Prova presuntiva del danno risarcibile da demansionamento, fondata sull’ampiezza del divario fra mansioni pregresse e quelle dequalificanti successivamente assegnate

 

Cass., sez. lav., 5 ottobre 2006 n. 21406 – Pres. Ravagnani – Est. Di Cerbo – Bellagamba Sergio (avv. Pellittieri) c. Rai Radiotelevisione Italiana SpA (avv. Tartaglia)

 

Danno da demansionamento e da atteggiamento ingiurioso ed aggressivo dei colleghi di lavoro – Natura contrattuale, per violazione datoriale dell’art. 2087 c.c. – Prescrizione decennale dell’azione risarcitoria – Danno biologico negato nonostante relazione di CTP assertiva del nesso di causalità – Vizio di motivazione per mancata esplicitazione del non accoglimento  delle conclusioni della CTP e del non ricorso a CTU– Sufficienza della prova presuntiva del danno alla professionalita, fondata sull'ampiezza del divario tra le mansioni precedenti e quelle dequalificanti successivamente conferite.

 

L’azionata domanda di risarcimento del danno è basata sull'assunto di una responsabilità del datore di lavoro per non aver garantito al lavoratore un ambiente idoneo e per aver quindi violato la normativa di cui all'art. 2087 cod. civ., che fa carico al datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità del dipendente. Si tratta di un obbligo che trova fonte immediata e diretta nel rapporto di lavoro, e la cui inosservanza, pertanto, ove sia stata causa di danno, può essere fatta valere dal dipendente medesimo con azione risarcitoria contrattuale nell'ordinario termine decennale di prescrizione, indipendentemente dal fatto che la violazione stessa integri estremi di reato, ovvero configuri anche un illecito aquiliano determinante l'esperibilità di azione extracontrattuale, in via concorrente, e, quindi, senza che l'eventuale preclusione di quest'ultima, come nel caso di decorso della prescrizione quinquennale, possa incidere sull'azione contrattuale (Cass. 1 febbraio 1995 n. 1168).

In ordine alla negazione del danno biologico per asserita mancanza di prova, va osservato che  nella consulenza tecnica di parte ritualmente prodotta in sede di merito, il cui testo è stato in parte riprodotto nel ricorso, si faceva riferimento, contrariamente a quanto affermato dal giudice del gravame, a precise patologie (quali, in particolare, una grave forma di sindrome ansioso depressiva con eventi lipotimici ed altre patologie dovute a somatizzazioni della nevrosi) ed alla loro riconducibilità eziologica all'ambiente lavorativo. Sussiste pertanto un vizio di motivazione atteso che in presenza delle suddette allegazioni il giudice del gravame avrebbe dovuto fornire una specifica motivazione sulle ragioni per cui le stesse non erano tali da giustificare l'accoglimento della domanda ovvero avrebbe dovuto espletare una consulenza tecnica d'ufficio per valutarne la fondatezza.

Secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte (cfr., ad esempio, Cass. 6 dicembre 2005 n. 26666) il danno da dequalificazione professionale può essere desunto da elementi presuntivi quali la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione. Ha aggiunto la decisione citata che rimane, naturalmente, affidato al giudice di merito - le cui valutazioni, se corrette da congrua motivazione, sono incensurabili in sede di legittimità - il compito di verificare, di volta in volta, se, in concreto, il suddetto danno sussista, individuandone la specie e determinandone l'ammontare, anche, se del caso, con liquidazione fondata sull'equità.

La decisione impugnata è conforme ai suddetti principi e resiste pertanto alle censure proposte dalla Rai. Il Tribunale ha, infatti, ritenuto provata l'effettiva esistenza del danno conseguente alla dequalificazione subita sulla base di presunzioni, tenuto conto, in particolare, dell'ampiezza del divario tra le mansioni precedenti e quelle conferite in relazione al demansionamento.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Il Tribunale di Roma, decidendo sull'appello proposto avverso la decisione del Pretore della stessa città che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno per dequalificazione professionale proposta da Sergio Bellagamba nei confronti della RAI – Radiotelevisione Italiana s.p.a., in parziale riforma della sentenza impugnata, condannava la società al pagamento, in favore del ricorrente in primo grado, della somma di Euro 15.500 a titolo di risarcimento del danno.

In primo luogo rigettava l'eccezione di prescrizione proposta dalla RAI osservando che, essendo stata prospettata una responsabilità per violazione dell'art. 2087 cod. civ., si trattava di responsabilità contrattuale sottoposta al termine di prescrizione decennale.

Nel merito, premesso che la nocività dell'ambiente di lavoro era consistita, secondo la prospettazione del Bellagamba, in un atteggiamento ingiurioso ed aggressivo dei colleghi di lavoro nei suoi confronti, culminato in un episodio di aggressione fisica e nell'affissione di manifesti offensivi, osservava che, anche a voler ritenere accertati i suddetti fatti, mancava la prova sia dell'esistenza del danno biologico, sia del nesso causale fra siffatto danno ed i fatti di cui sopra. Osservava inoltre che la RAI aveva adottato misure idonee ad impedire il verificarsi di danni a carico del Bellagamba.

Sotto altro profilo accoglieva la domanda di risarcimento del danno da dequalificazione professionale che, tenuto conto della durata del periodo di demansionamento e del divario tra le mansioni precedentemente svolte e quelle nuove assegnate, determinava in via equitativa nella somma sopra indicata.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso Sergio Bellagamba affidato a tre motivi. Resiste con controricorso e propone ricorso incidentale RAI - Radiotelevisione Italiana s.p.a. affidato a due motivi. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

I due ricorsi, principale ed incidentale, vanno preliminarmente riuniti ai sensi dell'art. 335 cod. proc. civ. perché proposti contro la medesima sentenza.

Col primo motivo il ricorrente principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 32 Cost., degli artt. 112, 113, 114, 116, 132, 420 e 421 cod. proc. civ., degli artt. 112 e 118 disp. att. cod. proc. civ., degli artt. 2087, 2697, 1175, 1375, 1362 e 1371 cod. civ. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Deduce l'erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la domanda di risarcimento del danno biologico e del danno morale per mancanza di allegazione e di prova circa l'esistenza del danno lamentato e di un nesso eziologico fra questo e la prestazione lavorativa fornita. Deduce che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice del gravame, la domanda non era stata affatto generica ed avrebbe ben potuto dare spazio ad altre attività istruttorie sul punto. In particolare erano state allegate e provate le circostanze relative alla nocività dell'ambiente di lavoro. La sentenza impugnata aveva inoltre trascurato di valutare i risultati di una consulenza medica di parte, ritualmente acquisita agli atti, dalla quale emergeva il nesso causale fra la patologia che affliggeva il ricorrente e l'ambiente lavorativo ostile. Sotto questo profilo il ricorrente si duole della mancata ammissione di una consulenza tecnica d'ufficio ritualmente richiesta.

Col secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 32 Cost., degli artt. 112, 113, 114, 116, 132, 420, 421 e 432 cod. proc. civ., degli artt. 112 e 118 disp. att. cod. proc. civ., degli artt. 2087, 2697 e 1226 cod. civ. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Deduce in particolare l'erroneità della statuizione con la quale il Tribunale ha liquidato in via equitativa il risarcimento del danno. Sostiene l'illogicità della suddetta quantificazione tenuto conto del fatto che si era trattato di un demansionamento lungo e palese.

Col terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, 114, 115, 116, 132 e 429 cod. proc. civ., e dell'art. 150 disp. att. cod. proc. civ. Deduce l'erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha riconosciuto gli interessi legali e la rivalutazione monetaria a decorrere dalla data della sentenza e non già dalla data di assegnazione alle mansioni inferiori, coincidente con la data di maturazione del diritto.

Col primo motivo del ricorso incidentale si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 cod. civ., 115 e 116 cod. proc. civ. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Deduce l'erroneità della sentenza impugnata per aver riconosciuto il diritto del Bellagamba al risarcimento del danno da dequalificazione professionale per il solo fatto che era stato accertato un divario tra le mansioni precedentemente svolte e quelle successivamente assegnate.

Col secondo motivo del ricorso incidentale si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2043-2049 cod. civ., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia riferito alla statuizione concernente il rigetto dell'eccezione di prescrizione dei diritti al risarcimento dei danni biologico e morale. Deduce che la responsabilità della datrice di lavoro nella fattispecie in esame non poteva essere desunta dalla pretesa violazione dell'art. 2087 cod. civ. ma, in quanto gli eventi allegatamente generatori del danno erano derivati da contrasti con i colleghi di lavoro, dagli artt. 2043 e segg. cod. civ. Si trattava pertanto di responsabilità aquiliana rispetto alla quale era decorso il termine (quinquennale) di prescrizione.

In ordine logico deve essere preliminarmente esaminato il secondo motivo del ricorso incidentale.

Il motivo è infondato.

Come esattamente rilevato dal giudice del gravame, la domanda di risarcimento del danno è basata sull'assunto di una responsabilità del datore di lavoro per non aver garantito al lavoratore un ambiente idoneo e per aver quindi violato la normativa di cui all'art. 2087 cod. civ., che fa carico al datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità del dipendente. Si tratta di un obbligo che trova fonte immediata e diretta nel rapporto di lavoro, e la cui inosservanza, pertanto, ove sia stata causa di danno, può essere fatta valere dal dipendente medesimo con azione risarcitoria contrattuale nell'ordinario termine decennale di prescrizione, indipendentemente dal fatto che la violazione stessa integri estremi di reato, ovvero configuri anche un illecito aquiliano determinante l'esperibilità di azione extracontrattuale, in via concorrente, e, quindi, senza che l'eventuale preclusione di quest'ultima, come nel caso di decorso della prescrizione quinquennale, possa incidere sull'azione contrattuale (Cass. 1 febbraio 1995 n. 1168).

Passando all'esame del primo motivo del ricorso principale, lo stesso deve ritenersi in parte fondato.

Deve premettersi che nella sentenza del Tribunale non si fa menzione di una domanda di risarcimento del danno morale e pertanto deve considerarsi inammissibile il motivo di ricorso nella parte in cui si riferisce a questo tipo di danno non avendo il ricorrente nemmeno allegato di aver proposto la relativa domanda. I motivi del ricorso per cassazione devono infatti investire, a pena d'inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio d'appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito. Pertanto, ove il ricorrente proponga detta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione d'inammissibilità per novità della censura, ha l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione avanti al giudice del merito, ma anche di indicare in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito (Cass. 3 aprile 2003 n. 5150).

Per quanto concerne il danno biologico deve ricordarsi che, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte (cfr., da ultimo, Cass. S.U. 24 marzo 2006 n. 6572), nell'ipotesi di demansionamento, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del suddetto danno è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile.

Il Tribunale ha motivato la decisione di rigettare la domanda relativa al risarcimento del danno biologico sostenendo che non era stata neppure dedotta la patologia sofferta a causa del prolungato contatto con l'ambiente di lavoro ostile e che non era stato allegato alcun principio di prova relativamente all'esistenza del danno biologico ed nesso causale fra tale danno ed i fatti lamentati.

Tale motivazione non può essere condivisa.

Nella consulenza tecnica di parte ritualmente prodotta in sede di merito, il cui testo è stato in parte riprodotto nel ricorso, si faceva riferimento, contrariamente a quanto affermato dal giudice del gravame, a precise patologie (quali, in particolare, una grave forma di sindrome ansioso depressiva con eventi lipotimici ed altre patologie dovute a somatizzazioni della nevrosi) ed alla loro riconducibilità eziologica all'ambiente lavorativo. Sussiste pertanto un vizio di motivazione atteso che in presenza delle suddette allegazioni il giudice del gravame avrebbe dovuto fornire una specifica motivazione sulle ragioni per cui le stesse non erano tali da giustificare l'accoglimento della domanda ovvero avrebbe dovuto espletare una consulenza tecnica d'ufficio per valutarne la fondatezza.

Il secondo motivo del ricorso principale ed il primo motivo del ricorso incidentale che, in quanto strettamente connessi (entrambi riguardano il capo della decisione concernente il danno da dequalificazione), devono essere esaminati congiuntamente, sono infondati e devono essere pertanto rigettati.

Deve premettersi che, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte (cfr., ad esempio, Cass. 6 dicembre 2005 n. 26666) il danno da dequalificazione professionale può essere desunto da elementi presuntivi quali la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione. Ha aggiunto la decisione citata che rimane, naturalmente, affidato al giudice di merito - le cui valutazioni, se corrette da congrua motivazione, sono incensurabili in sede di legittimità - il compito di verificare, di volta in volta, se, in concreto, il suddetto danno sussista, individuandone la specie e determinandone l'ammontare, anche, se del caso, con liquidazione fondata sull'equità.

La decisione impugnata è conforme ai suddetti principi e resiste pertanto alle censure proposte. Il Tribunale ha, infatti, ritenuto provata l'effettiva esistenza del danno conseguente alla dequalificazione subita sulla base di presunzioni, tenuto conto, in particolare, dell'ampiezza del divario tra le mansioni precedenti e quelle conferite in relazione al demansionamento. In tale contesto ha proceduto alla liquidazione del danno in via equitativa, avendo fatto riferimento ad una quota della retribuzione mensile, al perdurare nel tempo della lesione alla professionalità nonché al suddetto divario fra le vecchie e le nuove mansioni. Sulla base di tali parametri il Tribunale è pervenuto alla determinazione del danno nell'ammontare indicato in narrativa. Deve in proposito sottolinearsi che la liquidazione equitativa del danno non è sindacabile in sede di legittimità ove il giudice del merito dia conto (come nel caso in esame) dei criteri seguiti e la concreta determinazione dell'ammontare del danno non sia, per difetto o per eccesso, palesemente sproporzionata. Tale sproporzione non emerge nel caso di specie tenuto conto del complesso degli elementi di valutazione considerati dal Tribunale quali, in particolare, l'entità della retribuzione corrisposta e la durata del periodo di demansionamento.

È infine infondato il terzo motivo del ricorso principale atteso che, avendo il Tribunale proceduto ad una valutazione equitativa del danno da demansionamento, che tiene evidentemente conto anche del tempo trascorso fra l'evento dannoso e la liquidazione del danno, correttamente la decorrenza degli accessori è stata determinata con riferimento alla data di liquidazione dello stesso.

In definitiva il primo motivo del ricorso principale deve essere accolto per quanto di ragione laddove il ricorso incidentale deve essere integralmente rigettato. La sentenza deve essere pertanto cassata in relazione al motivo accolto e rinviata ad altro giudice, designato in dispositivo, che provvederà ad una nuova valutazione sulla base dei principi sopra enunciati. Il giudice di rinvio provvederà altresì, ex art. 385 cod. proc. civ., sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il primo motivo del ricorso principale per quanto di ragione; rigetta gli altri motivi del ricorso principale nonché il ricorso incidentale; cassa in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte d'appello di Roma.

 

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 4 luglio 2006 (depositato il 5.10.2006)

 

(Torna alla Sezione Mobbing)