Riscontro
del demansionamento: obbligo di risarcimento danno in via presuntiva
Cass., sez. lav., 16
febbraio 2012, n. 2257-Pres. Amoroso- Rel. Nobile
Vizio di motivazione - Riscontro
in via presuntiva di avvenuta dequalificazione non indennizzata.
La Corte di merito (che pure
ha richiamato le pronunce delle Sezioni Unite n. 6572/2006 e 26972/2008) in
sostanza non solo ha rilevato il “carattere illecito del demansionamento
subito dal L. , bensì ha altresì chiaramente accertato, con ampia
motivazione in fatto, che per effetto della variazione di mansioni il L.
aveva “subito una perdita rilevante sia sul piano dell’autonomia e rilevanza
delle proprie incombenze sia del potere di coordinamento, ossia dei tratti
qualificanti che caratterizzano la professionalità del lavoratore di secondo
livello”.
Ciò nonostante, e pur a fronte della riscontrata “rilevanza di tale
perdita”, la Corte ha respinto la domanda risarcitoria senza considerare che
gli elementi di fatto emersi (a cominciare dalla prolungata e sistematica
adibizione a mansioni nettamente inferiori, nel concreto ambiente di lavoro
e nelle circostanze emerse) ben potevano essere valutati ai fini della prova
presuntiva del danno alla dignità e professionalità lamentato dal L.
Così facendo la sentenza impugnata, in sostanza, nel contempo ha disatteso i
principi sopra richiamati ed è incorsa nel vizio di motivazione denunciato,
nulla avendo detto in merito alla prova presuntiva del danno, sulla quale,
invece, era stata fondata le decisione di primo grado.
L'impugnata sentenza va, infine cassata, in relazione ai motivi accolti, con
rinvio alla Corte di Appello di Cagliari in diversa composizione, la quale
provvederà sulla domanda risarcitoria del danno da demansionamento
applicando i principi e le indicazioni di cui sopra e statuirà anche sulle
spese di legittimità.
Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale
di Cagliari depositato il 26-4-2004 G.L. responsabile di reparto di
macelleria di supermercato C. in Cagliari alla via (…), inquadrato nel
secondo livello del ccnl Commercio sin dal novembre 1999, convenne in
giudizio la S. s.r.l., subentrata alla T. s.r.l esponendo che la società,
con riferimento ad una sua domanda di trasferimento presso il supermercato
C. di Capoterra, da lui proposta nell’erroneo convincimento che quest’ultimo
appartenesse alla T. gli aveva comunicato di prendere atto delle sue
dimissioni con decorrenza dal 25- 4-2003 e che, contestualmente, un’altra
società A. lo aveva invitato a prendere servizio presso il supermercato di
Capoterra. Il ricorrente aggiungeva che in via cautelativa aveva preso
servizio in Capoterra dal 26-4-2003, impugnando nel contempo il
“licenziamento” comunicatogli dalla T., non avendo egli giammai presentato
le dimissioni e che, in risposta, la T. gli aveva comunicato la sua
riassunzione dal 26-5-2003. Lamentava, quindi, che, ripreso servizio nel
supermercato di via dei (…), aveva trovato il suo posto di responsabile
della macelleria occupato da altro dipendente. essendo così adibito a
compiti di semplice commesso, e che, inoltre, era stato oggetto di una serie
di condotte vessatorie (quali: l’eliminazione dello straordinario
forfetizzato, la progressiva emarginazione dall’ambiente di lavoro,
verosimilmente preordinata ad indurlo a rassegnare le dimissioni in quanto
dipendente “scomodo”, perché fruitore di permessi ex
I. n. 104 del 1992,
la applicazione della sanzione del richiamo scritto per essersi egli
rifiutato di andare a lavorare nell’agosto 2003 in altro punto vendita
sebbene non vi fosse tenuto ex art. 33 della citata legge n. 104.
Tutto ciò premesso, il ricorrente chiese, previo accertamento
dell’illegittimità del licenziamento, la condanna della convenuta al
versamento dell’indennità prevista dall’art. 18 della
legge n. 300/1970 ed al pagamento dello straordinario forfetizzato
maturato dal giugno 2003, chiese inoltre che fosse ordinata alla società la
sua assegnazione a mansioni proprie del secondo livello e la cessazione dei
comportamenti vessatori e ritorsivi, con la condanna della convenuta al
risarcimento dei danni e con l’annullamento della sanzione disciplinare
irrogata.
La S. s.r.l, si costituì
contestando la fondatezza delle domande e chiedendo il rigetto delle stesse.
In particolare la società
deduceva che il L. ben sapeva che il supermercato di Capoterra apparteneva
all’A s.r.l. (essendo il cognato unico socio della stessa), che la domanda
di trasferimento era stata intesa come dimissioni considerata la posizione
del L. che abitava in Capoterra, che comunque il lavoratore non aveva subito
alcun danno essendo stato senza soluzione di continuità dapprima assunto
alle medesime condizioni dalla A. e poi, a seguito della impugnazione,
riammesso in servizio nel supermercato di via (…).
Circa poi il lamentato
demansionamento la società deduceva che, al suo rientro, non era stato
possibile riassegnare al L. il ruolo di responsabile della macelleria sia in
quanto lo stesso era stato ormai ricoperto stabilmente da altro dipendente
sia perché il L. aveva richiesto espressamente di lavorare solo la mattina e
non nei giorni festivi a causa della necessità di prestare assistenza ai
figli.
La convenuta rilevava inoltre
che la mancata effettuazione di lavoro straordinario aveva comportato il
mancato riconoscimento del compenso per lo straordinario forfetizzato e che
la sanzione disciplinare era stata giustificata dal rifiuto di un semplice
distacco di pochi giorni, per sostituire un collega in ferie.
In un punto vendita a pochi
centinaia di metri da via dei (…). Il Giudice adito, con sentenza depositata
il 28-12-2007, in parziale accoglimento del ricorso, dichiarava illegittimo
il licenziamento e condannava la società al pagamento di un’indennità di
euro 12.298,55, pari a cinque mensilità, con rivalutazione e interessi;
dichiarava altresì illecito il demasionamento subito dal 26-5-2003
condannando la società a reintegrare il L. nelle mansioni di caporeparto o
in altre equivalenti nonché al risarcimento del danno commisurato ad euro
250 per ciascuna mensilità, ivi compresa la 13a e la 14a, dal giugno 2003
fino all’effettiva reintegrazione, oltre accessori; dichiarava inoltre la
convenuta tenuta al ripristino dell’ indennità di straordinario forfetizzala
e condannava la stessa al pagamento dei ratei dal giugno 2003 oltre
accessori.
Avverso tale sentenza la M.
s.r.l. (già S. s.r.l.) proponeva appello chiedendone la riforma con il
rigetto delle domande di controparte. ll L. si costituiva e resisteva al
gravame.
La Corte d’Appello di
Cagliari, con sentenza depositata il 25-5-2009, confermava la statuizione
della declaratoria di illiceità del demansionamento e della condanna della
convenuta alla reintegra del L. nelle mansioni di caporeparto o altre
equivalenti, e in parziale riforma della pronuncia di primo grado, rigettava
tutte le altre domande.
In sintesi la Corte
territoriale affermava che, dalla corrispondenza intercorsa tra le parti e
dagli altri elementi emersi, era risultato che nella nota dell’aprile del
2003 non si rinveniva un atto di licenziamento bensì una ritenuta adesione
del datore di lavoro, in assenza di colpa, ad una proposta di risoluzione
consensuale del rapporto di lavoro del lavoratore, poi prontamente revocata
dalla T. a seguito della opposizione del L., con ripristino delle originarie
condizioni contrattuali e senza realizzazione di alcun danno”.
La Corte di merito, invece,
riteneva confermato il lamentato demansionamento non potendo, in sostanza,
essere ritenute le nuove mansioni equivalenti a quelle in precedenza
disimpegnate per circa quattro anni 11 qualità di responsabile della
macelleria, ma rigettava, per mancanza di specifiche allegazioni, la domanda
risarcitoria sugli asseriti ed imprecisati danni patrimoniali e non
patrimoniali lamentati”.
Infine la Corte territoriale
rigettava la domanda relativa allo straordinario forfetizzato.
Per la cassazione di tale
sentenza il L. ha proposto ricorso con sei motivi. La M. s.r.l. (già S.
s.r.l., già T. s.r.l.) ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno
depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Con il primo motivo,
denunciando violazione degli artt. 1324. 1362. 1363. 1366, 1369, 1371. e
2118 c.c., il ricorrente deduce che erroneamente ed in violazione delle
disposizioni di ermeneutica negoziale, la Corte di merito avrebbe
interpretato la lettera 14-3-2003 del L. (contenente “una richiesta scritta
del lavoratore di trasferimento” ad un punto vendita non appartenente al
datore di lavoro ma ad un soggetto terzo che utilizza lo stesso marchio e la
stessa insegna”) come “una manifestazione di dimissioni condizionate
all’instaurazione di un rapporto di lavoro con altro datore, nonostante la
volontà di dimettersi non emerga dal testo della richiesta scritta e
nonostante possa ravvisarsi un’ interpretazione alternativa e meno gravosa
per l’istante, quale quella di trasferimento richiesto sul presupposto
erroneo di appartenenza di entrambe le sedi al medesimo datore di lavoro
ovvero quella di distacco del lavoratore presso altro datore di lavoro”.
Con il secondo motivo,
denunciando violazione degli artt. 116, 2727 e 2729 c.c., il ricorrente
lamenta che la Corte territoriale avrebbe disatteso le regole sulla
valutazione delle prove ed in specie sulle presunzioni, nel ritenere che il
lavoratore ben sapesse che il “trasferimento” veniva richiesto presso un
nuovo datore di lavoro”, sulla base di circostanze non univoche (la
indicazione del marchio e non del datore di lavoro come destinatario della
richiesta, l’essere il L. cognato del socio unico della società presso cui
viene chiesto il “trasferimento”, l’essere il lavoratore un capo reparto
inquadrato nel I livello del ccnl Commercio, l’avere lo stesso atteso alcuni
giorni prima di reagire contro il telegramma che lo invitava a prendere
servizio presso il nuovo datore). Con il terzo motivo il ricorrente denuncia
vizio di motivazione in ordine alla valutazione delle prove circa la sua
consapevolezza che la T. s.r.l. non fosse titolare del punto vendita in
Capoterra, via (…)
I detti tre motivi, che in
quanto strettamente connessi possono essere trattati congiuntamente,
risultano in parte inammissibili e in parte infondati.
Come ripetutamente è stato
affermato da questa Corte e va qui ribadito la valutazione degli elementi
probatori è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non
sindacabile in cassazione e non sotto il profilo della congruità della
motivazione del relativo apprezzamento” (v. fra le altre Cass. 13-1-2003 n.
322. Cass. 17-11-2005 n. 23286. Cass. 18-5-2006 0.11660), nel contempo è
stato anche più volte affermato che “il controllo di logicità del giudizio
di fatto, consentito dall’ art. 360 n. 5 c.p.c. non equivale alla revisione
del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice
del merito ad una determinata soluzione della questione e esaminata, posto
che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di
fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione,
contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di
legittimità ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio
di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un
nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma propria valutazione delle
risultanze degli atti di causa” (v., fra le altre, da ultimo Cass. 7-6-2005
n. 11789, Cass. 6-3-2006 Il. 4766).
Peraltro, come pure è stato precisato. “in tema di valutazione delle
risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del
giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile,
in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di
cui all’art. 360, primo comma n. 5), cod. proc. civ., e deve emergere
direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di
causa, inammissibile in sede di legittimità” (v. fra le altre Cass. sez. II
20-6-2006 n. 14267). In particolare, poi, è stato anche chiarito che “in
tema di prova presuntiva, e incensurabile in sede di legittimità
l’apprezzamento del giudice di merito circa la valutazione della ricorrenza
dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per
valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, sempre che la
motivazione adottata appaia congrua dal punto di vista logico, immune da
errori di diritto e rispettosa dei principi che regolano la prova per
presunzioni” (v. fra le altre Cass. 20-7-2006 n. 16728. Cass. 23-1- 2006 n.
1216).
Parimenti, con riguardo
all’interpretazione degli atti di autonomia privata, questa Corte ha
costantemente affermato che la stessa costituisce una attività riservata al
giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per
violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di
motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè
tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per
giungere alla decisione. Ai fini della censura di violazione dei canoni
ermeneutica, non è peraltro sufficiente l ‘astratto riferimento alle regole
legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in
concreto violati. con la precisazione del modo e delle considerazioni
attraverso i quali il giudice se ne è discostato.” “La denuncia del vizio di
motivazione dev’essere invece effettuata mediante la precisa indicazione
delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti
nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al
senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di
coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale
degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento
logico svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni
caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non ènecessario che quella
data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in
astratto, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più
interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto
l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del
fatto che ne sia stata privilegiata un’altra” (v. Cass. sez. 1 22-2-2007 n.
4178, Cass. sez. I 7-3-2007 n. 5273.Cass. sez. III 12-7-2007 n. 15604).
Orbene, nella fattispecie, va
in primo luogo evidenziato che la sentenza impugnata, dopo aver attentamente
esaminato e valutato tutta la corrispondenza intercorsa tra le parti e gli
altri elementi di fatto emersi, ha affermato che nella nota dell’aprile 2003
non si rinveniva un atto di
licenziamento bensì “una ritenuta adesione del datore di lavoro, in assenza
di colpa, ad una proposta di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro
del lavoratore, poi prontamente revocata dalla T., a seguito della
opposizione del L. In sostanza si era trattato non di licenziamento (e
neppure di dimissioni condizionate) bensì di una risoluzione concordata,
effettuata su richiesta del
lavoratore, “con passaggio diretto e con accordo plurilaterale a tre di
costituzione di un nuovo rapporto di lavoro previa estinzione del
precedente”.
Tale ricostruzione dei fatti e
tale interpretazione degli atti delle parti è sorretta da congrua
motivazione e resiste alle censure del ricorrente, che in sostanza si limita
semplicemente ad offrire una diversa lettura (”possibile”) degli atti e dei
fatti stessi, senza che vengano specificati concretamente gli errori di
diritto e i vizi logici nei quali la Corte di merito sarebbe incorsa.
In particolare, poi, sul primo
motivo va osservato che il ricorrente da un lato ripropone la propria
interpretazione della richiesta di “trasferimento”, insistendo su tale
elemento letterale, dall’altro, contraddittoriamente e inammissibilmente,
offre una lettura dell’atto nuova, nel senso della richiesta di un
“distacco”, su cui peraltro non vi è traccia nell’ impugnata sentenza e
manca in ricorso qualsiasi indicazione specifica in ordine all’avvenuta
deduzione davanti ai giudici di merito (v. Cass. 15-2-2003 n. 2331. Cass.
10-7-2001 n. 9336).
Con il secondo e con il terzo
motivo, inoltre si assume, in sostanza, la non univocità delle circostanze
poste a base della presunzione evidenziata (circa la consapevolezza della
diversità del datore di lavoro in capo al lavoratore richiedente il
“trasferimento”), senza in effetti in alcun modo specificare, in concreto né
l’errore di diritto, né iI vizio di motivazione, rispettivamente denunciati.
D’altra parte la motivazione
dell’impugnata sentenza, sul punto risulta del tutto logica e rispettosa dei
principi della prova per presunzioni.
Con il quarto motivo,
denunciando violazione degli art. 2103. 1218. 1226. 2087.2043. 2697, 2727,
2729 c.c. e 432 c.p.c., il ricorrente in sostanza lamenta che la Corte
territoriale ha riformato la pronuncia di primo grado relativamente alla
condanna al risarcimento del danno da demansionamento, nonostante che la
stessa sentenza di appello “abbia riconosciuto con ampia motivazione la
sussistenza del dernansionamento, prolungato nel tempo e la considerevole
perdita di autonomia e del coordinamento”.
In particolare il ricorrente
deduce che, in forza del ricorso alla prova per presunzioni, trattandosi
nella fattispecie di un “caso di protratto demansionamento, con adibizione
molto lunga a mansioni inferiori di oltre un livello della classificazione
contrattuale” in ambiente di lavoro ampio, ben poteva ritenersi, come
affermato dal primo giudice, che si era verificato un danno alla dignità
professionale ovvero all’ immagine del lavoratore (quand’ anche non vi fosse
stato un danno alla carriera o non fosse ravvisabile un danno “biologico”).
Peraltro, parimenti in base agli stessi elementi presuntivi ben poteva
ritenersi provato un danno morale, pur in assenza di reato.
Con il quinto motivo il
ricorrente denuncia vizio di motivazione al riguardo, in sostanza lamentando
che la sentenza impugnata “pur riconoscendo il demansionamento prolungato
(circa quattro anni) rilevante (da capo reparto a addetto, con
subordinazione gerarchica ad altro capo reparto) e palese (dinanzi ad almeno
altri tre colleghi del reparto macelleria, oltre il capo reparto
effettivo)”, ha escluso il diritto al risarcimento del danno.
Su tali motivi, strettamente
connessi, osserva il Collegio che, come affermato dalle Sezioni Unite di
questa Suprema Corte (v. Cass. S.U. 24-3- 2006 n. 6572), “in tema di
demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del
lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o
esistenziale, che asseritamene ne deriva - non ricorrendo automaticamente in
tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una
specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e
sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del
danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità
psico-fìsica medicaImente accertabile, il danno esistenziale - da intendere
come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma
oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che
alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a
scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua
personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi
consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova
per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi
dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed
all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione
di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale,
eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti
l’avvenuta lesione dell’ interesse relazionale, effetti negati i dispiegati
nelle abitudini di vita del oggetto) - il cui artificioso isolamento si
risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un
prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia
all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 cod. proc.
civ .. a quelle nozioni generali derivanti dall’ esperienza, delle quali si
serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove”.
Tale principio è stato in
sostanza confermato anche nel quadro generale della accezione unitaria del
danno non patrimoniale successivamente tracciata dalle stesse Sezioni Unite
(v. Cass. S.U. 11-11-2008 n. 26972). In specie Cass. 19-12-2008 11. 29832 ha
affermato che “ogni pregiudizio, di natura non meramente emotiva ed
interiore, ma oggettivamente accertabile provocato sul fare reddituale del
soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri
inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione
della sua personalità nel mondo esterno, va dimostrato in giudizio con tutti
i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la
prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi
elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità
all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata
dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di
progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di
vita del oggetto) si possa attraverso un prudente apprezzamento,
coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno.
Nel contempo (v. ancora Cass.
n. 29832/2008 cit.) è stato anche affermato che “la risarcibilità del danno
morale, a norma dell’art. 2059 c.c. non è soggetta al limite derivante dalla
riserva di legge e non richiede che il fatto illecito integri in concreto un
reato, essendo sufficiente che sia stata una lesione di un interesse
inerente alla persona, costituzionalmente garantito, atteso che la
previsione costituzionale dell’interesse relativo ne esige in ogni caso la
protezione”.
Nello stesso quadro, tracciato
dalle Sezioni Unite, da ultimo è stato altresì precisato che, tema di
risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e
dequalificazione, il pregiudizio “non è sufficiente a dimostrare la mera
potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non
solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art.
2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con
l’inadempimento datoriale” (v. Cass. 17-9-2010 n. 19785) che “in caso di
accertato demansionamento professionale, la risarcibilità del danno
all’immagine derivato al lavoratore a cagione del comportamento del datore
di lavoro presuppone che la lesione dell’ interesse sia grave, nel senso che
l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità, e che il danno non sia
futile, vale a dire che non consista in meri di agi o fastidi” (v. Cass.
4-3-2011 11.5237).
Orbene, nella fattispecie, la
Corte di merito (che pure ha richiamato le pronunce delle Sezioni Unite n.
6572/2006 e 26972/2008) in sostanza non solo ha rilevato il “carattere
illecito del demansionamento subito dal L. , bensì ha altresì chiaramente
accertato, con ampia motivazione in fatto, che per effetto della variazione
di mansioni il L. aveva “subito una perdita rilevante sia sul piano
dell’autonomia e rilevanza delle proprie incombenze sia del potere di
coordinamento, ossia dei tratti qualificanti che caratterizzano la
professionalità del lavoratore di secondo livello”.
Ciò nonostante, e pur a fronte della riscontrata “rilevanza’ di tale
perdita”, la Corte ha respinto la domanda risarcitoria senza considerare che
gli elementi di fatto emersi (a cominciare dalla prolungata e sistematica
adibizione a mansioni nettamente inferiori, nel concreto ambiente di lavoro
e nelle circostanze emerse) ben potevano essere valutati ai fini della prova
presuntiva del danno alla dignità e professionalità lamentato dal L.
Così facendo la sentenza impugnata, in sostanza, nel contempo ha disatteso i
principi sopra richiamati ed è incorsa nel vizio di motivazione denunciato,
nulla avendo detto in merito alla prova presuntiva del danno, sulla quale,
invece, era stata fondata le decisione di primo grado.
In tale senso vanno quindi accolti il quarto e il quinto motivo.
Infine con il sesto motivo il
ricorrente, denunciando ulteriore vizio di motivazione, censura la impugnata
sentenza nella parte in cui ha respinto la domanda relativa alla indennità
di straordinario forfetizzato, deducendo in sostanza che tale indennità era
connessa alla funzione di caporeparto.
Il motivo è infondato, in quanto la sentenza impugnata, con motivazione
congrua e priva di vizi logici, ha affermato che, in base al chiaro tenore
della comunicazione del 1-12-1999, nell’ottica delle parti la ragione
giustificatrice della concessione della detta indennità consisteva non tanto
nell’esercizio delle mansioni di capo reparto, quanto piuttosto nella
riconosciuta facoltà di un “autonomo e discrezionale uso deIl ‘orario di
lavoro, con possibilità di eccedenze rispetto a quello contrattuale in
quantità non controllabile né quantificabile a priori”, di guisa che “del
tutto legittimamente il datore di lavoro. nell’ accogliere la richiesta del
L. di prestare la sua attività solo nell’ambito dei turni antimeridiani e
con esclusione dei giorni festivi - ossia con un’articolazione rigida di
orario che contraddice apertamente quella discrezionalità che costituiva il
presupposto della riconosciuta indennità - ha provveduto alla contestuale
soppressione, con effetto dal 1 giugno 2003, dello straordinario
forfetizzato in precedenza riconosciuto, essendo venute meno le condizioni
di discrezionalità che a suo tempo ne avevano giustificato la erogazione.
Così accolti il quarto e
il quinto motivo e respinti gli altri,
la impugnata sentenza va, infine cassata, in relazione ai motivi
accolti, con rinvio alla Corte di Appello di Cagliari in diversa
composizione, la quale provvederà sulla domanda risarcitoria del danno
da demansionamento applicando i principi e le indicazioni di cui sopra e
statuirà anche sulle spese di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quatto e
il quinto motivo, rigetta gli altri, cassa la impugnata sentenza in
relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese alla Corte di
Appello di Cagliari in diversa composizione.