle testimonianze del B. e del G.,
che il giudicante aveva immotivatamente omesso di esaminare e valutare;
3.e.
egualmente significativa era stata poi la rimozione della F. dall'incarico
“Compete”, per il fatto in sé, nonché per la repentinità e le modalità della
relativa attuazione (con trasferimento della F. a La Spezia, per coadiuvare
la dipendente cui - con la sua rimozione - il progetto era stato affidato, e
pur non essendo ella un tecnico addetto alla fase esecutiva);
3.f. il non
aver inserito questi fatti nel contesto "dinamico evolutivo del mobbing"
aveva condotto il giudicante ad una "rappresentazione parziale della
realtà".
4. Con il
quarto motivo, denunciando per l'art. 360 n. 5 cod. proc. civ. omessa
insufficiente e contraddittoria motivazione, la ricorrente sostiene che la
sentenza, pur ripetutamente esponendo elementi favorevoli alla F. (la sua
indebita collocazione nell'area hoteling, in cui erano sistemati solo gli
esterni; il suo trasferimento a La Spezia pur non essendo ella addetta alla
fase esecutiva), non deduce le necessarie conseguenze.
5. Con il
quinto motivo, denunciando per l'art. 360 n. 5 cod. proc. civ. omessa
insufficiente e contraddittoria motivazione, la ricorrente sostiene che
5.a.
l'individuazione del tempo necessario a determinare il mobbing è un
procedimento logico complesso, in cui è necessario considerare l'ambiente
socio - culturale in cui il conflitto si svolge, le reazioni psicologiche
del mobbizzato e lo specifico lavoro svolto;
5.b. il
giudicante aveva semplicisticamente ed immotivatamente ritenuto che la
protrazione del comportamento nel periodo di sei mesi (in cui la F. lo aveva
subito) non fosse sufficiente a concretizzare il mobbing.
6. Con il
sesto motivo, denunciando per l'art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.
violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 e 2087 e 2103 cod.
civ., degli artt. 2 e 32 e 41 Cost. e dell'art. 185 cod. pen. nonché omessa
ed insufficiente motivazione, la ricorrente sostiene che
6.a. ella
aveva chiesto il risarcimento del danno nei suoi molteplici aspetti: danno
patrimoniale in senso stretto, danno biologico, danno morale, danno
esistenziale, danno alla professionalità, alla dignità ed all'immagine
professionale e sociale, danno alla vita di relazione, danno conseguente
alla perdita di chanches lavorative;
6.b. la
domanda di risarcimento era stata "prospettata sin dal primo grado anche
come sganciata ed autonoma rispetto alla figura onnicomprensiva di mobbing,
e basata sulle disposizioni degli artt. 2043, 2087 e 2103 cod. civ., nonché
degli artt. 2 e 32 Cost. e degli artt. 185 cod. pen. e 2059 cod. civ.;
6.c. la
sentenza aveva ricollegato i lamentati danni esclusivamente a fatti
qualificati come mobbing, immotivatamente omettendo "di valutare che ogni
singolo comportamento rilevato integrasse gli estremi del danno biologico o
morale od alla vita di relazione così come richiesto";
6.d in
particolare, il giudice di merito avrebbe dovuto esaminare la documentazione
medica e le perizie medico - legali prodotte dalla ricorrente, eventualmente
disponendo ulteriori mezzi istruttori.
7. I
motivi del ricorso, che essendo interconnessi devono essere esaminati
congiuntamente, sono fondati.
La sentenza
impugnata considera i fatti dedotti dalla ricorrente quale espressione del
mobbing.
8. Su un
piano generale è da osservare quanto segue.
8.a. Il
mobbing (come espressamente dedotto e prospettato dalla ricorrente) è
costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il
lavoratore.
Caratterizzano questo comportamento la sua protrazione nel tempo attraverso
una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, anche
intrinsecamente legittimi: Corte cost. 19 dicembre 2003 n. 359; Cass. Sez.
Un. 4 maggio 2004 n. 8438; Cass. 29 settembre 2005 n. 19053; dalla
protrazione, il suo carattere di illecito permanente: Cass. Sez. Un. 12
giugno 2006 n. 13537), la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione
od all'emarginazione del dipendente), e la conseguente lesione, attuata sul
piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico.
Lo
specifico intento che lo sorregge e la sua protrazione nel tempo lo
distinguono da singoli atti illegittimi (quale la mera dequalificazione ex
art. 2103 cod. civ.).
Fondamento
dell'illegittimità è (in tal senso, anche Cass. 6 marzo 2006 n. 4774)
l'obbligo datoriale, ex art. 2087 cod. civ., di adottare le misure
necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del
prestatore.
Da ciò, la
responsabilità del datore anche ove (pur in assenza d'un suo specifico
intento lesivo) il comportamento materiale sia posto in essere da altro
dipendente. Anche se il diretto comportamento in esame è caratterizzato da
uno specifico intento lesivo, la responsabilità del datore (ove il
comportamento sia direttamente riferibile ad altri dipendenti aziendali) può
discendere, attraverso l'art. 2049 cod. civ., da colpevole inerzia nella
rimozione del fatto lesivo (in tale ipotesi esigendosi tuttavia l'intrinseca
illiceità soggettiva ed oggettiva di tale diretto comportamento - Cass. 4
marzo 2005 n. 4742 - ed il rapporto di occasionalità necessaria fra attività
lavorativa e danno subito: Cass. 6 marzo 2008 n. 6033).
8.b. Lo
spazio del mobbing, presupponendo necessariamente (nella sua diretta od
indiretta origine) la protrazione d'una volontà lesiva, è pertanto più
ristretto di quello (nel quale tuttavia s'inquadra) delineato dall'art. 2087
cod. civ., comprensivo di ogni comportamento datoriale, che può essere anche
istantaneo, e fondato sulla colpa.
8.c. Avendo
fondamento nell'art. 2087 cod. civ., l’astratta configurazione del mobbing
costituisce la specificazione della clausola generale contenuta in questa
disposizione.
Da ciò
discende che
- come
specificazione, il mobbing è parte integrante della disposizione di legge da
cui trae origine, di questa in tal modo assumendo giuridica natura;
- per tale
natura, la sua formulazione è funzione di legittimità (funzione riservata al
giudice di merito - ed esclusa dalla sede di legittimità è solo
l'accertamento dell'esistenza - o -dell'inesistenza - del fatto materiale da
ricondurre poi al modulo normativo);
- funzione
di legittimità è anche la sussunzione del fatto (come accertato) nel modulo
normativo;
- nella
relativa inosservanza, la specificazione della clausola generale è
deducibile (attraverso l'art. 360 n. 3 cod. proc. civ.) in sede di
legittimità.
8.d. Per la
natura (anche legittima) dei singoli episodi e per la protrazione del
comportamento nel tempo nonché per l'unitarietà dell'intento lesivo, è
necessario che da un canto si dia rilievo ad ogni singolo elemento in cui il
comportamento si manifesta (assumendo rilievo anche la soggettiva
angolazione del comportamento, come costruito e destinato ad essere
percepito dal lavoratore).
D'altro
canto, è necessario che i singoli elementi siano poi oggetto d'una
valutazione non limitata al piano atomistico, bensì elevata al fatto nella
sua articolata complessità e nella sua strutturale unitarietà.
8. e. In
questo quadro assume rilievo anche la Legge 10 aprile 1991 n. 125, come
modificata dal Decreto Legislativo 30 maggio 2005 n. 145, ed in particolare
l'art. 4 comma 2 ter, quale disposizione ricognitiva e specificativa di più
generiche norme.
9. Nel caso
in esame (ed esternamente allo spazio della discrezionalità aziendale, che
caratterizza l'affidamento delle specifiche mansioni e la distribuzione
delle singole collocazioni aziendali), alcuni elementi dedotti dalla F. (ed
autosufficientemente riportati in ricorso) dal giudicante non sono stati
esaminati, ovvero, pur accertati, non sono stati valutati per dedurre (o pur
negativamente escludere) la relativa rilevanza ai fini della domanda:
9.a. il
fatto che, a seguito del “trasferimento di ufficio", la F. (dirigente cui
era stato assegnato il progetto ‘Compete’, che ella -senza contestazione -
sostiene essere "di rilevanza europea") era stata inserita "in un'area
operativa che non era quella degli dirigenti, e privata di “una propria
scrivania ed un proprio armadio" ("tant'è che i documenti riguardanti il
progetto Compete si trovavano in scatoloni accatastati vicino alla scrivania
da lei usata": sentenza, p. 8);
9.b. il
disagio (ritenuto dalla stessa sentenza) della F., che "si era mostrata
imbarazzata" per lo svolgimento d'una "riunione relativa al progetto Compete
che richiedeva riservatezza" (e solo a seguito di ciò la riunione "si tenne
comunque in un locale apposito messo a disposizione");
9.c.
l'iniziativa del G., il quale, pur essendo il Gatti responsabile della
suddivisione degli spazi, ebbe a dire espressamente che la ricorrente doveva
essere collocata nello spazio hoteling open; ed il fatto che
successivamente, poiché il Gatti, essendosi liberata una scrivania, aveva
invitato la ricorrente a prendervi posto,: il G. quello stesso giorno disse
che la signora doveva tornare al posto dove si trovava (testimonianza del
Gatti, come riportata in ricorso);
9.d. il
disagio lamentato dalla F. al Levi, per la sua collocazione aziendale, per
la reiterata (ed insoddisfatta) richiesta di risorse necessarie al suo
progetto, per “l’essere stata ostacolata" nel lavoro, per gli "insulti
ricevuti anche in pubblico" (sentenza, pp. 11, 12);
9.e. le
"frasi a dir poco deprecabili" pronunciate dal G. ("personaggio abituato a
battute grossolane"), "e che mai un superiore gerarchico dovrebbe profferire
nei confronti d'un sottoposto" e rivolte alla F. ("Mi hai rotto i coglioni,
hai capito brutta stronza che devi fare quello che dico io"); e le parole
rivolte al Gatti, "che lavorava in ginocchio presso la scrivania della F."
("E' inutile che t'inginocchi, tanto non te la dà"): espressioni poste in
evidenza dalla stessa sentenza;
9.f. la
qualificazione ("gravi") che il teste Levi (sul quale il giudicante fonda la
decisione) dà dei comportamenti del G. e che lo stesso G. gli aveva
riferito;
9.g. il
giudizio dello stesso Levi (che aveva la "funzione di supportare e difendere
comunque i capi - progetto", che a lui facevano riferimento: sentenza, p.
13) sull'attività della F. ("andava in quel momento particolarmente
seguita", con il "fornire le dotazioni necessarie"; "se si trattava di
trovare altre persone da dedicare a ‘Compete’, occorreva o dislocare risorse
già interne o procedere a nuove assunzioni"), e la sua decisione di "fissare
periodiche riunioni nel corso delle quali verificare lo stato di avanzamento
dei lavori";
9.h. il
fatto che il G. (il 30 giugno 2000) aveva garantito al Levi "che la signora
sarebbe rimasta al progetto e che lui l'avrebbe supportata pienamente", ed
breve distanza di tempo (nel luglio 2000) rimosse la F. dalla responsabilità
del progetto ‘Compete’; la "contrarietà" e la sorpresa del Levi per le
"valutazioni completamente diverse", espresse undici giorni prima dal G.
(sentenza, p. 13);
9.i. la
contraddittorietà delle (pur ritenute) valutazioni del G., che "non credeva"
in un progetto di cui tuttavia da tempo la F. era responsabile, e che poi
garantì di "supportare" il progetto stesso, e che poi rimosse la F.
affidando ad altri ed in altra sede l'esecuzione del progetto stesso.
10. Di
questi elementi il giudicante non ha poi costruito alcuna connessione nel
quadro di un unitario comportamento, al fine di darne una complessiva
unitaria valutazione.
Ciò, anche
dall'angolazione soggettiva, quale (pur come mera negazione del) deliberato
intento lesivo (da parte del dipendente aziendale) e (pur) colposa inerzia
datoriale.
11. Il
giudicante non ha poi valutato i singoli fatti, per accertare (pur al solo
fine di negarla) la lamentata (pretesa) illegittimità del loro specifico
contenuto.
12. D'altro
canto, fondata è anche la censura che la ricorrente muove all'affermazione
della Corte d'Appello secondo cui "il periodo febbraio - luglio ... pare
troppo esiguo per la concretizzazione d'un processo di mobbing" (sentenza,
p. 10).
Se è vero,
infatti, che il mobbing non può realizzarsi attraverso una condotta
istantanea, è anche vero che un periodo di sei mesi è più che sufficiente
per integrare l'idoneità lesiva della condotta nel tempo.
Né ad
escludere la responsabilità del datore, quando (come nella specie) il
mobbing provenga da un dipendente posto in posizione di supremazia
gerarchica rispetto alla vittima, può bastare un mero - tardivo -intervento
"pacificatore" (come quello che la sentenza impugnata attribuisce al Levi),
non seguito da concrete misure e da vigilanza ed anzi potenzialmente
disarmato di fronte ad un'aperta violazione delle rassicurazioni date dal
presunto "mobbizzante" (cfr. deposizione Levi, sentenza pag. 13: "rimasi
molto contrariato da questo suo cambiamento, anche perché 11 giorni prima mi
aveva espresso valutazioni completamente diverse").
13. Il
ricorso deve essere accolto. E la causa deve essere rinviata a contiguo
giudice di merito, che applicherà gli indicati principi (come specificati
sub "8. " e sub "12."), ed accerterà e valuterà quanto dedotto dalla
ricorrente, (e precedentemente indicato sub "9. "), nel contempo esaminando,
nel quadro della corretta valutazione ex art. 2103 e 2110 cod. civ del cui
omesso esame la ricorrente si duole nel primo motivo, e provvedendo anche
alla disciplina delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il
ricorso; cassa la sentenza impugnata; rinvia alla Corte d’Appello di Genova,
anche per le spese del giudizio di legittimità.
Nota
La sentenza
cassata dalla Suprema corte è Corte d’appello di Torino 19 novembre 2004
(Pres. Peyron – Est. Ramella Trafighet) che nel nostro volume “Danni da
mobbing e loro risarcibilità” (Ediesse 2006, p. 75), avevamo riassunto sotto
il paragrafo “Due esempi di sentenze negatrici del mobbing” (in quanto
facente il paio con Trib. Bari 12 marzo 2004, est. Rubino) e ad entrambe
avevamo destinato un meditato commento critico.
La sentenza
ora cassata è leggibile qui
mentre Trib. Bari (non appellata dal soccombente) è leggibile
qui.
Al sunto ed alla massima secondo cui: «Non sono
ravvisabili gli estremi del "mobbing" allorquando il lavoratore fondi la sua
domanda risarcitoria su comportamenti rientranti nella discrezionalità
imprenditoriale, quindi insindacabili in sede giudiziaria, e quando il
periodo temporale cui si riferiscono gli stessi risulti essere troppo esiguo
per consentire il concretizzarsi di un processo patologico a danno del
dipendente», seguiva il seguente nostro cauto commento: «La
due sentenze (Trib. Bari 12.3.2004 e C. App. Torino 19.11.2004) meritano –
nonostante le nostre considerazioni critiche alla prima e le indubbie
perplessità che ci ha suscitato la seconda
- di essere meditate da coloro che si ripropongono di azionare in giudizio
comportamenti aziendali o manageriali mobbizzanti,
non potendosi escludere in astratto (prevalentemente) ed in concreto
(quantunque raramente) che esistano lavoratori che abbiano maturato la
convinzione dell’essere vittime di mobbing in quanto hanno individualmente
riposto eccessive aspettative nella mutevole realtà organizzativa aziendale
e in una attesa (ma non sempre giuridicamente esigibile) correttezza
gestionale delle imprese e dei loro manager nonché nella stessa comunità dei
colleghi (sovente omertosi, se chiamati a testimoniare e piuttosto
disponibili, per evitare ritorsioni aziendali, ad essere compiacenti verso
le tesi di chi continua loro ad assicurare il pane quotidiano). Né va
taciuto che ad insuccessi giudiziari conducono poi i presunti o reali
mobbizzati, sia le sopra citate difficoltà od imprevisti, sia le loro
carenze sul versante processuale per debole assolvimento dei pesanti oneri
probatori a carico dei ricorrenti, non adeguatamente supportati da attese
testimonianze, sovente fonte di delusioni cocenti da parte di coloro con cui
si ritiene di aver intrattenuto buoni rapporti di amicizia e che alla prova
dei fatti si rivelano solo pseudo-colleghi. Evenienze tutte quante che
confermano la difficoltà ed i rischi connessi all’azionamento in giudizio di
una rivendicazione per “mobbing” e che impongono cautela e meditazione
preventiva».
Ora la
Cassazione, confermando le nostre intuizioni, ha fatto autorevolmente
giustizia.