Al dirigente declassato a medio o mini dirigente non spetta la tutela reale ex art. 18 S.L.

 

Cass., sez. lav., 5 ottobre 2007, n. 20895

 

Licenziamento del dirigente presuntivamente declassato a quadro – Applicabilità della tutela reale ex art. 18 Stat. lav. – Insussistenza in ragione del possesso della qualifica di dirigente, quantunque non necessariamente apicale – Riesame della statuizione di licenziamento ingiustificato (e indennizzato) da parte di altra Corte di merito.

 

Stante la indubbia qualità ed autonomia delle mansioni svolte dal N. quale preposto all'impianto biologico, di accertata notevole importanza nella struttura aziendale, con assunzione di responsabilità operativa e di legge nei confronti della società e dei terzi, non può dubitarsi del permanere in capo allo stesso, anche sul piano operativo, della qualifica dirigenziale e quindi dell'appartenenza alla categoria dirigenziale, quantunque non apicale, con la conseguenza dell’inapplicabilità al licenziamento ingiustificato della tutela reintegratoria (cfr. Cass. SSUU n. 7880/2007).

Considerato il particolare modo di configurarsi del rapporto di lavoro dirigenziale, la nozione di giustificatezza del dirigente non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo del recesso del datore di lavoro ex L. n. 604 del 1966, art. 1; conseguentemente, fatti o condotte non integranti tali fattispecie con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato ben possono giustificare il licenziamento, per cui, ai fini della giustificatezza del medesimo, può rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore, nel cui ambito rientra l'ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente (ex plurimis, Cass. 20 novembre 2006 n. 24591; Cass. 19 agosto 2005 n. 17039). Conseguentemente va rinviato ad altra Corte l’accertamento dell’insussistenza della ingiustificatezza del licenziamento alla stregua delle sopraespresse considerazioni di diritto.

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso al Giudice del Lavoro di Siracusa del 3 ottobre 1996, N.M. esponeva di essere stato assunto dalla Industria Acqua Siracusana S.p.A. - I.A.S. - in data 1 luglio 1987 come "direttore tecnico degli impianti" e con la qualifica di dirigente.

Sosteneva che in data 22 maggio 1990 la società aveva ritenuto di operare una ristrutturazione organizzativa procedendo all'assunzione di un direttore generale; conseguenza di ciò era stato il mantenimento solo formale delle funzioni di direttore, avendo svolto da quel momento solamente mansioni di responsabile tecnico del rimpianto di depurazione, ma in posizione di subordinazione gerarchica al direttore generale.

Aggiungeva che con lettera del 22 aprile 1996 gli erano state contestate una serie di infrazioni e irregolarità, e che, malgrado alle stesse avesse controdedotto con lettera del 13 maggio 1996, gli veniva comunicato, con provvedimento dell'1 luglio 1996, il recesso da parte della società.

Ciò premesso, il ricorrente assumeva che il recesso era illegittimo, non potendo le contestazioni essere ricondotte alla propria responsabilità, rilevando comunque che la posizione dallo stesso ricoperta non fosse - nonostante il nomen juris della qualifica attribuitagli - quella di dirigente, bensì quella riferibile alla categoria impiegatizia ovvero alla categoria dei quadri, sicché la disciplina del suo recesso si sarebbe dovuto ricercare nella normativa vincolistica (L. 20 maggio 1970 n. 300, art. 18 e L. n. 108 del 1990). Eccepiva per questo verso che il licenziamento sarebbe stato comunicato fuori termine e che le contestazioni addebitategli sarebbero state carenti dei requisiti di tempestività, specificità e comunque non inerenti ad ambiti di responsabilità a lui attribuiti.

Chiedeva, quindi, in applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti, la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno ex art. 18 Stat. Lav..

Anche per la ipotesi subordinata della sua inquadrabilità nella categoria dirigenziale assumeva che il recesso sarebbe stato carente dei presupposti di legittimità della procedura con conseguente diritto al risarcimento, oltre che all'indennità del preavviso.

Instauratosi il contraddittorio, si costituiva ritualmente la società convenuta, la quale contestava quanto dedotto dal ricorrente circa l'asserito demansionamento ed esponeva che, a seguito di una verifica delle carenze tecniche che avevano determinato delle difficoltà di processo ed operative dell'impianto, era emerso un complessivo stato di degrado dell'impianto e delle strutture di sicurezza ed igiene ambientale e sul lavoro dello stesso imputabile al responsabile tecnico, ossia al N., ribadendo il contenuto delle contestazioni mosse al predetto con nota del 24 aprile 1996 e chiedeva quindi il rigetto delle domande proposte dal dipendente ed, in via riconvenzionale, la sua condanna al risarcimento dei danni da questi arrecati alla società con i comportamenti oggetto della contestazione. Veniva disposta ed assunta prova testimoniale, esaurita la quale, la causa veniva decisa con sentenza del 12 maggio 2000, con la quale il Tribunale, ritenuta la qualità di dirigente del ricorrente, dichiarava la illegittimità del licenziamento allo stesso intimato e, per l'effetto, condannava la società datrice di lavoro al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso nella misura di undici mensilità dell'ultima retribuzione oltre accessori; rigettava ogni altra domanda nonché la domanda riconvenzionale.

Avverso tale decisione proponeva appello il N., lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo l'accoglimento di tutte le domande proposte con il ricorso introduttivo.

Ricostituitosi il contraddittorio, la società contestava il gravame, chiedendone il rigetto, proponendo a sua volta appello incidentale con cui lamentava, sotto altri profili, la erroneità della decisione di primo grado.

Con sentenza del 25 settembre - 10 ottobre 2003, l'adita Corte d'appello di Catania rigettava il proposto appello incidentale, confermando la ingiustificatezza del licenziamento intimato al dirigente, sulla base della espletata istruttoria, ed in accoglimento del secondo motivo dell'appello principale condannava la società al, pagamento, sulla somma dovuta a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, della rivalutazione monetaria e degli interessi legali sulle somme via via rivalutate, dalla data di maturazione del diritto sino all'effettivo soddisfo.

Per la Cassazione di tale pronuncia ricorre la Industria Acqua Siracusana S.p.A. con tre motivi, cui resiste il N. con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale, affidato a due motivi, contraddetto da altro controricorso della I.A.S., che ha anche depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

 

Va preliminarmente disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, trattandosi d'impugnazioni avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).

Con il ricorso incidentale, da trattarsi per primo, perché precede sul piano logico e giuridico quello principale, il N. denuncia, con due motivi strettamente connessi, omessa ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia e violazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18.

In particolare, il ricorrente lamenta - ribadendo quanto già esposto dinanzi al Giudice d'appello - che, a seguito della ristrutturazione organizzativa deliberata con atto del c.d.a. pubblicato in Gazzetta Ufficiale, e, quindi, sin dal 28 novembre 1994, non avrebbe più svolto mansioni di dirigente, per cui erroneo sarebbe stato il convincimento della Corte territoriale che lo aveva ritenuto dirigente seppure non in posizione apicale assoluta.

Puntualizza, poi, che, tenuto conto delle dimensioni dell'impresa e l'inesistenza nell'ambito della stessa di più rami autonomi, il dirigente in senso proprio avrebbe dovuto possedere un grado di autonomia e discrezionalità tali da porlo in stretta collaborazione con gli organi amministrativi aziendali; ciò che non era riscontrabile in relazione alla sua posizione e rispetto alla quale l'impugnata decisione nulla aveva motivato, limitandosi apoditticamente a ritenerlo dirigente sia pure in posizione non apicale, sancendone, di conseguenza, la inapplicabilità della normativa di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18.

Il ricorso è infondato.

Sul punto la Corte territoriale, dopo avere correttamente rilevato che la suddetta normativa limitativa dei licenziamenti trovava applicazione non solo nei confronti del dirigente apicale, posto cioè al vertice dell'organizzazione aziendale e preposto, quale alter ego dell'imprenditore, alla direzione dell'intera azienda ovvero di un branca o settore autonomo di essa, ma anche nei confronti di quello non apicale, con esclusione solamente dei soggetti per i quali l'attribuzione della qualifica era avvenuta, sulla base di una convenzione individuale, in deroga ai principi di legge ed alla normativa contrattuale collettiva (cfr. da ultimo, Cass. S.U. 30 marzo 2007 n. 7880), ha osservato che la tesi secondo cui la società avrebbe sottratto al dipendente le prerogative dirigenziali per le quali era stato assunto, attribuendo con l'atto deliberativo del 28.11.1994 la gestione operativa della società al dott. S.I., non appariva condivisibile; ciò in quanto la circostanza che l'attività lavorativa svolta dal N. fosse subordinata alle direttive del predetto S. non appariva inconciliabile con il permanere della qualifica di dirigente, proprio perché la qualifica di dirigente non presupponeva una posizione apicale assoluta, dovendosi ritenere che la presenza di una pluralità di dirigenti di diversi livelli, con graduazione di compiti, era assolutamente compatibile con la complessità delle attuali organizzazioni aziendali. E pertanto, stante la indubbia qualità ed autonomia delle mansioni svolte dal N. quale preposto all'impianto biologico, di accertata notevole importanza nella struttura aziendale, con assunzione di responsabilità operativa e di legge nei confronti della società e dei terzi, non poteva dubitarsi del permanere in capo allo stesso, anche sul piano operativo, della qualifica dirigenziale e quindi dell'appartenenza alla categoria dirigenziale.

Non è, dunque, esatto che la Corte di merito non ha motivato le ragioni del proprio convincimento e che non abbia considerato il contenuto della delib. 28 novembre 1994.

Quanto alla questione dell'esistenza o meno di più rami di azienda e la deduzione del ricorrente incidentale secondo la quale l'impianto biologico non costituirebbe - come affermato in sentenza - "uno dei rami più importanti dell'impresa" ma l'unica attività della stessa, osserva il Collegio che trattasi di un accertamento in fatto, superato, in ogni caso, dalla sopra rilevata e non contestata "indubbia qualità ed autonomia delle mansioni svolte dal N. quale preposto all'impianto biologico con assunzione di responsabilità operativa e di legge nei confronti della società e dei terzi".

Il ricorso incidentale va, pertanto, rigettato.

Con il primo motivo del ricorso principale la società I.A.S. denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1322, 1363, 1366, 1371, 1374, 1375 e 2106 c.c. con riguardo all'art. 22 del CCNL per i dirigenti industriali, nonché insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

Osserva che la Corte d'appello di Catania, nella sentenza impugnata, si è uniformata erroneamente e con motivazione inadeguata e/o insufficiente al criterio per cui la nozione di giustificatezza del licenziamento di dirigente industriale derivante dalla contrattazione collettiva, pur non coincidendo con quella legale di giustificato motivo, soggettivo e oggettivo, di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 3, debba essere qualificata, oltre che dalla non arbitrarietà e non discriminatorietà, anche da ragionevolezza e serietà del motivo di licenziamento, da accertarsi secondo un equo contemperamento dei contrapposti interessi ex art. 1371 c.c..

Così facendo il Giudice d'appello sarebbe incorso nella palese violazione e falsa applicazione dell'art. 1375 c.c., male interpretando, altresì, il contenuto della norma di cui all'art. 22 del CCNL per i dirigenti industriali, laddove è richiesta, per il licenziamento del dirigente, la forma scritta con l'ulteriore previsione che l'azienda "è tenuta a specificarne contestualmente la motivazione".

Il motivo è fondato.

La ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, infatti, ha sempre inteso ancorare il contenuto della giustificatezza al principio generale, mutuato da norma positiva (art. 1375 c.c.), dell'esecuzione del contratto secondo buona fede, con conseguente sanzionabilità, attraverso la tutela obbligatoria prevista dal contratto, del solo recesso puramente irrazionale o pretestuoso e con accesso al regime della nullità (ex L. n. 108 del 1990, art. 3) per il caso di licenziamento come atto discriminatorio. E'stato, pertanto, ripetutamente affermato che, considerato il particolare modo di configurarsi del rapporto di lavoro dirigenziale, la nozione di giustificatezza del dirigente non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo del recesso del datore di lavoro ex L. n. 604 del 1966, art. 1; conseguentemente, fatti o condotte non integranti tali fattispecie con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato ben possono giustificare il licenziamento, per cui, ai fini della giustificatezza del medesimo, può rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore, nel cui ambito rientra l'ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente (ex plurimis, Cass. 20 novembre 2006 n. 24591; Cass. 19 agosto 2005 n. 17039).

Nella specie, la Corte di merito non ha tenuto conto della sopra richiamata e pienamente condivisibile giurisprudenza di legittimità.

Non si è attenuta ai principi di diritto da essa enucleatali e di conseguenza non ha esaminato nel senso da essa richiesto la condotta globalmente addebitata al N. nell'ottica della lesione del rapporto fiduciario indipendentemente dalla possibilità di una prosecuzione provvisoria o meno del rapporto di lavoro subordinato a livello dirigenziale.

Trattasi di punto decisivo della controversia in quanto i vizi rilevati inficiano alla base l'intera successiva motivazione della sentenza vertente sull'accertamento dei fatti.

L'accoglimento dell'esaminato motivo, rende superfluo l'esame del secondo - con cui si deduce vizio di motivazione e violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in quanto proposto dalla società ricorrente in caso di rigetto del primo. Con il terzo motivo, la Società, denunciando omessa motivazione e violazione dell'art. 429 c.p.c., in relazione alla violazione dell'art. 100 c.p.c., lamenta che la Corte di Catania, dopo avere confermato la ingiustificatezza del licenziamento del N., in accoglimento del secondo motivo dell'appello principale l'aveva condannata al pagamento, sulla somma dovuta a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, della rivalutazione monetaria e degli interessi legali sulle somme via via rivalutate, dalla data di maturazione del diritto sino all'effettivo soddisfo. Così statuendo - prosegue la ricorrente - i Giudici d'appello hanno del tutto omesso di considerare che (e di motivare su un punto di tanta rilevanza), alla stregua di quanto da essa dedotto nel corso del giudizio d'appello, doveva ritenersi venuto meno ogni interesse dell'appellante sig. N. all'accoglimento del motivo, con conseguente dichiarazione di cessazione della materia del contendere, essendo stata l'indennità sostitutiva del preavviso (al cui pagamento aveva condannato il Tribunale di Siracusa) già stata erogata al dirigente per ben due volte, come evidenziato nelle note depositate per l'udienza del 10 luglio 2003: una prima volta coevamente allo stesso licenziamento, e una seconda volta (oltre interessi legali dal licenziamento al soddisfo), per un mero errore materiale, del tutto indebitamente, a seguito della sentenza di condanna di primo grado. Pertanto - aggiunge la società - a parte, dunque, l'indebito che aveva arrecato al N. un arricchimento senza causa ed ingiustificato e per il quale si era documentato di avere proposto azione di ripetizione, era, dunque, evidente che la richiesta di condanna al pagamento di interessi e rivalutazione su di un credito che si era documentato essere stato estinto (due volte di cui la prima volta) nel momento della sua stessa maturazione, era del tutto priva di consistenza e la relativa statuizione priva di motivazione.

Il motivo è all'evidenza fondato, mancando del tutto nella impugnata decisione argomentazioni a sostegno del decisimi sul punto.

Il ricorso principale va, dunque, accolto per le esposte ragioni con annullamento della impugnata decisione e rinvio per il riesame ad altro giudice d'appello, come designato in dispositivo, che provvederà anche alla regolamentazione delle spese di questo giudizio.

 

P.Q.M.

 

La riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso principale e rigetta l'incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Messina.

 

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