Risarcimento danno biologico integrale da demansionamento in presenza di concause

 

Cassazione, sez. lav., 26 luglio 2006 n. 17022 - Pres. ed est. De Luca - Rete ferroviaria italiana (Rfi) Spa (avv. Consolo) e. V.O. (Spinoso,  Salmeri).

Art. 2103 cc. - Mutamento di mansioni - Giudizio di equivalenza - Identità di inquadramento delle mansioni - Insufficienza - Possibilità per il lavoratore di utilizzare o arricchire il pregresso patrimonio professionale - Necessità - Contestualità al trasferimento - Sussistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive per il mutamento - Irrilevanza. - Art. 2103 cc. - Violazione - Demansionamento - Danno alla salute -Risarcimento integrale - Spettanza - Presenza di concause - Irrilevanza.

L'equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti - che legittima l'esercizio dello jus variandi del datore di lavoro, a norma dell'art. 2103 cc. - deve essere intesa non solo come identità di valore professionale e di inquadramento contrattuale, ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o l'arricchimento del patrimonio professionale del lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto; in assenza di tali requisiti il mutamento di mansioni è illegittimo essendo irrilevante che detto mutamento - quand'anche contestuale a un trasferimento - sia determinato da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Anche in materia di responsabilità civile del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti - sia contrattuale sia extracontrattuale - trova applicazione la regola (di cui all'art. 41 c.p.), secondo cui - essendo il rapporto causale, tra condotta ed evento, governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni - deve essere riconosciuta efficienza causale a ogni antecedente che abbia contribuito alla produzione dell'evento - anche se in maniera (indiretta o remota e, comunque) concausale - salvo il temperamento (previsto dallo stesso art. 41 c.p. cit.) in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore da solo sufficiente a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni. Conseguentemente, in caso di demansionamento illegittimo, l'efficienza causale della condotta del datore di lavoro è, da sola, sufficiente a radicarne la responsabilità per l'intero danno che ne consegua, anche in presenza di concause, fatto salvo soltanto il ridimensionamento proporzionale del risarcimento ai sensi dell'art. 1227 c.c., nel caso di concorso del fatto colposo del danneggiato.

 

(...) 1. Con il primo motivo di ricorso - denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 2087, 2113 cc), nonché vizio di motivazione (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.) - la Rete ferroviaria italiana (Rfi) società per azioni (già Ferrovie dello Stato-Società di trasporti e servizi pa) censura la sentenza impugnata - per avere ritenuto la propria condotta «antigiuridica e, comunque, lesiva per il lavoratore» - sebbene la società avesse «provveduto ad attuare (...) un riassetto dell'organizzazione strutturale e funzionale di alcune branche dell'impresa, al fine di ottimizzare l'attività aziendale» e, nel caso di specie, «la temporanea diversa utilizzazione del V., nell'espletamento delle sue specialistiche funzioni, (fosse) dipesa proprio dall'attuazione di uno dei programmi di riassetto», senza tuttavia sacrificare il trattamento economico-giuri-dico e la posizione professionale - propri della categoria contrattuale di appartenenza - dello stesso lavoratore.

Il primo motivo di ricorso non è fondato.

1.2. Invero l'equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti - che legittima l'esercizio dello ius variandi del datore di lavoro, a norma della disciplina legale in materia (art. 2103 cc, come sostituito dell'art. 13 SL) - deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività, ma anche - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 3455 delle sez. un., n. 6871/87, 2896, 12088/91, 3623, 10405, 12121/95, 6124/97, 2428/99, 2649,14666/04 della sez. lavoro) - come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o, addirittura, l'arricchimento del patrimonio professionale dal lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto.

Né la tutela della professionalità del lavoratore - che ne risulta, peraltro, in coerenza con la costituzione (art. 35) - può essere sacrificata per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte le sentenze nn. 6852/87, 6124/97) - in quanto tali ragioni risultano, bensì, esplicitamente richiamate (nell'ultima parte dello stesso art. 2103 cc, come sostituito dall'art. 13 della L. 20/5/70 n. 300, cit.) - quale giustificazione, tuttavia, soltanto del trasferimento del lavoratore da una unità produttiva a un'altra - e, peraltro, risultano, bensì, funzionali all'esercizio della libertà di iniziativa privata - parimenti garantita dalla costituzione (art, 41) - ma questa non può, tuttavia, svolgersi in modo da recare pregiudizio - tra l'altro - alla dignità umana, alla quale va ricondotta, appunto, la professionalità - quale componente essenziale della dignità - del lavoratore.

La sentenza impugnata si uniforma ai principi di diritto enunciati - sia laddove accerta l'adibizione del lavoratore a mansioni non equivalenti a quelle corrispondenti alla qualifica di inquadramento, sia laddove nega che ciò possa essere giustificato dalle invocate ragioni organizzative - e non merita, quindi, le censure - che le vengono mosse con il primo motivo di ricorso - neanche sotto il profilo del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c).

1.3.Invero la denuncia di un vizio di motivazione in fatto, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c.) - vizio nel quale si traduce anche la mancata ammissione di un mezzo istruttorio (vedi, per tutte, Cass.13730,9290/04), nonché l'omessa o erronea valutazione di alcune risultanze probatorie (vedi, per tutte, Cass. 3004/04, 3284/03) - non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni - svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione delle fonti del proprio convincimento - con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere - secondo l'orientamento (ora) consolidato della giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 13045/97 delle sezioni unite e nn. 8153, 7936, 7745, 4017, 3452, 3333, 236/05, 24219, 23411, 22838, 22751, 21826, 21377, 20272, 19306/04, 16213, 16063, 11936, 11918, 7635, 6753, 5595/03, 3161/02, 4667/01,14858, 9716, 4916/2000, 8383/99 delle sezioni semplici) - dell'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, e il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente e, in genere, dalle parti, né, comunque, una diversa valutazione dei medesimi fatti.

In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità (dall'art. 360, n. 5, c.p.c.) - non equivale alla revisione del ragionamento derisorio, ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito a una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità.

Pertanto, al giudice di legittimità non compete il potere di adottare una propria motivazione in fatto (arg. ex art. 384,2° comma, c.p.c.) né, quindi, di scegliere la motivazione più convincente - tra quelle astrattamente configurabili e, segnatamente, tra la motivazione della sentenza impugnata e quella prospettata dal ricorrente - ma deve limitarsi a verificare se - nella motivazione in fatto della sentenza impugnata, appunto - siano stati dal ricorrente denunciati specificamente - ed esistano effettivamente -vizi che, per quanto si è detto, siano deducibili in sede di legittimità.

1.4. Lungi dal denunciare, specificamente, il punto e il modo in cui la motivazione sorregge l'accertamento di fatto della sentenza impugnata - risulti obiettivamente carente o logicamente contraddittoria, la società ricorrente sembra, tuttavia, prospettare - inammissibilmente - un accertamento diverso.

Anche a volere prescindere dalle superiori considerazioni e conclusioni - peraltro assorbenti - l'accertamento di fatto - che la sentenza impugnata propone - non pare, tuttavia, inficiato da vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c).

Infatti la motivazione della sentenza che ne sorregge l'accertamento sul punto - si articola nei passaggi essenziali seguenti:

-  il V., segretario tecnico di prima classe (qualifica di natura amministrativa), è stato trasferito da Paola a Cosenza, «nelle diverse mansioni di aggiunto nel reparto esercizio impianti di sicurezza» (mansioni tecniche) ed è rimasto «del tutto inattivo» -come risulta dalle prove testimoniali e documentali - «non per scelta del lavoratore, ma per il semplice fatto che egli, ricoprendo una qualifica di natura amministrativa, non poteva svolgere mansioni tecniche»;

-  l'inattività non può essere addebitata, poi, a imperizia del lavoratore - attesa l'adibizione dello stesso a mansioni per le quali non era preparato - e, peraltro, la riorganizzazione aziendale può giustificare il trasferimento, ma non il demansionamento del lavoratore.

La riferita motivazione in fatto, all'evidenza, non risulta inficiata - da obiettiva carenza o da logica contraddittorietà - e, pertanto, la sentenza impugnata - oltre a risultare coerente con i principi di diritto enunciati - non merita le censure - che le vengono mosse con il primo motivo di ricorso - neanche sotto il profilo del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c).

Tanto basta per rigettare lo stesso motivo di ricorso, perché infondato.

Parimenti deve essere, tuttavia, rigettato - perché infondato - anche il secondo motivo di ricorso.

2.1. Con il secondo motivo di ricorso - denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 112 c.p.c), nonché vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.) la Rete ferroviaria italiana (Rfi) società per azioni (già Ferrovie dello Stato-Società di trasporti e servizi p.a.) censura la sentenza impugnata - per averla condannata al risarcimento integrale del danno alla salute subito dal lavoratore - sebbene il proprio comportamento ne fosse soltanto una concausa - secondo la stessa consulenza tecnica d'ufficio, peraltro acriticamente condivisa - e, il risarcimento dovesse, quantomeno, essere proporzionato al contributo causale del proprio comportamento.

Anche il secondo motivo di ricorso - come è stato anticipato - risulta infondato.

2.2. Anche in materia di responsabilità civile del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti - sia contrattuale, come nella specie (in tal senso, vedi, per tutte, Cass. sez. un. 6572/06), sia extracontrattuale - trova applicazione la regola (di cui all'art. 41 cp.), secondo cui - essendo il rapporto causale, tra condotta ed evento, governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni - deve essere riconosciuta efficienza causale a ogni antecedente che abbia contribuito alla produzione dell'evento - anche in maniera (indiretta o remota e, comunque) concausale - salvo il temperamento (previsto dallo stesso art. 41 cp., cit.) - in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore, da solo sufficiente a produrre interrotto dalla sopravvenienza di un fattore, da solo sufficiente a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni - con la conseguenza che - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze nn. 17959,15107/05, 5014/04, 12377/03) - l'efficienza causale della condotta del datore di lavoro è, da sola, sufficiente a radicarne la responsabilità civile - per l'intero danno, che ne consegua - nonostante il concorso di concause (fatto salvo, tuttavia, il ridimensionamento proporzionale del risarcimento, ai sensi dell'art. 1225 cc, nel caso di concorso del fatto colposo del danneggiato).

La sentenza impugnata si uniforma al principio di diritto enunciato - laddove fonda, sull'efficienza concausale dell'inadempimento dell'obbligazione (di cui all'art. 2103 cc, come sostituito dall'art. 13 SL), la responsabilità del datore di lavoro per l'intero danno che ne è conseguito - e non merita, quindi, le censure - che le vengono mosse con il secondo motivo di ricorso - neanche sotto il profilo del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c).

2.3. Lungi dal denunciare, specificamente, il punto e il modo in cui la motivazione - che sorregge l'accertamento di fatto della sentenza impugnata - risulti obiettivamente carente o logicamente contraddittoria, la società ricorrente, infatti, sembra prospettare - inammissibilmente - un accertamento diverso.

Anche a volere prescindere dalle superiori considerazioni e conclusioni - peraltro assorbenti - l'accertamento di fatto - che la sentenza impugnata propone - non pare, tuttavia, inficiato da vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c).

Infatti la motivazione della sentenza - che ne sorregge l'accertamento sul punto -si articola nei passaggi essenziali seguenti:

-  la consulenza tecnica (eseguita in primo grado) «afferma che il V. è affetto da sindrome ansioso-depressiva, da mettere in relazione causale con il patito demansionamento» e ha accertato una «inabilità del 5-6%», oltre una incapacità temporanea assoluta (da limitare a 135 giorni) e una incapacità temporanea parziale di 189 giorni;

-  «la natura di concausa» dell'illecito comportamento del datore di lavoro non comporta certo una diminuzione dell'entità del danno a esso addebitabile, a meno che non vengano, dalla parte interessata, specificamente provate altre concause efficienti nella determinazione del danno (e ciò) tanto più (ove si consideri), che lo stesso consulente tecnico d'ufficio afferma chiaramente che «il comportamento del datore di lavoro (...) ha concretizzato un danno biologico (...) pari al 5-6%».

La riferita motivazione in fatto, all'evidenza, non risulta inficiata - da obiettiva carenza o da logica contraddittorietà - e, pertanto, la sentenza impugnata - oltre a risultare coerente con i principi di diritto enunciati - non merita le censure - che le vengono mosse con il secondo motivo di ricorso - neanche sotto il profilo del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c).

Tanto basta per rigettare - come è stato anticipato - anche il secondo motivo di ricorso, perché infondato.

3. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato. (...)

 

NOTA

Danno da demansionamento in presenza di concause: al dipendente spetta il risarcimento integrale

La prima massima della sentenza in commento, nella parte in cui afferma l'insufficienza della mera identità di inquadramento nel giudizio di equivalenza delle mansioni, è conforme al consolidato orientamento della Cassazione. Nel caso esaminato dalla sentenza, il mutamento aveva bensì riguardato mansioni di pari inquadramento, ma il dipendente era passato dal settore amministrativo (ove aveva sempre operato) a quello tecnico. Per contro, come noto, la giurisprudenza richiede invece che le nuove mansioni debbano consentire al dipendente di utilizzare e arricchire il patrimonio professionale acquisito; il che evidentemente non avviene in caso di repentino passaggio tra mansioni di un certo contenuto pro­fessionale, ma a un settore in cui il dipendente non ha alcuna esperienza.

In senso assolutamente conforme cfr. Cass. 12/4/05 n. 7453; Cass. 4/10/04 n. 19836; Cass. 20/3/04 n. 5651; Cass. 9/3/04 n. 4790 ; Cass. 11/12/03 n. 18984; Cass. 11/6/03 n. 9408, in Lavoro giur. 2004,129, con nota di Girardi.

Altro principio affermato dalla Suprema Corte riguarda la giustificabilità della modifica attuata sulla base di ragioni organizzative aziendali.

Nel caso esaminato dalla Corte, come spesso accade, il mutamento di mansioni era contestuale a un trasferimento sicché il datore di lavoro chiedeva di estendere al primo le medesime cause di giustificazione che si applicano al secondo, che nel caso concreto consistevano in un riassetto dell'organizzazione strutturale e funzionale dell'azienda.

La Corte ha negato tale possibilità di estensione, sia con ragioni letterali, sia con riferimento a principi di rango costituzionale. In primo luogo, l'art. 2103 cc. che disciplina sia il trasferimento del lavoratore sia il potere datoriale di modificare le mansioni, richiama le «comprovate ragioni tecniche organizzative e sostitutive» solo con riferimento al trasferi­mento. In secondo luogo, la Cassazione riconduce condivisibilmente la distinzione di cui si è detto all'art. 41 Cost. che se da una parte garantisce l'esercizio della libertà di iniziativa privata (con ciò si spiega la riconosciuta possibilità di attuare il trasferimento in presenza di motivi oggettivi) dall'altra stabilisce che lo stesso non deve svolgersi con pregiudizio della dignità umana di cui la professionalità è una componente essenziale.

Ne esce un quadro di tutela rafforzata della professionalità acquisita anche in caso di ristrutturazioni o riorganizzazioni aziendali che non potranno mai stravolgere la collocazione professionale dei dipendenti sino al punto da costringerli all'inerzia per inevitabile imperizia (che non sarebbe certo addebitabile al lavoratore).

La Corte di legittimità ha, infine, affrontato la rilevante e dibattuta questione della quantificazione del danno da demansionamento in presenza di concause. Ovvero, posta la sussistenza di un illegittimo esercizio dello jus variandi e accertato con chi il danno alla salute causato dal demansionamento subito, è sorto il problema delle conseguenze risarcitone nell'ipotesi in cui l'inadempimento contrattuale da parte del datore sia stato una concausa non esclusiva dei danni occorsi.

La concausa è un fatto che contribuisce al verificarsi dell'evento dannoso in modo non esclusivo e quindi in concorso con altre causa. Può porsi, quindi, in una posizione remota o indiretta rispetto al verificarsi del danno.

Al riguardo, la sentenza in commento - confermando la pronuncia di secondo grado che aveva condannato il datore di lavoro all'integrale risarcimento - ha enunciato il principio secondo cui, anche nell'ipotesi in cui l'inadempimento del datore costituisca una mera concausa, il datore stesso è tenuto al risarcimento integrale del danno conseguente (il principio è affermato con riferimento alla responsabilità contrattuale, ma lo stesso ragionamen­to può essere esteso alle ipotesi di responsabilità extracontrattuale).

La questione è stata risolta dalla Cassazione per mezzo del ricorso alle regole del dirit­to penale in tema di causalità e, in particolare, al principio dell'equivalenza delle condizio­ni. Afferma infarti la Corte che, anche in presenza di concause, se un fatto (nel caso di specie l'inadempimento del datore) ha contribuito al verificarsi dell'evento ciò è sufficiente a fondare l'esistenza del nesso di causalità tra il fatto-concausa e il danno. Tale principio trova il proprio riferimento normativo nell'art. 41,1° comma, c.p. secondo cui «Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento».

Ed è proprio nell'ambito del demansionamento e delle conseguenti patologie della sfera psichica, che il principio enunciato acquisisce una particolare valenza. In tali ipotesi, infatti, la sussistenza di concause è frequentemente ipotizzabile e ciò, in teoria, potrebbe notevolmente ridurre i margini di tutela del lavoratore essendo labili e spesso difficilmente accertabili le connessioni patologiche.

Ma alla luce del principio enunciato, non sarà sufficiente al datore di lavoro invocare la sussistenza di fatti che hanno concorso a determinare il danno (ad es. una particolare fragilità emotiva del dipendente; la sussistenza di situazioni familiari difficili ecc.) per escludere la propria responsabilità; e una volta accertato un rapporto di (con)causalità tra il demansionamento e il danno alla salute, la responsabilità avrà a oggetto l'intero danno prodotto con conseguente diritto del lavoratore al risarcimento integrale (nel medesimo senso cfr. Cass. 22/8/03 n. 12377; Cass. 11/3/04 n. 5014; Cass. 9/9/05 n. 17959; Cass. 18/7/2005 n. 15107).

Per aversi una riduzione del danno è, invece, necessario, secondo la sentenza in com­mento, che ci sia il concorso del fatto colposo del danneggiato ex art. 1227 cc. (nel senso, invece, che la presenza di concause naturali può costituire motivo per una riduzione della percentuale del danno cfr. Corte App. Genova 13/9/05, in Guida al lavoro 2006, n. 8, p.40).

Sempre, in conformità ai relativi principi penalistici, il nesso di causalità di cui si è detto può essere escluso solo nel caso in cui sussista un fattore da solo sufficiente a causare il danno (cfr. art. 41, 2° comma, c.p,: «Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causa­lità, quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento. In tal caso, se l'azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita»; cfr., al riguardo, Cass. 17/4/03 n. 6195.

Marco Orlando

(in Riv. crit. dir. lav. 4/2006, 1117 e segg.)

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