Danno professionale da
inattività e obsolescenza per mancata reintegra ex art. 18, l. n.
300/70
Cass., sez.
lav., 7 luglio 2009, n. 15915 – Pres. De Luca – Rel. Napoletano
Il risarcimento dei danni professionali conseguenti alla mancata
reintegrazione nel posto di lavoro rientra nella fattispecie prevista
dall'art. 18 della Legge 300/70 in quanto quella regolata dall'art. 2103
c.c., presuppone l'attualità in fatto ed in diritto del rapporto lavorativo
ed una dequalificazione intervenuta nel corso dello stesso; sicché presenta
una propria specificità e marcati caratteri differenziali rispetto alla
ipotesi della inottemperanza all'ordine giudiziale di reintegra, che è
invece regolata dal disposto del richiamato art. 18.
Conseguentemente si è sancito che nel regime di tutela reale ex art. 18
della Legge n. 300 del 1970 avverso i licenziamenti illegittimi, la
predeterminazione legale del danno risarcibile in favore del lavoratore (con
riferimento alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento
a quello della reintegrazione) non esclude che il lavoratore possa chiedere
il risarcimento del danno ulteriore che gli sia derivato dal ritardo della
reintegra, e che il giudice, in presenza della prova di tale danno
ulteriore, possa liquidarlo equitativamente.
Svolgimento
del processo
La Corte di
Appello di Brescia, pronunciando sull'appello della società Italcementi,
confermava la sentenza del Tribunale di Bergamo che aveva accolto la domanda
dei lavoratori in epigrafe avente ad oggetto il risarcimento dei danni
conseguenti alla mancata reintegrazione nel posto di lavoro per il periodo
successivo a due licenziamenti dichiarati illegittimi con sentenze passate
in giudicato.
I giudici
di appello, premesso che l'art. 2013 riguarda anche il demansionamento
derivante dalla inutilizzazione del dipendente e la fattispecie dedotta in
giudizio non rientrava nell'ambito della operatività dell'art. 18 della L.
300/70, riguardando tale norma «solo quella parte del mancato guadagno
statica corrispondente alle retribuzioni perse e non anche l'accrescimento
della capacità professionale», ma in quella di cui all'art. 1223 cc
«contenendo anche il lucro cessante sotto il profilo della perdita o della
mancata acquisizione della professionalità», esclusa l'ipotizzabilità di un
danno in re ipsa per l'omessa reintegrazione, ritenevano raggiunta la
prova per presunzioni del pregiudizio alla professionalità dei lavoratori
non reintegrati e tanto con riferimento alla specifica allegazione del
pregiudizio con riferimento alle mansioni svolte ed al lungo tempo trascorso
senza essere riammessi in servizio.
Avverso
tale sentenza la società Italcementi ricorreva in cassazione sulla base di
tre censure, illustrate da memoria, di cui l'ultima articolata in via
subordinata.
Parte
intimata resisteva all'impugnazione.
Motivi
della decisione
Con il
primo motivo la società denuncia violazione e falsa applicazione degli artt.
18 L. 300/70 e 2013 cc nonché omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione.
Assume
l'erroneità della sentenza impugnata in punto di applicazione dell'art. 2013
cc presupponendo tale norma l'attualità, in fatto e diritto, del rapporto di
lavoro, mentre nella specie si deducono danni ricollegati all'inottemperanza
all'ordine di reintegrazione e, quindi, la fattispecie ricade nell'ambito di
operatività del richiamato art. 18 che copre tutti i danni e richiama Cass.
10203/02.
Con la
seconda censura la società allega violazione e falsa applicazione degli
artt. 112, 115, 116 e 420 cpc nonché omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione.
Richiamata
la pronuncia a SU di questa Corte n. 6572/04, la società denuncia che nel
ricorso avversario non vi è alcuna specifica allegazione sulla natura e
sulle caratteristiche del pregiudizio e la sentenza appellata, avendo
diversamente concluso sul punto, è viziata per aver superato i limiti della
domanda ed affetta da vizio di motivazione per aver affermato l'esistenza di
deduzioni in merito all'effettività di un pregiudizio che diversamente i
lavoratori non avevano sostenuto.
Sostiene
che la Corte territoriale, nel non rilevare che la domanda diretta a
sostenere e dimostrare l'effettiva sussistenza del danno non era stata
formulata, ha erroneamente interpretato la domanda la quale va considerata
non solo nella sua formulazione letterale ma anche e soprattutto nel suo
contenuto sostanziale con riguardo alle finalità che la parte intende
perseguire tenendo conto dell'insieme delle deduzioni e delle tesi svolte.
Con il
terzo mezzo del ricorso, articolato in via subordinata, la società assume
violazione e falsa applicazione degli artt. 1226 e 2697 cc nonché omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione.
Allega che
la sentenza è errata nella parte in cui ha ritenuto raggiunta la prova del
pregiudizio alla professionalità e tanto perché essendo tale prova collegata
solo al decorso del tempo, in sostanza, la Corte ha aderito alla tesi del
danno in re ipsa, principio negato dalla stessa Corte del merito.
Denuncia
poi, che non è identificabile il percorso logico-giuridico relativamente
alla ritenuta sussistenza del danno posto che non è dato comprendere la
rilevanza e l'incidenza della qualifica impiegatizia.
Le censure,
in quanto strettamente connesse dal punto di vista logico e giuridico vanno
trattate congiuntamente.
Mette
conto, innanzitutto, rilevare che questa Corte è oramai orientata nel
ritenere che il risarcimento dei danni professionali conseguenti alla
mancata reintegrazione nel posto di lavoro rientra nella fattispecie
prevista dall'art. 18 della legge 300/70 in quanto quella regolata dall'art.
2103 c.c., presuppone l'attualità in fatto ed in diritto del rapporto
lavorativo ed una dequalificazione intervenuta nel corso dello stesso;
sicché presenta una propria specificità e marcati caratteri differenziali
rispetto alla ipotesi della inottemperanza all'ordine giudiziale di
reintegra, che è invece regolata dal disposto del richiamato art. 18 (in
tali termini Cass. 10203/02).
Conseguentemente si è sancito che nel regime di tutela reale “ex” art. 18
della legge n. 300 del 1970 avverso i licenziamenti illegittimi, la
predeterminazione legale del danno risarcibile in favore del lavoratore (con
riferimento alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento
a quello della reintegrazione) non esclude che il lavoratore possa chiedere
il risarcimento del danno ulteriore che gli sia derivato dal ritardo della
reintegra, e che il giudice, in presenza della prova di tale danno
ulteriore, possa liquidarlo equitativamente (da ultimo V. Cass. 26561/07).
Quanto alla
prova di siffatto ulteriore danno, escluso che possa ritenersi in re ipsa,
è, però, da ritenersi ammissibile che - a fronte di precise allegazioni
(sulla necessità della allegazione, v. Cass. S.U. 6572/07 sia pure
pronunciata con riferimento alla diversa fattispecie del danno da
demansionamento, ma che può applicarsi anche alla ipotesi in esame per
l'analogia dei principi che la sottendono), quali ad esempio, la lunga
inattività e/o di una particolare collocazione lavorativa che richieda un
continuo, costante aggiornamento di cognizioni e conoscenze incompatibili
con uno stato di inoperosità (che denotano, come ha già affermato questa
Corte, nella citata sentenza 10203/02, una marcata lesione alla
professionalità del lavoratore illegittimamente licenziato e non
reintegrato) - il giudice possa avvalersi, per considerare raggiunta la
relativa dimostrazione, della prova presuntiva.
Applicando
gli enunciati principi alla presente controversia deriva che il giudice di
appello, pur errando nel non ritenere la fattispecie di cui trattasi
rientrante nella disciplina di cui all'art. 18 della L. 300/70, ma in quella
di cui all'art. 2103 cc, ha tuttavia, con apprezzamento di merito,
adeguatamente motivato e come tale incensurabile in cassazione, considerato
con ragionamento presuntivo - fondato sulla base delle degli elementi di
fatto allegati dai lavoratori, attinenti la qualità e quantità della
esperienza lavorativa, il tipo specifico di professionalità, la durata della
inattività e alle altre circostanze del caso concreto, e cioè proprio di
quegli elementi che denotano, come sopra segnalato, una inarcata lesione
della professionalità - raggiunta la prova del danno.
È pur vero
che la società ricorrente denuncia una erronea interpretazione della domanda
in punto di allegazione di effettiva sussistenza del danno.
In sede di
legittimità, però ha stabilito questa Corte, che occorre tenere distinta
l'ipotesi in cui si lamenti l'omesso esame di una domanda, o la pronuncia su
una domanda non proposta, dal caso in cui si censuri l'interpretazione data
dal giudice di merito alla domanda stessa: solo nel primo caso si verte
propriamente in tema di violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., per
mancanza della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato,
prospettandosi che il giudice di merito sia incorso in un “error in
procedendo”, in relazione al quale la Corte di Cassazione ha il
potere-dovere di procedere all'esame diretto degli atti giudiziari, onde
acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini delle pronuncia
richiestale; nel caso in cui venga invece in considerazione
l'interpretazione del contenuto o dell'ampiezza della domanda, tali attività
integrano un accertamento in fatto, tipicamente rimesso al giudice di
merito, insindacabile in cassazione salvo che sotto il profilo della
correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto (V. per
tutte Cass. 20373/08).
Sotto tale
ultimo aspetto, cui il sindacato di questa Corte è necessariamente limitato,
rileva il Collegio che l'interpretazione fornita dal giudice di appello
della domanda degli attuali resistenti è priva di contraddittorietà e
permette, per la stretta consequenzialità argomentativa, di ricostruire con
esattezza l'iter logico seguito dalla Corte territoriale nel proprio
ragionamento posto a base della esegesi del ricorso introduttivo del
giudizio.
In
conclusione la sentenza impugnata, il cui dispositivo è conforme al diritto,
va confermata anche se la motivazione, ai sensi dell'ultima parte dell'art.
384 cpc, va corretta nel senso indicato.
Il ricorso,
quindi, va rigettato.
Le spese
del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità liquidate in Euro 16,00, oltre Euro 3.000,00 per
onorario, spese generali, IVA e CPA.